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Autore: yonoi    28/10/2017    4 recensioni
Estate 1920: Hansi Wallemberg, cinque anni aggrappati a una grossa cornice col ritratto del padre decorato al valore, arriva dal suo paese di montagna a casa di Iolanda e Arrigo Drusiani. Sarà il loro piccolo affido per questa estate. Arrigo Drusiani ha combattuto nella Grande Guerra, sua moglie Iolanda è esperta nell’arte di riparare le cose. Con i Drusiani, Hansi stabilirà quel rapporto di affetto di cui ha così intensamente bisogno: partito per il fronte, suo padre non è più tornato, e sua madre, che non ha mai smesso di attenderlo, trascorre le giornate sulla soglia di casa.
Col tempo, si prefigurano per Hansi lunghi inverni in collegio, e in seguito l’Accademia militare: qui, si lega sempre più ad un coetaneo che suscita in lui una forte ammirazione, fino ad abbracciarne i valori e ad arruolarsi nelle SS. Sarà l’incontro - fugace e irrepetibile - con il vero amore della sua vita, a provocare in Hans un cambiamento sofferto, eppure definitivo.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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5. Dieci anni, il più grande
 
A quel tempo, Arrigo Drusiani era un semplice tenente di fanteria, temprato negli ideali dell’Accademia militare appena in tempo per la maggiore età e la guerra: inviato subito al fronte senza alcuna esperienza, e consumato nell’anima fino al giorno dell’Armistizio, era riuscito nell’impresa fortunosa di riportare a casa, con la smobilitazione, la vivacità degli occhi e la prontezza di spirito. Oltre a ciò, aveva riportato l’abitudine inedita di alzarsi in piena notte e camminare nel sonno, una scorta di incubi affannosi e lo stesso grado di tenente con cui era partito.
         Al fronte, nelle alterne vicende sotto al fuoco di tutti i giorni, si era adoperato per proteggere i suoi, più che per occupare postazioni strategiche segnate su mappe illusorie. Avvertendo il proprio peso di responsabilità, s’era imposto di aver cura di quei granelli d’umanità racimolati ai quattro angoli del Paese: i contadini abituati a vangare nel fango, che in trincea era livido, contagioso, ma pur sempre della stessa terra delle campagne; gli operai dalle dita abili a riparare qualsiasi congegno meccanico, dalle minuzie degli apparecchi telefonici fino alla Canterina, l’unica mitragliatrice automatica in dotazione, in realtà più soggetta a incepparsi nel gelo che a sparare diritto; e poi i manovali che non riuscivano a lavorare senza cantare, i padri di molti figli, le reclute incaute. Arrigo se l’era giurato ancor prima di vederli, quei volti impauriti e attenti, come di ragazzi al primo giorno di scuola: li riporterò a casa a uno a uno.
         Per questo, s’era spezzato la schiena insieme a loro a trascinare i pezzi d’artiglieria in montagna, a liberare i cingoli dai pantani, a spalare la neve dalle ridotte sepolte da inverni senza fine, senza rumore, senz’altro che il cielo bianco, e il rigore di legno grigio degli assiderati; per non esporre i suoi a perdite insensate, s’era più volte opposto agli ordini altrettanto insensati dei Comandi; e non senza imbarazzo, s’era prestato a leggere agli analfabeti le lettere ricevute da casa, a scrivere alle mogli, alle madri, alle morose, a correggere frasi sbozzate nelle calligrafie incerte della terza elementare.
         In breve, aveva “fraternizzato in modo eccessivo” con i soldati. Non solo: ma in più occasioni i suoi, depurati dall’illusione degli ideali e affinati da una lunga consuetudine con la morte, avevano fraternizzato persino con il nemico. Di questi episodi di vita quotidiana s’era persa ogni traccia: e sia per le avvertenze del tenente Drusiani, che diffidava i suoi dal parlarne per lettera, sia perché i fatti erano accaduti in modo così spontaneo da non fare notizia, nessuna eco era riuscita a varcare i sentieri allagati dalle piogge, i ponti sui torrenti divelti dalle esplosioni, la melma chilometrica delle trincee affondate come ferite lungo i crinali dell’avanzata.
         Durante tutto il conflitto, soltanto rare voci, non confermate, su “fatti d’inaudita gravità, punibili con la fucilazione” erano pervenute al Quartier generale: al momento e nell’incalzare degli eventi, nessuno s’era preso la briga di accertarle, di indagare i responsabili, di passare per le armi truppe già decimate dalla guerra di posizione, da assalti sanguinosi per conquistare una vetta, un brandello di muro, quattro case sparute. 
         Nel frattempo, a Natale, nel silenzio immerso nei boschi ammantati di neve, si potevano leggere i cartelli di tregua scritti dagli Italiani: “Austriaci, a Natale state anche voi in pace. Noi non spareremo”. In quella notte, non esplodeva un colpo: Italiani ed Austriaci spianavano tovaglie di pezze colorate, cucinavano nel tepore delle ridotte, leggevano le lettere ricevute da casa, con buona pace del Quartier Generale.
         Per un certo periodo, la compagnia di Arrigo fu acquartierata su postazioni a pochi metri dalle trincee austriache, e non erano rari i lanci di sigarette, di pane tra le due linee. Capitò che una notte, sotto a una pioggia battente che imperversava da giorni, il sergente La Valle, percorrendo i camminamenti durante l’ultimo turno di sentinella, sentisse dei lamenti dalla trincea austriaca, come un pianto continuo.
         Era venuto a svegliarlo, nel fragore della pioggia torrenziale che riempiva di umidità la baracca, impregnava le coperte dell’odore marcio del legno, e dava l’impressione di dormire in mare aperto. Arrigo s’era trovato davanti quel volto scarno, dello stesso colore di cenere dell’inverno: “- Venga a sentire, sior tenente, mi sembra che ci sia un ferito”-
         Tra i molteplici compiti inattesi del fronte c’era stata anche, per Arrigo, la necessità di districarsi tra i dialetti dei soldati: la stessa necessità gli aveva poi insegnato a sviscerare la lingua cupa degli austro-ungarici, anch’essa complicata da inflessioni e pronunce delle località più remote dell’Impero.
         In quell’ultimo spicchio di notte, quando il buio e il freddo si fanno più pungenti perché prossimi all’alba, Arrigo si mise in ascolto insieme alla sentinella, uno scintillio d’occhi tesi sotto alla pioggia:
         -“Non sento niente, sergente. O non c’è nessuno o è già morto”-   
         - “Si fidi, sior tenente, io l’ho sentito bene”-      
         E infatti, dopo poco, s’era udita una voce tenue, assottigliata al punto che ogni volta sembrava sul punto di finire, eppure perseverava con la sola forza nella disperazione. A distanza di anni, in certe notti di pioggia interminabile, ad Arrigo capitava ancora di sentirla, quella voce che giungeva dalla trincea austriaca come da un altro mondo, insieme all’odore di disfacimento portato dalla pioggia: come se intorno, per chilometri, non ci fosse più niente di vivo se non quell’unica voce, un cigolio del vento, un lamento dei morti.
         -“E’ uno di loro. Si lamenta per la fame”- 
         -“Ci credo, sior tenente. Sono accerchiati da settimane. O si arrendono o fanno la fine del topo”-
         -“I loro comandanti li lasceranno crepare, piuttosto”-
         -“Proprio come i nostri”-
         Arrigo si voltò a fissare La Valle, il suo viso tranquillo, fermo, da contadino. Quello si tirò indietro:
         -“Mi scusi, sior tenente”-
         -“Bene, può continuare il suo turno di guardia” - Arrigo indovinò l’ora osservando la striscia di luce sudicia che s’allargava sull’orizzonte - “Coraggio, che manca poco al cambio”- 
         Fece per ritirarsi, ma notò la sentinella che rimaneva là. Come pietrificata, in ascolto a quel pianto.
         -“Mi ha sentito, sergente?”-
         La Valle si ridestò, come da un incantesimo: -“Signorsì, sior tenente. Ma allora, non si fa niente?”-
         -“Cosa dovremmo fare? Questo non ci riguarda”-
         -“Io ho una fetta di pane, avanzata dal rancio”-
         -“Farò conto di non avere sentito”-
         -“Mi g’ho anca del pecorino, appeso sopra alla branda. Se non l’hanno mangiato i topi, ma io l’ho legato in alto”-
         -“Non ho sentito, sergente”-
         -“Potrei fare un involto. Basterebbe una pezza”-
         -“Intelligenza con il nemico. Non ci provi neppure”-
         -“Quello continua a piangere. A me pare un tosetto”-
         -“C’è la Corte marziale”- 
         -“Ho quattro figli a casa, sior tenente. Lei faccia come crede”-
         Arrigo si arrese: -“In tenda dovrei avere della salsiccia. Dò il segnale di tregua, un minuto soltanto”-
         -“Grazie, sior tenente. L’è un povero tosetto, mi ricorda mio figlio. Dieci anni, il più grande”-
         -“Se non è un bambino di dieci anni ma un’imboscata, la riterrò personalmente responsabile”-
         -“Si fidi, sior tenente, mi son padre di famiglia e li conosco, i pianti dei piccoli”- La Valle era già scappato a frugare in baracca, e non era più stanco, non sentiva più il peso della mantella fradicia, della schiena bagnata, dei piedi come nudi da una pozzanghera all’altra. Vennero altri soldati, tirarono fuori i loro rimasugli di pane dalle tasche degli zaini, dell’uniforme, dai nascondigli vari. Si fabbricò un involto con un pezzo di stoffa, poi all’ultimo momento lo si disfò per metterci dentro dell’altra roba. Tutti, di colpo, avevano un figlio da sfamare, un fratello minore, un compagno di scuola. Il pensiero di un possibile attacco a sorpresa non sfiorava nessuno.
         Si levava il mattino, pochi cenci di nuvole, e di nuovo pioveva interminabilmente: eppure gli Italiani erano tutti fuori come in pieno sole, strappati dalla cuccia tiepida delle tende, a seguire in silenzio il lancio dell’involto verso le postazioni avversarie.
         Arrivò ad impigliarsi in cima a un terrapieno, con grande disappunto di voci tra gli Italiani. Si diede del cretino a chi aveva tirato, l’atmosfera già logora di nervi si riscaldò, e forse fu per il chiasso, o forse per il tremito avvertito dal filo spinato, che gli occupanti di fronte si misero sull’avviso: si calmò il pianto, si udirono voci interrogative. Arrigo intervenne, col suo tedesco breve: -“Andate a prenderlo, è pane! Noi non spariamo, non sparate neppure voi!”-
         Ci misero un po’ a fidarsi. Attesero, e gli Italiani attendevano con loro, silenziosi e ammucchiati attorno alle feritoie, con il fiato sospeso. Dopo un po’, un austriaco uscì dalla sua postazione, e un altro insieme con lui: scivolarono rapidi sul bordo del terrapieno, e acchiapparono il pane con una presa ch’era più fame che paura. Persino da lontano, si vedeva chiaramente ch’erano ragazzini, inesperti a tal punto da uscire senz’armi e senza coprirsi le spalle, solamente con gli occhi lucidi per la fame: ed erano occhi grandi, che mangiavano il volto in mancanza di altro. Non proprio dieci anni, ma appena qualcuno in più: “l’età di mio nipote”, “di mio fratello”, “di mio figlio maggiore”. “Mandano i ragazzini al macello, quei maiali”, “è una vergogna”, “uno schifo”, “ammazziamoli tutti”.
         Tacquero solamente le reclute italiane, stessi visi sparuti, stessi occhi che mordevano di fame senza dirlo a nessuno. Si tenevano in disparte, educati com’erano a restare in silenzio quando parlano gli adulti.
         Nessuno sparò un colpo contro i due disarmati, esposti al fuoco di tutti: né i tiratori austriaci, né le vedette italiane. Poco dopo, qualcosa urtò i sacchi di ghiaia, a due passi da Arrigo. Era un semplice involto legato con lo spago, evidentemente lanciato con mira più precisa, anche se nessuno, in realtà, l’aveva visto partire.
         Il sergente La Valle mosse per andare a ritirarlo, ma Arrigo lo prevenne: -“Se davvero ha quattro figli, si risparmi la pelle: io non ci tengo affatto ad averla sulla coscienza”-      
         -“Se sparano, sior tenente, l’avrò io, sulla coscienza”-
         -“Lei ne avrebbe uno solo, mentre io ne avrei cinque: sei, contando sua moglie”-
         Per fortuna, l’involucro conteneva soltanto un pugno di sigarette. Sulla carta, gli austriaci avevano scritto “Danke italiani, pace”.
         La voce nella pioggia, non la udirono più. Se l’affamato aveva mangiato quel pane, o se i due adolescenti se l’erano spartito senza misericordia, se era uno dei due, un terzo oppure nessuno, non si poté appurarlo. L’incognita, e il tormento di quel pianto d’angoscia rimasero soltanto nei brutti sogni di Arrigo, che tornava a udirlo nelle notti battenti di pioggia, specialmente d’inverno, quando più lungo è il buio, e dalle profondità emergono i ricordi. Da ultimo, s’era fatto più straziante e vicino da quando Hansi Wallemberg era arrivato in casa con i suoi capelli chiari, così accecanti come gli erano sembrati quelli dei due soldati in quel mattino remoto: quando entrambi s’erano trovati sotto il tiro delle due postazioni, con le mani disarmate rese lunghe dalla fame, con il capo scoperto su cui s’era posato, uscito da chissà dove, forse un raggio di sole.  
 
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