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Frammenti di memoria - Tornare
Partirono per
Caewen una settimana più tardi, con al seguito i feriti
più gravi, caricati su un carro di fortuna trainato da un
mulo senza più padrone. Caillean ricordava a chi
apparteneva, nella sua memoria il ricordo di Eridun era inscindibile da
quello del muso punteggiato di bianco di quella bestia. Non si poteva
dire che fosse amico della sua famiglia, nessuno a Merite lo era, ma in
loro presenza era uno dei pochi che non si girava dall'altra parte o
che non si allontanava quando Caillean andava in paese per svolgere
qualche commissioni. Una volta, addirittura, le aveva offerto una mela
e le aveva augurato una buona giornata. Era una cordialità
scostante, accompagnata da un irrigidimento delle spalle e delle
labbra, ma Eridun era un vecchio burbero, scorbutico con tutti, anche
con chi gli mostrava gentilezza. Il suo mulo era come lui, un animale
riottoso, intrattabile, così tanto testardo che
più d'una volta lo aveva sentito lamentarsi, minacciandolo
di macellarlo se non si fosse dato una mossa.
Quella mattina però, quando lo attaccarono al
carro, Caillean non udì il solito raglio infastidito. Nel
silenzio di quella mattina soleggiata, il vecchio mulo si fece mettere
il morso senza alcuna protesta, mentre i soldati attorno a lui si
preparavano per partire.
Caillean attese finché Fijit non la venne a
chiamare. Come al solito, la chierica le cambiò le bende e
le disinfettò le ferite, avendo cura di farle il meno male
possibile. Caillean stringeva i denti, mentre le sue mani le spalmavano
quell'unguento all'essenza di timo, lavanda e menta. Le pizzicava sulla
pelle, pareva sfrigolare a contatto con le ustioni intorno agli occhi
quasi fosse olio sulle fiamme, ma dopo un po' il bruciore di calmava e,
assieme al buio rassicurante delle bende, sovveniva una sensazione di
fresco rilassante. Resistere al dolore era diventata una
necessità per dimostrare a se stessa che poteva farcela, che
era forte abbastanza da sopravvivere. Ma quando Fijit però
le rifaceva il bendaggio a forma di otto sulla clavicola, l'impulso di
piangere le faceva contrarre le viscere così forte da farla
tremare. Se le fossero rimaste lacrime da versare, se l'acido non le
avesse bruciate tutte, non sarebbe riuscita a trattenerle.
Nonostante il suo stato di prostrazione fisica e mentale,
Caillean non ne volle sapere di viaggiare sullo stesso carro dei
feriti. Non poteva vederli, le loro occhiate sprezzanti non potevano
più ferirla e la morte aleggiava su di loro, minacciosa e
caritatevole come possono essere la paura dell'ignoto e il sollievo per
la fine di ogni male; eppure i sentirne i gemiti agonizzanti e le
preghiere sussurrate a mezzavoce non la faceva stare meglio. Non
provava compassione, loro non ne avevano avuta né per lei
né per suo padre, e il dolore, il suo amante, il suo
onnipresente compagno, soffocava la rabbia e la soddisfazione per
quello che era accaduto, per la punizione che gli dei o chi per loro
gli aveva inflitto. Non voleva più averci a che fare o
sapere nulla della loro sorte.
Si aggrappò a quella convinzione quando Fijit
provò a persuaderla, vi affondò le unghie e i
denti a ogni sobbalzo, a ogni dondolio più forte, a ogni
fermata brusca del cavallo. Nel buio dei suoi occhi,
l'oscurità pulsava al ritmo della clavicola rotta e il
dolore la riempiva di evanescenti punti bianchi. Dalle labbra di
Caillean però non uscì che un sospiro.
- Puoi ancora cambiare idea. - le sussurrò Fijit.
Il tono era gentile, molto più delicato di quello
che si aspettasse. Caillean scosse appena la testa e il suo cervello
rimbalzò contro le pareti della scatola cranica dandole i
capogiri.
- Va bene. - esalò, inspirando a fondo, - Ce la
faccio. -
- Adesso, ma se dopo non te la sentissi più,
nessuno ti obbliga a rimanere in sella. -
La bambina fece un lieve cenno d'assenso col capo e si
allontanò dalla sua schiena cui fino a quel momento era
rimasta appoggiata.
La luce del sole le scaldava la faccia, penetrava attraverso
le bende e le carezzava la pelle escoriata e unta. Non si era ancora
riabituata e i suoi sensi percepivano tutto in modo più
intenso, come se il mondo fosse morto e reincarnato in suono e profumi
diversi che lei non aveva mai conosciuto.
- Potrò... potrò mai tornare a vedere? -
Uno spostamento d'aria l'avviso che Fijit si era raddrizzata.
Tendeva a inarcare le spalle e a spingersi troppo in avanti, come se
stesse per spronare il cavallo al galoppo da un momento all'altro.
- Non lo so, non mi sono mai trovata davanti a un caso
simile. L'acido ha danneggiato i tessuti attorno agli occhi e la cornea
e le palpebre non sono in buono stato. A Caewen ci saranno altre
cerusiche, ne parlerò con loro e vedremo cosa possiamo fare.
- le rivelò in tono greve, - Non credo comunque di poter
fare molto: se ti avessi soccorso prima, forse avrei potuto salvare
qualcosa, ma nello stato in cui ti abbiamo trovato non credo nemmeno la
magia elfica possa aiutarti. -
Caillean annuì, anche se dentro di sé
si sentiva morire.
- Mi dispiace, piccola... davvero. -
- É meglio così. Non mi hai illuso, sei
stata... corretta. - deglutì e fece una pausa per racimolare
la forza per continuare il discorso, - Se lo avessi scoperto dopo,
sarebbe stato più doloroso. -
Fijit sospirò e il cavallo sbuffò,
dilatando le froge.
- Vivere senza la vista è difficile, bisogna
reinventarsi e imparare a usare gli altri sensi in tutto, ma non
è impossibile. - tentò di consolarla e Caillean
se la immaginò che sorrideva a disagio, senza trovare il
coraggio di guardarla mentre le mentiva, - E tu sei una bambina forte,
ce la farai, vedrai. -
Parole vuote, piene di vento, prive di significato.
Caillean annuì. Mentre il cavallo avanzava,
l'oscurità ribolliva, pulsava spurgando la sua anima
sciolta, mentre nel buio sbocciavano fiori rossi punteggiati da macchie
nere.
- Sì, sono certa che ce la farò. -
Percepì lo sguardo di Fijit sulla pelle. Bruciava,
bruciava più del dolore, era una freccia arroventata nella
carne.
“Non sono una vittima.”
Strinse i pugni e si morse l'interno della guancia. La pelle
sotto le bende si tirò così tanto da farla
sussultare. Stavolta Fijit non si girò.
Il resto del viaggio trascorse in silenzio. Nessuno delle due
aprì bocca e nemmeno i soldati attorno a loro sembravano in
vena di scherzare. Caillean apprese da uno di loro, un uomo con la voce
nasale e roca, che Davsten guidava la processione, affiancato dal suo
secondo in comando, un certo Idwal. Suo padre non l'aveva mai nemmeno
menzionato, forse, pensò, non lo aveva conosciuto.
“O non ha avuto il tempo di
raccontarmelo...”
Proseguirono fino al calar del sole e poi si accamparono in
una radura di erba stepposa, che scricchiolava sotto la suola degli
stivali. Il vento, un soffocante vento caldo che si appropriava del suo
respiro e le bagnava la nuca, le portò alle narici un forte
odore di pelo sudato.
- Vieni, di qua. -
Fijit la prese delicatamente per mano e la condusse nella
loro tenda. La fece sedere sulla branda e le cambiò le
bende. Caillean osò sfiorarsi le palpebre, prima di ritrarre
la mano come scottata. Erano prive di ciglia, gonfie, gibbose.
- Non devi toccare o rischi di infettare la ferita. -
Udì uno scroscio dapprima intenso, poi un semplice
gocciolare prima che Fijit le passasse un panno umido sul viso. Era
accaldata e il sudore copriva in parte l'essenza floreale dei suoi
vestiti. Tuttavia nella mente di Caillean, anche così era
una bellissima fanciulla, con i capelli biondi, gli occhi grandi ornati
da lunghe ciglia chiare e le labbra sottili, sempre atteggiate in un
sorriso incoraggiante, pronte però ad assottigliarsi in
un'espressione severa. Era così che se l'immaginava, la
fantasia, ormai, costituiva il suo unico ponte con la realtà.
-Ti porto la cena tra poco. Tu non ti muovere, va bene? -
“E dove dovrei andare?” le avrebbe voluto
rispondere Caillean, ma si limitò a fare un cenno
affermativo prima di stendersi. Le balenò in mente che
avrebbe dovuto togliersi i vestiti e lavarsi e quel pensiero rimase
vivo e chiaro per un paio di secondi finché non si
sgretolò, sprofondando nel buio.
- Non hai bisogno d'altro? -
La voce di Fijit era più tenue, distante quel
tanto da farle capire che non era più vicina. Era stata
veloce oppure era lei a non essersi accorta di quando si era
allontanata?
- No, non ti preoccupare. Ti aspetto qui. -
Quando udì il fruscio della tenda che si chiudeva,
tutta la fatica del viaggio le piombò addosso come un lupo.
Si ritrovò a boccheggiare con il fiato che le si spezzava in
un rantolo, la volontà dissanguata uccisa dalla stanchezza.
- Anairë lapse. -
Le sue labbra scandirono quella frase un paio di volte,
finché non le mancò la voce. Erano le parole che
le aveva detto l'elfo. Non sapeva il loro significato, ma il tono con
cui erano state pronunciate, la meraviglia mista ad ammirazione di cui
erano colme, le suggerivano che erano importanti.
- Oppure te lo sei solo immaginato. -
La sua sicurezza tentennò. No, erano reali, ogni
cosa che era successa era reale. Quasi poteva ancora sentire la
consistenza vischiosa del sangue sulle dita, l'olezzo ferroso che si
propagava dai suoi vestiti. Deglutì e elevò le
mani in alto, fino ad averle davanti agli occhi con il cuore che le
batteva nelle tempie e lo stomaco dolorosamente contratto. No, la mente
poteva sbagliare, ma la memoria del corpo, quella ricordava tutto,
glielo aveva insegnato suo padre.
- Spero che... che tu ora stia bene, ora. - un singhiozzo le
squassò il petto, - Scusami se non sono stata coraggiosa
abbastanza, scusami se non ho protetto la mamma, scusami se mi sono
fatta portare via la vista. -
Si raggomitolò su un lato, portò le
gambe al petto, insensibile al dolore che si propagava dal viso in
fiamme. Suo padre aveva sempre offerto il sale e il farro agli Athairi
e sua madre si preoccupava che ogni sera gli incensi bruciassero vicino
alle statuette degli Ithei. Perché non li avevano protetti?
Perché erano rimasti sordi alle sue preghiere?
- Sono un'assassina... - si piantò le unghie nella
cute, premette con forza fino a quando non sentì il sangue
sotto i polpastrelli, - Papà, perdonami per quello che sono
diventata. -
Pianse lacrime che non aveva fino a quando non ebbe
più fiato. Quando non riuscì più a
starein quella posizione, racimolò le forze per tirarsi a
sedere. La testa era leggera, i pensieri inconsistenti e nell'aria
aleggiava una calma piatta, colma dell'odore di una zuppa calda.
Cercò la ciotola a tentoni, guidata dal naso, la
afferrò assieme al cucchiaio e portò il primo
boccone alle labbra. Aveva più sete che fame, almeno
così era fintanto che il sapore di fagioli e lupini non le
permeò la bocca. Divorò tutto, raschiando anche
il fondo della scodella per poi leccare i bordi. Non le interessava che
che qualcuno potesse vederla, si era già umiliata abbastanza
agli occhi di tutti. Davsten, Fijit, gli altri soldati, tutti la
compativano e la trattavano come una vittima innocente degli eventi.
- Non sono una vittima. - ripeté e le parole
sibilarono minacciose tra i denti, - Io non sono una vittima. -
Strinse i pugni e serrò la mascella, immaginando
di avere tra le mani la spada di suo padre. Era pesante, di ferro, con
l'impugnatura rivestita di cuoio ormai liscio.
- Un giorno riuscirai a sollevarla. Anzi, ti dirò
di più, ne avrai una tutta tua. -
Il sorriso orgoglioso di suo padre, la sicurezza con cui
l'aveva guardata, erano il suo ricordo più caro. Lui aveva
sempre creduto nel suo sogno.
Si mise in piedi e tenendo le mani davanti a sé,
cercò l'apertura della tenda. Avanzò un passo
alla volta, incerta, dritta dove credeva di aver udito la voce di Fijit
prima che uscisse. Trovò il lembo, lo tirò e
questi catturò il vento, si ingrossò e le
sfuggì dalle dita, alzandosi verso l'alto. L'aria tersa
della seria le si infilò nelle narici e le pervase i polmoni.
Si lasciò alle spalle la tenda,
proseguì ancora. I soldati, quei pochi che si destreggiavano
per mantenere viva la conversazione, continuarono a parlare. Caillean
li sentiva, udiva le loro voci provenire da ogni dove in quel buio
avvolgente, sembravano scaturire da dentro la sua testa.
Obbligò le braccia a rimanere stese e continuò a
camminare. Eccolo, il suono dell'acqua corrente, non è
così lontano, deve dirigersi a destra e poi sarà
lì.
Andò a sbattere contro qualcuno e quasi non
ruzzolò a terra.
- Che ci fai qui, bambina? Stavi cercando Fijit? -
Era il soldato con la voce nasale. Non sembrava arrabbiato,
nemmeno aveva sentito il contraccolpo probabilmente, a Caillean parve
persino ci fosse un accenno di apprensione nel modo quasi incerto con
cui le si era rivolto. Ma era un uomo, un nemico.
“Non farti spaventare.”
- Volevo solo prendere un po' d'aria. - tenne alto lo sguardo
mentre si rialzava, - Dentro la tenda fa molto caldo. -
Una pausa. Il chiacchiericcio di sottofondo persisteva, basso
come un ronzio d'api in una torrida giornata estiva. A volte una voce
si staccava dal coro: una risata appena accennata, un colpo di tosse,
persino una pacca sulla spalla bastava a far vibrare la rete di suoni
che si era cucita attorno a lei.
- Sì, qui al sud fa molto caldo. - si risolse a
dire, - Non sono più abituato a questo clima. -
Caillean fece un passo indietro, fingendo di guardarsi
attorno come per cercare qualcuno. Il sudore le inumidiva la nuca e la
tunica sotto le ascelle, le aderiva alla pelle come un guanto e le
costringeva i polmoni. A ogni respiro, le sembrava di ingoiare sabbia.
- Mi sapresti indicare dov'è il ruscello? -
- Se hai bisogno di lavarti, posso andare a chiamare Fijit
per aiutart... -
- Non mi serve aiuto. -
Il suo corpo la tradiva, tremava spaventato, e la paura
sferzava il suo cuore al galoppo. Caillean strinse i pugni, contrasse
la mascella e piantò i piedi a terra. L'uomo non si era
mosso e manteneva il suo sguardo su di lei.
- Non ho bisogno di aiuto. - ripeté,
più sicura, - Voglio solo sciacquarmi la faccia nel
torrente, tutto qui. -
Un'altra pausa. Udì il grattare di qualcosa, come
mani su paglia secca.
“Ha una barba, una barba molto folta e
crespa.”
- Sei proprio sicura di non volere nessuno? Il ruscello
è poco fuori dal campo, non è difficile
arrivarci, solo che... - si interruppe e Caillean se lo
figurò mentre si mordeva le labbra, - Ci sono molte persone
qui, rischi di andare a sbattere. -
La sua determinazione si incrinò. Allontanarsi
dalla tenda, camminare nel buio, arrivare al torrente e poi tornare
indietro. C'erano troppi pericoli e lei era disarmata, cieca. Se uno di
quegli uomini l'avesse seguita, non sarebbe mai riuscita a sfuggirgli.
- Farò il giro largo, allora. Spiegami come
arrivare senza passare tra i soldati. -
L'uomo trasse un profondo respiro e le si accostò.
Il calore del suo corpo sudato le graffiava le braccia.
- Sai contare? -
Aveva imparato i numeri solo fino a dieci.
- Sì, lo so fare. -
- I punti cardinali, invece? -
- Anche quelli. -
- Bene, adesso il tuo sguardo è rivolto a est.
Volgilo verso ovest, poi conta quaranta passi. Al quarantunesimo, gira
a sinistra e prosegui sempre dritta. Fa un gran baccano quel
ruscelletto, lo sentirai quando sarai in rotta d'arrivo. -
Caillean annuì.
- Se hai bisogno, basta che fai un fischio. Le sentinelle ti
sentiranno, poco ma sicuro. -
L'erba scricchiolò sotto i suoi piedi e la
sensazione di oppressione nel petto lo accompagnò mentre si
allontanava.
“Posso farcela.”
Fece come gli aveva detto. Un piede avanti all'altro,
cominciò a contare mentre proseguiva in linea retta.
Quaranta era quattro volte dieci, quindi ogni volta che non sapeva come
proseguire, ricominciava. Era difficile tenere i numeri a mente, a
volte si dimenticava dov'era arrivata ed era costretta a fermarsi per
contarli sulle dita. Gli uomini le passavano accanto senza far caso
alla sua presenza. Era lì e allo stesso tempo non era
lì, era invisibile ai loro occhi così come il
mondo lo era ai suoi.
“Uno, due, cinque... no, prima del cinque viene il
quattro e prima ancora il tre.”
Qualcuno la urtò così forte che per
poco Caillean non perse l'equilibrio.
- Stai attenta a dove vai. -
Un ragazzo, forse di una ventina d'anni. Doveva essere
giovane perché la sua voce aveva una sfumatura fanciullesca,
una vibrazione più alta rispetto a quella di un uomo adulto.
- Scusami...-
“Non ti posso vedere.”
L'inizio della sua risposta rimase nell'aria, troncato sul
nascere da un sussulto.
- Dove stai andando? Stai cercando Fijit per caso? -
Il tono si era ammorbidito e ora il suo respiro si infrangeva
sulle sue guance, vicino, troppo. Il corpo di Caillean si mosse in
fretta. Scattò senza pensare, rapido quel che bastava per
cogliere di sorpresa il ragazzo e smarcarsi.
- Aspetta! -
La sua voce si sfilacciò alle sue spalle. Caillean
correva più in fretta che poteva, alla cieca, senza
più contare, andando a sbattere contro tutti quelli che non
avevano l'accortezza di spostarsi. Correva lontana dall'accampamento,
da quel luogo brulicante di uomini pronti a metterle le mani addosso, a
giudicarla, a rinchiuderla, a sfigurarla.
La sabbia era vetro in pezzi nei suoi polmoni, la lingua un
pezzo di cuoio usurato.
“Devo scappare, devo scappare via, via da
qui.”
Girò a sinistra, urtò qualcuno, di
nuovo rischiò di cadere, ma non si fermò. L'erba
scricchiolava al suo passaggio, il piede aderiva a terra, si allungava
e poi si staccava dal suolo portandosi dietro alcuni pezzi di terra.
L'aria immota, senza un fil di vento, vibrava attorno a lei e la tela
di suoni con essa: le voci si interrompevano, così come i
passi e quando Caillean passava oltre, diventavano acuti, si
tramutavano in richiami che rimbalzavano di bocca in bocca.
- La cieca. -
- Dove va, perché corre? -
- Qualcuno trovi Fijit! -
“Più in fretta, più in
fretta!”
Due braccia la afferrarono e la tirarono su. Erano forti, la
presa ferrea passava sotto le ascelle e la stringevano sullo sterno,
poco sotto il seno.
- Lasciami! - Caillean si dimenò,
arpionò le mani del suo aggressore e gli piantò
le unghie sul dorso, - Non mi toccare, lasciami, lasciami! -
- Calmati. -
Davsten. Era amico di suo padre, l'aveva salvata, non era un
pericolo.
“ É un uomo.”
Quel pensiero la fece rabbrividire. Scalciò
più forte, dimenandosi come un'ossessa. Le mani si muovevano
da sole, scavavano nella pelle dei solchi sempre più
profondi. Il sangue, presto, le si infilò sotto le unghie.
- Calmati. - la strinse ancora più forte.
Caillean sputò l'aria che aveva nei polmoni. Lo
graffiò ancora, fino a quando il buio non si
riempì di puntini bianchi. La forza le venne meno e, pian
piano, con l'incedere della consapevolezza di ciò che aveva
fatto, una calma piatta calò nel suo cervello.
- Dov'è Fijit?- Davsten si guardò
intorno, senza lasciare la presa, - Qualcuno la vada a chiamare,
subito. -
Passi che si allontanano. Il chiocciare allegro del torrente
le arrivava attenuato, una risata beffarda che andava e veniva secondo
il suo capriccio.
- Scusami, non so cosa mi sia pres... -
- Zitta. -
La durezza nella sua voce la fece trasalire e Caillean
rinunciò a qualsiasi tentativo di dialogo. Il cuore
rallentò fino a battere calmo, appesantito dal senso di
colpa e dalla vergogna. Quando Fijit arrivò, Davsten la mise
a terra e le strinse forte le spalle prima di sospingerla tra le
braccia della cerusica. Caillean non osò nemmeno girarsi a
guardarlo quando la donna la prese per mano e la accompagnò
alla tenda.
- Dammi le mani. - le ordinò quando si sedette
sulla branda.
Non c'era traccia di dolcezza in quelle parole. Caillean
obbedì e rimase immobile mentre la cerusica la lavava dal
sangue. Ne aveva così tanto che le si era appiccicato sui
palmi e tra le dita.
- La prossima volta che hai bisogno di qualcosa, chiamami. -
strofinava con vigore, passando la spugna ruvida anche sul collo
sudato, - Non so perché tu abbia tentato di fuggire
né mi interessa saperlo, ora, ma voglio che tu sappia una
cosa: sei cieca ora, non puoi muoverti come ti pare e piace, come se
nulla fosse accaduto. Devi cominciare ad accattare questa nuova
condizione prima che sia troppo tardi e tenere a bada i colpi di testa:
hai idea di quello che ti poteva succedere se fossi uscita dal campo?
Basta una buca e finisci con una caviglia slogata o l'osso del collo
spezzato. -
Caillean abbassò lo sguardo sotto le bende. Non
sapeva nemmeno lei perché lo avesse fatto, pensandoci a
mente lucida era stata una follia anche solo immaginare di arrivare al
torrente con le sue sole gambe.
- Mi... mi dispiace. -
- Non voglio le tue scuse, non me ne faccio niente delle
scuse e nemmeno tu. - le prese le mani umide e gliele strinse tra le
sue, - Quello che ti è successo è terribile, non
posso nemmeno immaginare quanto dolore tu abbia provato, ma sei
sopravvissuta. Se sei qui, se è stato il volere degli dei a
salvarti, non puoi buttarti via per nessuna ragione al mondo: tua madre
ha già perso l'uomo che amava, non può perdere
anche sua figlia. -
Caillean si morse le labbra e strinse i pugni in grembo,
desiderando con tutta se stessa di sparire. Era stata stupida, stupida
ed egoista.
- Tra quattro giorni saremo a Caewen e la potrai rivedere. -
le spostò una ciocca dietro l'orecchio e le
accarezzò la guancia con le nocche, - Insieme, tu e lei,
troverete un modo per andare avanti. Io mi consulterò con le
altre e cercheremo una cura per i tuoi occhi, ma tu nel frattempo non
devi fare altre pazzie, va bene? -
- Va... va bene. -
- Ora vai a dormire. Io sarò nel letto qui vicino,
se non riesci a dormire o se hai male, svegliami. -
Attese che annuisse prima di alzarsi e andarsi a stendere.
Dopo poco, il suo respiro si regolarizzò e Caillean
sentì un fruscio che le fece capire che si era girata. Anche
lei si lasciò cadere sulla sua branda, gli occhi rivolti al
soffitto.
- Anairë lapse. - mormorò, -
Anairë lapse. -
Continuò a ripetersi quelle due parole
come una cantilena fino a notte fonda, fino a quando il sonno non la
prese per mano e l'accompagnò in un mondo dove poteva ancora
vedere.
Ripresero il cammino la mattina seguente, poco
prima del sorgere dell'alba. Fijit si era alzata prima di lei per
andare a controllare i feriti che fuori era ancora buio. Aveva cercato
di fare meno rumore possibile, ma Caillean l'aveva sentita lo stesso.
Quando era venuta a svegliarla, l'aria era ancora fresca e permeata
dall'odore di rugiada e terra appena smossa.
Fijit non le chiese se volesse viaggiare sul carro,
si limitò ad aiutarla a montare in sella dietro di lei.
Fu un viaggio silenzioso, durante il quale nessuno
venne mai a disturbarle. Si fermarono due volte per far abbeverare i
cavalli e dare la possibilità a Fijit di cambiare le bende a
Caillean e occuparsi dei sopravvissuti sul carro. In quelle pause,
spesso, tiravano giù i corpi dei morti per seppellirli e
davano l'estremo saluto ai moribondi. Una bassa preghiera, le ultime
confessioni e l'augurio che Uborh li traghettasse nel Val'ha. Poi, un
sibilo e l'odore pungente del sangue si disperdeva nell'aria. Caillean
contò fino a dieci, all'undicesimo colpo, la sua mente si
rifiutò di proseguire. Quando ripresero il viaggio, apprese
da un brandello di conversazione che la terra aveva accolto trenta
anime, tra uomini e donne.
Per i tre giorni seguenti, il rituale si
ripeté. Fijit prestava ascolto a tutti, per poi lasciare il
compito di liberarli dai loro dolori terreni ad altri uomini. Tra
questi, scoprì Caillean, c'era anche Davsten. Non le aveva
più rivolto la parola dalla prima sera, eppure lei capiva
quando le passava accanto o quando era lì vicino. A
differenza di quello di Fijit, frettoloso e disattento, il passo di lui
era grave e compassato, le trasmetteva la sicurezza che fosse
lì, mai troppo lontano. Si vergognava ancora per come si era
comportata, avrebbe voluto chiedergli scusa e dirgli che si era
comportata come una stupida, ma il coraggio languiva sotto la cenere,
soggiogato dai pensieri cupi che, ormai, erano i padroni della sua
mente. I ricordi del tempo passato con suo padre erano ricorrenti, la
braccavano nel sonno e la inseguivano nei sogni. Erano così
vividi che spesso Caillean si domandava se quella non fosse la
realtà e quella in cui si svegliava un incubo. Il dolore era
l'unico antidoto che le permetteva di rimanere lucida, il pugnale da
cui fuggiva e la bussola che l'aiutava a orientarsi. Quando era
presente a se stessa, si domandava cosa avrebbe fatto quando avesse
rivisto sua madre, se avrebbe trovato il coraggio di parlarle: lei era
lì, era tornata, mentre suo padre giaceva a Merite, senza
una lapide a cui inginocchiarsi e pregare. Davsten si era premurato di
far togliere la testa, assieme alle altre dalle picche, ma del corpo
non vi era traccia.
“Sarei dovuta esserci io lì
sopra.” si diceva e, nonostante il disgusto che provava verso
se stessa e la sua debolezza, non riusciva a fare a meno di pensarci.
Suo padre era morto e lei non era stata abbastanza
forte per impedirlo.
“ Devi perdonare te stessa per quello
che ti hanno fatto.”
Davsten le aveva detto questo, durante il loro
primo incontro, ma come poteva perdonarsi? Come poteva trovare un modo
per alleviare il senso di colpa che la schiacciava?
Si mise le mani nei capelli e appoggiò
la fronte sulle ginocchia. La sua porzione di minestra di lenticchie e
fave era appoggiata ai suoi piedi, con ancora il cucchiaio pulito.
Era l'ultima sera, il giorno seguente, nel tardo
pomeriggio, sarebbero arrivati a Caewen.
- Non mangi? -
La voce di Davsten proveniva da qualche passo da
lei e un refolo piacevole le scompigliò i capelli sporchi.
- Non ho... fame. -
L'uomo si avvicinò. Torreggiava su di
lei, un colosso la cui presenza avrebbe messo soggezione a chiunque.
- Guardami quando mi parli. -
Reprimendo l'istinto di infilarsi sotto la branda,
Caillean alzò la testa e diresse lo sguardo in alto, dove
credeva potesse trovarsi quello del suo interlocutore.
- Hai riflettuto su quello che ti ho detto? -
La bambina annuì, senza aggiungere
altro. Davsten rimase in silenzio finché non
arguì che doveva essere lui a continuare il discorso.
- Hai capito cosa ti ho chiesto? -
- Di perdonare me stessa. -
- Pensi di poterlo fare? -
- Non lo so. - si umettò le labbra e si
abbracciò, - Non so come si fa, in realtà. Di
solito, è qualcun altro che ci deve concedere il perdono. -
Sospirò e si sedette davanti a lei,
sullo sgabello dove Fijit aveva posato la sua razione. Il fumo della
minestra le scaldava la punta i piedi.
- So che ti senti responsabile per quello che
è successo a Kale e so anche che, per quanto io possa dirti
che non potevi fare nulla per impedirlo, tu continuerai a
colpevolizzarti. Posso ripetertelo anche mille volte, ma le cose non
cambieranno se non sarai tu a capirlo. - esordì la voce
bassa e greve, - Se non ci riesci, allora voglio che rifletti su quanto
tu sia importante per Iola. É scappata per venire a cercare
aiuto e mi ha scongiurato di salvarti. Ora è a Caewen che
aspetta di scorgere i miei uomini all'orizzonte e ogni giorno che passa
si domanda se mai ti rivedrà. -
Caillean reprimette la tentazione di tornare a
fissare il pavimento. Non era una vittima, si era promessa che non lo
sarebbe più stata.
- Tuo padre ha rinunciato alla sua carriera per
starvi vicino e tua madre si è consumata le suole in una
corsa attraverso i boschi. Se non avesse incontrato noi, piuttosto che
fermarsi sarebbe arrivata con i piedi insanguinati a Caewen. - si
fermò, riprese fiato e continuò, - Voglio che tu
tenga a mente da chi sei nata e cosa hanno fatto per te. Il dolore che
ti porti dentro non svanirà, né ora né
mai, ma non puoi permettergli di consumarti. Se non puoi vivere per te
stessa, allora fallo per loro, per Kale che ha dato la vita per
salvarvi e per tua madre che farebbe lo stesso. -
- Non è semplice... -
- Niente nella vita lo è. All'inizio
anche i neonati fanno fatica a camminare, cadono e incespicano; poi
però crescono e diventa parte di loro. E così
ogni cosa, perché crescere significa anche affrontare la
sofferenza, il dolore e il lutto. Faranno male, piangerai, ti
dispererai, ma alla fine diventeranno delle cicatrici da guardare con
orgoglio. -
Un sibilo, il verso di una lama estratta dal fodero.
- Avvicinati. -
Come calamitata, Caillean si alzò.
Allungò la mano fino a toccare col palmo la consistenza dura
del metallo.
- I soldati sono questo: combattono le battaglie degli altri
per garantire un futuro che non possono vedere. Ma per brandire una
spada, per poter scendere in campo e vincere, bisogna aver prima
accettato i propri demoni. - le prese la destra e la condusse
sull'impugnatura e Caillean la strinse, gli occhi negli occhi di
Davsten, - Se adesso non sei ancora pronta, vota la tua vita a tuo
padre e tua madre, vivi per loro e combatti per loro. -
Caillean lo fissò e poi rivolse lo sguardo alla
spada. Era pesante, sul palmo percepiva l'usura del tempo e i segni
delle numerose battaglie.
- Non sono una vittima. - disse e le prime dita si chiusero
attorno alla lama, - Non voglio più esserlo. -
- Giura che combatterai. -
- Lo giuro. -
Dove aveva trovato quella fermezza? Quando era cresciuta
così in fretta?
- Giura sul tuo sangue che lo farai per i tuoi genitori, per
Iola e Kale. -
- Per Iola e Kale. -
La mano di Davsten coprì la sua e le premette le
dita sul filo della lama. Il sangue stillò fuori in piccole
gocce ai suoi piedi, in mezzo a loro.
Dopo un tempo che le parve infinito, l'uomo la
liberò e Caillean ritirò la mano. Il palmo
formicolava e la ferita bruciava, ma per la prima volta da quando era
stata catturata dal capovillaggio si sentiva di nuovo forte.
- La tua anima è legata con questo giuramento.
Rompilo e inficerai la memoria di tuo padre. -
- Non lo farò. -
I passi di Davsten si arrestarono a pochi passi da lei. Aveva
già aperto la tenda per uscire.
- Fatti fasciare la mano da Fijit, non voglio che quella
ferita si infetti. - disse e poi si allontanò.
Il giorno dopo, quando giunsero a Caewen, nel cuore di
Caillean ardeva una nuova fiamma. Era piccola, il fuoco di una candela
nel buio, ma non sarebbe bastata una tempesta per spegnarla. E quando
sua madre le venne incontro gridando il suo nome e
l'abbracciò, capì che l'unica cosa che non era
mai stata sola, nemmeno nelle prigioni.
Angolo Autrice:
Hello folks!
Buonasera ragazzi, come vedete finalmente ho messo online il capitolo che vi
avevo promesso ^.^ Spero sia di vostro gradimento, come al solito fatemelo sapere in qualche modo u.u. Vi
è piaciuto? Lo spero perché ci ho messo una vita
a scriverlo >.< Bon, credo di avervi tediato abbastanza,
se volete picchiarmi per il troppo angst ( o chiedere anche solo una spiegazione), il link è qui
sotto u.u
QUI
Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime