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Autore: Hotaru_Tomoe    09/11/2017    6 recensioni
Raccolta di oneshot ispirate dalle fanart o prompt che ho trovato in rete su questa bellissima serie. Per lo più Johnlock centriche, con probabile presenza di slash.
Aggiunta la storia I'll be home for Christmas:Sherlock è lontano da casa per una missione, ma durante questo periodo il legame con John si rinforza. John gli chiede di tornare a casa per Natale, riuscirà Sherlock ad accontentarlo?
Questa storia, in versione inglese, partecipa alla H.I.A.T.U.S. Johnlock challenge di dicembre.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scritta per la H.I.A.T.U.S Johnlock challenge di novembre, a tema soulmates (anime gemelle), usando il seguente prompt: Sherlock and John don’t have any Soulmate marks instead they choose to be together freely. Possibly there is some social stigma about being “unmarked”.
Per complicarmi la vita ho deciso di inserire nella storia alcune immagini, anche se già so che l'impaginazione sarà un casino.

I LOVE YOU, I CHOOSE YOU




John aveva pensato a tutto: il luogo, il momento giusto, le parole più adatte.
Era pronto.
Cloe sarebbe entrata in aula tra pochi minuti, avrebbero chiacchierato della scuola, come facevano di solito, lui le avrebbe fatto ripetizioni di matematica, e alla fine avrebbe tirato fuori il mazzo di fiori dallo zaino, chiedendole di essere ufficialmente la sua ragazza.
Avevano pomiciato a una festa, qualche sera prima (anche se erano entrambi parecchio ubriachi) e tra di loro c’era già un buon feeling, Cloe era graziosa e molto dolce e il cuore adolescente di John batteva per lei.
La ragazza spalancò la porta e guardò John con occhi supplici.
“Aiutami John Watson Kenobi, sei la mia unica speranza!”
E poi era una grande fan di Guerre Stellari, come poteva non amarla?
“Rilassati Cloe, non hai nulla da temere.”
“Sono io che il compito in classe di matematica domani, non tu!”
“Vogliamo iniziare, mia giovane Padawan?”
“Sì, Maestro Jedi.”
Un paio d’ore più tardi, Cloe chiuse il quaderno e stiracchiò le braccia.
“Grazie, sei il miglior tutor che abbia mai avuto.”
“Tu sei un’ottima studentessa.”
“Non è vero, ma grazie per il complimento.”
Cloe si voltò verso John e dovette leggere qualcosa nei suoi occhi, perché inclinò leggermente la testa da un lato.
“Cosa c’è?”
“Ecco, stavo ripensando all’altra sera, sai… alla festa…”
Cloe ridacchiò, nascondendo la bocca dietro la mano.
“Sì, è stato forte.”
John si chinò sul suo zaino e prese il mazzo di fiori, porgendolo alla ragazza.
“Tu mi piaci molto, vorresti metterti con me?”
Cloe accarezzò i fiori con la punta delle dita, ma il suo sorriso si spense.
“John, sono bellissimi, e tu sei tanto caro, ma non è possibile.”
“Perché? A me sembra che noi due stiamo bene insieme.”
“Sì, ci divertiamo, abbiamo gli stessi gusti, andiamo d’accordo…”
“E allora cosa c’è che non va? Scusa, ma queste mi sembrano ottime basi per un rapporto.”
“John…”
La ragazza guardò il suo polso destro e scosse la testa.
Il ragazzo strinse i pugni appoggiati sulle cosce.
“Io ti voglio bene lo stesso, anche senza nastro. Questo non conta nulla per te?”
“Non potremmo mai avere un futuro e sposarci.”
“Ma potremmo comunque stare insieme.”
“Così, per divertirci, come abbiamo fatto sino ad oggi. Ma John, il tatuaggio sul mio polso dice che sono destinata a incontrare la mia anima gemella: tutti dicono che la felicità che si prova quando il tuo nastro si trasforma in un nodo celtico è qualcosa di indescrivibile, è la sensazione più bella del mondo, ti fa sentire finalmente completo e appagato, e io so già che questa persona non sarai tu. Non posso rinunciare al vero amore, capisci?”
“Sì, sì - John si riprese il mazzo di fiori - anzi, scusa se ti ho messo in imbarazzo.”
“Tranquillo, non è successo nulla. Sei sempre il mio Maestro Jedi?”
John nascose tutta la sua delusione dietro un sorriso rassicurante.
“Certo, mia giovane Padawan.”

Sherlock attraversò il cortile della scuola trascinando svogliatamente la cartella: aveva la giacca della divisa lacerata e il naso sanguinava ancora.
I suoi compagni lo osservavano dalle finestre del corridoio.
“Cosa ha fatto questa volta?”
“Ci crederesti? Nicole gli ha suggerito di indossare delle lenti a contatto castane, per nascondere quegli occhi, e lui per tutta risposta ha detto delle cose spaventose su di lei e la sua famiglia.”
“È colpa vostra, ragazze. Non capisco perché vi ostiniate a parlare con lui: è un senzanastro, dovreste proprio lasciarlo perdere.”
“Quindi è stata Nicole a fargli quell’occhio nero? Forte!”
“Ma no, cretino! Nicole l’ha detto al suo ragazzo, lui e un paio di amici hanno cercato di farla pagare a Holmes, ma non è andata a finire bene.”
“Cosa vuoi dire?”
“Che loro sono messi molto peggio di lui.”
“A me Holmes fa paura! Non è normale.”
“Te ne accorgi solo ora?”
“Se lo buttassero fuori sarebbe solo un sollievo.”
“Sì, quelli come lui non dovrebbero stare in mezzo a noi.”
Una macchina nera accostò davanti all’ingresso della scuola, Sherlock salì sul sedile posteriore, gettando la cartella a terra, e incrociò le braccia al petto, chiudendosi nell’usuale mutismo.
Mycroft avviò la macchina e lo guardò dallo specchietto retrovisore.
“Stai cercando di infrangere ogni record, fratello? Dopo essere il primo Holmes senzanastro cerchi di essere anche il primo che si fa espellere da scuola?”
Facile parlare per Mycroft, lui era un portatore di nastro, come quasi tutti gli altri.
Sherlock sospettava che il fratello non si sarebbe mai veramente impegnato nella ricerca della propria anima gemella, perché lo considerava uno spreco di energie e lui era troppo pigro, però nessuno gli avrebbe mai fatto osservazioni, lo avrebbe mai guardato in maniera strana o lo avrebbe compatito solo perché non aveva quel dannatissimo tatuaggio attorno al polso destro.
“Scommetto che ti dispiace che non siamo ancora nel Medioevo, quando quelli come me potevano essere uccisi.”
“Non dire sciocchezze - lo rimproverò Mycroft con asprezza - lo sai che io mi preoccupo sempre per te. Ma Sherlock, se cercherai sempre lo scontro diretto con i portatori di nastro, la tua vita sarà una guerra continua.”
“Io non cerco alcuno scontro, mi limito a dire loro, con oggettività, quanto siano idioti.”
Mycroft sospirò e scrollò la testa in segno di disapprovazione, ma Sherlock non badò a lui: era fermamente convinto della sua affermazione, i portatori di nastro erano fondamentalmente degli idioti. Lasciavano che le reazioni chimiche delle sostanze presenti nel loro tatuaggio decidessero il loro futuro, e solo sulla base di quello sceglievano se legarsi o meno a una persona per la vita, trascurando ogni altro fattore, e come poteva essere una decisione ponderata?
Se fosse dipeso da lui avrebbe scelto criteri rigorosi e scientifici per scegliere la propria anima gemella, ma poi si ricordò che là fuori non esisteva nulla del genere per lui.

*

John capì di essere nei guai quando venne convocato dal primario di pronto soccorso dopo la fine del suo turno.
“È per la signora Croney?” esordì, prendendo posto davanti al medico.
La signora Croney si era presentata al pronto soccorso con una banale influenza, ma poiché era la moglie del sindaco, aveva preteso di passare avanti ad altri pazienti più urgenti, compreso un uomo con un infarto in corso, a cui John stava cercando di salvare la vita.
Ovviamente le aveva detto di accomodarsi in sala di aspetto e attendere il suo turno, ma la gran dama aveva preferito sporgere reclamo col suo superiore.
“Sì, non ha gradito molto il modo in cui è stata trattata.”
“Non ho fatto nulla di male, chieda alle infermiere! Non potevo di certo abbandonare un paziente con un infarto del miocardo per guardare la sua gola arrossata.”
“Questo no…”
“Sento che sta per arrivare un ‘ma’.”
“La signora Croney contesta soprattutto i tuoi modi.”
John allargò le braccia, basito. “Che accidenti avrei dovuto fare, stenderle davanti un tappeto rosso? Stavo gestendo una emergenza!”
“Watson, da un punto di vista operativo, sei un medico molto bravo e preparato, ma purtroppo sei un senzanastro e quindi manchi di empatia, non è colpa tua in fondo.”
“Scusi?”
“Non prenderla come un’offesa, perché non lo è: ci sono studi che lo dimostrano. I senzanastro non hanno nel proprio corpo le sostanze chimiche presenti nel tatuaggio che abbiamo noi, e che ci rende particolarmente empatici, non solo nella ricerca della nostra anima gemella. Poiché tu non conoscerai mai le sensazioni che proviamo noi, non sarai mai empatico.”
“Questo cosa vorrebbe dire?”
“Che non sarai mai un medico completo. Preparato certamente, ma non completo, non per gli standard di questo ospedale.”
John spalancò la bocca: non riusciva a credere alle proprie orecchie.
“Mi sta licenziando?”
“Ci sono altri luoghi dove quelli come te possono esprimersi al meglio, nell’esercito ad esempio. Lì non è richiesto lo stesso grado di sensibilità che occorre qua da noi.”
Con la scusa che essi non avevano un’anima gemella da perdere, la società spingeva attivamente i senzanastro a svolgere i lavori più pericolosi, quelli dove era più frequenti restare uccisi.
“La stessa sensibilità che sta dimostrando lei licenziandomi?” sputò John, alzandosi dalla sedia.
“Watson…”
“Mi risparmi le sue patetiche scuse, addio.”

Sherlock si chinò sul cadavere martoriato, facendo attenzione che i lembi del suo cappotto non sfiorassero la grossa pozza di sangue vischioso.
Alle sue spalle sentì i passi di un poliziotto allontanarsi di corsa, per andare a vomitare sul balcone. Non poteva biasimarlo: per quanto la vista dei cadaveri non lo impressionasse, anche Sherlock doveva ammettere che la scena del crimine era molto cruenta.
Il cranio dell’uomo era stato spappolato con un attrezzo pesante, probabilmente un martello da muratore, il corpo presentava numerose e profonde lacerazioni da arma da taglio e la mano destra era stata tagliata via dal corpo in malo modo e sminuzzata in un frullatore.
L’appartamento era stato messo a soqquadro, libri, fotografie e documenti bruciati nel caminetto e il computer della vittima ridotto in mille pezzi.
“Una rapina finita male?” azzardò Anderson alle sue spalle, e tanto fu sufficiente per far alzare Sherlock e sospirare di fastidio.
“Prova a usare il cervello per una volta, ti assicuro che non morirai.”
“Sherlock…” lo ammonì Lestrade, ma il consulente investigativo proseguì come se nemmeno l’avesse udito.
“La casa è stata devastata dopo l’omicidio, non prima: se avresti osservato i vuoti negli schizzi di sangue lo sapresti. Non si tratta di una rapina perché hanno lasciato qui un televisore nuovo, uno stereo di ultima generazione e quei tre soprammobili decisamente discutibili da un punto di vista estetico, ma di valore.”
“Cos’è successo secondo te? In tanti anni raramente ho visto un tale accanimento sul corpo di qualcuno” disse Lestrade chiudendo il taccuino: era teso e il suo viso aveva un colorito cinereo.
Sherlock si chinò nuovamente sulla vittima e parlò adagio: “Io ci vedo diniego.”
“Diniego?” esclamò Anderson, e Sherlock non aveva bisogno di voltarsi per immaginare l’espressione ottusa del suo volto.
“Diniego. È un vocabolo della nostra lingua, significa negazione.”
“So cosa significa! - ribatté lui indignato - Contestavo la tua interpretazione: per me c’è solo la furia omicida di un pazzo.”
“È così Sherlock? Abbiamo a che fare con uno squilibrato? Magari un seriale?” domandò Lestrade.
“Affatto, questa è stata la sua prima e unica vittima.”
“Come fai a dirlo?”
“Perché era la sua anima gemella.”
Attorno a lui si levò un prevedibile coro di proteste, che lo fece irritare: per i portatori di nastro una tale eventualità non poteva nemmeno essere presa in considerazione e rifiutavano di vedere la realtà: che una semplice reazione chimica non era sufficiente a garantire la felicità eterna.
“Sei solo invidioso perché tu non conoscerai mai la gioia di avere un’anima gemella” disse Donovan, guardandolo con le mani puntate sui fianchi.
“Capo, non puoi credergli - rincarò Anderson - È impossibile che sia andata così.”
“Sherlock, sei sicuro? È una accusa molto grave.”
“Sì, sono sicuro: l’assassino è un omofobo, militante di un partito politico di estrema destra: quando ha incontrato la vittima ed è avvenuta la reazione chimica del nastro, ha perso la testa, non è riuscito ad accettare che la sua anima gemella fosse un uomo, quindi l’ha massacrato, gli ha tagliato la mano e l’ha sminuzzata e ha cancellato il suo volto, per negare questa realtà. Cercate qualcuno con un nodo celtico sul polso che non ha un’anima gemella. Oppure lasciate questo omicidio irrisolto” disse Sherlock, e lasciò la stanza, ignorando ancora una volta gli sguardi di disapprovazione dei poliziotti. A dire il vero avrebbe dovuto ringraziarli: più lavorava con loro e più vedeva confermata la sua tesi, che il vero amore fosse solo un’illusione.

*

L’esercito era stato un buon posto per John, ma quando venne ferito, fu costretto ad abbandonare anche quello.
L’uomo che tornò a Londra era stanco, depresso e sfiduciato.
Il pomeriggio in cui incontrò Mike, John non vedeva più davanti a sé un motivo per continuare a vivere: ogni volta che aveva creduto di aver trovato il suo posto nel mondo, gli era stato risposto che no, quel posto non era per lui, un posto per lui in realtà non esisteva.
Non riusciva nemmeno a trovare un coinquilino per dividere l’affitto, ma dopotutto era un senzanastro, che altro si aspettava?
Per questo quando il suo vecchio compagno di università gli disse che c’era un’altra persona come lui, un senzanastro, che cercava un coinquilino, John volle leggerlo come un segno del destino.
“Giusto stamattina si stava lamentando di quanto fosse difficile trovare un coinquilino” disse Mike mentre attraversavano i corridoi dell’ospedale.
“Per noi non è facile.”
Mike rise e si aggiustò gli occhiali sul naso.
“Penso che Sherlock avrebbe problemi in tal senso anche se fosse un portatore.”
“Come mai?”
“È un tipo particolare… vedrai.”
Entrarono in uno dei laboratori, dove un uomo alto e magro e con una massa di riccioli scuri e selvaggi era chino su un microscopio. Accanto a lui, una giovane donna stava facendo di tutto per mantenere viva una conversazione, ma lui non appariva per nulla interessato.
“Hai letto l’ultimo numero di Nature, Sherlock?”
“No, sono impegnato con questo caso.”
“Sai, dovresti farlo il prima possibile.”
“Perché? Qualche articolo su veleni od omicidi?”
“Oh… no - La ragazza si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e rise nervosamente - Ma si parla di una nuova tecnica sperimentale: alcuni senzanastro si stanno facendo iniettare un composto chimico sperimentale che potrebbe ricreare artificialmente il nastro che noi abbiamo attorno al polso. In questo modo gli scienziati sono convinti che anche quelli come te potrebbero creare un legame con quelli come me… senzanastro e portatori di nastro… ecco...”
Sherlock cambiò il vetrino sotto il microscopio e prese appunti su un taccuino, senza risponderle.
“Mi hai sentito?”
“Sì.”
“E…?”
“Molly, arriva al punto, sto lavorando.”
“Non pensi che sia una notizia elettrizzante?”
“No.”
“Come puoi parlare così?” Molly sbiancò e si irrigidì.
“Non mi interessa minimamente e non vedo perché dovrebbe: considero l’essere un senzanastro l’unica benedizione della mia vita. Ora, ti spiace passarmi i vetrini che sono lì di fianco a te? Molly?”
Sherlock alzò gli occhi dal microscopio in tempo per vedere Molly lasciare la stanza di corsa e sul suo viso si dipinse un’espressione stupita, come se non si rendesse affatto conto di aver appena infranto il cuore di quella ragazza.
Poi i suoi occhi si spostarono su di John e in essi si accese una scintilla di interesse, mentre le labbra si piegavano in un sorriso, e John inconsciamente raddrizzò la schiena sotto a quello scrutinio così attento.
I suoi occhi erano blu scuro e, sebbeni diversi da quelli dei portatori di nastro, riuscivano quasi a passare inosservati, ma questo Sherlock possedeva gli occhi più chiari e particolari che John avesse mai visto. Erano ipnotici, avrebbero dovuto quasi far paura (John era sicuro che molte persone li trovassero terrorizzanti), ma lui ne fu immediatamente attratto.
“Il tempo è essenziale in questo esperimento, dovresti passarmi i vetrini nell’ordine che ti dirò” disse Sherlock senza troppi preamboli, tornando a guardare nel microscopio.
“Io?” domandò John, instupidito.
“Per un medico militare non dovrebbe essere troppo difficile.”
“Ma come…?” John si voltò verso Mike, pensando a uno scherzo elaborato, ma l’altro uomo alzò le mani.
“No, Sherlock fa tutto da solo, io non gli ho detto nulla di te.”
“Allora, quei vetrini?” insisté Sherlock.
“A-arrivo” rispose John.

Diverse ore più tardi John si trovava seduto con Sherlock in un ristorante cinese che restava aperto tutta notte. Il risultato dell’esperimento aveva permesso a Sherlock di incastrare un assassino che aveva avvelenato un suo superiore sul posto di lavoro, nella speranza di prendere il suo posto.
Sherlock era rimasto concentrato sui test tutto il tempo e solo dopo aver telefonato a Lestrade per comunicargli i risultati, aveva accennato a John che stava cercando un coinquilino, suggerendo di andare a cena insieme per vedere se potevano mettersi d’accordo.
“Pensi davvero quello che hai detto oggi pomeriggio a quella ragazza… er… Molly? Che consideri una benedizione l’essere un senzanastro?”
“Sì, certo.”
“Non è usuale sentir parlare qualcuno in questo modo.”
“Questo perché la gente è idiota.”
“Sei piuttosto cinico.”
“No, sono oggettivo: sulla terra ci sono più di sette miliardi di persone, l’anima gemella di un portatore di nastro potrebbe vivere all’altro capo del mondo e le speranze di incontrarla, da un punto di vista statistico, sono minime. Inoltre, anche se i media e la società fanno finta di niente, anche le anime gemelle litigano, si lasciano e si uccidono. Basare la propria esistenza su una reazione chimica è tragicamente stupido, eppure la gente impiega denaro ed energie per far sì che questo accada, quando potrebbe impiegare il proprio tempo in modo più proficuo.”
“Come fai tu?”
“Certo. È per questo che considero una benedizione la mia condizione: il non avere legami mi rende più libero, posso fare quello che mi pare e non devo renderne conto a nessuno.”
Per gran parte della sua adolescenza John aveva sentito il peso di essere un senzanastro e non poter creare un legame duraturo con qualcuno e sapeva che per la maggior parte di quelli come lui era così: le percentuali dei suicidi tra i senzanastro erano nettamente più alte che tra i portatori di nastro.
Lui stesso aveva avuto brutti pensieri non più tardi di quel pomeriggio.
Conoscere qualcuno come Sherlock, che ragionava assolutamente fuori dagli schemi rappresentava un piacevole cambio di passo.
John si appoggiò allo schienale della sedia. “Quindi dovrei vederla come te?”
“Assolutamente.”
L’ex soldato rise divertito: di sicuro non si poteva dire che a Sherlock mancasse l’autostima. “Tuttavia mi dispiace per Molly, si vede che è cotta di te. Sei stato piuttosto crudele con lei.” “Crudele? No, è il contrario, io sono stato gentile.” Sul volto di Sherlock si dipinse la stessa espressione stupita di quando Molly aveva lasciato di corsa il laboratorio. John si grattò un sopracciglio: davvero Sherlock non capiva?
“Gentile?”
“Ovvio: le ho fatto capire in termini chiari e non fraintendibili che non sono interessato a lei, così le passerà l’infatuazione e potrà concentrarsi a trovare la sua anima gemella, se è quello che vuole.”
“I rapporti umani non funzionano in modo così lineare” spiegò John: trovava stranamente affascinante che un uomo intelligente come Sherlock potesse essere allo stesso tempo così ingenuo, quasi candido.
“Motivo in più per essere contento della mia condizione.”
“Però… non ti senti mai solo?”
Sherlock non liquidò immediatamente l’osservazione di John, ma ci rifletté qualche istante, appoggiando le bacchette sul tavolo e congiungendo le mani sotto al mento.
“Si può comprendere la solitudine solo se si è avuto qualcuno al proprio fianco e in seguito questa persona se n’è andata: a me non è mai capitato, quindi no, non mi sono mai sentito solo.”
John non disse nulla, ma trovò quell’ultima affermazione incredibilmente triste.

L’ex soldato si trasferì a Baker Street il giorno seguente: l’affitto era molto buono, data la posizione e lo stato dell’appartamento, e le stranezze di Sherlock, che avevano terrorizzato tutti i precedenti potenziali coinquilini, non erano un problema per John, che aveva vissuto in posti decisamente peggiori e con compagnie più sgradevoli quando era nell’esercito (anche se la ciotola di intestini umani trovati in frigorifero il secondo giorno gli fece fare lo stesso un salto indietro per lo spavento).
Presto, senza nemmeno rendersene conto, John si ritrovò ad essere l’assistente e il braccio destro del consulente investigativo.
Come aveva già intuito, Sherlock possedeva un’intelligenza fuori dal comune ed era in grado di risolvere gli enigmi più intricati, ma quando si concentrava su un caso, non pensava ad altro, trascurando la sua salute, al punto che non mangiava e non dormiva per giorni, e il dottore che era in John non poteva lasciar correre. Inoltre, quando era focalizzato a cercare indizi sulla scena di un crimine, il resto del mondo scompariva per Sherlock, e spesso John doveva stare all’erta per evitare che il criminale di turno lo sorprendesse alle spalle.
Era un ruolo che a John non dispiaceva per nulla, anzi: forse per la prima volta nella vita John sentì di aver trovato il posto giusto per lui, un posto dove non veniva compatito o deriso per l’assenza del tatuaggio attorno al polso, un posto dove la sua esistenza aveva un senso.

Normalmente Sherlock detestava le attenzioni altrui, specie quando stava lavorando a un caso, non sopportava chi lo distraeva e gli faceva perdere il filo del ragionamento chiedendogli se stesse bene, se voleva mangiare o riposarsi, ma capiva che John aveva in sé l’indole del dottore e che proprio non poteva fare a meno di essere premuroso nei suoi confronti, quindi accettava di buon grado le tazze di tè o le fette biscottate col miele che John gli appoggiava vicino.
Inizialmente Sherlock disse a se stesso che lo faceva solo per quieto vivere, perché se John si fosse arrabbiato se ne sarebbe andato e cercare un nuovo coinquilino sarebbe stata una autentica seccatura, ma col tempo, e con sua grande sorpresa, si rese conto che non sopportava stoicamente le attenzioni di John, così come aveva fatto credere a se stesso: gli piacevano, quasi le attendeva, e se per caso non arrivavano, restava deluso. Il suono del piatto di ceramica che si appoggiava sul tavolino di fianco alla sua poltrona o la coperta che John stendeva su di lui quando era sdraiato sul divano gli provocavano uno strano, piacevole calore all’altezza del cuore, mai provato prima.
Un mistero che valeva la pena approfondire.

A volte John pensava che Sherlock non conoscesse bene se stesso, o che volesse dare al mondo una immagine negativa di sé a tutti i costi.
Ad esempio, Sherlock proclamava sempre di non avere né cuore né sentimenti e di considerarli un intralcio per il suo lavoro, ma poi quando appoggiava il violino sotto al mento e si perdeva per ore nella musica, era in grado di creare melodie originali e uniche, vibranti di emozioni forti che gli trafiggevano l’anima.
Nessuna persona priva di sentimenti avrebbe mai potuto dare vita a musiche tanto potenti, a giudizio di John.
E tuttavia l’ex soldato non biasimava Sherlock per la maschera che lo stesso mostrava agli altri, celando il suo cuore: qualcosa di così bello e prezioso andava protetto dal mondo, che non avrebbe mai capito.
John non capiva perché Sherlock avesse deciso di rivelare proprio a lui a lui quel lato di sé, ma ne era estremamente lusingato.

Sherlock pensava che non esisteva persona al mondo che si sottovalutava di più di John: l’ex soldato si considerava una persona ordinaria e banale, quando in realtà era un uomo complesso e dalle mille contraddizioni, paziente ma anche impulsivo, capace di arrabbiarsi con lui per un nonnulla e poi di perdonarlo con una facilità sorprendente, leale e pronto a fronteggiare qualunque pericolo solo perché lui glielo chiedeva.
Sherlock faticava a credere che John non riuscisse a vedere il vero se stesso, e si chiese quante volte il mondo lo avesse avvilito e denigrato al punto da fargli perdere fiducia in se stesso, ma d’altronde, che altro aspettarsi da un mondo di idioti?
Lui si considerava estremamente fortunato di aver conosciuto John e sperava che un giorno sarebbe riuscito a fargli vedere il vero se stesso.

La prima volta che John ammise a se stesso di essere innamorato di Sherlock, fu al termine di una indagine particolarmente lunga e complessa.
Tornati a Baker Street dopo la deposizione a Scotland Yard, Sherlock lamentò di avere un forte mal di testa, e John non ne fu sorpreso, dato che non dormiva da quasi due giorni. Gli suggerì di sdraiarsi in camera sua, ma dopo circa un’ora, Sherlock ricomparve in salotto, perché non riusciva a prendere sonno: la stanchezza unita all’energia nervosa che ancora doveva smaltire gli impedivano di rilassarsi. Si sedette sul divano di fianco a John, che stava guardando un documentario sull’Oceano Pacifico e al dottore venne un’idea: gli appoggiò una mano sulla spalla e lo tirò verso di sé, facendogli appoggiare la testa sulle sue ginocchia, e col pollice della mano destra prese a massaggiargli delicatamente le tempie, finché gli occhi di Sherlock non si chiusero e il detective trovò l’agognato riposo.
Mentre le sue dita callose sfioravano la pelle delicata e sottile, John si rese conto che non era mai stato tanto felice in vita sua: non lo era stato quando aveva baciato Cloe alla festa, né quando era stato preso per il tirocinio in ospedale. Si chiese se era questa la felicità che provavano i portatori di nastro quando trovavano l’anima gemella: il resto del mondo gli avrebbe urlato che no, non era così, l’amore delle anime gemelle non era minimamente paragonabile a quello dei senzanastro, ma John realizzò che non gli importava.
Amava Sherlock.
Era felice con lui.
Voleva trascorrere il resto della vita con lui.
E non gli importava se altri si ostinavano ad etichettare quell’amore come sbagliato.
Quando John gli posò la mano sulla spalla per farlo sdraiare, Sherlock non sapeva bene cosa sarebbe successo o cosa avrebbe fatto il dottore: quel genere di interazioni umane non erano il suo forte, ma si lasciò guidare, si fidò di lui, lasciò che John si prendesse cura di lui, e mentre si addormentava grazie al tocco delicato sulle sue tempie, pensò che John era e sarebbe stato l’unico al quale l’avrebbe permesso.
E forse si stava innamorando di lui.

Accadde in maniera spontanea e naturale, e nessuno dei due ne rimase particolarmente stupito; non fu una rivelazione straordinaria, quanto piuttosto il progredire dell’ordine naturale delle cose tra loro due.
Erano in piedi in cucina, uno affianco all’altro, Sherlock stava spalmando del miele sulle fette biscottate e John stava togliendo le bustine del tè dalle tazze: passò a Sherlock la sua, e quando il consulente investigativo la prese, si sporse leggermente verso John.
L’ex soldato sbatté velocemente le palpebre, giusto il tempo di realizzare che stava per succedere, si alzò leggermente sulle dei piedi, e i due si incontrarono a metà strada per il loro primo bacio.
Semplicemente così.
Questo non vuol dire che non fu un bacio splendido, perché lo fu, e quel mattino la colazione fu presto dimenticata in favore di attività più piacevoli, qualcosa che John non assaporava da tempo, e che Sherlock non aveva mai provato.
Diverse ore più tardi, giacevano sdraiati sul grande letto matrimoniale con le lenzuola aggrovigliate attorno alle gambe, John sdraiato sulla schiena ad accarezzare pigramente i riccioli di Sherlock, che aveva appoggiato la testa al suo petto.
“Ti amo.”
Fu Sherlock il primo a confessare i suoi sentimenti, adagio, sottovoce, sussurrandolo sulla sua pelle, e ben sapendo quanto fosse restio al sentimentalismo, John accolse quelle parole come il più prezioso dei doni.
“Ti amo anch’io. Mi hai affascinato fin dal primo momento in cui ti ho visto, ma è diventato quasi subito qualcosa di più importante per me. E non mi importa se non abbiamo nessun tatuaggio a dire che siamo fatti l’uno per l’altro, io so che non ho mai amato nessuno quanto amo te.”
La mano sinistra di Sherlock strinse delicatamente il fianco del suo amante.
“Anche per me: tu sei l’unico per me, John Watson, l’unico e il solo.”
“Bene… ottimo.”
John era sul punto di addormentarsi, quando Sherlock parlò di nuovo.
“John?”
“Mh?”
“Anche se fossimo portatori di nastro e per ipotesi le nostre anime gemelle fossero altre persone, io avrei comunque scelto te.”
John non era in grado di rispondere a parole a una dichiarazione così bella, quindi lo fece con il suo corpo, amandolo di nuovo.

Il mattino seguente John aprì la finestra: era un giorno di primavera tiepido e piacevole, come ce ne erano pochi a Londra; d’impulso si voltò verso Sherlock, ancora assonnato, e gli porse la mano.
“Alzati, usciamo tra mezz’ora.”
“Perché?”
“Voglio portarti a fare colazione in quel nuovo bistrot francese su Devonshire Street.”
Gli occhi di Sherlock si accesero di interesse.
“Quello che fa la tarte tatin?”
“Esattamente.”
Sherlock non stava seguendo nessun caso e John non era di turno in clinica, quindi, dopo colazione, decisero di fare una passeggiata fino a Regent’s Park: le rose nei Queen Mary’s Gardens stavano sbocciando proprio in quel periodo e Sherlock era interessato a una nuova varietà di Canadian Explorer Rose, che le api gradivano particolarmente.
Camminavano nel vialetto alberato fianco a fianco, le loro dita si sfioravano di tanto in tanto, così John si fece coraggio e lasciò scivolare la sua mano in quella di Sherlock; il detective smise immediatamente di parlare di api e rose e si bloccò, un’espressione interrogativa a corrucciargli il volto.
“Cosa fai?”
John ritirò precipitosamente la mano: era chiaro che a Sherlock non piacevano le manifestazioni pubbliche d’affetto, avrebbe dovuto saperlo.
“Nulla, nulla… scusa.”
“Perché hai tolto la mano?”
“Perché è chiaro che a te non piace.”
“Non è vero, ti ho solo chiesto cosa stavi facendo.”
“Volevo camminare mano nella mano con te, ma non importa se ti dà fastidio.”
“No… ma non l’hai mai fatto prima di oggi… oh, ho capito! È qualcosa che la gente fa dopo aver fatto sesso!” esclamò Sherlock ad alta voce e John si guardò intorno imbarazzato, sperando che nessuno li avesse uditi.
“Sì, puoi metterla così.”
Sherlock si guardò la punta delle scarpe, le guance arrossate.
“È tutto nuovo per me, temo che dovrai avere molta pazienza” rispose, porgendogli la mano, e John la strinse nella sua.
Era una bella giornata ed entrambi avevano le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti; i loro polsi erano scoperti, l’assenza del tatuaggio evidente e, mentre raggiungevano i Queen Mary’s Gardens, John non poté fare a meno di notare le occhiate torve che alcune coppie di anime gemelle.

Le cose progredirono molto rapidamente da quel momento, ma John non ne fu sorpreso e non ebbe nulla da ridire quando una sera, tornando dal lavoro, trovò le candele sulla tavola, Sherlock che suonava il suo brano preferito al violino, e una scatolina di velluto blu contenente due fedi in platino appoggiata sul suo piatto.
Avevano già deciso di passare il resto della vita insieme, quindi perché aspettare oltre?

John e Sherlock erano compatibili, non uguali ma complementari, le loro differenze si compensavano, invece di trasformarsi in spigoli aguzzi che cozzavano tra loro, ma c’era un punto sul quale non si sarebbero mai trovati d’accordo.
Sherlock fondamentalmente disprezzava i portatori di nastro, ossia il 90% della popolazione mondiale: non cercava mai il loro plauso, ma viveva costantemente contro il mondo. Il suo atteggiamento ostile non era privo di giustificazioni, se si pensava a come erano stati trattati i senzanastro in passato (e anche in tempi moderni essi erano i primi ad essere vittime di disprezzo e intolleranza), ma John lo trovava sfiancante: lui preferiva un atteggiamento più morbido e accomodante.
Sherlock spesso lo rimproverava di cercare l’approvazione dei portatori di nastro, ed era vero, ma John non lo considerava un difetto.
Ecco perché non ci vide nulla di male il giorno in cui aggiornò il suo blog per annunciare non l’ennesimo caso risolto dal consulente investigativo, ma la loro prossima unione civile.
La risposta dei lettori, purtroppo, non fu quella che si aspettava: a parte la signora Hudson e sua sorella, che reagirono con gioia, tutti gli altri lo attaccarono con commenti irosi, indignati, pesanti offese e addirittura minacce di morte, e questo ricordò a John, brutalmente e dolorosamente, che per molta gente i senzanastro erano ancora una minoranza di esseri inferiori.
John chiuse il computer con uno scatto d’ira e lo lanciò sul divano: non comprendeva il perché di quei messaggi grondanti odio e disprezzo, non capiva come qualcuno potesse sentirsi in pericolo o attaccato solo perché due senzanastro si amavano. Il fatto che lui e Sherlock avessero deciso di trascorrere il resto della vita insieme, non sminuiva e non toglieva nulla alle coppie di anime gemelle sparse per il globo.
Non meritavano quel trattamento.
“Non dirmi che ti aspettavi qualcosa di diverso” esclamò Sherlock dalla cucina con voce ironica. Era chino sul microscopio e non guardò nemmeno in direzione di John.
L’ex soldato, già di malumore per conto suo, non prese molto bene le sue parole.
“Scusami tanto se speravo che una bella notizia venisse accolta diversamente.”
“Speranza vana - ribatté Sherlock, sempre più seccato - Dovresti smetterla di cercare l’approvazione dei portatori di nastro, è solo una perdita di tempo.”
“Hai letto quello che hanno scritto di noi? Davvero non ti importa?”
“No, lo sai bene che non mi curo del giudizio degli altri” minimizzò il detective agitando una mano nell’aria.
“Invece io sì!”
“Questo perché sei un idiota.”
“AH! Grazie tante, questo sì che mi tira su il morale!”
John si rese conto che se fosse rimasto, lui o Sherlock avrebbero finito per litigare sul serio, dicendo cose che non pensavano, quindi preferì afferrare il giubbotto e il portafoglio e uscire per andare al pub a bere una pinta di birra. O due o tre.
Non pensava di chiedere molto, in fondo: solo rispetto per il legame che lo univa a Sherlock, voleva che, davanti a una bella notizia come quella, la gente reagisse allo stesso modo in cui reagiva quando una coppia di anime gemelle annunciava le proprie nozze.
Non c’era alcuna ragione perché il loro amore non venisse considerato alla pari di quello delle anime gemelle, lo faceva infuriare che la gente non capisse, ma lo faceva infuriare ancora di più la reazione di Sherlock, perché sembrava quasi che non gli importasse di loro, e questo lo feriva.
Quasi a rispondere ai suoi dubbi, gli arrivò un messaggio sul cellulare:
“La tua opinione è l’unica cosa che conta per me.
Che tutti gli altri vadano all’inferno.
SH”
John sorrise, rincuorato dalle sue parole: Sherlock aveva il suo punto di vista sulla questione e probabilmente non l’avrebbe mai cambiata.
Certo, per lui sarebbe stato molto meglio poter uscire di casa, andare a cena e tenersi per mano al parco senza essere guardato con disprezzo dagli altri, ma forse col tempo la situazione sarebbe migliorata: già ora i senzanastro vivevano molto meglio che nel passato.
Non aveva più voglia di bere una birra al pub, solo di tornare a casa e fare pace con il suo ragazzo (e futuro marito), stava digitando una risposta, quando un “EHI” urlato in maniera molto sgarbata gli fece alzare la testa: davanti a lui c’erano cinque uomini piuttosto robusti dall’aria torva, che gli si avvicinarono accerchiandolo su tutti i lati.
Anni nell’esercito e un istinto naturale gli fecero immediatamente annusare aria di guai. Mise via il telefono e incassò la testa tra le spalle, preparandosi al peggio.
“Posso fare qualcosa per voi?”
“Tu sei John Watson, quello del blog.”
“Sì, e allora?”
“Non parlarci con quel tono, stronzo!”
“Insomma, cosa volete da me?”
“Che cancelli l’ultimo post, è una cosa schifosa!”
“Non ci penso nemmeno!”
“Ecco perché odio voi senzanastro: dovete sbandierare ai quattro venti quello che fate e credete di essere uguali a noi.”
“Ma lo siamo!”
“TACI!”

Sherlock guardò il cellulare per l’ennesima volta: pensava che, dopo il suo messaggio, John sarebbe tornato subito a casa, ma erano trascorse ore e ancora non si era fatto vivo.
Sospirò: non sapeva cosa fare, non era bravo in quelle situazioni. Non credeva ci fosse qualcosa di sbagliato nelle sue opinioni e non sentiva il bisogno di scusarsi, ma l’errore era stato dare a John dell’idiota, e di questo doveva scusarsi.
Il telefono squillò, ma non era John, bensì Lestrade. Ora non era dell’umore adatto a lavorare a un caso, comunque rispose.
“Non ho tempo, Lestrade.”
“Menomale che hai risposto. Sherlock, si tratta di John.”
“John? Cosa gli è successo?”
“È stato assalito da un gruppo di esagitati e ora si trova al Barts. Devi venire qui immediatamente.”

Lestrade e Donovan aspettavano Sherlock all’ingresso del reparto di terapia intensiva e sussultarono entrambi quando lo videro arrivare di corsa, pallido, sconvolto, sull’orlo delle lacrime.
Donovan in particolare ne fu molto colpita: credeva che nulla potesse scalfire la glaciale indifferenza di quell’uomo, ma forse si sbagliava.
Un infermiere bloccò Sherlock davanti alla stanza di John: “Lei è un parente? Siamo in terapia intensiva, qui sono ammessi solo i parenti.”
“Noi siamo fidanzati, dobbiamo sposarci...”
Lo sguardo duro dell’infermiere diceva chiaramente cosa ne pensava delle unioni civili dei senzanastro, e divenne ancor più inflessibile.
“Fuori di qui.”
Sherlock ringhiò e provò ad aggirarlo, ma l’uomo lo spintonò via, poi si rivolse ai poliziotti.
“Portatelo via, sta disturbando tutto il reparto.”
Lestrade provò a placarlo.
“A me non sembra affatto. Vede, John non ha parenti qui a Londra, la sorella abita lontano e non arriverà tanto presto, penso che si possa fare un’eccezione in questo caso.”
“Non per quelli come loro” disse l’infermiere in tono sprezzante, avanzando di un passo verso l’ispettore, ma un attimo dopo si ritrovò ammanettato.
“Tentativo di assalto a un pubblico ufficiale, ho visto chiaramente - proclamò Donovan - Mi segua in centrale.”
“Non potete!”
“Veda di non aggravare la sua posizione” incalzò Lestrade, e lo trascinò via, lasciando così Sherlock libero di entrare nella stanza di John.
L’ex soldato aveva la testa fasciata, una gamba in trazione, una flebo attaccata al braccio e il volto tumefatto dai lividi.
Gli unici rumori erano quelli del monitor che controllava le funzioni cardiache e il respiro lieve e costante dell’uomo in coma.
Sherlock restò a guardarlo a lungo in stato di shock, paralizzato dalla paura che non si risvegliasse più: non riusciva a credere di aver parlato con John appena quella mattina, e che ora giacesse in coma in un letto d’ospedale.
La ferita alla testa aveva provocato una emorragia cerebrale e la prognosi restava riservata finché l’ematoma non si fosse riassorbito.
Sherlock restò in piedi ai piedi del letto tutta la notte e la mattina seguente, nessuno dei medici che entrarono a visitare John poté convincerlo a uscire o a sedersi; Lestrade entrò nella stanza per fargli sapere che i responsabili erano stati arrestati e sarebbero stati puniti: comportamenti del genere non potevano essere tollerati.
Ma Sherlock continuò imperterrito a restare in piedi a guardare John, inerte come un pupazzo; si riscosse dal torpore solo quando gli parve di intuire un impercettibile movimento della mano sinistra di John sotto al lenzuolo, allora crollò in ginocchio di fianco a lui, gli prese la mano e la portò alle labbra.
Scioccamente sperò che il suo compagno si svegliasse immediatamente, ma non accadde.
“Quando ci siamo conosciuti mi hai chiesto se mi sentissi mai solo, e ovviamente ti risposi di no, ma se me lo chiedessi ora, la mia risposta sarebbe diversa.
In questo momento mi sento solo, terribilmente solo, perché tu sei entrato nella mia vita e ne hai riempito ogni vuoto… mi hai mostrato cosa significa essere felici e amati, e adesso non puoi lasciarmi, non dopo la promessa che ci siamo scambiati. Ci dobbiamo sposare, ricordi? Quindi devi assumerti le tue responsabilità e tornare da me. Ti prego.”
Esausto, appoggiò la fronte sul materasso e lentamente cedette al sonno.
A svegliarlo fu un debole solletico tra i capelli, dove la mano di John li stava accarezzando piano.
Sherlock sollevò la testa di scatto e sgranò gli occhi: “John!”
L’ex soldato sorrise debolmente.
“Ti ho sentito, sono qui.”

   
 
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