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Autore: mido_ri    25/10/2017    0 recensioni
Due ragazzi completamente diversi entrano in contatto in un apparente contesto scolastico.
Alessio: il solito ragazzo disordinato e "piantagrane" che reputa la sua vita una noia, così come la scuola e qualsiasi tipo di legame con le altre persone.
Riccardo: un ragazzo, meglio definito "ragazzino", che sembra fin troppo piccolo per poter frequentare il secondo anno di liceo; al contrario del suo fisico, la sua mente è grande.
Così come ci si aspetterebbe da un ragazzo del genere, Riccardo nasconde a tutti, perfino alla sua famiglia, la vera vita che conduce ogni giorno, difficile e sconvolgente.
Un inaspettato incontro spingerà Alessio a porsi sempre più domande su quello strano ragazzo.
Come si svolgerà la storia dei due incompatibili compagni di banco?
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dom, 12 novembre, pomeriggio

- C-che cosa?! -

Sbattei contro un'infermiera che mi fulminò con lo sguardo.
Franco sospirò e distolse lo sguardo dal mio viso, poi lo puntò a terra; una sgradevole sensazione di gelo mi stravolse del tutto.

- Preferirei non parlarne, rimandiamo a domani, d'accordo? -

- S-sì... -

Mi tirai la zip del giubbino fin sopra il naso, a nascondermi metà faccia.

Dom, 12 novembre, sera

Non aprii bocca per il resto della giornata, neanche quando Matteo bussò alla mia stanza con una busta nera fra le mani.

- Tieni... il tuo regalo -

Lo guardai in modo interrogativo.

- Per tutto quello che è successo... no? Per tirarti un po' su di morale -

Ruotò gli occhi e attese una risposta che non arrivò, poi girò i tacchi e si chiuse la porta alle spalle. Fissai la busta per qualche secondo, valutando le probabilità di trovarvi qualcosa che realmente potesse farmi stare meglio, subito dopo la lanciai sulla scrivania facendo cadere un portapenne.

"Niente... niente può farmi stare meglio"

Mi gettai con la testa sul cuscino a peso morto, chiusi gli occhi e cercai di non pensare più a nulla, ma era impossibile: il ricordo dello sguardo freddo e distaccato di Franco, che non si era mai rivolto a me in quel modo. Una mano cominciò a tremare impercettibilmente, la bloccai con l'altra e me le portai entrambe al viso. Avevo paura, una paura tremenda di essere abbandonato di nuovo.

"Ma Riccardo non mi lascerà mai solo, lui mi ama... "

Lun, 13 novembre, mattina

La sveglia suonò un paio di volte prima che potessi comprendere di trovarmi di nuovo nella mia stanza e non in un noioso ospedale dove avrei potuto dormire anche dodici ore di fila. Afferrai il cellulare sul comodino e guardai l'ora: le otto e trentacinque. Scrollai le spalle e mi tirai di nuovo le coperte fin sopra la testa, in ogni caso non dovevo andare a scuola. Dopo pochi minuti qualcuno bussò alla porta con insistenza, tenni le labbra serrate e mi voltai dall'altro lato.

- Alessio! Svegliati! -

In quel preciso istante ricordai il motivo per cui non dovevo andare a scuola: degli stramaledettissimi agenti che non avevano nulla da fare volevano farmi altre domande.
Presi il cuscino e feci per scagliarlo a terra, ma convinsi me stesso a stare calmo. Respirai profondamente più volte a occhi chiusi.

"Sono il primo che vuole sapere come sono andati i fatti, di certo non posso capirlo da solo. Magari questo incontro servirà a qualcosa"

Cacciai dall'armadio qualcosa al volo da indossare e raggiunsi di corsa il salotto, senza neanche preoccuparmi di andare al bagno o pettinarmi.
Due uomini con il capotto erano seduti sul divano in modo composto, entrambi con un block notes appoggiato sulle gambe allineate. Sospirai di sollievo nel constatare che non erano i due dell'ultima volta.

- B-buongiorno... -

Uno dei due alzò il capo in cenno di saluto, l'altro non si smosse di un millimetro, mi fissò soltanto gli occhi in viso.
Rosanna entrò subito nella stanza quasi correndo, con in mano un vassoio colmo di biscotti al burro.

- Gradite anche qualcosa da bere? C'è del tè verde se volete, o magari un caffè... -

Il più scorbutico zittì la donna con un movimento della mano, poi si rivolse a me.

- Siediti -

Era già stata posizionata una sedia di fronte ai due; deglutii e feci come mi era stato detto. L'uomo aprì il block notes con uno scatto fulmineo e stappò la penna costosa.

- A partire da ora... -

Portò due dita all'orologio che aveva al polso sinistro e pigiò un tasto che fece emettere all'oggetto uno strano trillo, come quello di un timer.

- Hai quindici minuti per riferire tutto ciò che sai riguardo a Riccardo Buonarotti -

- R-Riccardo?! -

- Ovviamente puoi parlare anche in sua difesa, ma devi dire la verità, altrimenti non avremo altra scelta se non dichiararvi colpevoli... entrambi -

Sussultai e strizzai gli occhi per cercare di concentrarmi.

"Cosa dovrei dire? Non mi crederebbero se dicessi la verità... ma non posso neanche inventare altre cazzate!"

Mi morsi un labbro e guardai esitante i due uomini che mi stavano di fronte con aria severa, poi rivolsi uno sguardo disperato a Rosanna, affacciata all'arco che separava il salotto e la cucina per origliare, ma scomparve immediatamente in modo goffo non appena si accorse che la stavo fissando.

- I-io... -

L'orologio trillò di nuovo, evidentemente scandiva ogni minuto.
Ripensai alla promessa che io e Riccardo ci eravamo scambiati in quella spoglia stanza d'ospedale il giorno precedente, riempita solo dai nostri battiti accelerati e delle nostre speranze; in un attimo quel fragile muro fatto di aspettative mi crollò addosso, travolgendomi con violenza e costringendomi a ritornare alla realtà. Compresi che io e lui, da soli, non avremmo potuto fare un bel niente, che eravamo soltanto due topi finiti in una trappola messa lì forse per caso, che non capivamo neanche noi in cosa ci fossimo addentrati insieme o chi ci avesse costretti a farlo o se fossimo semplicemente due pazzi che si erano riconosciuti e ritrovati.
Presi un bel respiro, poi buttai fuori tutto ciò che avrei dovuto dire molto tempo prima, che era attaccato morbosamente al mio cuore e lo aveva fatto lentamente marcire, tutto ciò che avevo a lungo stoltamente e paurosamente tenuto per me. Non mi importava che ci credessero o meno.

Quando l'orologio ebbe suonato per la nona volta, l'uomo pigiò nuovamente il piccolo tasto e si ricoprì il polso con la manica del lungo cappotto scuro; chiuse il block notes su cui non aveva annotato neanche un monosillabo, ciò a cui invece aveva rimediato l'altro. Si alzò dal divano e mi tenne gli occhi fissi in viso per un'altra manciata di secondi, prima di salutare in modo cupo la padrona di casa e uscire dalla porta con il compagno al suo seguito.
Rimasi sulla vecchia sedia di legno con lo sguardo fisso sulla parete che mi stava di fronte e le braccia molli che mi ricadevano lungo il corpo.

Mi sentii ancora più
vuoto.

Gio, 16 novembre, pomeriggio

Scostai la tendina e mi sporsi con il busto in avanti. Fuori la pioggia scendeva giù indisturbata, producendo un rumore continuo, che non variava mai, mentre di tanto in tanto delle gocce più audaci ticchettavano contro gli spessi vetri del balcone della mia stanza. Mi spostai e ritornai a sedermi sul letto a gambe incrociate: erano ormai ore che facevo sempre gli stessi movimenti.
Contavo i secondi, i minuti, mi rifiutavo di guardare l'orologio appeso al muro, preferivo perdere il conto e ricominciare, senza neanche ricordare da dove fossi partito. Non vedevo né sentivo Riccardo da cinque giorni, avevo paura e in ogni caso non me lo avrebbero lasciato fare. Mi era capitato di sentire per caso uno stralcio di telefonata: Franco aveva pronunciato un sommesso "questa volta la vedo dura, lo staranno tartassando di domande, eh?"

In quegli ultimi giorni non riuscivo a capire cosa mi stesse succedendo, non che di solito lo facessi, ma quella sensazione di straniamento era più forte che mai. Che poi, straniamento da cosa? Da me stesso o dal resto? Non sapevo neanche quello.

Qualcuno bussò alla porta, rabbrividii perché temevo che fosse Franco, il che voleva dire affrontare prima lui e poi una possibile risposta. Non sapevo spiegarne il motivo, ma ero terrorizzato dal fatto che quei due agenti della volta precedente si facessero risentire, e allo stesso tempo attendevo con ansia il fatidico punto che avrebbe messo fine a quella frase che da troppo tempo una fine sembrava non averla.

Matteo entrò con passo titubante e con un piatto di pasta fra le mani. Si avvicinò a me con lo sguardo basso e me lo appoggiò sulle gambe. Gli risposi con un'alzata di sopracciglia.

- Non la vuoi? -

- Sono le cinque del pomeriggio -

- Be'... non hai mangiato -

Si grattò la nuca, a disagio, fece per voltarsi, poi si bloccò e rimase lì impalato e fissarmi mentre mi portavo un boccone enorme alle labbra.

- Ale... s-stai bene? -

Masticai in fretta e mandai giù la pasta ormai fredda e asciutta.

- Secondo te? -

- Intendo... riguardo a noi... dopo quello che è successo... -

Rischiai di morire strozzato; Matteo si affrettò a darmi forti pacche sulla schiena, con in viso un'espressione scioccata.

- Hey, hey! Stai calmo... sto bene -

- S-sì... scusa -

Mi passai le dita fra i capelli e mi decisi finalmente a guardarlo in viso.

- Sei diventato paranoico o cosa? Da quando è successo quello non la smetti di venire a controllare ogni due e tre se sono ancora vivo o se ho qualche malattia mortale! Sei irritante... -

- S-scusa... -

- E smettila di scusarti! Non so cosa sia successo con Riccardo... o come ti sia saltato in mente di baciarmi in quel modo... in ogni caso non ho intenzione di far finta che tu non abbia fatto niente -

Matteo esitò per un attimo, poi si sedette accanto a me appoggiandosi appena sul materasso morbido.

- I-io... te l'ho detto, ero incazzato, tanto incazzato. Avevo semplicemente paura di perderti... ma credo che... -

Lanciò un'occhiata esitante alla busta nera ancora sigillata e a testa in giù sulla scrivania.

- Matteo, hai dato un cazzotto a Riccardo! Ti rendi conto?! -

- Sì, ma... -

- Ma un cazzo! Vattene! -

Per poco non scagliai il piatto a terra, ma il brontolio del mio stomaco si impose sui miei impulsi violenti.
Matteo si defilò in fretta, pochi attimi dopo mi sentii tremendamente in colpa. Purtroppo ultimamente ero facilmente irritabile ed estremamente nervoso, non riuscivo in alcun modo a controllare le mie reazioni.

Lun, 20 novembre, mattina

Tirai su la zip della felpa, indossai il giubbino e infilai le braccia nelle bretelle dello zaino. Presi un lungo respiro e mi guardai allo specchio con una faccia insoddisfatta.
Quel giorno sarei tornato a scuola. Ero consapevole del fatto che tutti mi avrebbero guardato peggio che mai, con occhi curiosi, spaventati, schifati. Non sapevo quanto fosse trapelato negli ultimi giorni su tutte le faccende accadute né mi interessava sapere che idea si fosse fatta la gente di me, ormai stavo per toccare il fondo.

"Già... ancora non l'ho fatto, è questo che mi spaventa più di tutto il resto"

Sapevo benissimo cosa sarebbe dovuto succedere per far sì che cadessi e non riuscissi più ad alzarmi.

Franco mi aspettava nella macchina davanti casa, scesi di corsa le scale e salutai Rosanna con un bacio su una guancia, giusto per non farla preoccupare più del dovuto. Ovviamente né io né Franco proferimmo parola durante il viaggio, speravo che quel fraintendimento si risolvesse in fretta.

Rimasi in piedi davanti all'edificio finché la macchina di Franco non fu scomparsa dalla mia vista, sospirai pesantemente per l'ennesima volta in quella mattinata, poi mi avviai verso l'alto cancello di ferro aperto.
La campanella non era ancora suonata, mancavano un paio di minuti. C'erano svariati gruppetti di ragazzi appostati ai lati del cancello o seduti sui bassi muretti delle aiuole; quando mi feci avanti, alzarono tutti lo sguardo contemporaneamente. Voltai il capo da destra a sinistra in segno di sfida, verso me stesso però, infine puntai gli occhi dritto davanti a me e feci il mio ingresso nella struttura a testa alta. Perfino i bidelli mi guardarono sorpresi e soltanto uno di loro trovò il coraggio di avvicinarsi.

- Dovresti aspettare il suono della campanella -

Accennai al mio giubbino leggero e l'uomo mi lasciò il via libera.
La classe era deserta, il mio banco era stato pulito ed erano a malapena visibili tutti gli sgorbi e le scritte che vi avevo fatto. Appena mi fui seduto, la campanella trillò nel corridoio e uno sciame di ragazzi si sparpagliò all'interno dell'edificio.
Una ragazza si fiondò nell'aula ridendo, con il cellulare a un orecchio; quando mi vide si bloccò dinanzi alla cattedra e rimase imbambolata a fissarmi, poi scosse la testa e andò a sedersi.

- S-sì... scusa, ti richiamo quando esco -

Il suo banco era più avanti alla mia sinistra, quindi la ragazza mi dava le spalle, Samantha, o almeno credevo si chiamasse così. Eravamo in classe insieme dal primo anno, ma non aveva mai attirato la mia attenzione. In quel momento, invece, mi ritrovai a fissare assorto nei miei pensieri quei capelli lunghi e rossicci. Si voltò un paio di volte, sussultando per la sorpresa nello scorgermi a guardarla.
Sorrisi nel constatare che aveva un paio d'occhi verdi visibili dalla mia postazione.
Poco dopo la raggiunse un'altra ragazza dai lunghi capelli mori che si sedette accanto a lei; la rossa sorrise maliziosamente e cominciò a chiacchierare con gusto.

Voltai il capo verso la porta dalla quale stavano entrando molti dei miei compagni di classe ridendo e spingendosi a vicenda.

Ed eccolo. Lì in mezzo. Il capo chino. Il resto divenne una macchia indistinta.

Gli occhi di Riccardo vagarono per qualche attimo in cerca di qualcosa, poi si fermarono sul mio corpo; un sorriso riuscì a sfuggire dalle sue labbra.
C'eravamo solo noi due, a guardarci come quegli sconosciuti immersi in un profondo déjà vu.
Il ragazzo ruppe quell'istante che sembrava essersi congelato nel tempo e mi corse incontro, quasi saltandomi addosso.
Si voltarono tutti a guardarci.

"Non m'importa"

- Mi sei mancato! -

Sussultai all'affermazione dell'altro, che affondò il viso nel mio petto e lo scosse ripetutamente.

- Anche tu... -

Risposi al suo abbraccio sprizzando gioia da tutti i pori; mi sentivo improvvisamente bene e avevo magicamente dimenticato quale fosse la causa di quel macigno che avevo sul cuore.

La professoressa di italiano non si fece attendere, ci sedemmo tutti e le rivolgemmo un saluto a gran voce.
Alla fine dell'ora io e Riccardo fummo finalmente liberi di parlare, almeno fin quando in classe non sarebbe entrato il professore di fisica; non potevamo fare altrimenti, temevamo di non poter neanche andare al bagno insieme o che avessero piazzato telecamere ovunque, ma fui costretto a ricredermi quando l'altro mi raccontò cos'aveva da dirmi.

- Ascolta... -

Si appiattì sulla superficie del banco con i gomiti in fuori e abbassò il tono di voce.
Nonostante la serietà della situazione entrambi non potevamo non sorridere, tanta era la felicità che ci accompagnava, e non c'era bisogno di esprimerla a parole.

- Quando sono venuti a farmi quelle domande... mi hanno detto di aver parlato prima con te -

- C-che dici? Pensavo fosse il contrario...-

- Già, anche io... tu... hai confessato tutto, non è vero? -

Mi impietrii all'istante a quel ricordo.

- S-sì, anche se ti avevo promesso che ne saremmo usciti insieme, da soli... -

Ma Riccardo sfoggiò un sorriso più luminoso di tutti gli altri e compresi che si stava trattenendo dall'abbracciarmi di nuovo. Deglutii, non mi sarebbe dispiaciuto.

- Grazie! -

- I-in che senso... -

- Siamo fuori, Ale, siamo fuori! -





  
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