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Autore: Roscoe24    31/10/2017    6 recensioni
“Ahi,” si lamentò, toccandosi la fronte. Ci sarebbe spuntato un bel bernoccolo, se lo sentiva.
“Oh santi numi!” sentì esclamare e poi di nuovo il botto metallico dello sportello che veniva chiuso. Alec aveva ancora le mani sulla fronte, quindi non poteva vedere chi fosse il suo interlocutore. La verità era che si stava vergognando così tanto di essersi comportato come un tale imbranato che non aveva il coraggio di togliersi le mani dal viso.
“Ehi, là sotto. Tutto bene?” lo sconosciuto appoggiò le mani sui polsi di Alec, il quale percepì il tocco caldo contro la sua pelle. Curioso, si liberò la faccia.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Successe un mercoledì. Alec si stava lavando i denti in bagno quando Jace cominciò a bussare alla porta con così tanta intensità che rischiò di buttarla giù.
“Apri Alec! Ho bisogno di te!”
Alec, le sopracciglia aggrottate e lo spazzolino infilato tra una guancia e i denti, con ancora il pigiama addosso, si diresse alla porta e l’aprì.
Jace se ne stava in piedi davanti alla porta aperta, già vestito per andare a scuola, con gli occhi così sgranati che, per un attimo, Alec credette di veder schizzare fuori i suoi bulbi oculari dalle orbite.
“Hai visto una papera, Jace?”
Il panico, che rendeva il viso di Jace teso come una corda di violino, venne sostituito da una momentanea smorfia di disapprovazione.
“Ti sembra il momento di fare dell’ironia?”
“Non sto facendo dell’ironia. Hai la faccia terrorizzata, proprio come quando a dieci anni siamo andati in quel parco pieno di anatre che scorrazzavano libere.”
Jace rabbrividì al ricordo di quei mostruosi esseri inquietanti che lo inseguivano desiderose di essere nutrite – lui l’avrebbe fatto volentieri usando l’arsenico, dannate bestiacce terrificanti – ma poi tornò a concentrarsi su Alec.
“Piantala. Ho bisogno di parlarti.”
“E allora parla,” disse Alec, riprendendo a lavarsi i denti. Si diresse nuovamente verso il lavandino per evitare che la schiuma del dentifricio finisse per terra e sporcasse il pavimento e, lasciando la porta aperta, fece un cenno con la mano libera a Jace per spronarlo a parlare.
Il biondo cominciò a dondolare da un piede all’altro, indeciso su come affrontare l’argomento. Alec percepì la sua tensione, così decise di dedicargli tutta la propria attenzione: sputò nel lavandino la schiuma in eccesso, si sciacquò la bocca e si asciugò sul suo asciugamano. Una volta finito, si voltò verso Jace, incrociando gli occhi con i suoi.
“Devo preoccuparmi?”
“No… è solo che è una cosa così strana, per me…”
Alec trovava alquanto anomalo il comportamento del fratello. Jace sembrava… insicuro, titubante, una cosa che non era mai successa in tutta la vita che avevano passato insieme. Jace era una specie di leone feroce, un predatore fiero e rispettato, qualcuno che conosce le proprie straordinarie capacità e ne trae forza, mostrandole senza vergogna alcuna al mondo. Jace non era modesto perché non aveva motivo di esserlo: era atletico in un modo che esulava dalla normalità, era dotato di un intelligenza parecchio sopra alla media e la sua tenacia avrebbe fatto invidia a chiunque. Le sue capacità erano note a chiunque, evidenti come se fossero costantemente illuminate dalla luce del sole. Dunque, perché adesso sembrava dubitare di se stesso?
“Non so ancora leggerti nel pensiero, Jace.”
“Non ne sono tanto sicuro, sai?” scherzò e Alec sorrise.
“Avanti,” lo incoraggiò, “Dimmi che c’è.”
Il biondo si grattò la nuca: “C’è la prima di campionato, domani…” si interruppe, “E volevo… oh, al diavolo, volevo chiederti se vuoi allenarti un po’ con me, oggi pomeriggio.”
Alec non si stupì più di tanto del comportamento di Jace, una volta appurata la causa del suo disagio. Il minore non era tipo che chiedeva aiuto, tendeva più che altro a risolversi i problemi da solo, quindi anche una cosa così piccola come un allenamento, per uno che non era mai abituato a rivolgersi agli altri, diventava fonte di difficoltà.
Alec si sventolò teatralmente una mano sugli occhi, come se volesse asciugarsi lacrime di emozione.
“Non posso credere che il capitano dei Nephilim dell’Alicante High School abbia chiesto a me di aiutarlo negli allentamenti!” concluse appoggiando l’altra mano sul cuore.
Jace lo guardò di traverso, ma poi si mise a ridere, “Sei un idiota!” sentenziò, piazzandogli un pugno sulla spalla.
Alec rise, “Simile attira suo simile, non te l’hanno mai detto?”
“Devo essermi perso questa fondamentale informazione.” Incrociò le braccia al petto, “Allora, mi aiuterai?”
“Certo che ti aiuterò, anche se non vedo a cosa possa servirti. Sei al secondo anno e sei già capitano, riuscendo nell’impossibile. Tutto grazie alle tue capacità. Ti ho visto giocare, Jace, di cosa hai paura?”
“Di deludere le aspettative. Tutti si aspettano che il grande Jace Lightwood faccia faville, ma se fossi solo tutto fumo e niente sostanza?”
“Questo è impossibile. Sei nato per giocare a basket e sei il migliore. Andrà tutto bene, fidati di me.”
“Lo faccio da quando ho quattro anni, Alec. Non smetterò di farlo a sedici.”
Alec gli sorrise e gli diede delle affettuose pacche sulle spalle, poi si diresse verso camera sua per andare a vestirsi.  

*

La porta si aprì lentamente e Maryse entrò con cautela, i suoi passi erano controllati, come se avesse voluto chiedere il permesso, lei che piuttosto che fare una cosa simile, preferiva chiedere scusa dei danni provocati dai suoi comportamenti. Ma con i suoi figli era diverso. Si reputava una madre severa, alcuni l’avrebbero anche definita arida, ma lei sapeva quanto amava i suoi bambini, quindi non aveva da dimostrare nulla a nessuno. Il giorno in cui entrò nella cameretta di Alec, dunque, lo fece con grazia, con gentilezza. Il piccolo Alec notò la dolcezza con cui sua madre si era chinata sul tappeto gommoso insieme a lui e aveva cominciato a giocare con i Lego. Avevano costruito delle macchinine, le cui ruote erano quadrate, che Alec aveva cominciato a far muovere sul tappeto, imitando con la voce il rumore del motore. Maryse aveva sorriso, accarezzando i capelli del suo ometto. Era un bambino bellissimo, il suo Alec, così dolce e curioso. I suoi occhioni verdi scrutavano sempre ovunque per apprendere più dettagli possibili.
“Alec, lo vorresti un fratellino?” gli domandò Maryse, le mani che avevano smesso di far muovere le macchinine, torturandosi a vicenda. Alec era troppo piccolo per notare un gesto simile, così si era limitato ad alzare gli occhi su sua madre.
“Ti tornerà la pancia grossa com’è successo quando è arrivata Izzy?”
Maryse sorrise, “No, questa volta sarà un po’ diverso, Alec.”
“La pancia grossa verrà a papà?”
“No, tesoro. Questa volta adotteremo un bambino. Sai cosa significa?”
Alec fece segno di no con la testa e abbandonò le sue macchinine Lego per concentrarsi solo sulla madre.
“Significa che prenderemo con noi un bambino e diventerà parte della nostra famiglia.”
“Questo bambino è senza mamma?”
“Si, Alec.”
“Ma ora non più, giusto? Se verrà qui con noi, sei tu la sua mamma, adesso…”
Maryse si trovò a combattere le lacrime con tutta se stessa: “Sì, sono io la sua mamma, adesso. A te sta bene?”
Alec annuì con convinzione. “Mi piacerebbe avere un fratellino, Izzy vuole sempre farmi giocare con le sue bambole!”
“Tua sorella ha un carattere particolare, nonostante sia molto piccola, ma ti vuole bene.”
“Anche io gliene voglio, mamma. Solo che le bambole non mi piacciono!”
Maryse si lasciò andare ad una risata controllata, giusto per liberare un po’ della tensione accumulata.
“Nemmeno lei sembra gradirle troppo, visto che alle ultime ha staccato la testa.”
Alec rise, una manina a coprirsi la bocca. Maryse rimase poi a guardarlo mentre tornava a giocare con le sue macchinine.
“Aleeeec, Aleeeeec, devi vedere!”
Isabelle sgambettò nella camera del fratello, nelle manine stringeva un disegno appena fatto, privo di senso, i cui colori formavano una figura astratta e andavano a sovrastarsi tra di loro. Maryse notò che anche le dita della figlia erano colorate e si appuntò mentalmente di lavarle approfonditamente le mani.
Il bimbo si alzò dal tappeto per andare verso la sorella, che gli mostrò il disegno fiera di se stessa.
“L’ho fatto tutto da sola!”
“Sei stata brava, Izzy!”
“Posso vedere, Isabelle?”
La bambina si voltò verso la madre, i capelli legati in due codine che la facevano assomigliare ad una bambola di porcellana, “Certo, mamma!”
Maryse allungò una mano per afferrare il foglio portole dalla figlia, “Che cos’è?”
“Uno zoo!”
La madre sorrise. Erano veramente pochi gli attimi nei quali si concedeva un sorriso, o nei quali si lasciava andare a delle tenerezze. Sapeva che era la sua indole ad impedirle di mostrare più affetto di quanto avrebbe voluto, ma sapeva anche che a sua volta era stata cresciuta nella rigidità, dove la mancanza di smancerie era normale.
“Izzy, non sono fatti così gli zoo!” brontolò Alec, osservando con occhio critico il disegno.
Isabelle si esibì in una pernacchia: “Invece sì!”
“Bambini…” li ammonì Maryse ed entrambi i suoi figli smisero di bisticciare. “È ora del bagno, forza, andiamo!”
Alec e Isabelle si diressero con la madre fuori dalla stanza del bambino.
“Sai che avremo un fratellino, Izzy?”
“Ma io ne ho già uno!”
“Non ne vuoi un altro?” indagò Maryse, mentre apriva la porta del bagno ed entrava seguita dai bambini. Entrambi la osservarono riempire la vasca di acqua calda – trovavano il vapore parecchio affascinante – poi Isabelle scrollò le spalle.
“Sì, vorrei un altro fratello! I fratelli mi piacciono!” rivolse un sorriso sdentato ad Alec, al suo fianco.
“Va bene, allora.” Maryse emise un sospiro liberatorio, “Avanti, nella vasca!”

Il giorno in cui ebbe terminato il completamento dei documenti per l’adozione di Jace, Maryse varcò la soglia di casa sua tenendo il bambino in braccio. Aveva quattro anni, poteva camminare benissimo, ma quel piccolo sembrava così spaventato che il suo istinto di protezione aveva avuto la meglio su qualsiasi altro lato del suo carattere. Lo sentiva già figlio suo, quel bambino dai capelli dorati, che con una manina stringeva una ciocca dei capelli corvini della donna, mentre nell’altra stringeva un soldatino di plastica.
Johnatan Christopher Wayland era stato vittima di un sistema basato sulla raccapricciante follia di Valentine Morgenstern, un uomo che per anni aveva fatto parte della loro comunità e che aveva deciso segretamente di reclutare ragazze madri che non potevano permettersi di crescere un bambino e che, accudite per nove mesi da Valentine in una clinica segreta, poi gli affidavano il neonato e lui si premurava di venderlo a famiglie che non potevano avere figli.
Valentine era un mostro e Maryse si era sentita altrettanto mostruosa al pensiero che aveva trovato quell’uomo interessante. Si era lasciata affascinare dalla sua intelligenza e dal suo carisma, senza sapere che dietro a tutto ciò si celava un uomo che, per soldi, mercificava donne disperate e bambini innocenti.
La madre biologica di Jace era morta di parto e Valentine si era occupato del piccolo, dandogli un nome e tenendolo con sé per quattro anni. Il motivo per il quale non avesse tentato di affidarlo ad una famiglia rimaneva ancora un mistero, ma a Maryse non importava. L’unica cosa che le interessava era che quel folle maniaco adesso stesse marcendo dietro le sbarre di un carcere federale e che il piccolo adesso fosse al sicuro.
Era determinata a far si che il bambino rimuovesse quella parte traumatizzante del suo passato, quindi aveva deciso di ridargli un nome: Jace, da JC, e Lightwood, perché era giusto che si sentisse parte integrante della famiglia, figlio suo esattamente come lo erano Alec e Isabelle.
Quando entrò in casa sua con il bambino in braccio, Alec e Isabelle le andarono in contro facendo particolare attenzione a non risultare troppo irruenti. Robert era rimasto con loro a casa, attendendo l’arrivo della moglie e del bambino.
“Jace, posso presentarti qualcuno?”
Il piccolo aveva annuito, senza dire una parola, così Maryse si era inginocchiata all’altezza dei suoi figli e aveva atteso pazientemente che Jace si sentisse pronto a voltarsi.
“Loro sono Alec e Isabelle, i tuoi fratelli. E lui è Jace.”
Jace aveva voltato la testina bionda verso i due bambini, incrociando prima lo sguardo con Alec, il quale gli porse incoraggiante una mano. Jace lo guardò con diffidenza, ma qualcosa, in quel bambino, lo spinse a fidarsi di lui, così abbandonò la presa sui capelli di Maryse e si allungò verso Alec. A quel punto, Maryse lasciò che il bambino si posizionasse in piedi davanti ai fratelli. Jace e Alec si stavano tenendo per mano, mentre Izzy guardava il nuovo arrivato con curiosità.
“Vuoi vedere la cameretta?” gli domandò Alec e Jace annuì. Quando si incamminarono, seguiti di genitori e da Isabelle, Alec notò il soldatino.
“Ne ho qualcuno anche io, di quelli, sai? Possiamo giocarci insieme!”
Jace aveva guardato prima il soldatino e poi Alec.
“Vuoi vederlo?” sussurrò piano. Maryse si rese conto che quelle erano le prime parole pronunciate da Jace e si trovò a deglutire un groppo in gola grosso come un sasso e a trattenere delle lacrime che risultavano più pungenti di una corona di spine. Aveva pensato che sarebbe stato difficile, sia per Jace che per i suoi figli, ma forse, tutto sommato, non lo sarebbe stato. Forse avrebbero legato subito.
“Sì, se posso…”
Jace allungò la mano e aprì il palmo, mostrando il soldatino. Alec lo guardò con occhi grandi di interesse. “È molto bello! Izzy, hai visto?”
La bambina si avvicinò con cautela, studiando il nuovo arrivato. Jace fece lo stesso con lei, entrambi dubbiosi sul potersi fidare dell’altro, ma quel gioco di sguardi titubanti durò pochissimo perché Jace, così come gli era venuto naturale fidarsi di Alec, trovò piuttosto naturale coinvolgere anche Isabelle.
“Mi piace.” Sentenziò la bambina e Jace le accennò un sorriso timido. “Quelli di Alec sono tutti consumati, sai?”
“Ci giochiamo a fare la lotta, ecco perché.” Spiegò Alec, piccato.
Jace continuava a guardarli, prima uno e poi l’altro e si trovò a pensare che quei due bambini – i suoi due fratelli, gli piaceva come suonava questa parola – erano simpatici, sembravano buoni, qualcuno di cui potersi fidare.
“Vuoi andare a giocare? Ti faccio vedere la cesta nella cameretta, è piena di giochi!”
Jace annuì con più convinzione e si affiancò ad Alec. Maryse e Robert accompagnarono i bambini al piano di sopra, dove entrarono nella cameretta di Alec, a cui avevano aggiunto un letto.
“Vieni!” esclamò il bambino, facendo strada a Jace. Alec, seguito da Isabelle, si diresse verso la cesta dei giocattoli e ne sollevò il coperchio. 
“Vieni, Jace!” ripeté Alec, facendo cenno con la manina all’altro di avvicinarsi. Jace si avvicinò e si sistemò tra i due, guardando curioso all’interno della cesta, dove una miriade di giocattoli stava in bella mostra. Non ne aveva mai visti così tanti, dal posto dove veniva lui i giochi erano proibiti. Il soldatino che teneva ancora stretto in mano era l’unica cosa che gli era permessa di avere.
“Sono anche tuoi, adesso.” Aveva detto Alec e Maryse realizzò che quello fu il momento esatto in cui quella testina bionda che stava al centro delle due testine more era diventata davvero parte integrante della loro famiglia. In quel momento, la donna lo sapeva, era nato quel legame che avrebbe unito i suoi figli per il resto della loro vita.


Alec non pensava spesso al primo giorno in cui aveva conosciuto Jace, ma quella frase pronunciata dal fratello quella mattina, aveva fatto riaffiorare quel ricordo. Erano dei bambini, il tempo era passato più in fretta di quanto avrebbero mai immaginato e adesso si trovavano ad essere dei ragazzi che non riuscivano ad immaginare di stare l’uno senza l’altro. In questo concetto, ovviamente, andava inclusa anche Isabelle.
Gli faceva strano pensare che non condividessero gli stessi geni, per questo nel periodo della sua vita in cui aveva creduto di amarlo, sentiva crescere di sé una profonda vergogna, perché, sangue o non sangue, lui e Jace erano fratelli.
Per fortuna, poi, nella sua vita – e nel suo cuore, soprattutto – si era fatta un po’ più di chiarezza e aveva capito come stavano le cose.
Il cellulare dentro alla sua tasca vibrò, così Alec, che quella mattina aveva deciso di passare la sua ora buca in aula studio per cercare di apprendere qualcosa, lo estrasse dai pantaloni.

Izzy ti ha aggiunto al gruppo “Squad”.

Alec alzò gli occhi al cielo. Lui odiava le chat di gruppo. E poi che razza di nome aveva scelto?
Bloccò lo schermo e tornò sul suo libro, ma il cellulare vibrò ancora.

> From: Izzy @Squad, 10.17
Indovinate cosa fanno oggi pomeriggio Alec e Jace.

“Non penso siano affari tuoi, sorella!” borbottò Alec allo schermo, ma evitò di rispondere. Cosa importava agli altri cosa avrebbero fatto lui e Jace? Mica doveva essere un affare di stato il loro allenamento. Sbuffò e fece per bloccare nuovamente lo schermo, se non fosse stato per quel Magnus sta scrivendo… che comparse sotto al nome della chat. Non doveva seguire algebra, lui?
A quanto pare la lezione era più noiosa di quanto aveva immaginato.

> From: Magnus @Squad, 10.18
Attentano alla vita di qualcuno?

Melodrammatico! Al massimo lui e Jace attentavano alle proprie vite e solo perché Jace era così stupido da essere pericolosamente avventato e perché Alec era così idiota da assecondarlo nel vano tentativo di limitare dei danni che, invece, sarebbero sicuramente risultati incontenibili.

> From: Jace @Squad, 10.19
Con la mia bellezza? Hai ragione, Magnus…

Alec roteò gli occhi, lasciandosi andare ad un sonoro sbuffo esasperato.

> From: Magnus @Squad, 10.19
C’è solo un Lightwood che attenta alle vite degli altri con la propria bellezza e non sei tu.
> From: Izzy @Squad, 10.19
Sono io, infatti.

Alec, con le guance rosse per il messaggio di Magnus, decise di intervenire.

> To: Squad, 10.20
Non avete delle lezioni da seguire, voi altri?
> From: Jace @Squad, 10.20
Non potresti, per una volta, non dover fare il guastafeste?

Alec alzò gli occhi al cielo per l’ennesima volta, incapace di trattenersi.

> From: Clary @Squad, 10.20
Tutto questo casino e nessuno ha risposto all’indovinello di Iz.
> From: Izzy @Squad, 10.21
Esatto. Avanti, indovinate! (Alec non rovinare il gioco!)
> To: Squad, 10.21
Non è un gioco se ti diverti solo tu.
> From: Simon @Squad, 10.21
Io mi diverto. E tento con: rispondere in maniera sarcastica a chiunque provi a chiedere loro informazioni.
> From: Jace @Squad, 10.21
Per quale motivo io e Alec dovremmo andare in giro a dare informazioni a gente a casaccio, Lewis? Perché non connetti il cervello, ogni tanto?
> From: Simon @Squad, 10.22
Sei proprio acido, sai?
> From: Clary @Squad, 10.22
Secondo me è più qualcosa di sportivo.
> From: Izzy @Squad, 10.22
Fuochino, Clary.

Alec si stava seriamente domandando cosa avesse fatto di male nella vita per finire ad avere a che fare con dei disagiati del genere. E ancora, si domandò cosa ci fosse di sbagliato in lui per voler bene a quelle persone. Dopotutto, l’aveva detto lui stesso: simile attira suo simile. Se i suoi amici erano una banda di disagiati, forse era perché lui in primis lo era, sotto molti punti di vista.

> From: Magnus @Squad, 10.23
Basket. Scommetto la mia collezione di smalti Chanel che c’entra il basket!
> From: Izzy @Squad, 10.23
La voglio io la tua collezione di smalti Chanel!
> From: Magnus @Squad, 10.23
Ovviamente, cara, l’avrai solo se ho perso la scommessa. Ma ho la sensazione che non sia così.
> From: Izzy @Squad, 10.23
Alec ha cantato?
> To: Squad, 10.23
Dove siamo, in un film gangster da quattro soldi? Non ho cantato, Isabelle!
> From: Izzy @Squad, 10.24
Quindi Magnus ha indovinato tutto da solo. Niente collezione di smalti per me! Comunque, oggi pomeriggio si allenano e, visto che adesso è noto a tutti, potremmo andare con loro! Ci lamentiamo sempre che fuori dalla scuola non passiamo molto tempo tutti insieme, questa potrebbe essere una scusa!
> From: Jace @Squad, 10.24
Io accetto solo se Lewis promette di stare alla larga dal campo.
> From: Simon @Squad, 10.24
Non gioco così male!
> From: Jace @Squad, 10.24
L’ultima volta che ti sei avvicinato ad un pallone da basket hai ucciso un piccione!
> From: Simon @Squad, 10.24
L’ho solo tramortito!

Alec stava letteralmente impazzendo. E non in senso buono.

> To: Squad, 10.25
Vi prego, basta!
Alle 15 ci vediamo tutti davanti all’entrata della scuola e ci avviamo al campetto insieme.

> From: Izzy @Squad, 10.25
Agli ordini, capo!
Ci vediamo più tardi, xoxo


Alec scosse la testa e tornò al suo libro. Visto il silenzio, adesso, avrebbe imparato qualcosa. Forse.

*

Il campo da basket in cui Jace e Alec avevano deciso di allenarsi era nascosto all’interno di un reticolato di quartieri e viuzze che si intrecciavano tra di loro, che avevano ricordato a Magnus il labirinto del Minotauro. Nemmeno il filo di Arianna l’avrebbe aiutato a ritrovare la strada di ritorno, ma a quanto pare Alec e Jace conoscevano quel posto come le loro tasche.
Mentre i due giocatori si posizionavano al centro di un campo asfaltato, con i canestri corrosi dalle intemperie del tempo e arrugginiti, Magnus si sistemava insieme al resto del gruppo su quelli che dovevano essere spalti, ma che, in realtà, erano un ammasso di ferraglia che un tempo doveva essere stata verniciata di verde e che, adesso, era rossa di ruggine e odorava di metallo. Quell’odore ferroso entrava nelle narici e si impregnava ovunque.
“Cosa ci trovano di speciale in questo posto?”
“Vengono qui da quando Jace aveva nove anni. È in questo posto che ha capito che avrebbe voluto giocare seriamente a basket.” Spiegò Iz, sedendosi al fianco di Magnus. Dietro di lei si piazzò Simon, che divaricò le gambe per fare in modo che la schiena della ragazza aderisse al suo petto, mentre Clary si sedette al fianco dell’amico.
“Non potevano allenarsi in palestra?” domandò la rossa.
Isabelle alzò le spalle: “A loro piace venire qui.”
“Iz, vieni qui!” la chiamò Alec e la ragazza si alzò dagli spalti per andare dai fratelli. Il moro le porse la palla, “Sai quello che devi fare.”
Iz annuì, sorridendo: “Voglio un gioco pulito, ragazzi.” Disse, indicando prima Alec e poi Jace. I due annuirono e la ragazza, a quel punto, lanciò la palla in aria e uscì velocemente dal campo. Come il pallone cominciò a fluttuare in alto, i due ragazzi saltarono: Alec era sempre stato avvantaggiato dalla sua altezza, ma Jace, per questo motivo, aveva imparato a saltare molto più in alto del fratello, così riuscì ad afferrare la palla per primo. Palleggiò con agilità, evitando Alec, e dirigendosi a canestro, ma proprio quando stava per schiacciare, con un balzo Alec interpose la propria mano tra la palla e il canestro, respingendo il tentativo di Jace di segnare.
“Devi essere più veloce.”
“Se andassi più veloce di così dovrebbero darmi il posto di Flash nella Justice League!”
“Di nuovo.” Disse Alec, perentorio.
Jace gli rivolse un sorriso ferino, “Qualcuno vuole tirare fuori le palle.”
“Concentrati. Se riesco a marcarti io, che non sono un giocatore, riusciranno a marcarti anche i tuoi avversari.”
Jace annuì e tornarono al centro del campo.
“Iz.” La chiamò il biondo e la ragazza si avviò nuovamente al centro del campo, lasciando la palla in aria una seconda volta e uscendo subito dopo averlo fatto.
Concentrato sul pallone in aria, Jace se ne riappropriò come aveva fatto nel primo tentativo, scartò di nuovo Alec e si diresse a canestro. Tentò una nuova schiacciata, ma quando percepì Alec al suo fianco che stava saltando, allora fece un giro completo intorno al fratello palleggiando, e solo quando i piedi di Alec toccarono di nuovo terra, Jace saltò a canestro, segnando i primi due punti.
Clary dagli spalti cominciò ad applaudire e Jace le lanciò un bacio volante dal campo.
“Ti sono sembrato abbastanza veloce?” domandò sornione al fratello.
Alec gli stava sorridendo: “Così devi fare. Rimani concentrato e non dare tutto troppo per scontato.”
Jace annuì.
“Forza,” disse Alec, “Di nuovo!”

Mentre Alec e Jace erano impegnati in una partita infinita uno contro uno, Magnus se ne stava sugli spalti al fianco di Isabelle a fissare, senza premurarsi di non essere notato, il sedere di Alec, a cui quei pantaloncini rendevano estremamente giustizia. Fosse stato per lui, Alec avrebbe potuto indossare pantaloncini simili sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro. Lo fasciavano in modo giusto, senza essere troppo larghi, ma senza troppe costrizioni e cadevano morbidi sulle cosce.
Erano un indumento interessante. O forse erano interessanti perché erano portati da Alexander Ho-le-gambe-chilometriche Lightwood e quindi anche un sacco di iuta avrebbe fatto lo stesso effetto. 
Era sempre stato un ammiratore della muscolatura soda, onestamente parlando, e Alexander era sodo ovunque. In una maniera quasi oltraggiosa, della serie: come osi essere così perfetto?
Ma Magnus non poteva che essere felice del fatto che Alexander – più nolente che volente – fosse così oscenamente sodo.
Si leccò le labbra, in un gesto che poteva anche essere interpretato come voler idratare delle labbra troppo esposte al freddo delle temperature autunnali, ma che in realtà era un modo per placare quella voglia di avere Alexander vicino che stava crescendo in lui.
Stupidi sexy calzoncini. Gli facevano perdere il suo contegno.
“Magnus?”
Il ragazzo sussultò, “Che c’è, cara?”
“L’organizzazione della festa come procede?”
Magnus non riusciva proprio a prestare attenzione ad Isabelle, i suoi occhi venivano attirati dalla figura di Alexander in una maniera spropositata. Aveva l’impressione che perdersi anche il minimo dettaglio sarebbe stato un peccato mortale.
“Bene,” disse quindi, lo sguardo incollato ad Alec. Erano le sue braccia, adesso, che facevano sì che il suo contegno andasse a farsi un giro. I bicipiti si gonfiavano e rilassavano al ritmo dei palleggi. “Cat ha moltissime idee sugli addobbi e sugli inviti. Penso che-” si interruppe a metà frase, rapito dal modo che aveva Alec di saltare, allungandosi in maniera aggraziata. Quando lo vide andare a canestro e segnare, applaudì e Alec, dal centro del campo, gli fece l’occhiolino.
“Ha ammiccato?” Domandò Isabelle, incredula.
“Sì, sono piuttosto sicuro che l’abbia fatto.” Un brivido corse lungo tutta la spina dorsale del ragazzo.
Isabelle si aprì in un sorriso luminosissimo e batté le mani felice, senza aggiungere altro, mentre Magnus lasciò che quella sensazione elettrica provocata da tutta quella situazione pervadesse il suo corpo.
“Penso che riusciremo a fare tutto entro i tempi stabiliti,” completò la frase lasciata in sospeso.
“Oh, perfetto! Sono curiosa di vedere cosa avete in mente!”
“È una sorpresa, mia cara...” Magnus accavallò le gambe e tornò a guardare il campo, dove Alec stava chiedendo un time-out, che Jace concesse volentieri. Si diressero insieme verso i loro borsoni, lasciati a bordo campo, e si attaccarono simultaneamente alle rispettive bottigliette d’acqua.
“Non l’avevi mai visto giocare?”
“No, l’ho solo visto tirare con l’arco.”
“È bravo, vero? Il suo istruttore ha sempre detto che ha un talento naturale.”
“È bravissimo! Fa sembrare il tutto estremamente facile, ma credimi, non lo è!”
Isabelle rise: “Ha provato ad insegnarti?”
Magnus annuì, “Dice che sono stato bravo, ma penso l’abbia detto perché è un tantino di parte,” accentuò il concetto avvicinando il pollice e l’indice della mano destra.
“Nah, Alec è incapace di mentire. Te l’avrebbe detto, se avessi fatto tanto schifo!”
Magnus spostò lo sguardo da Isabelle ad Alec, che si stava passando un asciugamano sul collo, i capelli corvini arruffati dal sudore.
“Buono a sapersi.” Concluse, nella voce una nota di dolcezza. La sincerità era una delle cose che più gli piacevano di Alec. “Perché non gioca a basket?”
“Gli piace più la boxe,” rispose Iz, con un’alzata di spalle. “Dovresti vederlo combattere.”
“Luke dice che è un buon combattente, con molta disciplina.” Si intromise Clary.
Luke Garroway era il coach di Alec e il patrigno di Clary – cosa che entrambi erano venuti a sapere solo dopo che si erano conosciuti. Luke era un ex pugile che per un brutto incidente al costato aveva dovuto concludere prima la sua carriera da professionista, limitandosi all’insegnamento. Amava troppo quello sport per abbandonarlo definitivamente.
“Ma se Alec è una specie di Rocky,” ragionò ad alta voce Simon, “Questo fa di te la sua Adriana? Voglio dire, una versione più alta e mascolina e glitterata…”
“Ti prego, Stanley, non finire questo insensato discorso.”
“Non è insensato, invece…” gli diede corda Clary, “Se Alec è Rocky, tu sei la versione maschile di Adriana.”
“A volte dimentico che siete migliori amici. E che deve esserci un motivo, se lo siete!”
Simon e Clary si batterono il cinque, orgogliosi.
“Non siate fieri di voi stessi! Non c’è niente per cui esserlo!”
Isabelle ridacchiò e si sistemò i capelli di lato, tornando a guardare i suoi fratelli che avevano ricominciato a giocare. Vide Jace segnare di nuovo e Alec dargli una pacca sulla schiena. C’era sempre stata sana competitività tra loro (chi arrivava primo in una corsa, chi riusciva a mangiare più peperoncini senza provare l’impulso di vomitare, cose del genere), ma ogni volta che dovevano sostenersi, Isabelle si stupiva di quanto potesse essere profondo il supporto che  si davano.
I due continuarono a giocare, Jace attaccava e Alec difendeva, e più Alec si impegnava nella difesa, più Jace migliorava nell’attacco. Si muovevano in sintonia, due ingranaggi che si muovono all’interno di una macchina perfetta. Isabelle si riempiva di orgoglio ogni volta che li guardava.
Il gruppo rimase in silenzio per qualche istante, concentrati a guardare i due giocatori che correvano avanti e indietro da un canestro all’altro, segnando punti e difendendo la propria parte di campo. Passò un’altra ora, circa, prima che i ragazzi decisero di fermare definitivamente il gioco.
“Basta,” sentenziò Alec, con il fiatone, “Se faccio un altro passo muoio.”
Jace rise, il suono intervallato da colpi di tosse funzionali a regolare il respiro, “Sono d’accordo. Altrimenti domani mi farà male ovunque e farò schifo.”
“Non farai schifo!”
Jace sorrise, rincuorato, e porse una mano ad Alec per tirare a sé il fratello. Si diedero delle pacche sulla schiena e poi si diressero dal gruppo. 
“Siete stati bravissimi.” Disse Isabelle, gli occhi antracite che brillavano di orgoglio.
Jace e Alec l’abbracciarono simultaneamente e Izzy, nonostante i tacchi vertiginosi, sparì inglobata dall’abbraccio di due giganti.
“Puzzate di carogna!” si lamentò la ragazza, scatenando le risate di tutti. Allora Jace cominciò ad alzare le braccia e ad avvicinarsi al viso di Iz, che inorridita si nascose dietro a Simon. “Stai lontano da me!”
Alec rise, rivedendo in quel comportamento i due bambini che si ricorrevano per casa, con la differenza che, da piccola, Izzy si nascondeva dietro di lui quando ne aveva abbastanza dei dispetti di Jace. Non erano cambiati poi tanto, stava pensando Alec, che venne distratto dai suoi pensieri da un pizzico su un fianco. Si voltò, incrociando la figura di Magnus, in piedi sugli spalti dietro di lui. Per la prima volta da quando si erano conosciuti, Alec dovette alzare la testa per guardarlo.
“Ehi,” gli disse e, come Magnus gli sorrise, si avvicinò di più a lui, allontanandosi dal gruppo, “Sei alto,”
Magnus rise: “Io sono sempre alto. Vicino a te sembro basso, ma perché tu sei una specie di montagna.” Chinò il viso verso il basso e Alec, d’istinto, sollevò il proprio. “Sei bravo, sai?” Magnus gli chiuse il viso tra le mani e rimase ad osservarlo: la fronte imperlata di sudore, le guance arrossate per le corse, i capelli arruffati, sparati in ogni direzione senza un minimo senso logico. Era bellissimo anche così, sudato e accaldato. Il che fece passare nella testa di Magnus immagini che erano tutto tranne che pure e caste, costringendolo a schiarirsi la gola per darsi un contegno – che, grazie ad Alexander, era stato minato più volte in quelle due ore e mezzo che in tutta la sua vita.
“Non sapevo ti piacesse il basket.”
“Non mi piace, infatti. Mi piaci tu in calzoncini corti, è diverso.”
Alec rise e portò le sue mani sui fianchi di Magnus. Quest’ultimo dunque, si chinò e lo baciò.
“Puzzo,” si giustificò il minore.
“Non mi interessa,” disse l’altro, tirandolo più a sé e baciandolo di nuovo. Il corpo di Alec emanava il calore tipico degli sforzi fisici, quella specie di aura bollente che viene percepita intensamente, come si percepisce il calore del fuoco acceso nel camino. Era diverso dalla solita sensazione calda che il suo corpo emanava nella normalità, ma non per questo doveva essere sgradevole, anzi. Alec percepì il corpo di Magnus che aderiva sempre di più al proprio e spostò le mani sulla sua schiena per abbracciarlo.
“Mi sei mancato, sai?” disse Magnus, i pollici ad accarezzare le guance di Alec. Vide il rossore su di esse mutare: da rosso delicato diventarono di un rosso scarlatto.
“Ero qui.”
“Lo so, ma mi sei mancato comunque.” Incurante del sudore, Magnus gli baciò la fronte, “Però è stato bello guardarti fare qualcosa che ti piace. Un giorno mi piacerebbe vederti boxare.”
“Va bene, basta che non ti aspetti chissà che cosa, non è che sono Rocky, o simili…”
“Ti prego non nominare quell’individuo. Stephen ritiene che io sia la tua Adriana!”
Alec trattenne una risata, che uscì come un verso mozzato dal naso: “Simon deve smetterla di fare paragoni assurdi!”
“È quello che gli ho detto anche io!”
Alec strofinò il proprio naso contro il mento di Magnus e quest’ultimo gli sorrise. “Sembri un cucciolo.”
“Non è vero.”
“Sì, invece. Sei adorabile.” Magnus gli diede un bacio leggero, “Sei adorabile e sei mio.” Disse con una spontaneità che fece arrossire Alec fino all’attaccatura dei capelli. Boccheggiò con il cuore che scalpitava furioso, premendo contro la cassa toracica come se avesse voluto romperla.
“C-cosa hai detto?” balbettò, maledicendosi di essere un tale imbranato. Avrebbe potuto uscirsene con una frase ad effetto, qualcosa di sagace che avrebbe potuto donare qualcosa di speciale all’atmosfera creatasi e invece aveva rovinato tutto. Stupido idiota.
Magnus gli accarezzò il viso arrossato: “Che sei mio, Alexander. E te lo ripeterò all’infinito, se è quello che vuoi.”
Alec sostenne il suo sguardo, combattendo con la voglia di abbassarlo perché si sentiva incapace di reggere un’emozione così intensa. Ma una parte di lui non voleva perdersi niente di quel momento. Voleva che tutto, di quell’attimo creatosi senza premeditazione, rimanesse impresso a caldo nel suo cervello, come un marchio.  
“Io sono tuo,” disse, appoggiando la mano sul polso di Magnus e cominciando ad accarezzarlo con il pollice, “E tu sei mio.”
E non balbettò. Non l’avrebbe fatto nemmeno volendo perché le parole di Magnus avevano spazzato via tutte le sue insicurezze. Sapeva benissimo che si appartenevano, che erano nati per stare insieme, per essere l’uno parte dell’essenza vitale dell’altro. E non c’era più spazio per i dubbi, dopo una confessione simile.
“Sì, lo sono dal momento in cui hai sbattuto contro il mio armadietto.”
Alec gli sorrise e lo abbracciò. Forse l’unico modo per riuscire a spiegare tutto ciò che provava per quel ragazzo era definirlo amore.
Alec si era innamorato.
Ed era una sensazione bellissima.

*

Il giorno seguente, Jace avrebbe giocato la sua prima partita da capitano. Per questo aveva chiesto ad Alec di andare con lui al pre-partita, che per Alec consisteva nel starsene sugli spalti di cemento della palestra della scuola a guardare il riscaldamento dei giocatori, mentre Starkweather, l’allenatore della squadra, faceva un ripasso degli schemi ad alta voce. Jace ogni tanto gli lanciava delle occhiate, come se volesse essere rassicurato delle sue capacità, e Alec si limitava ad un delicato cenno del capo, che avrebbe percepito solo Jace.
Suo fratello era nervoso e Alec lo capiva tremendamente. A lui capitava lo stesso quando doveva affrontare le gare di tiro con l’arco. Mesi di preparazione venivano spazzati via dall’ansia da prestazione, da quella vocina subdola che abitava in un angolo remoto del cervello e cominciava a demolire ogni tipo di sicurezza, suggerendo ogni possibile scenario apocalittico. Mille volte Alec aveva immaginato di infilzare qualcuno con una freccia, o scordarsi come si tiene l’arco, o peggio ancora perdere la vista. Erano tutte ipotesi assurde che gli venivano inculcate dal panico. Probabilmente anche per Jace era così, adesso, anche se non lo dava a vedere.
“Ciao, Alec.”
Il ragazzo si voltò in direzione della voce conosciuta che l’aveva appena salutato, trovandosi ad incrociare Raj, suo compagno di classe che faceva boxe con lui. Il coach Garroway li aveva fatti anche allenare insieme, una volta.
“Ehi, Raj!” lo salutò.
“Sei venuto presto…”
“Già, sono arrivato con Jace.”
Raj annuì, i suoi occhi neri scrutavano Alec in un modo che il ragazzo non seppe interpretare, come se stesse per chiedergli qualcosa cercando di usare un’altra lingua, che però nessuno dei due conosceva.
“Si aspettano grandi cose da lui,” ruppe il silenzio, spostando lo sguardo da Alec al campo.
“Sì… almeno credo.” Alec alzò le spalle, guardando il campo e cercando Jace, che stava saltellando sul posto. Quando si voltò di nuovo verso Raj, il ragazzo lo stava già guardando. “E tu che ci fai qui prima dell’inizio della partita?”   
“Addetto alla sicurezza.”
“Esiste una cosa del genere?”
Raj sbuffò una risata: “Ehi, non giudicare. Finché mi promettono crediti extra, a me va bene tutto!”
Alec alzò le mani in segno di resa, “Non giudico, lo trovo solo un po’…”
“…Ridicolo?”
Il moro arricciò il naso, “Strano, più che altro… non che succeda chissà cosa ad una partita tra squadre liceali.”
“Lo so. Valle a capire, le decisioni della Herondale.”
Alec stava per rispondere quando Jace lo chiamò dal campo, facendogli cenno con la mano di guardare verso la porta, dove il moro riconobbe Magnus, insieme ad Izzy e Catarina. Il suo cuore sussultò e immediatamente scattò in piedi, sventolando una mano per farsi notare dai tre, che come lo videro attraversarono tutta la palestra per raggiungerlo. Alec non si stupì più di tanto quando, al passaggio di Isabelle davanti alla squadra, i giocatori smisero simultaneamente di fare ciò che stavano facendo per non perdersi nemmeno un movimento della giovane Lightwood. Meliorn azzardò anche ad accennare un fischio, che venne smorzato sul nascere da un pugno su una spalla ben piazzato di Jace, “Quella è mia sorella, idiota!” – Ah, se gli sguardi avessero potuto uccidere, Meliorn sarebbe ridotto in cenere, in questo momento.
Izzy raggiunse Alec sugli spalti, seguita da Catarina e Magnus, impegnati in una conversazione sulla festa.
“Allora…” cominciò Raj e Alec portò nuovamente la sua attenzione su di lui, “Io vado, ci vediamo, Alec.”
Il moro gli sorrise, cordiale, “Ci vediamo, Raj.”
Il ragazzo sostenne il suo sguardo ancora per un po’ e poi si allontanò dagli spalti per dirigersi alle porte con le maniglie antipanico all’entrata della palestra, piazzandosi in prossimità di esse con tutto l’intento di stare lì per tutta la durata della partita.
“Non me li presenti, i tuoi amici?” Magnus si sedette al sua fianco, approfittando del fatto che nessuno avrebbe ascoltato la loro conversazione, dal momento che Catarina e Izzy avevano cominciato a parlare dei loro costumi di Halloween.
“Temo di non capire, Magnus.”
Il maggiore accavallò le gambe, fasciate dentro ad un paio di jeans verde smeraldo, così aderenti che Alec cominciava a dubitare il sangue scorresse correttamente, e indicò con un discreto cenno del capo la porta, in direzione di Raj.
“Raj?”
“Non ho idea di come si chiami, tesoro. È amico tuo, non mio.”
Magnus sembrava… geloso. Alec strinse le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso compiaciuto. Nessuno era mai stato geloso di lui e, finché rimaneva una gelosia innocua, poteva dire che era una sensazione abbasta piacevole.
“Sei geloso?”
“Di quella specie di testosterone ambulante? Fammi il piacere.”
“Eppure sei sulla difensiva…”
“Da quando sei un esperto del linguaggio del corpo?”
“Perché non ammetti semplicemente che sei geloso?”
“Devo esserlo?”
Alec gli sorrise dolcemente, “Andiamo, Magnus, smettila di rispondere alle mie domande con altra domande. Io e Raj facciamo boxe insieme e abbiamo qualche corso in comune, tutto qui. Siamo conoscenti.”
“Lui non ti guarda come si guardano i conoscenti, però.”
“Magnus, Raj ha la ragazza.”
“Non vuol dire che non possa trovarti di suo gradimento.”
Alec parve pensarci su: trovava improbabile che Raj provasse davvero un’attrazione per lui, sapeva che il fatto che avesse una ragazza non significava poi molto – lui stesso alle medie si era inventato una certa Jessica Hawkblue per non fare la figura di quello che non aveva mai baciato nessuno – ma non aveva mai colto in Raj comportamenti che potessero far pensare che fosse gay, o che fosse interessato a lui. Però, se anche Magnus avesse avuto ragione, lui non poteva farci niente: il suo cuore era già impegnato.
“Se anche così fosse, dovrà accettare il fatto che ho già qualcuno.” Alec gli sfiorò una mano fugacemente, “Qualcuno che mi piace tantissimo.”
“Dalla luna e ritorno?”
Alec rise: “Anche di più.”
Magnus avrebbe tanto voluto accarezzarlo, ma si limitò a dirgli: “Per me vale lo stesso.”
La voce di Isabelle che chiamava Clary e Simon per dirgli di avvicinarsi, poi, portò entrambi di nuovo alla realtà.
E mentre Clary si sistemava vicino agli amici, costringendo il povero Simon ad aiutarla a sollevare uno striscione più lungo di una balena, disegnato appositamente dalla rossa in occasione della prima partita del suo ragazzo, il fischio di inizio diede il via a quella che sarebbe stata la prima vittoria dei Nephilim.

*

Il famoso venerdì sera arrivò relativamente in fretta. Alec, mentre camminava verso l’indirizzo fornitogli da Magnus, si trovò a strofinare le mani una contro l’altra e non certo per il freddo. Era in ansia. Sarebbe stato solo con Magnus e una bambina che non conosceva e che, per quanto ne poteva sapere lui, avrebbe potuto odiarlo e rendergli quelle tre ore un inferno. Ad Alec piacevano i bambini e pensava anche di saperci fare abbastanza – con Max era stato facile, ma forse perché erano fratelli – solo che era terrorizzato all’idea di fare fiasco.
Inspirò profondamente ed espirò, avviandosi alla porta della casa subito vicina a quella di Magnus, molto simile alla sua, grande nello stesso modo e dalla struttura moderna. Si avviò alla porta e una volta raggiunta, rimase a fissarla per cinque minuti in attesa di trovare il modo giusto per bussare, dandosi poi dell’imbecille perché non esistevano modi giusti o sbagliati di bussare, ne esisteva solo uno, quindi tanto valeva darsi una mossa.
Bussò.
Magnus gli aprì immediatamente e Alec, come sempre, rimase senza fiato non appena i loro sguardi si incrociarono. Era bellissimo – e a questo, Alec ormai l’aveva appurato, non ci avrebbe mai fatto l’abitudine. I suoi occhi erano decorati con due ali di eyeliner nere sovrastate dal glitter azzurro come il cielo, lo stesso colore della sua camicia di raso, abbinata ad un paio di pantaloni bianchi.
“Ciao, stellina.”
Alec gli sorrise, “Ciao.”
“Avanti, entra.”
Magnus si scostò per farlo entrare e come Alec mise piede in quella casa, una bambina dalla pelle scura, le treccine e un vestitino giallo gli andò in contro, guardandolo con gli occhi color nocciola grandi di curiosità.
“Tu sei l’amico di Magnus?”
Il ragazzo annuì, “Sì, sono Alec,” si chinò all’altezza della bambina per porgerle la mano, che la piccola strinse.
“Io sono Madzie.” La piccola si avvicinò all’orecchio di Alec, come se volesse dirgli un segreto in confidenza, “Ti piacciono i biscotti?”
Alec sorrise, quella bambina già gli stava simpatica: “Sì, e a te?”
“Tantissimo! Li sai fare? Io e Magnus stavamo per cucinarli!”
Alec si voltò verso Magnus, “Non sapevo che Magnus sapesse cucinare…”
“Solo i biscotti.”
“Non devi dire le bugie, Magnus,” lo rimproverò la bambina, che guardando Alec aggiunse: “Sa fare anche le spremute. E i pancakes!” la bimba si avviò verso Magnus prendendolo per mano e poi, una volta afferrata anche la mano di Alec, si diresse in cucina, “Oh, e anche la cioccolata calda! Vero, Magnus?”
L’interessato rise: “Certo, sweet pea.”
“Come vedi, è un bravo cuoco.”
Alec rise dal naso, “Non ne dubito.”
Madzie li trascinò in cucina, una stanza abbastanza grande, che riportò alla mente di Alec il suo primo bacio. Sentì le guance accaldarsi a quel pensiero e nello stesso istante in cui la sua mente veniva invasa dalle immagini di quel piacevole ricordo, la bocca di Magnus gli sfiorò il lobo destro e Alec rabbrividì, “Smettila.” Sussurrò per non farsi sentire da Madzie che, in testa al gruppo, ancora teneva entrambi per mano, formando una piccola piramide con lei al vertice.
“A cosa stai pensando?” Magnus non si allontanò e afferrò il lobo tra labbra.
“Te lo dico se ti allontani,” rantolò Alec, in preda ad un principio di soffocamento provocato dal ragazzo al suo fianco.
Magnus ciondolò la testa in un segno di disapprovazione, ma si allontanò.
“Al nostro primo bacio,” sussurrò Alec, pianissimo, le guance rosse come due mele.
Magnus gli sorrise intenerito, “Oh, tesoro, è una cosa dolcissima.” E si guardò intorno, ricordando piacevolmente come erano andate tra di loro le cose l’ultima volta che si erano trovati in una cucina.
“Li sai fare i biscotti, Alec?”
Entrambi i ragazzi sussultarono quando la bambina lasciò le loro mani e si voltò a guardarli. Alec sostenne lo sguardo carico di aspettativa di Madzie: “Sì, posso aiutarti a farli?”
Madzie batté le manine, euforica: “Certo! Cosa serve per fare i biscotti? Io li mangio e basta, di solito.”
Alec ridacchiò, trovando nella spontaneità di Madzie, che doveva avere più o meno cinque anni, la stessa di Max. “Di solito uova, zucchero, farina…”
“Polvere di unicorno,” aggiunse Magnus e Madzie lo guardò con gli occhi grandi e la bocca spalancata.
“Davvero?”
“Certo. Vengono più buoni.”
“E dove la troviamo?”
“Non si trova,” intervenne Alec, guadagnandosi un’occhiata complice di Magnus, “Si ottiene con un incantesimo.”
“E voi sapete farlo?” squittì la bambina.
“Magnus sì, lui è magico, sai?”
Madzie spostava lo sguardo da uno all’altro, sempre più interessata a quello che i due ragazzi le stavano dicendo. I suoi occhi nocciola saltavano da Alec e Magnus, guardando entrambi con aspettativa e curiosità. I due ragazzi si chinarono alla sua altezza e Alec continuò: “Però è un segreto. Nessuno sa della sua magia, solo io e te.”
“Anche io voglio essere magica.”
“C’è solo un modo per scoprirlo,” disse Magnus, “Devi pronunciare l’incantesimo, se la polvere appare sei magica, altrimenti no.”
“Alec è magico?”
“No, Alec no, purtroppo.”
Madzie parve rattristarsi, come se l’assenza di magia in Alec fosse una specie di disgrazia, “Però è carino,” disse, come per cercare di risollevare gli animi, “E simpatico.” Si rivolse direttamente all’interessato: “Se non avessi già intenzione di sposare Magnus, da grande, sposerei te.”
Alec rise di cuore, trovando Madzie più adorabile di quanto si sarebbe mai immaginato.
“Vorrà dire che porterò i vostri anelli, ti va?”
Madzie annuì con convinzione.
“Allora, lo vuoi fare l’incantesimo?”
“Sicuro!”
“Prego, signor Bane, tocca a lei.” disse Alec, facendo cenno a Magnus di continuare. L’orientale gli lanciò un’occhiata divertita e poi si rivolse a Madzie: “Devi chiudere gli occhi e contare fino a tre, pronta?”
“Prontissima!” Madzie seguì le istruzioni, serrando gli occhi.
“Uno,” disse Magnus, facendo cenno ad Alec di raggiungere la dispensa. Il ragazzo l’aprì cercando di fare il minimo rumore possibile, “Due,” continuò Magnus, mentre indicava il secondo scompartimento, dove Alec trovò un preparato per la pasta di zucchero colorata. La afferrò e la porse all’altro, che ancora era accucciato all’altezza della bambina e che nascose la busta dietro alla schiena, “Tre!” esclamò e Madzie aprì gli occhi.
“Non c’è niente, qui.” Disse con delusione, “Vuol dire che non sono magica?”
“Assolutamente no, sweet pea. L’incantesimo non è ancora finito.” Spiegò Magnus con pazienza. “Forza, adesso devi chiudere nuovamente chiudere gli occhi e porgere le mani in avanti.”
La piccola obbedì e rimase in attesa: “E adesso?” domandò, impaziente.
“Devi dire la parola magica: accio unicorno!”
Alec premette le labbra all’interno della bocca per trattenere una risata divertita. La verità era che vedere Magnus alle prese con Madzie era adorabile oltre ogni limite sopportabile: nel suo sangue stava cominciando a scorrere una dose eccessiva di dolcezza, rischiando l’iperglicemia, mentre nel suo cervello si formavano idee che vedevano entrambi in un possibile futuro alle prese con un bambino, il loro bambino. Arrossì, al pensiero. Era troppo presto per fantasticare su cose del genere, erano ancora decisamente troppo giovani e si frequentavano da troppo poco, ma Alec non poteva fare a meno di pensare che Magnus sarebbe stato un ottimo papà.
Non riuscì più a trattenere quel sorriso che aveva cercato di celare, mentre i suoi occhi erano fissi su Magnus, guardandolo come se fosse la cosa più bella creata dall’universo. E per Alec, lo era davvero.
“Accio unicorno!” esclamò la bimba con convinzione, mentre Magnus le metteva tra le mani la scatola del preparato per la pasta di zucchero.
“Adesso apri gli occhi!”
Madzie obbedì e aprì la bocca in una O perfetta, lo stupore che le faceva luccicare gli occhi: “Sono magica!” cominciò a saltellare felice per la stanza, stringendo al petto la scatola come se fosse il suo tesoro più prezioso.
Alec appoggiò una mano tra le scapole di Magnus, mentre insieme assistevano alla scoordinata danza di Madzie: “Sei bravo, lo sai?”
“A fare il mago?”
Alec rise dal naso, “A fare il baby-sitter.” Gli lasciò un fugace bacio sulla guancia.
“Anche tu.”
“Ho passato tanto tempo con Max, quando…” deglutì, un magone doloroso che ostruiva la sua gola, “Quando era più piccolo.”
Magnus notò quel cambiamento nella voce del ragazzo e lo guardò con lo sguardo interrogativo.
“È una storia lunga e non così piacevole. Te la racconterò, ma non stasera.”
“Certo, fagiolino, quando vorrai.”
Alec gli sorrise e Magnus gli passò un braccio dietro alla schiena per stringerlo a sé.
“Magnus!” chiamò Madzie con il fiatone per via della sua danza. I due sciolsero velocemente l’abbraccio.
“Dimmi tutto, sweet pea.”
“Pensavo che sono un po’ stanca per fare i biscotti… e non potrei mangiarli stasera, vero?”
“Giusto, perché devono cuocere e raffreddarsi.”
“Ecco. Però possiamo fare la cioccolata calda, quella è più veloce!”  
Magnus le sorrise con dolcezza, “Certo, sweet pea. Facciamo la cioccolata calda.”
Madzie batté le manine, felice e si sistemò al tavolo della cucina, le gambe che ciondolavano dalla sedia.
Magnus si diresse verso la dispensa afferrando il preparato per la cioccolata e il pentolino dove l’avrebbe fatta cuocere.
“Alexander, puoi prendere il latte in frigo?”
Alec annuì e si diresse verso il frigo, dove prese una busta di latte che porse a Magnus, il quale fece particolare attenzione a sfiorare le sue dita, sorridendogli complice a conferma che non era un gesto casuale.
“Vuoi una mano?”
“No, ti ringrazio.”
“Posso guardare da vicino?” si intromise Madzie, ancora seduta al tavolo.
“Certo, ma solo se Alec ti tiene in braccio. Non voglio che stai troppo vicina al fuoco.”
“Il fuoco è brutto,” confermò Madzie, scendendo dal tavolo per dirigersi verso Alec, che senza esitazione alcuna la sollevò per tenerla salda a se, evitando di farla stare troppo vicino al pentolino caldo.
Magnus fissò entrambi per un istante, i lineamenti del viso addolciti da ciò che i suoi occhi stavano guardando: Alec che teneva in braccio Madzie e lei che gli aveva passato un braccino intorno al collo come se fosse la cosa più naturale del mondo, qualcosa che faceva spesso. Madzie era una bambina che tendenzialmente non si fidava molto, di nessuno, ma con Alec si comportava come se lo conoscesse da sempre. Le veniva facile fidarsi di lui perché probabilmente vedeva la stessa bontà che riusciva a percepire Magnus.
“Magnus?” la voce di Madzie lo riportò alla realtà.
“Giusto, la cioccolata!” si sbottonò i polsini della camicia e arrotolò le maniche fino ai gomiti, provocando un mezzo attacco cardiaco ad Alec, che aveva sempre trovato quel gesto di suo gradimento, ma vederlo fare da Magnus era qualcosa che andava reputato illegale. I suoi avambracci erano illegali. Stava studiando particolarmente la loro muscolatura definita e il colore ambrato della pelle di Magnus, quando questi si schiarì la gola per attirare la sua attenzione.
“S-sì, sono tornato!”
“Tornato da dove?” domandò ingenuamente Madzie, “Mica ci siamo allontanati!”
Magnus ridacchiò, “Quando sarai più grande capirai, sweet pea.”
Madzie scrollò le spalle: “D’accordo.”
Magnus le sorrise e cominciò a far girare il latte e la polvere di cioccolata con un cucchiaio di legno fino a che non cominciò a bollire e ad addensarsi.
“Guarda, Madzie,” le disse Alec, “La cioccolata è quasi pronta.”
“Siii!” esclamò euforica, “Prendi le tazze, Alec, le tazze!”
Alec rise, rallegrato dall’entusiasmo della piccola e con lei in braccio si fece guidare da Magnus su dove prendere le tazze. Due per loro e quella viola con una streghetta stampata sopra per Madzie, che rimase a guardare Magnus versare la cioccolata al loro interno come se stesse osservando un processo particolarmente interessante e affascinante.
“Brucia, sweet pea, fai attenzione.” L’ammonì Magnus, non appena appoggiò la tazza al tavolo, dove Alec l’aveva fatta sedere qualche istante prima.
La bambina annuì e circondò la tazza con le manine, trovando particolarmente piacevole il calore, sebbene sapesse che era ancora troppo presto per berne il contenuto.
Magnus fece cenno ad Alec di sedersi alla destra di Madzie, mentre lui si sedette alla sua sinistra, in questo modo la bimba stava al centro, a capotavola, mentre loro due stavano uno di fronte all’altro.
“Quando posso bere, Magnus?”
“Quando si sarà raffreddata un pochino.”
“Va bene, intanto mi racconti una favola?”
“Ma certo, sweet pea.”
Magnus si lanciò nell’appassionato racconto di una ragazza che voleva ardentemente aprire un ristorante tutto suo, ma incontrò una rospo, un giorno, che ritenendosi un principe vittima di un bruttissimo incantesimo, le chiese di baciarla trasformandola a sua volta in una rana. E più Magnus andava avanti con la storia, gesticolando e dando intonazioni diverse alle parole per creare l’effetto giusto, più Madzie si appassionava. E più Alec assisteva a questo spettacolo, più si rendeva conto che era impossibile esprimere a parole quanto Magnus fosse speciale.



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Ciao a tutti! 
Come prima cosa voglio scusarmi per non aver inserito la festa di Halloween come promesso, ma già così veniva un capitolo di 20 pagine Word e temevo che inserendoci anche la festa sarebbe venuto chilometrico e, di conseguenza, troppo pesante da leggere! (In più, l'ho finito di scrivere stasera, quindi avevo paura che sarebbe venuta tirata via e non volevo rischiare - se mi sono sfuggiti degli errori di ortografia, chiedo scusa!) 
La dose di fluff presente in questo capitolo tocca livelli glicemici altissimi, ma spero comunque vi sia piaciuto lo stesso! 
La storia dell'adozione di Jace me la sono completamente inventata, tagliando volutamente la parte che lo vede un Herondale perché altrimenti le cose si sarebbero troppo complicate, quindi ho usato Wayland come cognome iniziale, cambiato poi in Lightwood. 
C'è un accenno ad un evento specifico nella vita di Max, che verrà fuori più tardi perché ho in mente di inserirla in un momento particolare della storia, quindi non sono pazza, c'è un motivo per cui ho inserito la battuta di Alec verso la fine, abbiate fiducia (o magari no, a voi la scelta XD).
Come sempre, vorrei ringraziare chiunque abbia messo la storia tra i preferiti/seguiti e chiunque spenda del tempo per recensire, è davvero importante per me sapere che la apprezzate! Vi abbraccio tutti tantissimo! <3 
Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va, e se Madzie e i Malec in versione baby-sitter sono stati di vostro gradimento, alla prossima! :D 

 
   
 
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