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Autore: iamnotgoodwithnames    01/11/2017    1 recensioni
“...io me ne sarei tornato in Ucraina”
È una battuta, Bob ride dall’altro capo del telefono, ma per Mickey è una soluzione, una dannatissima follia, comunque migliore di vagare per il Messico e poi più lontano fugge e meno dovrà preoccuparsi della polizia che, sicuramente, starà continuando a cercarlo
“da chi?”
[...]
Tre anni dopo gli avvenimenti della settima stagione le vite dei Gallagher sono andate avanti, Carl ancora interessato ad entrare in polizia, Frank distrutto dal lutto per la perdita di Monica, Lip intenzionato a non diventare come il padre, Fiona completamente assorbita dal lavoro, Debbie alle prese con la crescita della figlia, Liam curioso bambino impegnato negli studi ed Ian, intento a riprendere in mano il proprio futuro e dimenticare, per sempre, definitivamente, quel ragazzo del South Side che ha visto svanire oltre il confine messicano. Ma le loro non sono le uniche vite ad essere cambiate, come i Gallagher anche i Milkcovich sono andati avanti : Mandy lontana da Chicago, Iggy ancora immischiato nella criminalità da ghetto e Mickey, fuggito lontano; così lontano da scoprire una vita nuova, forse persino migliore di quella a cui si era rassegnato.
Un lato diverso, nuovi Milkovich all'orizzonte; siete pronti a conoscerli?
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ian Gallagher, Mickey Milkovich, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Yevgeny Milkovich
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Chapter Four : 
Can You Dream At All?

Indianapolis, Indiana, USA 

La sottile seta dell’elegante vestito le sfiora le spalle, ricadendole delicata lungo i fianchi, una seconda pelle fatta di raffinata stoffa violacea, fili biondi formano onde mosse che s’infrangono tra la pelliccia perlacea che ne copre le nude scapole, discendendo morbida sino a metà vita, cerca le chiavi nella pochette argentea che stringe tra le mani; un’altra giornata lavorativa conclusa, sospira aprendo la porta di casa.
Accende la luce, sfilandosi le scomode decolté perla, gettandole ai piedi del piccolo mobile in legno su cui posa le chiavi, si richiude la porta alle spalle, sfilandosi la pelliccia, lasciandola giacere al divano, inspira aggirandosi nel salaotto, i lembi del lungo vestito striscino al suolo, apre la piccola credenza degli alcolici, afferrando una bottiglia di pregiato scotch, versandosene due dita in un ampio bicchiere; rigirandoselo tra le mani.
Scivola poi lenta al divano, socchiudendo gli occhi, la testa minaccia d’implodere, ha passato le ultime tre ore ad ascoltare noiosissimi discorsi, farciti di banali luoghi comuni e finti sorrisi, sull’importanza della beneficienza, magistralmente espressi da ricchi disinteressati mascherati da filantropi; la superficialità d’una classe sociale che non ha mai vissuto la povertà.
Inspira poggiando le labbra al bicchiere, una mezza luna perlacea si forma al bordo lasciando il segno del delicato rossetto, ingolla lo scotch in un singolo sorso poggiando poi il vetro trasparente al basso tavolo di fronte al divano, afferrando le sigarette lasciate lì dal pomeriggio, accendendosene una.

Routine, abitudinaria routine, sorridere e sfilare, sorridere e fingere, è diventata una bambola da mostrare, un accessorio per uomini così ricchi da potersi comprare qualsiasi cosa, inclusa la compagnia di una donna trofeo; è questo che è diventata la sua vita.
Nei primi mesi da escort le sembrava tutto così semplice, persino gradevole, veniva pagata per presenziare al fianco di uomini facoltosi, non doveva neppure preoccuparsi del trasporto o del vestiario, pagavano tutto quegli uomini e non era neppure costretta a farvi sesso, ma se capitava allora poteva chiedere un’aggiunta al pagamento ed i soldi, tutti quei soldi che guadagnava, le permettevano di comprare cose che non sarebbe mai riuscita neppure ad immaginare di poter avere; le sembrava il lavoro perfetto.
Poi, lentamente, la monotonia, la noia, la consapevolezza, i racconti delle colleghe, i clienti arroganti, le sue vecchie coinquiline perennemente tristi, le esperienze vissute la portarono ad odiare la vita che si era costruita; ma che altro avrebbe potuto fare, tornare a servire caffè in qualche squallido locale per pochi spiccioli?

No, Mandy non aveva alcuna intenzione di rinunciare ai dollari che le gonfiavano il portafoglio, al conto in banca che si era potuta permettere di aprire, al libretto d’assegni che aveva imparato ad usare, alla sicurezza economica che non aveva mai avuto.
Restò, ingoiò l’amaro boccone della consapevolezza e restò lì, nell’Indiana, a farsi comprare come una bambola in un catalogo.
E cominciò ad essere così brava in quel lavoro, così richiesta, che i guadagni aumentarono sempre di più sino a permetterle di trasferirsi ad Indianapolis, in un quartiere agiato, in un appartamento confortevole al penultimo piano d’un grattacielo abitato da imprenditori, avvocati e dottori, in una zona tranquilla animata solo dal traffico cittadino.

Si abituò, semplicemente, si disse che il denaro era più importante della felicità e che, infondo, poteva ancora essere serena, le bastava sopportare; era cresciuta nella difficile arte della sopravvivenza, poteva affrontare anche questo.
Infondo la vita non era poi così male, era lontana dal South Side, da quello stronzo di suo padre, dalla criminalità del ghetto, dalla violenza e dai costanti festeggiamenti per qualche Milkovich uscito di galera; viveva nella stabilità che non aveva mai avuto.

A tagliare i rapporti con il passato, però, non ci riuscì, non del tutto, a lasciare Iggy fuori dalla sua vita non se la sentì e, per quanto difficile fosse, non riuscì neppure ad ignorare Mickey; andò persino a trovarlo in carcere una o due volte, poi non ce la fece più.
Vederlo lì, chiuso dietro un vetro, la barba incolta e i capelli sempre più lunghi, il volto consumato dalla tristezza che ne appannava le iridi, la faceva sentire così impotente, così inutile, e smise di fargli visita, ma continuò a chiamarlo; era più facile sentirlo se non ne vedeva i segni della stanchezza addosso. 
Provò ad essergli di conforto, come quando erano dei ragazzini abbandonati a loro stessi, provò a sostenerlo come meglio poteva, gli promise persino che quando sarebbe uscito l’avrebbe trovata lì, come ai tempi del riformatorio, ad attenderlo e Mickey la lasciò parlare, senza ascoltarla; Mandy lo capì quando ricevette quella dannatissima telefonata.

Suo fratello, quell’idiota di suo fratello, era evaso dal carcere, fuggito chissà dove, assieme ad un messicano affiliato ad una qualche gang latino americana; fu Iggy ad avvertirla, sperava che fosse andato da lei nell’Indiana.
Per giorni si disse che sarebbe andato tutto bene, che Mickey sapeva cosa faceva, che sarebbe riuscito a sopravvivere, ovunque fosse, e per giorni, mesi, attese una chiamata che mai arrivò.
Mickey era svanito, dissoltosi nel nulla, senza lasciare traccia.

L’odiò, ogni volta che accendeva la televisione, che ne leggeva le notizie in qualche giornale lasciato tra i sedili della metropolitana, l’odiò per giorni, per non aver rispettato quello che si erano detti, le promesse fatte, per essersene andato senza chiamarla, per averla abbandonata; fuggendo chissà dove lontano da lei.
L’odiò e l’aspettò odiandolo, aspettò una chiamata, un messaggio, un segno, qualsiasi cosa le facesse capire che Mickey stava bene, che ovunque fosse se la stava cavando, che non era andato via per sempre.
Ed aspettò, per giorni, mesi, aspettò inutilmente finché persino l’odio non scemò lentamente, la preoccupazione si nascoste dietro altri mille pensieri di banale routine e la quotidianità tornò ad occupare le giornate di Mandy.
Rimase, costante, quel pensiero, quella paura, quella sensazione di solitudine, di rabbia, restò tutta la confusione sopita in qualche angolo della mente; ma Mandy la ignorò, testardamente. 
Mickey se n’era andato, suo fratello era fuggito dal South Side, aveva scelto di lasciarsi la vita che aveva alle spalle, senza guardarsi indietro, e non l’avrebbe mai più rivisto; Mickey era un ricordo.

E Mandy, in quei tre lunghi anni, cercò di convincersi che, infondo, quello che suo fratello aveva fatto, la scelta che aveva intrapreso, non era diversa da quel che lei stessa fece tempo prima e si disse che, alla fine, era meglio così; lontano dal South Side si soffre meno.

Inspira Mandy, gettando la nuca all’indietro, poggiandola allo schienale del divano, fissando il bianco soffitto ed il lampadario che pende, socchiude gli occhi soffiando nubi di grigio fumo, per tre anni ha ignorato quel costante pensiero, per tre anni ha fatto quel che le è sempre riuscito meglio; vivere per lottare un altro giorno ancora e sopravvivere.
C’è riuscita, così fottutamente bene, per tre lunghissimi anni e poi, d’un tratto, all’improvviso, riemerso da lontani ricordi, quel pensiero è tornato a soffocarla, a farle mancare il respiro nei polmoni e stringerle lo stomaco in una morsa di malinconica mancanza; non può impedirsi d’incolparlo.

Chi gli ha dato il permesso, in una noiosissima mattinata invernale, di rompere la quotidianità e farle quella domanda; quell’unica domanda che non avrebbe mai dovuto porle nessuno, men che meno lui?
Chi ha dato il permesso ad Ian Gallagher di scriverle un messaggio confuso, dopo mesi di silenzio, e chiederle di lui, di Mickey?

Espira nicotina Mandy, muovendosi per inerzia, cercando il cellulare nella pochette argentea gettata all’angolo del divano, stringendolo tra le mani tremule, l’indice scivola incerto tra i cristalli liquidi


 
“Ehi Mands, come stai? È da un po’ che non ci si sente eh? Mi dispiace…scusa se sono stato uno stronzo, avrei voluto scriverti…ma non sapevo come o cosa dirti e…scusa”


Già, sospira Mandy, premendo il mozzicone consumato della sigaretta al posacenere, stronzo è l’aggettivo giusto, da quando si incontrarono l’ultima volta, il giorno dell’incidente con quel cliente dalle tendenze violente, non si sentirono più; per quanto Mandy provò a cercarlo, Ian non rispose mai a nessun messaggio

 
“è solo che…ho avuto così tanti pensieri, così tante cose per la testa che…mi dispiace e, so che non ne avrei alcun diritto, sarai incazzata con me e cazzo me lo merito, ma…Mandy io non ci riesco, devo saperlo…tu sai dov’è Mickey, vero? Sta bene? Ti prego, voglio solo saperlo…per favore…”


Piacerebbe saperlo anche a lei dove diamine è quello stronzo di suo fratello, ma la verità è che se n’è andato, così, semplicemente, senza dire nulla, senza lasciare tracce; è svanito nel nulla come la nube di fumo che si dissolve nell’aria salendo verso il soffitto.
E, in quei tre lunghissimi anni, è riuscita a farsene una ragione Mandy, a convivere con quella sgradevole sensazione d’abbandono, con quella costante paura di saperlo lontano, per sempre, chissà dove e chissà come, è riuscita a viverci, a seppellire ogni pensiero dietro quotidiana e banale routine finché non è arrivato quel massaggio; finché Ian non ha deciso di scoperchiare il vaso di Pandora e far riemergere con forza devastante ogni singola emozione.
Deglutisce a vuoto Mandy, scostandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio, accendendosi una seconda sigaretta, le dita tremano tra i cristalli liquidi

 

“che cazzo te ne frega Ian, non hai un fottuto fidanzato perfetto? E comunque non lo so dove cazzo è”


Soffia nicotina, versandosi altro scotch al bicchiere, gettando il cellulare al divano, cercando di ignorarne l’insistente vibrazione, a quanto pare il Gallagher deve aver atteso impazientemente la sua risposta, forse è dalla mattina che attende; Mandy ne ignora le sei chiamate, ma decide di leggere comunque quel secondo messaggio

 
“mi dispiace, sono stato uno stronzo, possiamo vederci? Mi piacerebbe incontrarci...e non sto più con quel coglione”


Mandy sbuffa una risata acerba, la sigaretta pende tra le labbra perlacee, cenere cade al suolo sfiorandole la stoffa del vestivo, picchietta le dita allo schermo, incerta, rigirandosi il bicchiere nella mano libera

 
“andrò a trovare Iggy, in settimana”

“potremmo incontrarci da qualche parte”

“ci metteremo d’accordo, sì”

“fantastico, grazie Mands”


Espira nicotina, poggiandosi il bicchiere alle labbra, ingollando il liquore, digitando un rapido

 
“fanculo, Gallagher”


Reclinando la nuca al soffitto, sorridendo alle bianche pareti, infondo, quel rosso dalla parlantina fluida e lo sguardo da alieno pazzo, come lo definiva Mickey, in quei tre dannati anni, un po’ le è mancato. 




South Side, Chicago, USA 

A Svetlana è rimasto soltanto lui, suo figlio, quel figlio inatteso, che è cresciuto ignorato dentro di lei e che, da quando è nato, le ha cambiato la vita.
Tutto quello che ha fatto, errori inclusi, lo ha fatto per lui; per Yevgeny, per assicurargli un futuro migliore, una vita migliore.

Si è vista costretta a firmare gli atti di cedimento della proprietà dell’Alibi a Kevin e lasciare la casa che a lungo hanno condiviso, cacciata come una ladra da Veronica, ha visto ogni vestito, ogni giocattolo, ogni singolo pezzo della vita che con fatica si era costruita, divenire cenere; impossibilitata a reagire, non ha potuto nulla contro la minaccia di espatrio.
A lungo si è chiesta se Veronica ne avrebbe avuto davvero il coraggio, di chiamare l’immigrazione e rispedirla in Russia, senza battere ciglio, condannando quel figlio che anche lei aveva cresciuto al medesimo destino.
Per mesi si è domandata se Yevgeny fosse mai stato amato da altri che non fossero lei, se avesse ricevuto da quei genitori temporanei lo stesso amore che donavano alle piccole gemelline o se, invece, fosse solo un accessorio, un'aggiunta, un prolungamento inseparabile di Svetlana che Kevin e Veronica si erano solo limitati ad accettare come inevitabile conseguenza.

Ha trascorso ore e giorni a spiegare, il più semplicemente pensabile, il meno dolorosamente possibile, al figlio per quale motivo si fossero trasferiti in uno squallido appartamento senza mobilio, freddo e silenzioso.
Ha trascorso ore e giorni a cercarne di asciugare lacrime d’innocenza dagli occhi azzurri del figlio, sperando segretamente che potesse restare tanto ingenuo in eterno e non scoprire mai la provenienza di quei pochi soldi che gli permisero, con lentezza estenuante, di comparsi mobili, cibo e vestiti.

Ci vollero due lunghi anni per rimettere insieme i pezzi di una vita crollata sotto il peso di inganni e menzogne, bugie che Svetlana credeva essere bianche, ripartita, nuovamente, dal principio si fece forza ripercorrendo i passi iniziali; la prostituzione le fece guadagnare i soldi necessari per rincominciare, un piccolo negozio d’alimentari le permise di liberarsi del peso di uomini vili e rozzi ed aprirsi un conto in banca, un secondo lavoro serale in un pub che puzzava di fumo e cibi dai sapori asiatici le dette la possibilità di istruire il figlio e, lentamente, ogni pezzo tornò al posto giusto.

Le ci sono voluti due anni, due lunghi anni, ma alla fine Svetlana è riuscita a riconquistarsi quel diritto ad una vita migliore che ha sempre preteso di avere.
Si è falsificata i documenti, risulta cittadina americana ora, si è accertata che il figlio abbia ancora la cittadinanza per diritto di nascita ed ha scoperto che, malgrado la fuga del padre, malgrado il divorzio, Yevgeny risultava ancora un Milkovich agli occhi dello stato dell’Illinois; Svetlana non era neppure certa che Mickey l’avesse mai riconosciuto, forse si sbagliava su di lui, infondo non era poi così male come le piaceva credere.

Forse, se fosse rimasto, se non l’avessero condannato ad otto anni di carcere e se non avesse commesso la follia d’evadere, Svetlana sarebbe tornata da lui, in quella casa che credeva di odiare, ma da cui, infondo, nessuno l’aveva mai costretta ad andarsene, sarebbe rimasta con lui che, malgrado sporadiche minacce, non sarebbe riuscito a cacciarla davvero; né a rispedirla nella fredda e gelida Russia da cui era fuggita. 

Perché Mickey Milkovich aveva difetti, solo difetti direbbe Svetlana se qualcuno glielo chiedesse, ma mentirebbe mascherando la consapevolezza che, dietro quel travestimento da ragazzo duro del South Side, si nascondeva un’anima ferita, fragile, in grado di provare incondizionato, sincero e leale amore.
Perché, infondo, Mickey Milkovich era soltanto un ragazzino che, come Svetlana, aveva compiuto ogni gesto, ogni azione, in nome della crudele sopravvivenza, un ragazzino che aveva fatto tutto quel che era nelle proprie forze per prendersi cura di quelle poche persone che amava e, forse, sarebbe potuto diventare un padre migliore di quanto esso stesso potesse mai pensare.
Perché, alla fine di tutto, Mickey Milkovich non era diverso da ciò che anche Svetlana è; una donna dell’est Europa nata per lottare contro la crudeltà di un mondo che ha sempre cercato di schiacciarla, che non le ha mai mostrato rispetto, cresciuta nella consapevolezza di dover combattere per la sopravvivenza, di dover reprimere la fragile pericolosità delle emozioni dietro fredda determinazione, aggrapparsi alla vita e non permettere a niente e nessuno di calpestarla. 


мать" (mamma)


Pigola Yevgeny, stropicciandosi gli occhi stanchi, d’un intenso azzurro oceano, simili a quelli del padre, poggiandosi allo stipite della porta, cercando Svetlana all’interno del piccolo salotto


ты не можешь спать?" (non riesci a dormire?)

нет, кошмар" (no, incubo)


Biascica storpiando alcune lettere tra i denti, stringendo il peluche a forma di gatto nocciola al gracile petto, Svetlana inspira, aggirando il divano che li divide, chinandosi alle ginocchia, carezzandone i capelli, un tempo biondo platino, che stanno lentamente cominciando a degradare in un castano chiaro


ты хочешь, чтобы я рассказал тебе сказку?" (vuoi che ti racconti una storia?)


Il piccolo annuisce, lasciandosi sollevare tra le braccia della madre, raggomitolandosi al petto


мать (mamma) – bisbiglia Yevgeny, prendendo posto sotto le coperte tempestate da disegni di supereroi – расскажи мне историю мыши Мика" (racconti la storia del topo Mick?)


Chiede timidamente, aggiustandosi al materasso, stringendo le ginocchia al ventre, Svetlana ne carezza, con una dolcezza che concede solamente a lui, la pallida guancia arrosata dall’improvviso risveglio, dischiudendo le labbra in un’impercettibile sorriso mesto


Когда-то была смелая мышь..." (c’era una volta un topolino coraggioso…)


Un giorno, si dice Svetlana scostando ciuffi sottili dalla fronte del figlio, gli dirà che quella storia, quella storia che gli piace tanto, che è la sua preferita, è la storia di quel padre che non ha potuto conoscere e che non potrà mai incontrare ma che, ne è certa Svetlana, così vuole credere, gli ha voluto e gli vorrà per sempre un po' bene.



 
Ringrazio i silenziosi lettori e tutti coloro che hanno aggiunto e stanno continuando ad aggiungere la storia tra le seguite/ricordate/preferite; grazie mille a tutti. 
Spero che il capitolo non risulti troppo OOC e che non vi abbia annoiato, ma la mia mente le vite di Mandy e Svetlana le ha immaginate così, come al solito critiche e consigli sono sempre ben accetti. 
Grazie ancora, 
alla prossima. 

 
   
 
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