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Autore: Koa__    11/11/2017    9 recensioni
Sherlock Holmes ha quasi vent'anni, una laurea già nel cassetto e un'altra che sta per arrivare. Ha tanti sogni da parte, alcuni rosei e pieni di speranze, altri bui e spaventosi. Questo è un breve viaggio nella sua mente.
Dal testo: Avere quasi vent’anni. Amare la vita e, almeno in spunti meramente teorici, adorare la prospettiva stessa dell’esistenza. Salvo poi ritrovarsi a odiarla con ugual forza. Comprendere poco del mondo e ancor meno delle persone. Preferire il silenzio alle parole e non avere idea del motivo per cui questo venga giudicato tanto strano. Pretendere conversazioni stimolanti invece che baci. Amare la solitudine e rifuggire le carezze. Non volere convenzionalmente una ragazza solo per far vedere agli altri di averne una. Più in generale, farsene poco o nulla dell’amore.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Almost 20
 
 
 
 
 
 
 
 
"Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l’espoir,
Vaincu, pleure, et l’angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir."

 
 
 



 
 
Avere quasi vent’anni. Amare la vita e, almeno in spunti meramente teorici, adorare la prospettiva stessa dell’esistenza. Salvo poi ritrovarsi a odiarla con ugual forza. Comprendere poco del mondo e ancor meno delle persone. Preferire il silenzio alle parole e non avere idea del motivo per cui questo venga giudicato tanto strano. Pretendere conversazioni stimolanti invece che baci. Amare la solitudine e rifuggire le carezze. Non volere convenzionalmente una ragazza solo per far vedere agli altri di averne una. Più in generale, farsene poco o nulla dell’amore.
 
Avere quasi vent’anni e il cervello di un genio. Chiamarsi Sherlock Holmes per scelta personale, perché all’anagrafe sarebbe William Sherlock Scott, ma questo solo a sua madre sembra importare. Non averli ancora compiuti, questi maledetti vent’anni ed essere uno studente universitario già da troppo tempo. Ascoltare Bach invece dei Pink Floyd. Suonare Mendelssohn e Schubert. Esercitarsi al violino per ore fino a che le spalle non s’indolenziscono e le dita prendono a far male. Esser poco più che adolescente e cadere preda delle corde spesse e, a causa loro, conservare già un’ombra di calli sotto ai polpastrelli. Leggere Les Fleur du mal in una copia in francese che la professoressa gli ha regalato: “Perché sei così studioso…” ha detto mentre sorrideva. È gentile, madame Simon. Anche se non studia francese, lei gli permette lo stesso di seguire le sue lezioni, al contrario di altri professori che paiono godere nel metterlo alla porta. Sherlock ritiene madame Simon una delle poche persone accettabili che esistano sulla faccia della terra, e il suo francese è più che discreto (come le ha fatto notare una volta o due). Assieme a Victor è la persona meno idiota che conosce. Solo che madame Simon vive un appartamentino poco lontano dall’università da circa trent’anni. Barbarossa invece è come il vento. Pirata di nome e di fatto. Va e viene. Segue l’istinto e la passione, forse le maree. Un giorno c’è parla d’invecchiare insieme nel Surrey o di comperare assieme un barboncino e chiamarlo Barbanera, e quello dopo sta scalando il Cervino in compagnia di due svedesi. Trevor non dà sicurezze, né stabilità. Sherlock è convinto che Victor sia un po’ come la vita stessa, proprio per questo lo ama e lo odia. Gli piace, ma fatica quasi del tutto a dargli un senso.
 
Sherlock adora ciò che fa, e questo è innegabile. Ma ci sono momenti che si avvolgono nel buio, quando le note non girano e il sonno non arriva, in cui è costretto a confessare a se stesso che qualcosa in lui non va sempre per il verso giusto. La mente gioca strani scherzi e di recente gli pare d’impazzire. Al mattino si sveglia con l’angoscia. Ha barlumi di paura che serpeggiano dentro e nascono all’improvviso, offuscandogli la ragione. Ha idee strane che muoiono in un sospiro e ritornano più forti di prima. La notte, poi, fa sogni spaventosi. Vede il proprio funerale e una bara lasciata aperta, il suo corpo morto alla mercé dei corvi che banchettano con le sue carni in una chiesa fatiscente. Nessuno a piangerlo, a ricordarsi di lui. Non un'eco di musica o lacrime. Solo il rullo dei tamburi della morte e una solitudine viscida che non se ne va neanche a volerla scacciare. La cosa peggiore è che da quando ha fatto quel sogno, non c’è giorno in cui non si tortura per cercare di trovare a ciò che immagina, un significato. È arrivato a proibirsi di dormire, rimanendo sveglio a suonare o a leggere. Si è ripetuto decine di volte che ha il controllo totale delle esigenze del proprio corpo, e sembrava funzionare. Finché non è svenuto come un idiota nei corridoi dell'ateneo. Svegliarsi infermeria ore più tardi e con lo sguardo di Mycroft a rimproverarlo pur senza dire una parola, è stato ben peggiore che avere degli incubi. Sherlock ha deciso che non ci proverà mai più, e soltanto per non dover esser costretto a subire lo sguardo di suo fratello che gli rimprovera d’essere una delusione su tutta la linea. I sogni, naturalmente, son continuati. Dorme la notte, anche se poco e di giorno evita di lasciar andare i pensieri come faceva un tempo. Sogni a occhi aperti, fantasie, lavorare al suo Mind Palace… non ci prova nemmeno più. Sa che finirebbe sempre per vedersi marcire in una bara. E quindi, adesso, questi dannatissimi occhi li tiene aperti più che può. Ed è a quel punto, in un perfetto controsenso, che vivere fa ancora più male. Capisce che sarà sempre diverso e in una maniera irrimediabile, nell’attimo stesso in cui si rende conto che attorno a sé non vede altro che gente che fugge e lo evita, che lo chiama: “lo strambo del laboratorio” e ride alle sue spalle. Si tratta di persone che non conosce o di cui ha dimenticato il nome, non hanno un volto e forse neanche un’anima, ma ciò che urlano fa male lo stesso. Sherlock non lo vorrebbe. Preferirebbe che gli strepiti di sconosciuti non lo toccassero tanto in profondità, ma non ci riesce. Non vorrebbe sognare le loro dannate risate in quell’altrettanto dannata chiesa vuota. Non vorrebbe vedersi esame di sguardi che lo giudicano e condannano. Ma per quanto ci abbia provato, nulla è mai servito davvero. È come se non riuscisse mai a fare il passo decisivo, né via da loro, né verso di loro. Ci sono volte in cui smette di respirare e lì la paura assume una connotazione diversa, più reale. Altre in cui piange, ma ora almeno a questo ha messo rimedio. Ciò che ama ancora fare è fuggire e scappare lontano. Si rintana sotto a quel gruppetto di alberi che sta oltre i dormitori degli studenti, e da lì non si muove. Neanche d’inverno quando la neve cade e non smette. Gli basta Baudelaire e Bach in cuffia ad alto volume. Per assurdo, le uniche due persone che siano mai riuscite a entrargli in testa.
 

Non si è mai chiesto troppe cose su se stesso. Non si domanda perché gli piaccia leggere invece che guardare un film stupido. Sherlock sa di esser fatto alla sua maniera. Di avere interessi che differiscono da quelli dei suoi coetanei. Non crede di avere un così pessimo carattere, come ribadisce sua madre ogni santo giorno. Insomma, non è mica colpa sua se sono tutti degli stupidi idioti. Ed è ridicolo che a quasi vent’anni, la domenica, quando torna a casa, Sherlock sia ancora costretto a sorbirsi in silenzio le lamentele di mamma sul fatto che non abbia nessuno con cui andare a ballare, e il tutto mentre Mycroft sogghigna di nascosto e forse sperando che dopo non tocchi anche a lui. “Fatti degli amici, William” e ancora: “Sii più carino con i compagni o nessuno vorrà mai starti vicino”. Come se volesse sul serio la compagnia di qualcuno. Un tempo gli bastava Victor, quando c’era. Adesso che è praticamente uscito dalla sua vita, Sherlock sente di star bene lo stesso. Lui che ha quasi vent’anni, una laurea in chimica che non ha neanche fatto troppa fatica a prendere e un’altra in criminologia che arriverà entro la fine dell’anno. Lui che macina esami su esami e colleziona trenta e lode, che segue corsi che con i suoi studi c’entrano poco o nulla e soltanto per arricchimento personale. Lui che si fermerà a due lauree non soltanto perché del resto non gli importa, ma perché in tutta onestà non ne può più di vivere lì. Tutto ciò che vuole è avere i requisiti necessari per poter svolgere quel lavoro che sogna da tutta una vita. No, non il pirata. Lui e Victor volevano conquistare i sette mari, ma è stato tanto tempo fa. E nemmeno il poliziotto. Perché sì, per un certo periodo (Per fortuna limitato nel tempo) si è ritrovato a desiderare di lavorare per Scotland Yard. Oh, risolvere crimini, arrestare criminali… Ma lui è troppo intollerante alle divise per poter svolgere un mestiere del genere. Di recente crede d’aver trovato un buon compromesso tra le due cose, tra l’essere un poliziotto e un pirata. Un detective che non segue le regole e ne inventa di proprie. Sì, appena sarà fuori da quel posto andrà a vivere a Londra e diventerà un consulente detective. O consulente investigatore. Il nome va perfezionato.

Un lato di lui è convinto che l’odio della gente non finirà mai e che non farà neanche mai niente per non detestarla. Ha capito che è meglio se per il mondo non esiste o se si palesa quando necessario, nel momento in cui servirà materialmente a qualcuno. Però non avrà mai amici, e lo sa. Perché Victor già non c’è più e no, non ci sarà un altro Victor. Non avrà una relazione romantica con anima viva, non avrà amici e di certo non s'innamorerà mai. Non avrà persone di cui fidarsi o a cui chiedere aiuto. Ci sarà Mycroft, ma il più lontano possibile da lui. Mamma, possibilmente zitta. Forse papà. Ci sarà sempre il violino e la musica, tutti i suoi libri. E ci sarà il suo lavoro. Quello che vuole fare. Oh, già riesce a immaginare se stesso perfettamente… L’unico consulente investigatore al mondo. Sherlock Holmes e nient’altro. Nessun legame, nessun impegno. Nessun sacrificio. Nessun dubbio sul fatto che questo sia il modo migliore per vivere. Ora che ha quasi vent’anni, Sherlock è più che convinto che sarà sempre da solo e che questa sia la vita giusta per lui e non gli importa se di tanto in tanto sente ancora i tamburi della morte o se gli capita di rivedere quel se stesso che marcisce in una chiesa vuota. D'altronde ha solo vent’anni, e passerà anche questa.
 
 


 
Fine
 
 
 
 
 

Note: La citazione (di cui sotto metto una traduzione – presa da Wikipedia), è il verso finale di una delle quattro poesie contenute nella sezione Spleen et ideal de: “Les Fleurs du mal” di Charles Baudelaire.

“Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali
a lungo, lentamente, nel mio cuore: la speranza,
vinta, piange, e l'angoscia atroce, dispotica,
pianta, nel mio cranio riverso, il suo vessillo nero.”
 
La poesia mi è stata data come prompt al gioco: “Obbligo, verità o salvataggio” del gruppo Facebook “Il giardino di Efp”. Dovevo scrivere una storia in un fandom a mia scelta e ispirarmi a quei versi. Devo confessare che a un certo punto stavo per inserire anche John e scrivere una University!AU che avesse un finale meno angosciante. Ma poi mi sono fermata, perché volevo scrivere qualcosa di non Johnlock e che riguardasse unicamente la giovinezza di Sherlock.
 
   
 
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