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Autore: Shireith    27/10/2017    1 recensioni
Migliaia di anni fa, le acque del Mare del Nord erano sotto la protezione di due custodi: la sirena Chimizu, custode delle acque, e il tritone Chibutsu, custode della flora e della fauna marina. Per ogni generazione, Chibutsu ha avuto un discendente nella famiglia che regna su Altarya, la capitale occidentale; Chimizu, invece, non ha visto discendenti per secoli, finché re Enji, sovrano di Krypòlis – la capitale orientale –, non sposa una giovane donna, appartenente a una famiglia che, come la sua, discende solo in parte da Chimizu. Due figli maschi nascono e ancora niente. Il terzo, finalmente, manifesta un profondo legame con le acque del Mare del Nord. Il suo nome è Shouto. Discendente di Chibutsu è invece Momo. Lui futuro re di Krypòlis, lei futura regina di Altarya.
«La farfalla è simbolo di libertà. […] vivono poco; alcune specie ce la fanno a sopravvivere per mesi interi, ma più comunemente durano pochi giorni, forse qualche settimana. Però la loro è una bella vita. Sono libere di volare alto nel cielo e di innamorarsi.»
{Todoroki/Momo; Mermaid!AU // Questa storia partecipa al contest “Mermaid’s Sea” a cura di Fanwriter.it!}
Genere: Fantasy, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Momo Yaoyorozu, Shouto Todoroki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sotto quella farfalla ci ritroveremo


  A circa tre miglia da Altarya e quattro da Krypòlis si trovava una roccia piena di piccole incavature. Secondo Momo aveva la forma di una farfalla che spiega le ali in procinto di librarsi alta nel cielo.
   
«Quella parte lì è il torace; quelle, invece, sono le sue ali. Si diramano a partire dal torace, come in una farfalla vera.»
«Ah, perché tu sai com’è fatta una farfalla?»
Momo si tirò un po’ più su e guardò Shōto da sotto un ciuffo di capelli neri, il mento poggiato sul suo petto. «L’ho letto in un libro.»
«C’era da aspettarselo.»
Rise. «C’erano anche le figure.»
   
  Ancora adesso Shōto rideva solo al pensiero. Come poteva Momo vedere una farfalla in quella roccia proprio non lo capiva.
   
«La farfalla è simbolo di libertà.»
«Mh?»
«Le farfalle vivono poco; alcune specie ce la fanno a sopravvivere per mesi interi, ma più comunemente durano pochi giorni, forse qualche settimana. Però la loro è una bella vita. Sono libere di volare alto nel cielo e di innamorarsi.»
«Ma gli animali non si accoppiavano solo per riprodursi?»
«Non sei per niente romantico, Shōto.»
Shōto rise piano.
   
  Momo non aveva avuto completamente torto, pensò. Lui amava, ma non era in grado di sperare e sognare come faceva lei. Un giorno tutto si sarebbe sistemato, perché l’amore vince su tutto, diceva.
  Inizialmente, Shōto pensava che fosse una stupidaggine; adesso, invece, ammirava questa sua fede in un futuro migliore. Momo era una ragazza intelligente, e sapeva che se diceva che tutto sarebbe andato per il verso giusto non era per ingenuità, ma perché aveva una sua idea e voleva vivere applicandola.
  Intanto Shōto, senza rendersene conto, aveva già nuotato per oltre tre miglia. Davanti a lui erano già visibili, seppur in modo fioco, le luci della città di Krypòlis, capitale orientale del Mare del Nord. Più si avvicinava e più si ergeva imponente dinanzi a lui il palazzo della famiglia reale. Una struttura centrale, circolare, si innalzava fiera al di sopra di quelle che la circondavano, anch’esse circolari ma più ridotte di diametro. Tutt’intorno al palazzo, laddove finivano i giardini e il cancello di corallo lavorato, la città prendeva vita in quello che dall’alto appariva come un mosaico.
  La luce solare che filtrava anche fino a quella profondità si rifletteva sui vetri del palazzo e su tutta la città sottostante, proiettando tutt’intorno un gioco mozzafiato di luci.
  Vista da quella prospettiva, Krypòlis era stupefacente, da mozzare il fiato. Shōto avrebbe tanto desiderato che fosse così anche per quanto riguardava tutto il resto, non solo l’aspetto.
  Quando arrivò, gli spicchi della cupola del palazzo centrale si aprirono come in una conchiglia, e le guardie lo lasciarono passare.
  «Shōto», lo chiamò il padre, freddo, quando lo vide arrivare nella sala del consiglio, «dove sei stato?»
  «A nuotare, padre.» Non era del tutto una bugia, perché quando usciva per incontrarsi segretamente con Momo alla loro roccia, nuotare tra le meraviglie naturali che il fondo marino aveva da offrire gli svuotava la mente e lo tranquillizza.
  Re Enji fece una smorfia e, sebbene non avesse aggiunto altro, sia lui che il figlio sapevano bene dove volesse andare a parare: per lui, tutto ciò a cui Shōto avrebbe dovuto pensare era al suo ruolo di futuro re e maggiore carica politica in un momento così fragile della storia di Krypòlis, in cui una vittoria poteva segnare l’egemonia della città su tutto il Mare del Nord a discapito di Altarya.
  «Ricordati che, come futuro re, hai dei compiti molto più importanti che sguazzare allegramente in giro» aggiunse.
  Quello che Shōto minacciava di gridargli in faccia venne interrotto dall’entrata di un uomo dalla lunga coda verde acqua, il Primo Consigliere del re, e dagli altri membri del consiglio.
  Il fratello maggiore, un ragazzo dai lunghi capelli lisci e bianchi, gli lanciò un’occhiataccia mentre prendeva posto alla sinistra del padre – alla sua destra c’era invece il Primo Consigliere –, mentre l’altro, anch’egli bianco di capelli e più piccolo di un anno, lo guardò senza dire nulla.
  Shōto, in linea di successione al trono, sarebbe stato solo il terzo, se non fosse stato per il suo patrimonio genetico, un’unione perfetta tra quello della famiglia della madre e quello della famiglia del padre.
  Oltre ai benefici politici, l’unico motivo per cui Enji aveva dimostrato interesse per sua madre, infatti, era poiché la sua famiglia discendeva per una parte da Chimizu, la sirena che, migliaia di anni prima, era stata la custode delle acque del Mare del Nord. La famiglia di Enji, invece, a sua volta discendente in parte dalla custode, era originaria dei mari più oscuri e a nord di tutto il territorio finora conosciuto. Relegata in un luogo così ostile probabilmente a causa di dispute politiche molto antiche, la natura aveva, di generazione in generazione, promosso un’evoluzione della specie che aveva portato alla famiglia una serie di caratteristiche che la contraddistinguevano dal resto delle sirene e dei tritoni. La loro coda era corazzata da un sistema di squame particolare e unico nel suo genere: più spesse e numerose che negli altri esemplari, esse erano in grado di mantenere la temperatura corporea nella norma generando calore – che si diramava in tutto il corpo – anche quando il clima era fin troppo freddo.
  «Tu sei un prodotto eccellente, Shōto, il risultato di uno stadio evolutivo superiore. In qualità di discendente di Chimizu, tu sei custode delle acque del Nord, che rispondono al tuo comando e ti rispettano, poiché il tuo corpo è immune anche alle temperature più basse che si siano mai viste qui da noi» gli aveva detto una volta suo padre all’età di cinque anni, e nel corso degli altri undici aveva continuato a ripeterlo in continuazione. «Tu farai grande cose, figlio mio, e avrai successo dove io ho fallito.»
   
«Non mi piace essere costantemente il burattino di mio padre.»
Erano sempre lì, alla loro roccia: Shōto era seduto su una di dimensioni molto più ridotte, dalla forma normalissima, e osservava Momo nuotare attorno alla Farfalla.
La ragazza finì di osservare la specie marina che stava studiando da dieci minuti buoni e in un battito di pinne fu subito davanti a Shōto, che le cinse la vita con le braccia e l’attrasse a sé. «Non lo sei.»
«Ah, no?»
«No» ripeté sicura, portando le sue mani dietro la nuca del ragazzo e guardandolo dritto negli occhi. «Anche se pensa di averti nelle sue mani e di aver già deciso il tuo destino non è così. Tu sei tu, e solo tu puoi decidere cosa diventare. Glielo dimostreremo, sia a tuo padre che al mio. Ma fino ad allora dobbiamo avere pazienza e tenere duro.»
   
  Shōto era preda dell’istinto di chiudere gli occhi, mettere a tacere tutti gli altri sensi e concentrarsi sulla figura di Momo che, sdraiata accanto a lui, gli accarezzava il petto e lo rassicurava con le sue parole; ma non poteva, non davanti a tutto il consiglio. Allora tenne gli occhi vigili e li fece viaggiare da un punto all’altro della stanza in continuazione, cercando di rimanere concentrato sulle voci di suo padre e dei vari consiglieri tanto quanto bastava per non perdere il filo della conversazione; il resto di sé, con tutto ciò che possedeva, si concentrò su Momo.
  Immaginò che fosse accanto a lui mentre intrecciavano le loro mani in una presa calda e rassicurante e gli diceva di rimanere calmo. Era difficile, considerato che ogni parola che veniva detta contraddiceva l’immagine di futuro che aveva in mente per lui, Momo e tutti gli altri abitanti dei Quattro Mari: una realtà in cui si vive liberi di compiere le proprie scelte, non vincolati, ancora prima di nascere, a nessun matrimonio dal fine politico e liberi dalla paura della guerra.
   
«Anche sulla terraferma le persone soffrono dei nostri stessi problemi. Fino a qualche secolo fa, matrimoni a scopi politici erano frequenti un po’ in tutto il mondo; in alcune zone lo sono tuttora, ma sulla terraferma coesistono realtà così diverse che alcuni danno la loro liberà per scontata.»
«E non c’è cosa più bella e umana.»
Momo lo guardò in silenzio, non capendo.
«Nasciamo col diritto di essere liberi», iniziò a spiegare, «ma molto spesso ci viene tolto senza nemmeno essere riconosciuto come tale. Già da prima che io e te nascessimo era stato deciso cosa saremmo stati e chi avremmo sposato; per i nostri genitori è inconcepibile dire loro di no. Eppure ognuno di noi dovrebbe essere libero di fare le proprie scelte. Deve essere bello nascere così privi di catene da non doverti nemmeno fermare a pensare a come deve essere bello vivere liberi. Mh? Che c’è? Perché mi guardi così.»
«Niente, sciocco» rise. Alcune volte si dimenticava che l’aspetto regale e posato di Shōto trasmetteva un’impressione che però tradiva la sua vera natura: il ragazzo dai capelli della doppia cromatura nascondeva un cuore nobile e generoso, ricoperto da uno spesso strato di corazza che cercava di proteggerlo dal padre e dalla crudeltà del mondo in cui non né lui né Momo meritavano di nascere.
Shōto riusciva ad aprirsi e a mostrare una parte del vero se stesso solo con Momo: la sua presenza lo rassicurava, perché la ragazza, che si trovava nella stessa situazione, capiva il suo malessere interiore e condivideva la sua voglia di liberarsene.
Momo era convinta che un giorno sarebbe riuscita a far uscire allo scoperto il vero Shōto: era un processo lento, ma lei aveva dalla sua tutta la pazienza di questo mondo.
   
  Dopo più di un’ora, il consiglio si sciolse. Shōto avrebbe dato il mondo intero per potersi rinchiudere in camera sua, tuttavia i suoi numerosi impegni da futuro re lo attendevano. Il padre voleva solo il meglio, per lui – anche se, paradossalmente, tutto ciò che Enji riteneva fosse meglio per il figlio non lo era minimamente. In particolare, il re premeva sul figlio affinché ricevesse un’ottima istruzione e migliorasse quanto più possibile il suo potere di legarsi alle acque del Nord.
   
  Nel pomeriggio, subito dopo pranzo, Shōto riusciva miracolosamente a ritagliarsi un po’ di tempo per sé.
  Era sdraiato a letto e leggeva un libro che Momo gli aveva regalato e gli consigliava di leggere da settimane, parlandone con occhi sognanti.
  Sorrise mentre girava la pagina, pensando alla faccia che avrebbe fatto la ragazza quando gli avrebbe detto che aveva lo aveva letto e che gli era piaciuto anche più di quanto si sarebbe aspettato.
  Poi un rumore lo distrasse. Inizialmente non gli diede peso, ma cercò di individuarne la fonte quando si accorse che non sembrava avesse la minima intenzione di cessare.
  Alzò lo sguardo e vide, alla sua finestra, una seppia che batteva insistentemente su di essa: questa entrò non appena Shōto la aprì, posizionandosi in mezzo alla stanza e liberando dall’apposita sacca un fiotto di inchiostro nero. Il giovane principe, in un primo momento, si spaventò; poi però vide l’inchiostro comportarsi in modo strano, finché non si unì a formare una frase:
   
Alla Farfalla, quando il sole non c’è.
   
  Capì subito che altri non poteva essere stata se non Momo e rise sommessamente – lo faceva sempre così quand’era a palazzo, come se qualcuno potesse avvertire la sua risata e studiarla, carpirne la fonte e sradicarla dalla sua vita.
  No.
  Tutto, ma non Momo.
  Si rese conto solo allora che sarebbe riuscito a scappare dai suoi doveri solo per altri venti minuti, di meno se la fortuna lo abbandonava. Tornò ad aprire il libro al punto in cui aveva messo il segno e notò che mancavano solo un paio di capitoli, non più di una sessantina di pagine.
  Un altro paio di giorni per finirlo e avrebbe finalmente potuto dirlo a Momo, pensò. Vista dall’esterno poteva sembrare una banalità, ma in un mondo in cui il loro amore doveva assolutamente restare segreto e quindi rimanere sempre sotto il loro controllo, qualsiasi cosa riuscisse a regalare a Momo, una semplice notizia quale fosse, per Shōto era un grande traguardo.
    
  Il giorno dopo, quando “il sole non c’era”, Shōto era alla Farfalla che aspettava. Non era sera, come il messaggio di Momo poteva far pensare. Era, bensì, mattina presto: i due giovani innamorati avevano notato che quel buffo pesce palla di colore giallo mancava sempre in un orario compreso tra le due e le quattro del mattino.
  A quell’ora, persino il padre di Shōto stava ancora dormendo, e se mai lo avesse scoperto a non riposare nelle sue stanze, lui avrebbe semplicemente detto che era andato a nuotare. Che gli piaceva davvero farlo non era un segreto, e allo stesso modo non era difficile per il padre accorgersi di quanto Shōto non amasse la sua quotidianità. Se c’era un modo per evadervi anche solo per un’ora, poteva star pur certo che il figlio non se lo sarebbe fatto scappare.
  «Shōto» si sentì chiamare, e alzando lo sguardo vide Momo arrivare dalla direzione in cui, tre miglia più avanti, si incontrava Altarya, la capitale occidentale del Mare del Nord.
  Il giovane agitò la coda e in men che non si dica le fu davanti: prima di incontrarsi l’uno nelle braccia dell’altro, i due, quand’erano ormai a pochi centimetri di distanza, senza fermarsi nuotarono verso l’alto a mo’ di elica, uno in senso orario e l’altro in senso antiorario, generando una doppia elica immaginaria. S’incontrarono un’ultima volta prima di allontanarsi di più delle volte precedenti e, infine, congiungersi.
  Era una danza tipica del folklore delle acque del Nord, derivante da una leggenda che parlava di due innamorati che avevano la possibilità di rivedersi solo una volta ogni mille anni a causa di una maledizione. Era una grande celebrazione di amore, che infatti ricorreva in tutti i matrimoni, soprattutto quelli riguardanti la nobiltà.
  «Tra tutti i modi con cui mi hai contattato, quello della seppia è stato il più assurdo.»
  «E dai! È stato un colpo di genio.»
  «Mh.»
  «“Mh” cosa?» insisté, portando teatralmente le mani ai fianchi e inarcando un sopracciglio in segno di sfida.
  «E va bene, mi arrendo: è stato un colpo di genio.»
  «Ecco, bravo!» Fece una piroetta e compì due giri attorno alla Farfalla, poi prese a nuotare verso nord.
  Shōto sorrise e la seguì, piroettando anche lui mentre passava in mezzo a una roccia a forma di ciambella. Decise di seguire Momo, dovunque avesse intenzione di andare. Si diressero mezzo miglio a nord, poi virarono a est. Dopo un po’ il ragazzo cominciò a non rendersi più conto di quale direzione stavano prendendo, tant’era immerso nel piacere di nuotare al fianco della donna che amava al di sopra dello splendore della barriera corallina, cullato dalla calma degli oceani.
  A un certo punto Shōto accorciò le distanze a poco più di cinque centimetri. «Momo», la chiamò, «i tuoi poteri si stanno rafforzando, ho ragione?»
  La famiglia di Momo, da sempre regnante ad Altarya, la capitale occidentale, discendeva dal tritone Chibutsu, la cui storia era strettamente legata a quella di Chimizu: uniti da un forte sentimento d’amore, lui era il custode della flora e fauna marina, lei delle acque.
  A differenza delle due famiglie da cui proveniva Shōto, però, la famiglia di Momo era l’unica e sola a discendere direttamente da Chibutsu. I suoi membri si sposavano tra loro, affinché il sangue rimanesse puro e il tramandamento del potere sempre una certezza.
  Da secoli, Chimizu non aveva un discendente diretto, al contrario di Chibutsu, per il quale ce n’era uno ogni nuova generazione: questa la ragione principale per cui Altarya si era autoproclamata capitale del Mare del Nord. Nessuno aveva avuto modo di cambiare le carte in tavola se non Enji, che fin da bambino era stato cresciuto a nutrire odio nei confronti dei sovrani di Altarya.
  Con la nascita di Shōto, i rapporti già difficili tra le due città si erano inaspriti ulteriormente, portando a quella che veniva chiamata la Guerra del Nord. Entrambe le fazioni, Altarya e Krypòlis, volevano imporre la propria egemonia sul Mare del Nord in nome del custode da cui discendevano.
  «Sì, del resto sai quanto ci tiene mio padre. Sono una discendente di Chibutsu e ho i suoi poteri, con i quali regnerò su Altarya e tutto il Mare del Nord.»
  «E bla bla bla. Sì, mi suona familiare.»
  A un certo punto, Shōto avvertì nell’acqua qualcosa di insolito, e Momo sentì i pesci irrequieti.
  «Gli umani?» gemette la corvina, guardandolo preoccupata.
  «Non credo proprio. Non siamo più in quei rapporti.» Si riferiva a quando abitanti della terraferma e dei mari erano in costante guerra l’uno con l’altro. Dopo secoli e secoli di scontri continui si era finalmente riusciti a raggiungere un equilibrio, e per far sì che non si spezzasse, le cariche politiche più importanti delle due specie erano giunte a un patto: niente più contatti. Gli umani potevano darsi alla pesca, alle immersioni e ad altre attività nelle zone non abitate e potevano navigare, ma niente più.
  Man mano che i due giovani avanzavano, il paesaggio attorno a loro mutò sempre più: i pesci non c’erano, e la barriera corallina era… distrutta.
  «Quand’è successo?»
  Niente più “cosa”. Sapevano entrambi cos’era stato: un altro conflitto tra le truppe di Altarya e le truppe di Krypòlis.
  «Non lo so.»
  Momo nuotò fino a raggiungere un cadavere e, chiudendogli gli occhi, recitò una preghiera nella lingua delle sirene.
  Quanto ai “perché”, non sapevano nemmeno quello. Perché i due re delle rispettive capitali continuavano la loro stupida faida, ben consci delle vite che ogni giorno si spegnevano, lasciando mogli e mariti vedovi, figli orfani, madri e padri senza più ragione di essere definiti tali? Non stavano muovendo guerra contro un’altra specie – che pure era insensato –, ma contro loro stessi.
  «Non è giusto» mormorò Momo. «Tutto questo non è affatto giusto.»
  Shōto nuotò nella sua direzione e le andò dietro; lei poggiò la testa sulla sua spalla mentre con un braccio le cingeva la vita, e decise di non volersi trattenere dal piangere quell’ingiustizia.
  «No, non lo è.»
   
  Quel pomeriggio, Shōto lesse circa venti pagine del libro, poi dovette tornare ai suoi compiti. Il mattino dopo, lui e Momo si incontrarono alla Farfalla. Quella fu la seconda volta che le cose non andarono come programmate.
  «Non possiamo andare avanti così» disse Momo di punto in bianco. «Dobbiamo fare qualcosa.» Era irrequieta, continuava a nuotare intorno al giovane e a guardare ovunque. Il ritrovamento del giorno precedente l’aveva scossa, e la capiva: aveva turbato anche lui, sebbene lo desse a vedere di meno per via del suo carattere.
  «Fuggiamo.»
  Si fermò di colpo e sgranò gli occhi, fissandolo come se si fosse appena schierato a favore della guerra. «Che cosa? No, non possiamo!»
  «Perché no? Fuggiamo lontano, nei mari più remoti di questa terra. Non avremo niente, ma ci saremo io e te. Non eri tu a dire sempre che l’amore è potente, che vince su tutto?»
  Momo gli si avvicinò e gli prese il volto tra le mani. «Ed è così, infatti. Ma noi siamo i discendenti dei due custodi: se fuggiamo, che cosa ne sarà di Altarya, di Krypòlis e di tutto il Mare del Nord? I nostri padri si stanno distruggendo a vicenda, ma non sono tutti così. Non possiamo abbandonare quelle persone. È la nostra gente.»
  Shōto sapeva che aveva ragione, eppure la sua espressione – per la prima volta da quando Momo lo conosceva – esprimeva il tremendo desiderio di sentirsi dire di sì, che in quel momento avrebbero nuotato lontano e non avrebbero mai più fatto ritorno.
  Momo aveva gli occhi umidi. Il viso le si contrasse in una smorfia e, non più capace di trattenere tutte le lacrime, abbracciò forte Shōto. «Non possiamo» ripeté, e questa volta sembrava che lo stesse dicendo per convincere se stessa.
  «Lo so», disse, abbracciandola a sua volta e attirandola ancora di più a sé, «e ti prometto che insieme troveremo un modo per porre fine a tutta questa insensatezza.»
   
  La terza volta che le cose non andarono come Shōto si sarebbe aspettato fu il giorno seguente.
  Arrivò nuovamente per primo, ma l’attesa di Momo fu vana. Trascorse più di un’ora e di lei ancora nessuna traccia. Quando “il sole non c’era”, i due giovani avevano circa due ore da trascorrere insieme, perché di più non potevano trattenersi. Arrivare alla Farfalla quando erano quasi le quattro del mattino non aveva molto senso, ma aspettò comunque.
  Momo non arrivò.
  Strano, pensò, che qualsiasi intoppo si fosse presentato, Momo non avesse avuto nemmeno il tempo di inviargli un messaggio di avvertimento. Comunque, era sicuro che il giorno dopo gli avrebbe spiegato tutto, quindi diede un colpo di pinna deciso e ripiegò verso Krypòlis.
  Tornato a palazzo, Shōto avvertì nelle acque un presagio nefasto, come se qualcosa di importante ma al tempo stesso terribile stesse per avere inizio.
  Non poteva essere una coincidenza il movimento che vedeva attorno e dentro al palazzo.
  Nel corridoio principale che conduceva alla sala del Consiglio incontrò il fratello più grande. «Che cosa sta succedendo?» gli chiese
  L’altro ghignò. «Complimenti, alla fine ce l’hai fatta.»
  L’ultima cosa che suo fratello maggiore avrebbe fatto era complimentarsi con lui sinceramente; sembrava infatti che, qualsiasi fosse la causa di quei complimenti, non ci fosse da andarne molto fieri.
  «In bocca al lupo.»
  Sembrava contento, come se a Shōto stesse per succedere qualcosa di terribile.
  Il fratello lo precedette e si avviò nella sala.
  Qualche minuto dopo era lì anche lui, ma le due guardie ai lati della doppia porta lo fermarono, incrociando le lance. «Non oggi» disse uno dei due. «Il re ha dato l’ordine di non farla entrare e di aspettare nelle sue stanze che la mandi a chiamare.»
  Shōto non capiva, ma acconsentì senza protestare.
  Senza nient’altro da fare, decise di approfittarne per continuare nella lettura del libro preferito di Momo.
  Domani gli avrebbe fatto una bella sorpresa, pensò.
  Non seppe dire quanto tempo dopo, una delle guardie di suo padre si presentò a prelevarlo e lo condusse nella sala del trono. Dentro vi era solo il genitore, girato di spalle a osservare il ritratto del padre, suo nonno. Shōto non lo aveva mai conosciuto perché era morto quando lui era ancora piccolo, ma a giudicare dalle sue azioni e dalle descrizioni lette e sentite non era meglio di suo padre, anzi con tutte le probabilità era anche peggio. Un uomo che era felice di non aver mai incontrato.
  «Mi avete mandato a chiamare, padre?»
  «Siediti, Shōto.»
  «Preferisco stare in piedi.»
  Re Enji era ancora girato di spalle, dall’altra parte del tavolo rotondo che occupava il centro della stanza.
  «Mio padre era un grand’uomo. È grazie a lui se Krypòlis ha cominciato davvero a costituire una minaccia per Altarya, mentre prima era una delle tante città del Mare del Nord che seguivano ciecamente gli ordini della ex capitale. Io ho seguito i suoi passi, e tu farai lo stesso.»
  Shōto si torturò l’interno della guancia, cercando di tenere bene a mente le parole di Momo: Tu sei tu, e solo tu puoi decidere cosa diventare. Glielo dimostreremo, sia a tuo padre che al mio. Ma fino ad allora dobbiamo avere pazienza e tenere duro. «Certamente, padre.»
  Re Enji si girò, osservando il figlio ghignando. «Ero ormai certo che saremmo riusciti a sconfiggere Altarya solo quando tu saresti salito al potere, e invece mi sbagliavo. Domani l’esercito giungerà ai cancelli della città, Altarya si arrenderà senza nemmeno combattere e noi ci insedieremo al suo interno.»
  «Perché Altarya dovrebbe arrendersi senza combattere? Hanno un esercito buono quanto il nostro, senza contare il potere di Chibutsu. La loro famiglia ha un discendente diretto del custode per ogni generazione da secoli: sanno come sfruttare i suoi poteri al meglio.»
  «È proprio qui che entri in scena tu.» Rise, e Shōto avvertì un brivido di terrore risalirgli lungo la schiena. «Hai fatto un bel lavoro con la giovane erede di Altarya.»
  Shōto non capì più niente. Sapeva soltanto che suo padre era colpevole della improvvisa sparizione di Momo. Con un colpo di pinna così deciso da smuovere forte l’acqua, superò il tavolo del consiglio e in un attimo gli fu davanti. «Che cosa gli hai fatto?»
  Re Enji sollevò il braccio possente e gli diede un sonoro schiaffò in pieno volto. «Dovresti provare vergogna per quello che hai fatto. È indicibile. Tuttavia, in qualità di re di Krypòlis, mi preoccupo del nostro futuro. Farò finta che tutto ciò sia accaduto allo scopo di imbrogliare quella giovane ragazza e ci passerò su.»
  Shōto si massaggiò la guancia dolorante e alzò di scatto lo sguardo su suo padre, irato.
  La veemenza del figlio destabilizzò un attimo il re, che subito si ricompose. «Non posso ucciderla perché mi serve, ma posso ferirla. Ogni tua mossa sbagliata si ripercuoterà su di lei.»
  L’espressione nel volto di Shōto mutò da rabbia a sgomento. Era ben conscio dell’ossessione di suo padre per il potere: aveva picchiato ripetutamente lui e la madre nel corso degli anni, che cosa lo fermava a fare lo stesso con la figlia del nemico?
  «Che cosa vuoi che faccia?»
  Il re sorrise compiaciuto. «Tra un’ora marcerai con me in testa all’esercito. È ora che tu inizi a comportarti come un vero re.»
  «Sì, padre» disse, e a testa china uscì.
  Andò spedito come una saetta in camera sua: aveva il bisogno di rimanere solo, o sentiva che sarebbe scoppiato da un momento all’altro. Si chiuse dentro e cominciò a rompere tutto ciò che incontrava come un uragano; senza accorgersene si ritrovò tra le mani il libro preferito di Momo, e solo allora si fermò.
  Come di colpo prosciugato di tutte le sue energie si mise a sedere sul bordo del letto e lo aprì all’ultima pagina, dove lesse la dedica della ragazza.
  Un altro giorno e l’avrebbe finito, e avrebbe finalmente dirlo a Momo. Poteva immaginare come se ce l’avesse di fronte il volto della ragazza illuminarsi mentre gli chiedeva se era piaciuto, che cosa l’aveva colpito, quali pensieri aveva suscitato in lui.
  Shōto ripercorse i lineamenti del libro col dito, delicato come una foglia, come avesse paura di fargli male. Adesso che Momo era prigioniera di suo padre, decise che l’avrebbe custodito come il più prezioso dei territori: era l’unica cosa che lo collegava ancora a Momo.
   
  Erano le sette. Il sole, centinaia di metri più in alto, era di un giallo pallido, come se anche lui, al pari delle acque e della flora e fauna marina, potesse avvertire il grande sbaglio che stava per avvenire.
  L’esercito di Krypòlis era a meno di mezzo miglio da Altarya. I suoi componenti avanzavano a battiti di pinne regolari, mantenendo serrati i ranghi. In prima linea, protetti da scorte ai quattro lati, c’erano re Enji e i suoi tre figli maschi: Shōto a fianco a lui, i due fratelli maggiori dietro.
  In altre occasioni, il primogenito si sarebbe sentito ferito nell’orgoglio dall’ennesimo affronto; questa volta, però, aveva lui il coltello dalla parte del manico, perché a essere rinchiusa nella gabbia che trasportava assieme all’altro fratello e ad altri due tritoni c’era Momo.
  Sebbene il padre non gli avesse detto niente, conosceva Shōto abbastanza da capire che gli incontri segreti con Momo non erano allo scopo di aiutare la causa del padre.
  Lei, la donna che Shōto amava così sinceramente e intensamente, era, adesso, nella gabbia che lui trasportava.
  Alle porte di Altarya, il re, la regina, i funzionari e l’esercito erano lì ad attenderli.
  Con un cenno della mano di re Enji, la gabbia in cui si trovava Momo avanzò in prima fila. «Che Altarya si arrenda e mi consegni la città», tuonò, «o vedrà morire la sua futura regina, discendente diretta di Chibutsu.»
  Shōto sapeva che, qualunque fosse stata la risposta del re di Altarya, le cose sarebbero andate solo peggiorando: si arrendeva, e suo padre avrebbe avuto sotto il suo controllo tutto il Mare del Nord, riservando chissà quale fine alla famiglia regnante; non si arrendeva, e si sarebbe passati alla guerra. Se la seconda opzione si fosse rivelata corretta, già anticipava la prima mossa del padre: uccidere Momo seduta stante, privando così Altarya di un grande potere.
  Intorno ai due eserciti, Shōto avvertiva non solo le acque, ma anche i pesci essere irrequieti: non serviva nessun potere, lo si capiva chiaramente che lo fossero.
  Il legame tra i discendenti di Chibutsu e i pesci non funzionava come tra un padrone e un suo sottoposto, dove il primo dava l’ordine e veniva subito eseguito. Era un legame paritario, basato sull’empatia e la reciproca fiducia, come lo era anche quello tra i discendenti di Chimizu e le acque del Mare del Nord. Così come i due custodi avevano mantenuto l’equilibrio, allo stesso modo i loro discendenti dovevano impegnarsi a farlo. Ma i due re delle capitali e i loro predecessori non lo capivano, questo, ed ecco che i poteri dei due custodi diventavano un mezzo per la conquista.
  Finalmente, il re di Altarya prese parola. «La risposta di Altarya è no. Non ci arrendiamo.»
  Re Enji non sembrava molto dispiaciuto: data la sua indole, era più probabile che preferisse vincere spargendo sangue. L’eliminazione di Momo, tanto, portava Krypòlis dalla parte del vantaggio. «L’hai voluto tu» esordì, innalzando fiero la sua lancia.
  «No!» urlò disperato Shōto.
  Se il padre lo ignorò, lo stesso non poté fare con la corrente che, originatasi dal nulla, lo sballottò violentemente a venti metri dalla gabbia.
  Superato lo sgomento iniziale, lo sguardo del re saettò sul figlio, che guardò irato. Stava per urlare, ma le parole gli morirono in gola.
  Il re di Altarya aveva approfittato della situazione per giocare d’anticipo, ordinando all’esercito di muoversi.
  Anche re Enji ordinò al suo esercito di prepararsi all’attacco e saettò di nuovo verso la gabbia, ma un vortice d’acqua la avvolse e lo contrastò. Si girò verso Shōto, intorno al quale l’acqua si comportava in modo strano e minaccioso.
  La consapevolezza di stare per perdere Momo aveva acceso in lui una scintilla, subito divampata in un incendio.
  Per la prima volta, il re ebbe davvero paura del figlio.
  Mentre tutt’intorno a loro sirene e tritoni si uccidevano in una massa disordinata, Shōto si gettò alla carica come un dardo, e in men che non si dica si interpose tra il padre e la gabbia.
  «Sei una delusione, Shōto!» gli urlò il padre, caricando nella sua direzione con la lancia ben salda nella mano destra.
  Shōto saettò sotto di lui e in un attimo gli fu sopra, investendolo con una corrente d’acqua che lo spinse metri e metri più giù. Stava per fiondarsi nuovamente su di lui, quando la voce di Momo lo chiamò: gli occhi, prima guizzanti d’odio, gli si spalancarono, e il vero Shōto tornò a primeggiare sul mostro che era diventato.
  «Momo! Stai bene?» le chiese, aiutandola a uscire dalla gabbia.
  La ragazza gli mise le mani dietro la nuca e lo avvicinò a sé, poggiando la propria fronte sulla sua nel tentativo di tranquillizzarlo. «Sì, è tutt—»
  La scena parve troppo veloce.
  L’espressione nonostante tutto serena di Momo mutò in sbigottimento quando sentì qualcosa penetrarle nel petto.
  Shōto spalancò gli occhi, abbassandoli lentamente sul punto in cui la punta di una lancia faceva capolino dal petto della giovane, il sangue che fuoriusciva a fiotti e si disperdeva irregolarmente in acqua.
  Un’altra lancia saettò contro Shōto, ma non arrivò mai a destinazione: il fratello secondogenito l’anticipò, scagliandola via.
  Il principe lo guardò incredulo, e lui ricambiò con un mezzo sorriso. Solo allora capì che non dovevano essere in due a odiarlo, ma solo in uno; d’altra parte non aveva mai avuto un vero rapporto con i suoi fratelli, e se il più grande non mancava di esternare il suo disprezzo nei suoi confronti, per l’altro era diverso.
  «Mi dispiace per lei» disse, allontanandosi in battaglia.
  Lo osservò un attimo andare via, poi tornò su Momo. Con quella poca lucidità che era riuscito a recuperare la trasportò lontano dal campo di battaglia, senza che nessuno fece caso a loro. Nuotò disperatamente alla Farfalla, avvertendo i suoi movimenti agili e i suoi sensi all’erta come non mai.
  Giunto a destinazione si sistemò sulla roccia su cui si sedeva di solito nei suoi incontri con Momo, stringendola cautamente tra le sue braccia. La morte stava facendo il tiro alla fune con la vita per aggiudicarsela, e mancava davvero poco prima che vincesse.
  Abbassò la testa su di lei fino a toccarle la fronte con la propria, sussurrando più volte: «Mi dispiace.»
  Momo gli sfiorò delicatamente il viso, ripercorrendone i lineamenti; carezzò le guance, passò il pollice prima sul labbro inferiore e poi sugli occhi: nascoste dall’acqua salata del mare, sapeva che c’erano delle lacrime. «Non devi. Non è colpa tua.»
  «Sì che lo è! Se non ci fossimo visti in segreto di continuo mio padre non avrebbe mai potuto farti prigioniera. È colpa mia. È solo colpa mia.»
  «No» ripeté, sicura. Stava per morire, eppure sembrava essere l’ultima delle sue preoccupazioni. «Saremmo arrivati comunque a questa guerra, perché entrambi i nostri padri aspirano così ciecamente al potere da arrivare a uccidere i loro stessi figli. Adesso però tu puoi cambiare le cose: non scappare, ma torna là e sii un re.» Spostò lo sguardo da Shōto e lo indirizzò verso l’alto, sorridendo. Il giovane pensò avesse visto la beatitudine che l’aspettava nel mondo che solo l’anima può raggiungere, se esisteva. Ma poi Momo alzò il braccio quel poco che riusciva e disse: «Guarda, la vedi?»
  Seguendo la direzione che il suo dito indicava, Shōto vide la roccia della farfalla illuminata dai raggi del sole, adesso più vivo. Questa volta la vide per davvero: c’era il dorso, come diceva Momo, da cui si diramavano le ali che, spiegate, sembravano volersi alzare in cielo da un momento all’altro.
  Shōto accennò un sorriso, debole ma presente. «È una farfalla.»
  «È la nostra farfalla» lo corresse. «La libertà che tanto desideravamo. Non rinnegarla, ma abbracciala come fosse una parte di te e combatti. Fallo per noi. Me lo prometti?»
  «Sì» rispose. «Te lo prometto. Realizzerò il nostro sogno.» E con un ultimo bacio l’accompagnò nel suo viaggio tra le braccia della morte. Come una farfalla, la sua anima si sarebbe alzata in cielo e avrebbe raggiunto la sua libertà.  
   
 
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