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Autore: Vegeta_Sutcliffe    31/10/2017    3 recensioni
La sfidò. Quella relazione era una lotta perenne, due poli opposti che si erano intestarditi a volersi avvicinare, ma che erano impossibilitati dalla loro natura. Lei tornò vicino a lui e si sedette suelle sue gambe.
“Non lo farai se ti tengo la bocca occupata.” Esclamò sorridente e vittoriosa lei, prima di adagiare le sue carnose e morbide labbra su quelle sottili di lui, che non aveva voglia di lasciarla vincere. Andava contro il piacere fisico, andava contro la sua voglia di toccarle le coscie da sotto la gonna della divisa, ma volgerle contro le sue parole, farla cadere in contraddizione e farla avvedere dell’incoerenza tra il suo ruolo istituzionale e il suo volere individuale era decisamente meglio, fosse solo per il fatto che la sua convinzione di perfezione si sarebbe infranta contro uno specchio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Freezer, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Più di 4 anni fa iniziavo la raccolta dell’Anticristo, maledicendomi perché avev una Long da completare, una anche abbastanza impegnativa, eppure mi ero presa l’onere di un’avventura che non riusciva ancora nemmeno a vedere chiaramente nella sua completezza.
Paradosso vuole che oggi, a pochi capitoli dalla conclusione dell’Anticristo, e pochi purtroppo non vuol dire facili, dopo 4 anni di distanza dall'inizio dell’Anticristo e dalla fine di Justice, io mi sia decisa a ripubblicare la suddetta.
La verità è che sono estremamente innamorata della mai long, ma più la leggo, più mi convinco che quella storia aveva un grandissimo potenziale che un po’ per l’età, un po’ per la mia inesperienza sia rimasto latente, che quella storia ha tante troppe intuizioni che meritano di essere sviluppate e trattare in una maniera più sgrava da una retorica eccessivamente fastidiosa.
Non voglio sconfessare quello che ho fatto, mai lo farò, però voglio rimettermi in gioco e voglio provare a rendere giustizia a quel che sarebbe potuto e forse dovuto essere e che invece non è.
Voglio riproporre Justice, ma non sarà un semplice copia e incolla. Ho in progetto di riprendere Justice, di rivederla, di correggerla, di ampliarla e di renderla più scorrevole più piacevole da leggere e magari più acuta.
Ovviamente è un volere ambizioso e soprattutto mi rendo contro che potrebbe essere controproducente perché rischierei di rovinare ciò a cui tengo, quindi con quanta più sincerità possibile, mi rimetto al vostro giudizio e vi chiedo se ne valga la pena o sono proprio stupida.
Buona lettura! <3

 
Justice
 
Diritto e rovescio.
Carl William Brown


Percorreva a passo fermo il lungo corridoio centrale della sua scuola.
Scorrevano davanti ai suoi occhi celesti le immagini di centinaia di studenti impegnati nelle più disparate discussioni. C’era chi acclamava la vittoria della squadra sportiva locale; c’era chi parlava dell’imminente periodo dei saldi; c’era chi confidava all’amica l’ultima lite coi propri genitori; c’era chi annunciava l’ennesima lite con il proprio ragazzo; c’era chi si dilettava a intrattenere con divertenti barzellette un numeroso gruppo di coetanei. Era consentito affrontare liberamente tutti gli argomenti di cui si avesse voglia, a patto che questi non comprendessero compiti in classe, interrogazioni e professori.Vi era una legge, né detta né scritta, ma apprezzata e rispettata, che impediva a tutti gli alunni di parlare di noiose questioni scolastiche durante la pausa pranzo.
Era avvezza oramai a quella vista: da circa sei mesi era stata eletta presidente del corpo studentesco
e come tale si premurava ogni giorno di sorvegliare la pausa di ogni studente, attenta che non intraprendessero passatempi dannosi alla loro salute e non infrangessero le regole dello statuto scolastico.
Benché avesse a stento quindici anni e frequentasse quell'istituto da un paio d’anni, allorchè gli studenti erano stati chiamati alle urne per votare il loro nuovo rappresentante, nessuno aveva avuto dubbio alcuno a concederle fiducia, conoscendo il suo carattere pepato, la sua lingua biforcuta e salace, ma mai inopportuna e troppo istintiva e il suo solido senso della giustizia. Ciò le permetteva  di considerarsi la migliore nel far valere le innovative idee dei ragazzi in un consiglio scolastico costituito da professori ancorati ai rigidi sistemi del passato, ma la rendeva scomoda anche a quelli stessi ragazzi che miravano a combinare guai con il solo fine di divertirsi, giustificandosi con la giovane età.
‘Il mondo è vario e, se il mondo è costituito anche da gente, possiamo desumere che anche questa sia varia. E se la gente è formata da opinioni, per lo stesso ragionamento di poc'anzi, pure le opinioni saranno varie. C’è chi non avrà simpatia nei miei confronti, ma c’è anche chi avrà fiducia in me.’
Avvalendosi delle sue capacità oratorie, rispondeva così alle sue amiche che, avendo a cuore la sua persona e conoscendo la reputazione che aveva tra gli studenti, cercavano sempre di metterla in guardia. In ragion del vero, le sue parole non erano da considerarsi una stolta sentenza di una ragazza troppo presa dal suo incarico da non accorgersi della realtà circostante, bensì la summa dell’opinioni di una giovane attenta a tutto ciò che le stava attorno. Impossibile era negare, infatti, che lei avesse amici fidati e sostenitori che condividevano le sue stesse idee.
Mentre dispensava sorrisi a chi le sorrideva o la salutava e fronteggiava lo sguardo di chi la scrutava minacciosamente, affrettò il passo, non volendo che, nel breve tempo previsto per il pranzo, non riuscisse a fare quello che voleva fare.
Giunse finalmente alla sua meta. ‘III liceo Classico B’ recitava il cartello affisso alla porta dell’aula. Varcò sicura l’ingresso della porta e lo vide seduto sulla sedia dell’insegnante, gambe divaricate, testa all'indietro e sigaretta alla bocca.
Mentre tutti gli altri erano fuori a godersi l’aria fresca e la compagnia dei compagni, lui stava da solo in classe. Era diverso da tutti gli altri. Era un alito di vento che soffiava nella direzione apposta alla tempesta, un onda contro corrente, una nuvola nel cielo estivo, un fiore in mezzo alla terra bruciata.
“Vegeta, non puoi fumare qui dentro.” Disse meccanicamente, avviandosi a passo veloce verso il ragazzo e sedendosi sulla cattedra frontalmente a lui.
Ogni giorno diventavano attori, interpretando sempre la stessa recita da ormai diverse settimane. Sapevano perfettamente che il moro era sordo a qualunque ordine impartito non dalla sua stessa persona e sapeva perfettamente che adorava infrangere le regole davanti a lei che ne era garante.
Lo vide aspirare lentamente il fumo dalla sigaretta, godendo del malsano piacere che ciò gli procurava e poi lo vide alzare la testa e rivolgerle un meraviglioso quanto falsamente dolce sorriso.
“Ciao pure a te.”
“Spegni quella cosa.” Intimò, sbuffando annoiata.
Lui roteò gli occhi esasperato, portò nuovamente la cicca alla bocca e poi espirò in faccia alla ragazza quello che aveva conservato per brevi istanti nei suoi polmoni.
“Voglio fumare.”
“Fumare è contro le regole, quindi tu ora la spegni e la butti, così non sarò costretta a farti rapporto.”
Per quanto la risata di scherno era già segno che il ragazzo non avrebbe prestato ascolto alle sue parole, vide che egli, per ribadire nuovamente la sua libertà di azione, fece l’ennesimo tiro.
E per quanto gli ideali che entrambi avevano fossero a loro modo belli, perché sia la libertà sia la giustizia lo erano, quella scenetta allegorica era controproducente, se pensava che per ogni minuto passato a giocare al cane e al gatto, avrebbero potuto stare assieme, parlare, baciarsi.
Rubò dalla leggera presa delle dita del ragazzo la sigaretta, oramai quasi consumata, e, mentre si avviava velocemente al banco del moro per spegnarla e buttarla nel sua tracolla, si concesse lei stessa un tiro.
“Bulma, Bulma, Bulma- sporadicamente la chiamava per nome e, quando ciò avveniva, era per schernirla- posso sempre accendermene un’altra.”
La sfidò. Quella relazione era una lotta perenne, due poli opposti che si erano intestarditi a volersi avvicinare, ma che erano impossibilitati dalla loro natura. Lei tornò vicino a lui e si sedette sulle sue gambe.
“Non lo farai se ti tengo la bocca occupata.” Esclamò sorridente e vittoriosa lei, prima di adagiare le sue carnose e morbide labbra su quelle sottili di lui, che non aveva voglia di lasciarla vincere. Andava contro il piacere fisico, andava contro la sua voglia di toccarle le cosce da sotto la gonna della divisa, ma volgerle contro le sue parole, farla cadere in contraddizione e farla avvedere dell’incoerenza tra il suo ruolo istituzionale e il suo volere individuale era decisamente meglio, fosse solo per il fatto che la sua convinzione di perfezione si sarebbe infranta contro uno specchio.
“Lo statuto scolastico vieta l’effusioni negli spazi interni ed esterni dell’edificio. No?” Sciorinò saccentemente, beffandosi del tono e delle espressioni che solitamente aveva lei.
E se aveva riprodotto fedelmente la sua mimica, le sue risposte erano sempre imprevedibili, sempre intelligenti. Lei era intelligente.
“Ma tu non pensare allo statuto studentesco, amore, pensa più in grande- percorreva le labbra del ragazzo col suo pollice, mentre l’altra mano carezzava la sua guancia- le regole scolastiche sono stilate apposta per gli studenti comuni che hanno bisogno di essere gestiti da un’imposizione più alta. Ma prima di essere studenti siamo persone e come tali dobbiamo prima ricorrere alla nostra carta dei diritti che in parole spicce dice che siamo liberi di fare ciò che vogliamo pur non intaccando la libertà degli altri. E noi non stiamo infastidendo nessuno, baciandoci."
“Senti, senti la mocciosa che mi vuole spiegare certe cose.”
Lui le regalò un’oscura risata che lei non capì appieno, nel suo essere derisoria. Lei aveva intuito che lui la stava sbeffeggiando per essersi appropriata delle sue solite parole, ma a Vegeta faceva semplicemente ridere la consapevolezza che non poteva esistere figura istituzionale e pubblica così integerrima da anteporre il benessere della comunità al proprio utile.
“Essere tre anni più piccola di te non mi fa una mocciosa” gli ricordò infastidita dalla sua insinuazione, pizzicandogli la guancia per punirlo.
“Allora sei una marmocchia!” ghignò malefico e celere avvicinò nuovamente la sua bocca a quella della ragazza, impedendole di rispondere a tono come lei avrebbe voluto. Che alla fine i discorsi sopra i massimi sistemi erano belli, ma un bacio doveva per forza essere più piacevole.
“Ti odio, ti odio.” Diceva lei, sebbene non troppo convinta, quando si staccavano per riprendere fiato.
Non erano i tre anni di differenza a renderla una bambina, quanto il fatto di quel rispetto cieco, quasi una devozione sacra, ai simboli di un potere a cui lei aveva deciso di sottomettersi.
Il suono della campanella destò preoccupazione in Bulma che diede una fine al bacio e tentò di tornare il più fretta possibile in classe. Vegeta non avrebbe voluto interrompere quel contatto, non così presto e non per una motivazione così futile come il rispetto del sistema. Bulma era intelligente, ma troppo frenata, troppo sottomessa, troppo educata.
“Devo scappare, ho compito in classe di matematica.” Il dovere la chiamava.
“Calmati, pivella. Per fare le addizioni in colonna non ti servono mica due ore piene.” Non era la conoscenza perfetta della matematica che le avrebbe permesso di crescere.
“Vai a quel paese idiota, non sono una bambina.” Per lo meno Vegeta apprezzava che c’era ancora un minimo di orgogliosa rivolta in quell'insieme di doveri, regole e punizioni successive.



*************



Sedeva di fronte a quell’uomo dai lineamenti duri e l’austera bellezza e, ora che aveva le mani ammanettate e indossava una antiestetica tuta arancione evidenziatore, pensava che essere al suo cospetto metteva addosso terribile ansia e soggezione, molto più di quel che potesse ricordare.
Il tempo era trascorso inesorabile da quando era una adolescente col pallino della giusta giustizia e, sebbene era cambiata molto interiormente, l’aspetto non aveva subito particolari mutamenti. Il viso le si era fatto più sfilato e gli occhi non avevano perso né la limpidezza né la vivacità della giovinezza. Aveva acquisito centimetri in altezza e aveva perso qualche chilo, risultando avere ora un fisico più asciutto e tonico che metteva in risalto le sue forme perfette. I capelli, che era solita portare lunghi e fluenti lungo le spalle, erano ora acconciati in un corto, ma non per questo poco femminile, caschetto sbarazzino e disordinato.  Non una ruga solcava il suo pallido volto, ma in quel chiarore spiccavano profonde e scure occhiaie.
Il neon sopra la sua testa illuminava completamente il suo intero corpo, rendendo il colore acceso dei suoi abiti ancora più sgargiante e fastidioso. A separarla dall’uomo in giacca e cravatta vi era un’asettica scrivania, su cui egli aveva appoggiato fogli e cartelle e un pacchetto di sigarette.
La sola visione scatenò in lei una dolorosa nostalgia. Non erano solo sigarette, erano compagne di vita che l’avevano accompagnata durante la pubertà, l’adolescenza, le prime esperienze sbagliate, le prime frequentazioni cattivi, il dolore che l’aveva resa quella che era, la libertà che ora le mancava tanto.
Le mancava terribilmente stringere una sigaretta tra le dite, le mancava tenerla tra le labbra, le mancava aspirare quel dannoso piacere, le mancava pensare guardando quella coltre di fumo grigiastro.
Si guardò attorno nervosamente e notò tutti erano fuori, che le avevano concesso di rimanere sola con l’uomo e Bulma pensò che nessuno poteva impedirle di fumare fintanto era lì. Allungò le mani per aprire il pacchetto, faticando un po’ per via della costrizione delle manette, e tentò si estrarne una. Alla soddisfazione della riuscita si accompagnò l’infantile felicità di aver scorso vicino a lei, uno zippo con la quale sarebbe stato più facile accendere e rilassarsi. Non fu certo azione senza complicanze, ma alla fine, allorchè fu circondata da quel dolce fumo, si ritenne vincitrice.
Sorrise della sua vittoria all’uomo che stranamente ricambiò il suo gesto. Strano. Per lui quella sarebbe dovuta essere una sconfitta. Ma il tempo forse aveva sbiadito il ricordo di lui e della sua cattiveria, che preferiva punire e umiliare, piuttosto che mostrarsi come legiferatore di un ordine ben preciso. Il punto era che lui non aveva bisogno di dare regole a cui gli altri avrebbero dovuto obbedire, ma aveva tanto di quel potere da potersi permettere di essere volubile e di decidere di ogni situazione solo per un misero capriccio. Le prese la sigaretta tra le dita, proprio quando lei iniziava a gustarsela, e se l’appoggiò lui stesso alla bocca, deliziandosi del gusto del tabacco e dell’invidia sul volto della ragazza.
“Bulma, tu non puoi fumare qui dentro.” Le impose dittatoriale, mostrandole una faccia seria e irremovibile.
“Perché?” urlò lei, prossima a un pianto isterico. Bulma aveva bisogno di quella sigaretta, per lui era solo un vezzo, era una ripicca, era un bastardo. 
“Perché io ho deciso così.” La informò mefistofelico e potente.
Qualche anno prima avrebbe riso di quell'insolenza e forse si sarebbe potuta permettere anche di controbattere, ma era stanca e semplicemente scosse velocemente la testa, bisbigliando a voce bassa il suo odio nei suoi confronti.
“Ti odio. Ti odio.” Si faceva scappare di tanto in tanto qualche risolino nervoso per poi esplodere in una vera e propria risata isterica. Perché, oltre che del suo corpo, sembrava non poter disporre più nemmeno del suo libero arbitrio.
“Fai così in tribunale e il giudice chiederà un referto psichiatrico. Forse, forse è possibile assolverti per insanità mentale.” Queste parole parvero riscuotere la donna dalle sue elucubrazioni.
“Non c’è bisogno né che mi difenda né che mi dichiari pazza.”
“A me questa sembra proprio la frase di una pazza. Come conti di difenderti da sola? Rischi tutto e non vuoi nemmeno una persona competente che cerca di salvarti il culo?” Era sbalordito dall’assurdità di quella donna.
“Certo che desidero che una persona competente mi difenda, quindi capisci bene che non ti affiderò mai il caso. Farò l’arringa da sola. Come Socrate.”
"E' finito morto."
"No, si è suicidato per difendere la sua integrità di uomo giusto, anche quando gli proposero di fuggire."
L’avvocato scoppiò in una sincera risata, o almeno così sembrava. Aveva un singolare senso dell'umorismo quella donna e la fervida immaginazione che le faceva distorcere la realtà. Bulma aveva trovato alla sua situazione addirittura un antecedente ai limiti del mitologico, ma proprio per la sua natura mitica era un esempio totalmente falsato. "Socrate è stato accusato di colpe mai commesse, condannato a morte poichè personaggio troppo irriverente e scomodo. Tu sei andata contro la legge, diverse volte, recidiva."
"Ma tu non pensare alla legge, pensa più in grande. Questa è fatta per gli uomini comuni troppo stolti per pensare e frenare istinti animali e scorretti con la propria testa. Io sono diversa. Sono andata contro la giustizia degli uomini, ma per conseguire un giusto fine." Ignorò quel fastidioso senso di Deja vuù e le sorrise dolcemente, anche se l’emozione gusta era la condiscendenza. Bulma era pazza.
La cicca di sigaretta era ormai consumata sopra la scrivania di metallo e entrambi riservarono la propria attenzione a quella. Lei la prese e la buttò nella sua borsa da lavoro.
"Sono passati dieci anni ed è come se non fosse cambiato niente. Non è strano?"
Si alzò dalla sedia e con meticolosa cura sistemò le carte e le cartelle, infilò il pacchetto di sigarette in tasca e si sistemò il nodo della cravatta. Le rivolse un raggiante sorriso e le ultime parole.
"Vorresti che non fosse cambiato nulla, ma è il momento di crescere e riconnettersi alla realtà. Assumiti le conseguenze delle tue azioni. Anche se forse il passato è l'ultima cosa che ti rimane. Ci vediamo all'inferno."
Le diede le spalle e si avviò alla porta, senza voltarsi indietro, senza mostrare minimamente interesse a lei. Indugiò nell'aprire l'uscio, sentendola singhiozzare. Quelle lacrime erano famigliari, quasi quanto le sue ricapitolazioni e le richieste d'aiuto mai ammesse. Lei solitamente odiava umiliarsi davanti a lui.
"Non mi lasciare, ti prego...Non voglio morire!" Urlò disperata nella sua direzione.
"'Ma Socrate..."
"Non sono Socrate e non voglio bere del veleno." Tentò di nascondere il volto nel suo stesso seno.
"Vegeta ti prego aiutami..."

  
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