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Autore: silbysilby_    11/11/2017    1 recensioni
Seul, 2015.
La notte di Halloween era sempre stata un evento storico all'Anathema, la discoteca più in voga della città. Già non era un posto raccomandabile, ma in quella occasione raggiungeva apici scandalosi. Sorprendeva pure Jimin e lui di certo non era un santo. A meno che ai santi non sia permesso fare i ballerini nei club.
Jimin si sarebbe aspettato di tutto, tranne che essere coinvolto a sua insaputa in un esperimento. In effetti, non gliene si può fare un torto; da quando in qua le mele hanno incubi, gelosia e passione come effetti collaterali? E da quando in qua le maledizioni si trasmettono con un bacio?
I suoi amici non possono saperlo. Yoongi non vuole saperlo. Non vuole avere più niente a che fare con Park Jimin.
Genere: Dark, Erotico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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DAN DAN 
(sì, evviva le entrate in scena drammatiche)
Il primo capitolo! Si entra nel vivo della questione dopo un prologo molto vago, finalmente. 
Vi dico già che nelle primissime scene di questo capitolo sono presenti due personaggi originali: so che sono meno interessanti, ma quel pezzo è fondamentale per tutto lo sviluppo della vicenda. Stringete i denti e leggete lo stesso per favore HAHAHA

E niente, vi lascio al capitolo. Se volete seguirmi su twitter @silbysilby pubblico spesso qualcosa di speciale per voi E SCRIVETEMI, CERCO AMICI




 
 Find the me that was innocent
I can’t free myself from this lie
Give me back my laughter 

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LIE 

(1) October 31st, 2015 - Saturday                                                                      

Nessuna targa contrassegnava il minivan nero che stava girando per le strade di Seul. 
Nessun passante ci fece caso, nessun vigile fermò il suo passaggio, come se l'abbagliante riflesso del sole sulla carrozzeria costringesse la gente a distoglierne lo sguardo. Oppure quel suo passare innosservato era dovuto al silenziatore del motore. 
Ma, se così fosse stato, non ci si spiegava come mai non si sentì il minimo scricchiolio quando quelle ruote calpestarono la sottile ghiaia depositata nel parcheggio dell'Anathema. 
La luce pallida di quel tardo pomeriggio si stampò sui finestrini oscurati, permettendo agli alberi di rifletterci i loro rami spogli. L'autovettura si arrestò lì, spegnendosi. 
La portiera del conducente si aprì. L'uomo che ne scese indossava un giubbotto smanicato color porpora  su un paio di pantaloni da operaio, una mascherina anti-polvere nera a coprirgli il viso fin sotto gli occhi. Un secondo uomo conciato alla stessa maniera sbucò dai due sportelli sul retro della vettura e andò subito ad aprire la portiera del passeggero. 
L'alta statura del terzo uomo lo costrinse ad abbassare il capo per evitare di prendere contro la tettoia del minivan quando ne uscì. Parte dei suoi mocassini persero lucidità quando sprofondarono appena nella ghiaia, ma lui ci fece caso. Il classico completo nero che indossava avrebbe reso ben chiaro il suo ruolo in quel trio, ma portare sopra una giacca così elegante lo stesso giubbotto porpora rovinava la sua credibilità. E diciamo anche che quel berretto di cotone a righe non era proprio il massimo.
Con quegli occhi che sbucavano da sopra la mascherina perlustrava l'esterno del locale, lo sguardo acceso da una curiosità che avrebbe stonato nella figura di qualsiasi altro adulto. 
Ovviamente aveva già avuto modo di visitare l'Anathema in altre occasioni, ma vedere uno dei locali più rinomati di sempre alla luce del giorno faceva tutt'altro effetto. L'edificio era compatto, spoglio. Le luci a led delle grandi lettere poste sopra i vari portoni principali che lo intitolavano erano spente, grigie e tristi. 
Non si sarebbe detto esserci anima viva se non fosse stato per quel filo di musica che a malapena poteva essere percepita dall'esterno. 
Quando una vocina sottile lo chiamò da dentro il minivan, l'uomo si voltò. I segni sotto i suoi occhi lasciavano indovinare il suo sorriso mentre si sporgeva a mani protese verso la portiera da cui era uscito lui stesso. Un paio di braccine andarono subito a circondargli il collo, due gambette si ancorarono al suo busto senza che i talloni riuscissero a toccarsi dietro la sua schiena. Solo i capelli biondissimi della bambina furono visibili quando quest'ultima chinò il visino sulla spalla dell'uomo che per sostenerne il peso l'avvolgeva con un solo braccio. 
Nel frattempo gli altri due uomini si erano assicurati di aver chiuso la vettura, una valigetta nera scaricata a terra poco prima che fu raccolta dal manico da uno di loro. 
Insieme, lo stravagante gruppetto si diresse verso l'ingresso dell'Anathema, qualche foglia secca che approfittava della loro distrazione per riposare sul vano del loro minivan. 


Era da circa un'oretta che lo staff al completo dell'Anathema era in fermento. 
Solitamente, quando la discoteca dava il via alle danze alle ventitré, il loro orario standard, dovevano farsi trovare sul posto di lavoro alle ventuno, ma per l'occasione tutti erano stati convocati in anticipo. 
Era il giorno di Halloween e Patrick Daront non se ne sarebbe tornato a casa senza un nuovo record di incassi. 
Da proprietario qual'era, l'uomo si era messo a fare su e giù per gli angusti corridoi del suo locale, andando incontro a chiunque, baristi e DJ, donne delle pulizie e ragazze Immagine, pronto a impartire ordini e a sfornare soluzioni. 
Con quella sua statura nella minor media (Così la definiva lui. Chiunque altro gli avrebbe semplicemente dato del basso), il suo completo formale all'ordine del giorno che non mascherava il fisico torchiato, le basette segnate di grigio e la fronte resa troppo alta dal principio di una calvizia, pareva più un vigile stradale, trovatosi lì a dirigere il traffico pedonale a suon di fischietto e paletta. Non faceva multe, ma minacciava di licenziare chiunque gli rubasse un secondo di troppo del suo prezioso tempo per questioni inutili. 
Come per esempio il cameriere che aveva davanti a sé in quel momento. Il ragazzo non doveva avere più di venticinque anni ed era tutto curvo in avanti, come se la vergogna che gli impregnava le guance pesasse così tanto da non riuscire a sollevarsi da quell'inchino. 
Daront gli stava facendo una lavata di testa memorabile; seppur curiosi, nessuno degli altri dipendenti si era affacciato sul corridoio per paura di prenderci sotto a loro volta. 
C'era qualcosa di spaventoso nel modo in cui Daront riprendeva le persone. Sgridava senza alzare la voce, con un mormorio secco e cadenzato di sillabe. Teneva gli occhi ben aperti e li piantava in quelli del malcapitato, facendolo sentir combattuto tra l'istinto di abbassare i propri o di sostenere il suo sguardo. In tutto questo tendeva anche a gesticolare, distraendo la vittima. 
Pareva quasi lo facesse apposta: finché guardavi in giù eri umile; lo guardavi negli occhi, eri rispettoso e con un minimo di palle. Le tue pupille scivolavano di lato per una frazione di secondo? Eri un arrogante figlio di papà che non gli prestava attenzione quando parlava. 
Il cameriere in questione non faceva altro che ripetere quanto fosse desolato, ma ogni volta che apriva bocca Daront gli parlava sopra. Quando poi riuscì a chiedere il permesso per poter andare a cercare a casa propria il cravattino della divisa che a quanto pare aveva perso, Daront gli chiese se non preferisse chiamare la sua mammina.
Il ragazzo era poco dignitosamente sull'orlo del pianto quando da una delle porte sbucò l'addetto alla segreteria, il telefono premuto tra capo e spalla e una cartellina sui cui era intento a scrivere poggiata sull'avambraccio. 
"Signore," lo chiamò, il tono di voce piatto. "un uomo chiede di poterla incontrare seduta stante. Dice di essere di famiglia." 
Daront fece un cenno disinteressato con il braccio, stringendosi l'attaccatura del naso tra l'indice e il pollice. "Senza appuntamento non esisto per nessuno." 
Un attimo di silenzio mentre il segretario aspettava la risposta dall'altra parte della linea dopo aver riferito. 
"Dice che è un'emergenza, signore."
Un lungo sospiro impaziente uscì dalle narici di Daront, le folte sopracciglia che quasi si toccavano mentre valutava la situazione. 
"E va bene, fallo entrare e digli di salire al primo piano."
Daront rimase a fissare lo stipite della porta anche quando il segretario annuì con il capo e tornò all'interno della sua stanzetta. La voce incolore di quest'ultimo si perse tra i rumori della stampante in funzione e la combinazione dei tasti per aprire l'ingresso giù. Lo sguardo scocciato di Daront tornò a posarsi sul capo del cameriere, che in tutto questo non si era mosso di un millimetro; dovette trattenersi dal rifilargli un calcio poco giocoso al fondoschiena. 
"Va a casa." disse, spazientito. "Se questa sera non ti vedo con quel fottutissimo cravattino al collo e un sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia non disturbarti a presentarti la prossima settimana."
Il ragazzo sgattaiolò via il più velocemente possibile, andando a prendere le sue cose.
Daront si voltò dalla parte opposta del corridoio, andando incontro a chiunque avesse deciso di infastidirlo con quella visita inaspettata. Un paio di nomi gli balenarono alla mente, provando a ipotizzare di chi si potesse trattare.
Eppure rimase interdetto quando si ritrovò di fronte suo fratello. 
Lloyd Daront era proprio come lo aveva visto l'ultima volta un paio di anni prima. Forse le fossette intorno al suo sorriso e i segni intorno agli occhi si erano fatti più marcati, ma per il resto sembrava che i suoi trent'anni si stessero prolungando a data da destinarsi. I dieci anni di differenza che dividevano i due fratelli parevano essere diventati quindici. 
Ecco, forse a farlo rimanere così di stucco non era la semplice presenza del fratello. Era l'aurea che emanava, quel non so che di europeo o nordico a cui Patrick non era più abituato. La cosa non avrebbe dovuto toccarlo più di tanto; d'altronde poteva vedere i propri occhi azzurri ogni giorno allo specchio, chiaro segno del suo non appartenere a Seul o alla Corea in generale. 
Lloyd doveva essersi presentato lì dritto dritto dalla loro città natale, pallido e secco com'era.
Oppure a colpire Daront poteva essere stato il fatto che il fratello non fosse solo.
No, perché la bambina avvinghiata al suo collo e i due scagnozzi in borghese non se li era aspettati. 
"Lloyd." disse Patrick, lo stupore nella sua voce che suonava come entusiasmo. Continuò ad avanzare verso la piccola combriccola di persone, le braccia prima aperte e poi chiuse, come se temesse che il fratello potesse mal interpretare il gesto come un invito ad abbracciarlo. "A cosa devo questa visita inaspettata?"
La lingua calcò sull'inaspettata. Frequentato o meno durante gli ultimi due anni, Patrick aveva delle mansioni da svolgere nell'immediato. 
Porse la mano al fratello che, dopo aver poggiato a terra la bambina, ricambiò la stretta. 
Posto uno di fronte all'altro, chiunque si sarebbe messo a far confronti tra i due fratelli Daront. Dove Patrick era bassino e robusto, Lloyd era alto e smilzo. L'espressione perennemente turbata del primo compensava quella spensierata del secondo. Solo tre cose li avevano sempre accomunati, a detta di chi aveva avuto modo di conoscere entrambi: il colore degli occhi, quei capelli così scuri da sembrare neri (che Lloyd teneva attualmente nascosti sotto il berretto a righe) e la creatività nel far soldi. 
Lloyd non fece neanche in tempo a lasciare la mano di Patrick che la bambina subito si mise a tirargli un lembo dei pantaloni del completo elegante, stropicciandoli nel suo pugno. L'uomo sorrise e si chinò su di lei, premendosela contro il petto da dietro le ginocchia prima di sollevarla. 
Daront assisté alla scena senza dire una parola, ma era ovvio che fosse confuso dall'identità della bambina. Che lui sapesse, suo fratello due anni prima non gli aveva certo annunciato che sarebbe diventato zio, e lei non dimostrava meno di cinque anni. E se avesse avuto ancora qualche dubbio in merito quelle guance color pesca, i capelli di un biondo alpino e gli occhioni di un azzurro quasi grigio che aveva intravisto glielo avrebbero tolto. 
Notando lo sguardo confuso sul volto ruvido del fratello, Lloyd si affrettò a fare le presentazioni con un sorriso rinnovato. Il che ricordò a Patrick quella volta in cui, da novello adolescente, il fratello minore si era imposto di non ridere mai più. Gli avevano detto che quando lo faceva assomigliava vagamente ad un'iguana per via delle labbra sottili e lui ci era rimasto malissimo. 
Già, era stata una settimana parecchio triste in casa Daront, quella. 
"Patrick," iniziò Lloyd, la mano libera che andava ad allentare la cerniera della giacca della bambina per non farle patire caldo. "questa è Melanie, la figlia della mia compagna." 
Il fratello maggiore sollevò un sopracciglio, ma non commentò la cosa. Avrebbe potuto chiedere dove fosse la madre di Melanie in quel momento, o da quando esattamente suo fratello avesse una compagna, ma non erano informazioni che lo interessassero davvero.
Era già abbastanza imbarazzante vedere il proprio fratello incitare una bambina a salutare di rimando canticchiando il suo nome in falsetto. Ci mancava solo che le prendesse il polso per farle fare ciao ciao con la manina. 
"Gli uomini con te?" 
Lloyd smise di infastidire la bambina, come se si fosse ricordato solo in quel momento dell'esistenza degli altri due. Si rizzò meglio sulla schiena, mostrandosi in tutta la sua altezza. Teneva addirittura il mento più alto. 
"Lavorano per me. George, Matt, mio fratello Patrick Daront." 
I due uomini si chinarono in simbiosi. Si abbassarono la mascherina dal viso solo per salutarlo educatamente. 
Ancora una volta, Daront avrebbe voluto commentare sul fatto che i due fossero letteralmente vestiti come due operai, con tanto di logo bianco sulla giubba smanicata (cos'era, una specie di cuore stilizzato?). Non sapeva esattamente quale mansioni dovesse svolgere uno per essere un dipendente del fratello, ma si sarebbe aspettato qualcosa di meno... comune? 
Senza menzionare il fatto che quel color porpora della loro divisa faceva davvero scappar da ridere su tre uomini grandi e vaccinati come loro. Ecco, quello senz'altro lo aveva scelto Lloyd. Doveva davvero avere potere su di loro se non si erano ribellati a quello strazio per gli occhi. 
Comunque, qui qualcuno non stava rispondendo all'unica domanda importante. 
Patrick non fece un segreto della lunga occhiata che diede al suo orologio da polso. 
"Lloyd," chiamò, lo stesso tono che avrebbe usato con un bambino ottuso. Beh, lo stesso tono che usava con lui quando lo riteneva solo un bambino ottuso. "Che ci fai qui? Vedi, starei lavorando-"
"Siamo in gita." 
La serietà con cui Lloyd lo disse fece venire voglia a Patrick di rifilare a lui tutti quei calci che aveva risparmiato prima al cameriere. Si ritrovò a stringere i pugni, il ticchettio delle lancette che gli risuonava nelle orecchie. Non digrignò i denti solo perché la bambina lo stava fissando.
"Hai detto al mio segretario che si trattava di un'emergenza."
"Infatti, la gita era per Melanie. A me serve solo un favore." 
Patrick stava ufficialmente perdendo la pazienza. 
"Mi dispiace, hai scelto la serata sbagliata. Qui siamo nel bel mezzo dei preparativi per l'evento di questa sera, i miei dipendenti hanno bisogno di consultarmi. Non ho tempo di stare a sentire te." 
Detto questo, Patrick diede le spalle al fratello e alla sua allegra compagnia, incamminandosi giù per il corridoio. Loro gli andarono subito dietro, senza lasciarlo mai allontanare troppo per quanto lui allungasse il passo. 
"Non c'è problema," esclamo Lloyd, i talloni che battevano secchi contro le ante del pavimento man mano che recuperava campo. "Tu fa quel che devi fare, stacci solo a sentire." 
"Passate domani alla stessa ora. Mi trovate nel mio ufficio." 
"No, è urgente, davvero. Ho bisogno del tuo favore questa sera. E' una questione d'affari." 
Per poco Patrick Daront non si mise a ridere, fermandosi solo un attimo per firmare un paio di documenti portategli dallo stesso segretario che aveva risposto al telefono. Dopo un gesto veloce e svolazzante della biro, la riconsegnò a quest'ultimo e tornò a seminare il gruppetto. 
Lloyd si calcò meglio la bambina in braccio, facendola saltare. Per tutto il tragitto precedente Melanie si era divertita a passare un dito sul sottile strato di velluto che ricopriva le pareti, la stoffa così vecchia che, tra il colore verde bottiglia, l'odore che emanava, i vari fili che spuntavano dalle sfregiature e zone in cui la colla non aderiva più, sembrava sul punto di marcire.  Si poteva vedere chiaramente la sottile scia di quel ditino che aveva accarezzato il velluto contropelo, cambiandone colore. 
Lloyd schioccò un paio di volte le dita della mano, il braccio proteso all'indietro verso uno dei suoi uomini. Non rallentò e non demorse. "Ho saputo che ultimamente non te la passi molto bene. Il tuo nome e quello dell'Anathema sono ovunque sui giornali, è uno scandalo dopo l'altro." 
Daront nemmeno si voltò, si limitò a curvare le sopracciglia.
"Ho aperto una discoteca, non un convento." 
"Guarda qua," disse Lloyd, un fascicolo rilegato in pelle nera stretto a fatica in una mano. "Abbiamo pensato molto a quali sono i punti deboli di questo locale, e sono sempre i soliti, ogni volta che ti accusano." 
Un paio di ragazze sbucarono da una porta senza fare attenzione, le loro coulotte e le canottiere aderenti al corpo dal sudore dopo aver ripassato qualche nuova coreografia. Lloyd le schivò per un pelo, mentre George e Matt si dovettero scansare ai due lati opposti del corridoio per farle passare. 
Le parole di Lloyd si stavano facendo ansimanti; per quanto fosse il più giovane dei due, non era mai stato un grande sportivo. Iniziò ad elencare. 
"Risse, minorenni che abusano di alcolici, spaccio, malesseri. Sono addirittura riuscito a trovare un caso di stupro. Hai pagato il tuo avvocato affinché sistemasse la situazione anche per il tizio denunciato, non è vero?" 
Daront ignorò le parole del fratello, affiancato per pochi passi da un giovanissimo DJ dalla testa rasata, le cuffie intorno al collo e una lista delle tracce sui cui avrebbe lavorato quella sera da approvare.
"Ho documentato anche le varie dichiarazioni della polizia, quelle in cui promettono di effettuare più controlli senza preavviso. Se questo è vero tu devi star già perdendo una bella fetta di clientela tra minorenni e il giro di spaccio chiuso-" 
Alla parola spaccio, Daront si voltò di botto, l'espressione dura. Le sue labbra quasi non si mossero quando parlò, gli occhi che si guardavano intorno alla ricerca di ascoltatori sgraditi.
"Vuoi chiudere quella cazzo di bocca?" 
Lloyd rimase indifferente all'ira del fratello, contento anche solo di averlo raggiunto. Si appoggiò con una mano ossuta alla sua spalla, riprendendo fiato. 
"Aspetta a criticare, segui il mio ragionamento." disse, finalmente dando alla sua voce una pausa da tutto quel sgolarsi. "Fai in modo che i tuoi clienti possano trovare alcool e droga solo per renderli dipendenti e farli tornare all'Anathema più spesso, giusto o sbagliato?"
Patrick guardò male il fratello, ma stette al suo gioco, controvoglia. 
"Giusto."
"Con tutti questi controlli sei costretto a tenere la guardia alzata e di conseguenza stai perdendo soldi, giusto o sbagliato?"
"Sicuro che tua... nipote, figliastra, quel che è, possa ascoltare questa conversazione?" 
Lloyd si voltò verso Melanie, come se fosse apparsa magicamente tra le sue braccia. Si morse le labbra da anguilla, probabilmente immaginandosi cosa avrebbe detto la compagna se la piccola se ne fosse uscita con discorsi su vodka e hashish. 
Puntellò un indice contro il suo nasino, facendole gli occhioni grandi. E rieccolo con la voce in falsetto. "Se non dici niente alla mamma dopo ti do la merenda." 
La piccola sorrise, mostrando i dentini da latte un po' storti. Lloyd le scoccò un bacio sulla guancia e proseguì.
"Allora, giusto o sbagliato?" 
Daront ormai aveva deciso che per quella giornata non si sarebbe fatto più domande.  
"Giusto."
"Bene. Ora, se ci pensi, quando è che di solito la gente va in discoteca, beve, fuma o si fa?" La domanda era retorica, il discorso evidentemente preparato prima, per cui Patrick sapeva di non dover davvero rispondere al fratello che infatti continuò. "Quando è giù di morale. O è su di giri. Quando sta troppo bene o troppo male, oppure quando vuole uscire dal tuo locale stando meglio o stando peggio. In parole povere, le persone frequentano le discoteche per cercare emozioni o per dare sfogo a quelle che hanno già." 
Una breve fila di persone attraversarono lo stretto corridoio carichi di scatoloni, pronti a decorare le sale da ballo dell'Anathema a tema halloweeniano. I due fratelli si zittirono, vedendosi sfilare davanti più coppie di ragazzi, uno per ogni estremo di una serie di bicchieri da cocktail alti tanto quanto un ragazzino. 
Ripresero a parlare non appena svoltarono l'angolo. 
"A te non servono sostanze stupefacenti o altre porcherie. Ti serve solo che la gente spenga il cervello e si lasci guidare dagli impulsi."
"Ti avverto, se ti metti a parlare seriamente di emozioni ti butto fuori." 
Lloyd sorrise, già pregustando la fine del suo discorso sulla punta della lingua.
"Ho la soluzione che fa per te." 

Il meccanismo che teneva serrata la valigetta nera venne sbloccato facilmente. Lloyd la fece girare su sé stessa, approfittando della superficie liscia della scrivania a cui era appoggiata, mostrandone l'interno al fratello. 
Quando avevano capito che la conversazione si stava facendo più seria, e di conseguenza meno aperta al pubblico, si erano tutti trasferiti nell'ufficio di Daront. 
A differenza degli sciatti corridoi o dell'arredamento all'avanguardia delle sale da ballo, l'ufficio di Daront si poteva definire noioso. Il mobilio era per la maggior parte in legno, le tre poltroncine che attorniavano la scrivania di pelle nera. Le pareti erano di un nocciolino indefinito, ma l'unica che non fosse occupata dalla finestra, dalla porta o da un armadietto, era coperta da una grande schermata al momento spenta. 
La stanza era evidentemente pensata per ospitare solo il suo proprietario; quelle quattro pareti parvero ancora più strettine quando George e Matt furono costretti a rimanere in piedi per mancanza di sedie. Le uniche due disponibili erano occupate da Lloyd e dalla bambina.
E poi ovviamente c'era quella di Daront, una comodissima poltroncina da scrivania con tanto di manici e schienale reclinabile. Inutile dire che era assolutamente off-limits per chiunque non portasse il suo nome, cognome e numero di scarpe. 
Non appena Patrick Daront vide cosa conteneva la valigetta, un particolare che era sfuggito alla sua attenzione quando aveva dato una prima occhiata agli uomini alle spalle di suo fratello, vide morire in un nanosecondo quello sputacchio di fiducia che aveva. 
La valigia conteneva mele. 
Quattro bellissime, perfette mele. Dalla buccia levigata, senza una grinza o un punto in cui quel color porpora non fosse compatto. In ognuna di esse era appiccicato un bollino bianco, l'esatta copia del logo sui giubbotti dei tre uomini di fronte a lui.
Daront concesse mentalmente un minuto al fratello per iniziare a spiegarsi e convincerlo di avere un minimo di sale in zucca prima di alzarsi e sbraitargli contro. Mise su un sorrisino di circospezione uscito parecchio male, come a voler fare abbassare la guardia all'altro prima di attaccarlo, fingendosi divertito dallo scherzo. "Ti credevo uno spacciatore, non un ortolano." 
Per sua sorpresa, fu Lloyd il primo a rimanere serio.
Si fece passare dai suoi dipendenti un secondo fascicolo che lasciò cadere mollemente sulla scrivania, esattamente sopra quello degli articoli diffamatori sull'Anathema. Patrick ne sfogliò le prime pagine senza neanche avvicinarlo a sé, esaminandolo in modo superficiale. 
Vide solo un mucchio di numeri e calcoli. Riconobbe la tavola degli elementi chimici, ma nulla di più. 
Gli occhi di Lloyd brillavano. 
"Sono mele OGM. Modificate geneticamente. Saranno ormai un paio d'anni che ci lavoriamo in laboratorio." 
Con una delicatezza e un'attenzione nelle dita che il fratello maggiore trovò tipiche di lui, Lloyd sfilò una mela dall'apposito contenitore, alzandosi in piedi.
"Non sto a raccontarti tutta la favola. A parte che neppure io la so tutta." 
Daront si appoggiò all'indietro sullo schienale. Il minuto stava iniziando ad arrivare agli sgoccioli, ma aveva davvero voglia di starsi a sentire le scemenze con la quale se ne sarebbe uscito l'altro. 
"Mi sono semplicemente limitato a esporre la mia idea a degli ingegneri genetici, partendo dal presupposto che dovevamo trovare il modo di nascondere della roba nel cibo per farla passare alla dogana." 
Lloyd fece spallucce, un gesto sbarazzino tipico di lui.
"Hanno provato a spiegarmelo, ma l'unica cosa che ho capito è che sono partiti direttamente piantando dei semi di melo. Poi qualcosa riguardo alle sostanze con cui li innaffiavano, non so. Mi hanno chiesto di dargli, cito testualmente, la più micidiale delle mie ricette." 
Patrick annuiva con il capo, come se stesse ascoltando il fratello.
Caspita, stava provando a vendergli delle mele. Delle mele. Doveva essere caduto in disgrazia. Si, doveva essere così. Aveva perso ogni cosa in giochi d'azzardo e si era ridotto a questo. Davvero Lloyd credeva di poter abbindolare qualcuno così? Sarebbe stato meglio se si fosse limitato a elemosinare davanti alla sua porta piuttosto che cercare di fotterlo. 
Patrick mantenne un tono di voce calmo.
"Mi stai dicendo che mangiare una di queste è come farsi in vena?"
"No." disse subito Lloyd, aggiustandosi il berretto a righe sulla testa. "Non proprio. Considerale più come uno stimolante. Non creano delle sensazioni dal nulla, accrescono solo quelle che ci sono già. Diciamo che assomiglia di più a una specie di iperattività mentale e di conseguenza fisica."
Lloyd ripose la mela nella valigetta, lasciandola aperta. 
"Da quel punto di vista assomigliano di più all'alcool, ma con la differenza che si rimane lucidi. Senza parlare del fatto che gli effetti delle nostre mele durano precisamente una settimana, tutto il tempo per cui le sostanze nutritive vengono digerite e assimilate giornalmente nel corpo." 
Daront si guardò attorno, prestando attenzione all'altro solo con un orecchio. Ovviamente la bambina non era neanche da considerare, ma le facce dei due uomini erano impassibili. Il fratello più grande quasi si aspettava che qualcuno si mettesse a ridere all'improvviso, incapace di trattenersi. 
Se tutto questo era uno scherzo avrebbero fatto meglio a scoprire le carte in tavola immediatamente, perché Daront stava iniziando a permettersi il beneficio del dubbio.
"E questa tua mela" chiese, enfatizzando il nome del frutto. "com'è che farebbe al caso mio?" 
Gli occhi di Lloyd rotearono al cielo, come se il fratello fosse lento di comprendonio. 
"Pensaci bene. Non farebbe solo al caso tuo, ma a quello di tutta l'economia, in ogni suo campo. Se noi aumentiamo del triplo, del quadruplo tutte le piccole voglie della popolazione, le vendite avranno un'impennata su tutti i mercati. Pensa anche solo banalmente al cibo: chi prima aveva voglia di una caramella si ritroverà a comprare barrette intere di cioccolata." 
Tornò a sedersi, limitandosi a gesticolare dal posto. 
"Se tu ogni settimana servissi queste mele, che siano nei drink o dove ti pare, quegli stessi giovani verrebbero anche il fine settimana successivo, e così ancora e ancora. In media in discoteca non ci si va più di volte al mese, ma in questo modo tu avrai tutti i tuoi clienti tutte le serate. E-" dito puntato verso l'alto, un sorrisino sul viso. "non ti darebbero problemi con la legge. La mela è un frutto comunissimo, lo si può trovare ovunque fuori stagione. Il massimo dello scandalo sarebbe sul fatto che non sono biologiche."
Lo scetticismo era ancora lì, sotto pelle. Daront valutò anche la possibilità che Lloyd si fosse dato alla narrativa e lo stesse usando per capire se la sua storia fosse effettivamente credibile. 
 Eppure Daront chiese a quanto le vendesse di riflesso. Si rifiutò di pensare di essere influenzato da quella sottilissima scia di aroma che gli era arrivata alle narici poco prima. 
Lloyd si aprì in un sorriso. La sua aria professionale gli si sciolse sulle spalle e gli gocciolò giù per la schiena, facendolo abbacchiare sulla poltroncina.
"Sono in omaggio per il mio fratellone. Devi solo trovare la cavia giusta per noi e aiutarci con le ricerche durante la prossima settimana, poi leveremo il disturbo." 
Patrick lo guardò da sotto le palpebre, in tralice. Pescò da un cassetto un sigaro e se lo portò alla bocca, lasciando l'accendino sulla scrivania dopo averlo adoperato. 
Inalò un boccone di fumo, lasciandoselo sfuggire dalle labbra secche.
"Il tuo senso di fratellanza è commuovente, ma non basta. Se questa tua invenzione è davvero così miracolosa dovresti già avere frotte di clienti. Perché venire da me?"
La facciata del perfetto uomo pubblicitario tremolò sul viso di Lloyd, come una maschera per la cura della pelle mal applicata. Se c'era una falla nella questione, quella falla si trovava proprio lì. 
"Diciamo che, ecco, senza fare nomi, ho parlato della nostra invenzione a un pezzo grosso. Sembrava interessato, per cui non mi sono azzardato a dirgli che il prodotto non è esattamente finito." 
Il cipiglio di rimprovero di Patrick era tale e quale a quello della madre. Ci mancava soltanto che chiamasse Lloyd per nome con lo stesso tono duro, quello che non prometteva niente di buono. 
E la voce di Lloyd si fece di conseguenza più alta, proprio come ai vecchi tempi.
"Patrick, lo giuro, l'ho testata in laboratorio con tutti i tipi di animali possibili, stanno tutti una favola. Ho solo bisogno di sottoporla a delle persone per essere sicuro al cento per cento di poter mettere le mie mele in vendita. Non posso andare alla cieca e rischiare di autodiffamarmi per un qualche piccolo errore, lo sai anche tu come funziona il mercato."
Daront batté con leggerezza la punta del sigaro nell'apposito portacenere in vetro. Le frasi che disse risuonarono vuote, non davano alcun indizio riguardo la decisione che avrebbe intrapreso a riguardo. "Per cui hai subito pensato a me e alla mia massa di giovani squinternati?" 
Lloyd si strinse nelle spalle. "Da qualcuno si dovrà pur iniziare."
"E se qualcuno di loro sta male? Se alla fine sono io quello a beccarmi la denuncia? All'Anathema manca giusto il colpo di grazia."
"Non succederà, Patrick, credimi. Dai risultati dei test non è cambiato niente negli animali, né fisicamente né mentalmente. L'unica differenza è che non la smettono di abbaiare, producono il doppio del latte, sono perennemente in calore e mangiano un sacco; anche se qualche ragazzo si accorgesse della differenza darebbero la colpa a un disturbo comportamentale, non risalirebbero a noi."
I due fratelli si fissarono negli occhi per tutta la durata del discorso. Patrick rimase silente alla fine, immerso nei suoi pensieri. Lloyd sembrava crederci davvero molto. 
Infine il primo si alzò con flemma dalla sua poltroncina e andò ad appoggiarsi contro la parete che affiancava l'unica finestra presente nell'ufficio. Rimanendo in piedi, l'aprì, lasciando uscire un po' del fumo del suo sigaro. Ormai non ne era rimasto che un mozzicone. 
"Hai detto che ti serve una sola persona?" chiese, lo sguardo proiettato lontano.
Trattenersi dal cantare vittoria fu dura per Lloyd.
"Si. Ci serve qualcuno da poter avvicinare senza creare sospetti, per cui l'ideale sarebbe uno dal tuo staff o un cliente affezionato che conosci di persona. Il primo caso sarebbe perfetto, perché suppongo tu possegga già almeno un minimo di dati. Non dico che dobbiamo contattarlo tutti i giorni della prossima settimana, ma un paio di interviste al diretto interessato non guasterebbero. Sai, gli animali ancora non parlano." 
"Un uomo, quindi?"
"Sarebbe meglio così. Le ragazze notano molto più velocemente se qualcuno le pedina."
Incredulo delle sue stesse azioni, Daront tornò alla scrivania; prima di sedersi estrò un plico di fogli e cartelline da uno dei cassetti alle sue spalle. Le sue dita tozze iniziarono a scorrere velocemente gli angoli delle pagine mentre si accorgeva di quanto il suo rapporto con il personale cambiasse a differenza del ruolo che ricoprivano. Tagliando fuori subito i camerieri, con cui aveva deciso giusto l'ora prima di non volerci avere più niente a che fare, rimanevano solo i barman, il così detto corpo di ballo, i DJ ed i PR. Quest'ultimi due erano da scartare a loro volta, troppo poco contatto. 
Escluse tutte le ragazze, un nome gli baluginò in testa automaticamente. 
Osservò quella scrittura svolazzante sul contratto che aveva fatto firmare un anno prima al ragazzo, nero su bianco. 
"E come funzionerebbe la cosa? Lo costringo a mangiare con la forza? Deve arrivare fino al torsolo o qualcosa del genere?" 
Lloyd sentì le trombe squillare, vide le colombe volare e pensò di riconoscere la colonna sonora di Rocky in sottofondo. 
"Per quanto sarebbe divertente vederti andare in giro vestito da strega cattiva delle fiabe, abbiamo già pensato a tutto noi. Tu dacci solo l'occasione di incontrarlo questa sera." Il fratello più giovane si sistemò sulla sedia, tutto eccitato. "Allora, di chi si tratta?" 
Una strana sensazione si poggiò sullo stomaco di Daront. Nonostante lo sguardo del fratello fosse limpido e genuino gli parve quasi di star facendo la spia. Stava letteralmente dando a qualcuno del potere e dei diritti su di un'altra persona.
Forse se si fosse trattato di uno dei tanti camerieri non gli avrebbe fatto lo stesso effetto. 
Dapprima gli parvero sensi di colpa. Poi si rese conto che era banalissima gelosia e gli venne da ridere.
"Okay. Ha diciassette anni, uno studente. Non lavora durante la settimana, ma si trova spesso qui con le altre ragazze per provare  le coreografie. Era di turno per lo spettacolo di ieri, ma sono sicuro che non si perderà la serata di Halloween."
"Oh, un ballerino?" 
Qualche residuo di fumo irritò la gola di Daront che tossì. Oppure era tutto un protesto per camuffare il modo in cui un angolo della bocca gli si era sollevato. "Si. Il mio unico maschio."
Lloyd batté i palmi sulla scrivania, soddisfatto. 
"Bene, abbiamo il nostro candidato. George, da a mio fratello i nostri contatti. Matt, voglio una copia di quei documenti e le locazioni esatte di tutte le telecamere presenti in pista e non." 
Con un piccolo inchino, i due uscirono e si chiusero la porta dell'ufficio dietro. Lloyd si alzò in piedi e strinse animatamente la mano di Patrick da sopra la scrivania senza che questo gliela porgesse. Poi l'uomo si sfilò il berretto e si spettinò i capelli cortissimi sulla testa, tornando subito a nasconderli. In un'unica mossa si infilò il giubbotto smanicato su per le braccia, lasciandolo aperto sul completo scuro. 
In tutto questo Patrick era rimasto in piedi, l'aria di uno un po' in prestito. L'accordo che aveva appena preso aveva davvero dell'assurdo, ma si scoprì curioso di vedere il fratello e le sue diavolerie in azione. Se davvero non si trattava di un mucchio di fesserie avrebbero addirittura potuto fare la storia. E chissà che non potesse chiedere una percentuale sui guadagni.
Solo non poté evitare di sentire quel pizzico di preoccupazione, un fastidio simile se non uguale a quello raccontato nella storia de La principessa sul pisello; nonostante gli strati di materassi, non sarebbe riuscito a dormire per via di un piccolissimo chicco. 
"Lloyd." disse, serio. "Tu sei sicuro che non gli accadrà nulla di male, vero? Non voglio la vita di questo ragazzo sulla coscienza." 
La piccola giacca che l'altro stava sfilando dallo schienale della figliastra rimase sospesa a mezz'aria quando lui bloccò le sue azioni alle parole del fratello. Sospirò un sorriso rassegnato, come se fosse abituato a quella carenza di fiducia. 
Lloyd appoggiò la giacchetta contro il manico della sedia, tuffando una mano all'interno della propria giacca. Ne estrò un coltellino svizzero e un fazzoletto di stoffa pulito che dispose sulla scrivania.
Assicurandosi di avere l'attenzione di Patrick, prese una delle mele dalla valigetta e la tenne ferma contro il fazzoletto. I suoi movimenti parevano leggeri e teatrali, come se si stesse esibendo in un gioco di prestigio. 
Il coltellino penetrò la buccia del frutto, una linea bianca e dura in tutto quel porpora. Senza tagliarla fino all'estremo opposto, Lloyd arrivò al torsolo ed eseguì un secondo taglio della stessa dimensione. Pulì la parte centrale della fetta dai semini e la mostrò a Daront, in tutto lo splendore di quella polpa dall'aria fresca e croccante. 
Ripose il resto del frutto all'interno della valigetta e mise la fetta tra le mani della bambina. 
Sotto tutti quei capelli biondi, Patrick Daront vide Melanie portarsela alla bocca e staccarne un bel morso, le guanciotte piene che si muovevano a ritmo con il suo masticare. Deglutì e si spazzolò via anche l'altra metà rimanente. 
Poi non successe niente. La bambina se ne stette lì, minuta e chiara su quella poltroncina nera per adulti. 
Lloyd non aveva bisogno di guardare Daront per saper di averlo impressionato almeno un poco. Chiuse il sistema di serratura della valigetta e se la poggiò ai piedi, tornando alle prese con la giacca di Melanie. 
"Allora noi ci vediamo questa sera." disse, congedandosi con un sorriso. Chiese alla piccola di mettersi in piedi e la rivestì, bardandola fino al collo. Fece per prenderla in braccio, ma lei si sottrò alla sua presa, facendo sentire per la prima volta la sua vocina sottile quando mugugnò di voler camminare.
Con la valigetta da una parte e la manina di Melanie dall'altra, Lloyd prese l'uscio dell'ufficio con entrambe le mani impegnate. Fece un cenno con il capo al fratello prima di sparire completamente dalla sua visuale.
Daront ci mise un po' prima di realizzare di non aver aperto loro il portone principale. Accese velocemente le telecamere di sicurezza, la schermata nera sulla parete che subito prese vita; aveva fatto appena in tempo perché il gruppetto stava facendo giusto l'ultima rampa di scale. 
Dalla sua finestrella virtuale, Daront aprì il sistema elettrico del portone. George e Matt furono i primi ad uscirne, subito seguiti da Lloyd. La porta si era quasi chiusa del tutto dietro di lui, oscurando completamente la scena, quando la fessura venne riaperta per metà da Melanie. A giudicare dai capelli scompigliati doveva aver corso dietro il trio di adulti per raggiungerli. 
La bambina si voltò un'ultima volta verso l'interno del corridoio prima di accompagnare gentilmente il portone alla sua serratura. 
Daront non seppe se rimase immobile, seduto alla sua scrivania, gli occhi puntati su quel quadrato ora buio di schermo, per dei secondi o dei minuti. 
Aspettò, aspettò, ma non ci vide niente di strano, nessuna lucina insolita. Sarebbe potuto trattarsi di un fermo immagine. 
Daront deglutì e fece per riaccendere il sigaro che gli si era spento tra le dita. Si disse che tutti quei discorsi strani avevano indotto la sua vista a fargli uno scherzo. 
Gli occhi della bambina non avevano brillato al buio. Era impossibile.
L'uomo scattò in piedi. Si mise a rovistare tra i documenti che lui stesso aveva tirato fuori poco prima, cercando. Quando se lo ricordò, le mani gli si immobilizzarono da sole. 
E' vero, si disse. Aveva consegnato la scheda di Park Jimin al fratello. 

(2) October 31st, 2015 - Saturday                                                                      

La fibbia della cintura era fredda contro la pelle nuda e accaldata dello stomaco di Jimin. Il ragazzo se l'allacciò stretta in vita con un brivido, sollevando meglio il bordo dei pantaloni per evitare il contatto diretto con il metallo. 
Nonostante gli stesse dando la schiena poteva percepire gli occhi di Shou su di sé. Il ragazzo con cui era uscito quella sera se ne stava ancora spaparanzato su quel divanetto dal colore sanguigno, la scena del crimine di una scopata neanche tanto memorabile. 
Jimin si guardò attorno per la centesima volta, alla ricerca della sua maglia. Controllò sotto una credenza, dietro al divano e si pentì di aver passato in rassegna un paio di cuscini quando questi sollevarono un nuvolone di polvere.
Si portò le mani sui fianchi esposti, iniziando a sentire l'aria gelata di quell'ultima notte di ottobre pizzicargli le braccia. 
Certo che il suo amico avrebbe potuto alzare il culo ed aiutarlo al posto di starsene lì a fissarlo senza muovere un dito. A quanto pare non si sentiva più in dovere di far niente per lui dal momento che aveva già avuto quel che voleva. 
Jimin imprecò tra i denti. 
Maledetto Shou e quella sua dannata fissazione per Halloween. 
Okay, anche Jimin trovava quella tradizione americana divertente, ma gli era sembrato un tantino sopra le righe darsi appuntamento in un albergo momentaneamente chiuso. Certo, l'atmosfera cupa rendeva quella suite molto intrigante e le luci fioche delle candele facevano scintillare nel buio tutto ciò che c'era di metallizzato, tende di velluto comprese, ma niente, niente compensava il fatto che ovviamente non era dotata di riscaldamento. Di notte. Ad ottobre. Anzi, novembre, ormai. 
Quell'idiota pensava forse che ci avrebbero pensato quelle due candeline a tenerli al caldo? Che avrebbero evitato l'ipotermia standosene stretti stretti l'uno all'altro senza uno straccio addosso?
Tutto molto accattivante quando si trattava di sfondare una porta di servizio (che poi era già stata tolta dai cardini dalle numerose coppie che li avevano preceduti), divertente darsi da fare prima sul tappeto più ruvido e sporco dell'ultimo decennio e poi su un divano dal vago stile barocco. Poi però erano arrivati i morsi della fame e del freddo, e la serata non era parsa più tanto elettrizzante. 
Jimin fece l'ennesima ispezione visiva della suite, continuando a non vedere il resto dei suoi vestiti. Le dita stavano iniziando a dolergli da quanto soffriva il freddo.
Infilò le mani nelle tasche posteriori dei suoi attillatissimi jeans neri dopo aver scoperto che quelle anteriori erano fatte solo per bellezza, voltandosi verso l'altro ragazzo. 
"Hai visto le mie cose?" 
Shou si riscosse dal torpore che lo stava prendendo, sollevandosi a sedere. Doveva ancora rivestirsi, ma da quello che Jimin poteva vedere non sembrava avere la pelle d'oca come lui. 
"Prova a vedere dalla porta." bofonchiò, sfregandosi un occhio con il dorso della mano. "Credo di aver scalciato qualcosa verso quella direzione."  
Seppur sconcertato, Jimin fece come gli era stato detto e trovò quel che stava cercando. Si infilò la maglia dentro i pantaloni, sollevato dal fatto che Shou non l'avesse rovinata quando gliela aveva tolta; era un modello molto particolare, una scura seconda pelle con uno scollo da paura sulla schiena facilissimo da strappare. 
Una volta vestito, Jimin si allacciò stretti gli anfibi ai piedi e si pettinò alla bell'è meglio i capelli con le mani, tinti da poco di un grigio perlato. 
Le candele rimaste accese gettavano ombre scure sul suo profilo elegante, marcando la linea tagliente della mandibola e il volume prosperoso del suo labbro inferiore. Rendevano un punto luce i suoi occhi color pece, già sottolineati da un velo di ombretto ramato sulle palpebre. Il suo corpo snello appariva statuario. 
Anche Shou doveva essersi accorto di questo effetto teatrale, perché era ancora intento a studiare le curve di quelle gambe quando Jimin gli prestò di nuovo attenzione. Quest'ultimo si diresse verso il divanetto con passo felino, gli occhi dell'altro che si alzavano fino ad arrivare al suo viso man mano che si avvicinava. 
Per quella sera ne aveva davvero abbastanza di Shou e delle sue location strampalate, ma cosa non avrebbe dato per calmare il brontolio del suo stomaco.
Jimin gli si sedette in grembo, passando lascivamente un braccio dietro il suo collo. Almeno Shou aveva avuto il buonsenso di rimettersi addosso la biancheria intima. 
Si dovette sforzare per trovare una venatura allegra con cui parlare.
"Adesso dove pensavamo di andare?" 
Shou corrucciò le sopracciglia, le mani già appioppate al fianco dell'altro.
"Cosa intendi dire?"
"Siamo chiusi qui dentro dalle undici e l'ultima volta che ho controllato era l'una passata. Avevi detto che quando avremmo finito mi portavi a mangiare in uno di quei locali che hanno aperto da poco, no?" 
La ruga nella fronte dell'altro si approfondì quando il suo sguardo si scollò da Jimin per concentrarsi su un interessantissimo angolo buio della stanza. "Ah, intendi quello."
L'idea di stringere la presa sul suo collo fino a strozzarlo sfiorò la mente di Jimin. 
"Si, Shou. Intendo quello." 
"Eh, già, ehm. Si, te lo avevo promesso, ma ecco, i tizi a cui ho dovuto chiedere di lasciarci la suite hanno chiesto più soldi del previsto, così..."
Non ci fu bisogno di aggiungere altro. 
Shou si era trovato davanti a due opzioni ben precise: o risparmiava per poter offrire a Jimin la cena o pagava per assicurarsi di scopare con lui. Aveva fatto la sua scelta. 
E dire che all'inizio Jimin lo aveva trovato addirittura simpatico.
Jimin premette la sua bocca carnosa contro l'orecchio del ragazzo, sentendo immediatamente come i muscoli dell'altro si irrigidirono al contatto. Gli prese il mento, la pelle che impallidiva sotto la pressione delle sue dita. Si assicurò che la voce gli uscisse vellutata, carezzevole.
"Non sognarti nemmeno di chiedermi un altro favore. Puoi anche cancellare il mio numero dalla rubrica."
Shou si allontanò come poté per guardarlo in faccia e vedere se faceva sul serio. Il sorrisetto affilato che si ritrovò di fronte gli fece venire un nodo alla gola. 
"E dai, Jimin, ti ci porto appena mi danno lo stipendio. Non vorrai mica troncare il nostro rapporto solo perché hai saltato un pasto."
Jimin scese dalle ginocchia dell'altro con la stessa grazia con cui ci si era accomodato. Shou provò a trattenerlo per un polso, ma ricevette un'occhiata così livida che, oltre a mollare la presa, ci infilò pure un piccolo scusa.
L'attaccapanni venne depredato dall'unico cappotto scuro che possedeva quando Jimin ci si avvolse, sospirando di sollievo. Ovviamente non era più tanto caldo quanto lo era appena smesso, ma avrebbe fatto ammenda in breve. 
Il ragazzo dai capelli argentati fece per infilare la porta, ma non senza voltarsi un'ultima volta verso Shou.
Si detestava da solo quando faceva così, ma non poté impedire alla sua bocca di lanciare quell'ultima frecciatina. Una parte di lui avrebbe sempre cercato scuse valide per i comportamenti sbagliati delle altre persone, ma ogni tanto infierire gli sembrava quasi necessario. 
Sapeva già che se ne sarebbe pentito il giorno dopo a ripensarci, come sempre. Jimin aveva perso il conto di tutte le volte in cui si era raccomandato di essere gentile. 
"Tanto per la cronaca, non sei di certo l'unico che mi aveva chiesto di uscire questa sera. Prima di te c'erano altri due ragazzi, ma, da quel che ho capito, Tizio Uno ha mostrato alla fidanzata di Tizio Due la chat privata tra me e il suo tipo. Lei si è incazzata a morte e Tizio Due ha dovuto confessare tutto. Quando poi ha capito che Tizio Uno lo ha fatto solo per avere il via libera con me se le sono date di santa ragione." 
Jimin soffiò via una ciocca argentata dal viso, finendo di parlare. "Detesto questo genere di polveroni, per cui ho semplicemente pensato che tra i due litiganti il terzo gode. Perciò, vedi di non tirartela più di tanto."
La mano che Jimin aveva tenuto sullo stipite per tutta la durata del suo discorso scivolo giù quando se ne andò a testa bassa. A Shou venne ammiccato un occhiolino fugace che non aveva niente di erotico un attimo prima che la porta della suite sbattesse.

Jimin stava camminando per le strade desolate da una decina di minuti, diretto verso la fermata dell'autobus più vicina. Il suo fiato condensato in rivoli biancastri pareva volersi unire alla vaga nebbiolina che sfocava le luci dei lampioni. Le smaglianti luci verdi del tabellone elettronico di una farmacia erano visibili anche in lontananza, le schermate che cambiavano ogni dieci secondi, ripetendo all'infinito orario e temperatura attuali. 
Era l'una e ventisei del mattino, c'erano otto gradi, e Jimin non poteva tornare a casa.
Non era una vera e propria regola, ma sia lui che sua madre sapevano che era meglio così. 
Da quando la sua tanto chiacchierata vita sociale aveva preso il via in terza superiore le cose con la sua famiglia erano state strane. I pettegolezzi avevano inevitabilmente raggiunto le orecchie della madre, ma lei aveva preferito ignorarli, convinta di conoscerlo. 
Dio, Jimin non avrebbe mai dimenticato la faccia di sua madre la volta in cui realizzò di essersi sbagliata. 
Era successo poco meno di un anno prima, ma quella sensazione di immensa delusione era ancora lì, a decantare in una pozza all'interno del suo stomaco. 
L'episodio non era molto lungo da raccontare, anzi. Bastavano pochi elementi per far capire di che portata fosse stato il dramma. 
Elemento uno: un marmocchio di buona famiglia, a detta sua ancora parecchio confuso sulla sua sessualità. A detta di Jimin e dell'autista del taxi che avevano preso dopo aver lasciato l'Anathema, invece, il tipo era sembrato abbastanza sicuro di sé dal modo in cui aveva praticamente atterrato l'altro sui sedili posteriori. 
Elemento due: il padre del suddetto marmocchio che voleva controllare che il figlio  fosse tornato a casa per poter inserire l'allarme. Gli era bastato aprir la porta della camera per scoprire che, non solo il figlio adorato era in casa, ma aveva pure compagnia. 
Elemento tre: quando poi Jimin, raccontando questo aneddoto al gruppo, aveva detto che non c'era stato modo di far passare la posizione in cui loro due vennero trovati come amichevole, era perché era proprio così. Però, effettivamente, avrebbero avuto le carte in regola: se il metodo classico per stringere amicizia tra bambini era condividere la merenda, si poteva dire che Jimin non c'era andato tanto lontano regalando un lecca-lecca al marmocchio. 
In parole povere, l'uomo aveva attaccato a urlare e Jimin se l'era filata. 
Era corso fino a casa, sperando che la madre non avesse ancora serrato il portone principale. Per sua fortuna non era ancora così tardi, ma la donna non gli aveva risparmiato un'occhiata ammonitrice. 
Jimin si era diretto subito verso il bagno. Aveva lasciato la porta aperta nell'attesa che l'acqua della doccia si scaldasse, iniziando a spogliarsi. Sua madre lo aveva seguito passo a passo, decisa per una volta a discutere di quelle nuove abitudini malsane. Nel frattempo Jimin aveva gettato i suoi vestiti nel cesto dei panni sporchi e si stava lavando i denti a torso nudo. 
La ramanzina era partita bella carica, tutte parole coincise che filavano dritte e veloci come un siluro. E poi era andata mano a mano affievolendosi. 
La madre di Jimin si era ridotta al silenzio, gli occhi sulla figura del figlio riflessa allo specchio che lui aveva davanti. 
Lo stesso dolcissimo bambino che le aveva sempre dato tante soddisfazioni era chino sul lavandino, il collo e il petto martoriato di succhiotti. Alcuni erano violacei, altri già sbiaditi, accompagnati da un graffio dall'aria dolorosa sul fianco e un numero di telefono scritto a penna sul braccio. 
Jimin aveva fatto finta di niente. Aveva continuato a far scorrere lo spazzolino sui denti, la schiuma del dentifricio che gli era colata sul mento. Sua madre aveva lasciato semplicemente il bagno.
Nessuno dei due aveva voluto il bis di quello spettacolo. 
Così avevano stretto di comune accordo quel loro patto taciturno: Jimin poteva fare quel che gli pareva, quando gli pareva e con chi pareva, bastava che non coinvolgesse in alcun modo la sua famiglia o la sua casa. Nessuna apparizione notturna. Niente alcool. Nessun ospite. 
Una sola cosa era stata chiarita verbalmente: sua madre non avrebbe cavato un centesimo dal portafoglio. Il solo ingresso nelle discoteche non costava certo poco, e anche se loro se lo fossero  potuti permettere economicamente ogni settimana si sarebbe rifiutata di buttare così i soldi. Se Jimin si voleva divertire doveva sbrigarsela con quel che aveva.
Per questo Jimin riteneva di aver preso due piccioni con una fava quando aveva accettato il lavoro come ragazzo Immagine all'Anathema. Poteva entrare tutte le volte che gli pareva e ovviamente veniva pagato quando era di turno. 
La cosa si riteneva particolarmente utile anche in casi come questo. Senza un posto dove andare e tutta la notte davanti a sé, Jimin poteva benissimo andare all'Anathema e trovarsi qualcuno bisognoso di un po' di compagnia, preferibilmente dotato di una casa libera e di una caldaia. Magari sarebbe riuscito anche a farsi dare uno strappo fino a casa la mattina dopo.
Jimin arrivò alla fermata dell'autobus, evitando di sedersi sulle panchine di ferro ghiacciate. La tabella degli orari gli comunicò che avrebbe dovuto attendere solo altri cinque minuti, il che era un miracolo considerando che le linee notturne scarseggiavano.
Dato che di tempo ne aveva, Jimin si avvicinò alla vetrina di uno dei negozi che c'erano lì intorno. Osservando i suoi capelli scarmigliati nel suo riflesso, rovistò nella tasca dalla giacca, trovando il suo rossetto. Jimin cercò di arrangiarsi con la luce che c'era, rinunciando in partenza all'idea di un lavoro di precisione. 
Il viola era il colore simbolo dell'Anathema, a partire dall'arredamento, dalle luci e dalle divise del personale. Oltre ad essere bello esteticamente, avere le labbra tinte di scuro facilitava anche la distinzione immediata tra i clienti e il personale. Tutti portavano obbligatoriamente il rossetto, dai camerieri ai DJ.
Una volta fatto, Jimin tornò alla fermata e prese a camminare avanti e indietro sul marciapiede, cercando di non congelare. Quando l'autobus arrivò con dieci minuti di ritardo, la sua bocca sarebbe stata bluastra anche senza l'aiuto dei cosmetici.

(3) November 1st, 2015 - Sunday

"Park Jimin." 
Cazzo.
Il suo nome era stato scandito con lentezza, la "r" ben arcuata sulla lingua. Il timbro maschile della voce che lo aveva chiamato sarebbe stato profondo se una trentina di anni passati a fumare non l'avessero inaridito. Almeno così l'identità dell'uomo alle sue spalle era inconfondibile.  
I piedi di Jimin si inchiodarono al pavimento, le unghie conficcate nei palmi delle mani, la postura immediatamente sull'attenti. 
L'entrata del salone principale dell'Anathema era proprio lì, a pochi passi da lui, ma all'improvviso gli parve irraggiungibile. Si ritrovò prigioniero di quella zona del corridoio, troppo lontana per essere raggiunta dalle luci della pista, ma troppo lontana anche dall'ingresso della discoteca. Jimin aveva come l'impressione che se si fosse dato molto poco dignitosamente alla fuga verso una direzione o l'altra, avrebbe preso contro un'invisibile parete di plexiglass.
Il signor Daront. 
Niente di meno che il fondatore e proprietario dell'Anathema. 
Cazzo. 
Cazzo, davvero.
Solitamente, quando qualcuno scopriva che Jimin lo incontrava quasi periodicamente per motivi di lavoro, gli veniva chiesto spesso che aspetto avesse l'uomo in questione. Lui si limitava a dire che potevano fidarsi delle decine di foto che le pagine dei giornali locali si ritrovavano a mettere in prima pagina.
Così come sulla carta, anche dal vivo il signor Daront appariva come una persona di malafede. Gli si sarebbero dati una cinquantina d'anni, ma Jimin sapeva che l'uomo era ancora nella fascia dei quaranta. In realtà sarebbe stato curioso di vedere una sua foto da giovane, ma aveva come l'impressione che l'uomo apparisse come un adulto già da allora; torchiato uguale, anche se non propriamente grosso. Forse con un taglio di capelli più corto, senza brizzolatura. Quella perenne espressione brusca a metà tra l'arrogante e l'annoiato doveva averla di sicuro fin dalla tenera età, altrimenti non gli si sarebbe stampata in faccia a quel modo. 
E Jimin era il primo a dire di non giudicare un libro dalla copertina, ma in questo caso trovava che ne rappresentasse molto bene il contenuto. 
Solo una cosa positiva si poteva dire di quell'uomo, anche se Jimin non poteva certo immaginarsela. Era un proprietario coi fiocchi. 
Al contrario di quello che si poteva pensare, il signor Daront non passava tutto il suo tempo in qualche località vacanziera a sperperare i suoi guadagni. No.
L'Anathema era il suo gioiellino. La sua fonte di guadagno. Era il locale che aveva sempre desiderato frequentare da adolescente ma che non era mai stato aperto. 
Aveva deciso tutto lui lì dentro, dall'arredamento kitch alla scelta del personale. Era lui che si metteva alla scrivania a pensare a come realizzare gli eventi, era lui che complottava sempre nuove strategie per richiamare più gente. 
L'Anathema non doveva essere solo una discoteca, doveva essere molto di più. 
Per questo, per studiare la sua clientela in cerca di nuove idee, Daront era sempre presente quando il locale era aperto al pubblico. Non lo si vedeva praticamente mai perché girava al largo dalle sale focose gremite di gente, luci e rumore. Preferiva supervisionare tutto dall'alto, affiancato da un qualche onnipresente socio in affari. Erano soliti camminare per i corridoi laterali meno frequentati o si chiudevano nel suo ufficio in compagnia di un mazzo di carte ed un vassoio di drink preparati dallo stesso barman che si era beccato la denuncia la settimana prima. 
Daront si era sempre limitato a manovrare i giochi dall'alto, dando una sbirciatina alle telecamere di sicurezza per controllare quando le ragazze immagine avrebbero preso posizione sul palco. Solo in quel caso Daront e i suoi soci si sarebbero disturbati per assistere allo spettacolo di persona.
Ed era proprio attraverso quelle telecamere che, ormai un anno prima, Daront aveva notato qualcosa di anomalo. Si trattava di un ragazzo, la qualità delle immagini in bianco e nero che più di così non potevano dirgli; era salito su quello stesso palcoscenico, unendosi alle nuove assunte che stavano scaldando il pubblico in attesa dello spettacolo vero e proprio. L'uomo aveva lasciato che fosse, continuando a conversare con i suoi compari.  
Quando poi uno di questi era tornato dalla toilette affermando che il pubblico stava impazzendo per il nuovo ballerino, Daront si era incuriosito e aveva deciso di andare a dare un'occhiata. 
E che occhiata, ragazzi. 
Entro la fine della serata il signor Daront si era assicurato che uno dei suoi biglietti da visita finisse nella tasca del ragazzo. 
Aveva fiuto per gli affari, su questo non c'era dubbio. Ma, anche se ci fosse stato, sarebbe stato sfatato durante i giorni a venire, quando le pagine social dell'Anathema erano state tempestate di domande circa gli orari e le serate dove si sarebbe esibito il ragazzo nuovo. Le voci dovevano essere girate in fretta perché, nonostante lui non avesse ancora rilasciato nessun annuncio ufficiale, già nell'immediato del fine settimana successivo la clientela era senz'altro aumentata. Forse non di tantissimo, ma di sicuro non sarebbe stato il numero a scoraggiare Daront. I soldi erano soldi, che fossero tanti o pochi, l'importante è che fossero più di prima.  
Sarebbe andato tutto a meraviglia, se solo il ragazzo avesse richiamato. Il tempo passava e lui non si era fatto sentire. 
Daront alla fine aveva costretto il suo staff a cercare nome e numero di telefono. Ci aveva pensato lui a persuadere il giovane reticente a lavorare all'Anathema. Lui e un bell'assegno con tre zero per cominciare con il piede giusto. 
E se avesse saputo che dolcissima sorpresa si sarebbe poi rivelata la crescita di Jimin ne avrebbe scucito uno in più di quegli zeri.
Quel ragazzo era una miniera di soldi con le gambe. Una calamita per pupille. 
Le persone venivano ammaliate dalla sua aria innocente, dalla morbidezza di quelle guance paffute e dagli occhioni scuri. Poi vedevano quei tratti da bambino sparire nel nulla nel momento in cui Jimin iniziava semplicemente a camminare con il suo caratteristico passo felino. 
Park Jimin e gli scorci tra i suoi vestiti strappati erano il sogno proibito della metà della popolazione di Seul. E più la gente lo desiderava, più gli incassi dell'Anathema si incrementavano. 
A Daront aumentava la salivazione al pensiero che volendo avrebbe potuto farci ancora più soldi. Se solo il ragazzo non fosse così reticente.
Aveva provato in tutti i modi ad allacciare quello che lui riteneva un buon rapporto con Jimin, ma non c'era storia. Ogni volta che lo approcciava quest'ultimo manteneva sempre un'aria colloquiale. Sarà stato il dovuto rispetto per gli adulti, sarà stata timidezza… 
Oppure sarà stato il fatto che, come in quel momento, la salivazione a Daront aumentava anche per tanti altri motivi. I suoi occhi erano fissi sui capi vestiari di Jimin, un sorriso sornione mal celato tra le labbra scarne. 


Quando Shou aveva detto a Jimin che sarebbe stato divertente se si fossero travestiti per Halloween, lui si era limitato al minimo indispensabile. Dopotutto non valeva la pena di mettersi a cercare un costume impegnato quando l'altro non avrebbe fatto altro che strapparglielo di dosso. Jimin poi si era ritrovato a pensare che un choker con il campanellino e le orecchie da gatto fossero fin troppo essenziali, ma ormai era andata. 
Invece adesso era tutta un'altra storia. Sotto le attenzioni indesiderate di Daront, un lembo di stoffa e un cerchietto gli parvero un'oscenità.
E dire che poco prima Jimin si era sentito appagato quando un paio di conoscenti avevano fischiato al suo passaggio. Steven, senza dubbio il buttafuori più bonario che l'Anathema avesse mai avuto da quando ci lavorava, gli aveva scherzosamente chiesto se fosse sul punto di trasformarsi in una MiewMiew e la cosa l'aveva fatto ridere di cuore. 
Dannazione, Jimin si sentiva così sporco
Erano passati solo una manciata di secondi da quando Daront lo aveva chiamato per nome, eppure erano bastati per metterlo figurativamente con le spalle al muro. 
Jimin si arrese, voltandosi verso la direzione del suo capo. Passò in rassegna i tre uomini alle sue spalle, guadagnando tempo prima di incontrare lo sguardo di Daront. 
Strano. Non sembrava trattarsi dei soliti soci. Inanzi tutto erano occidentali ed erano evidentemente più giovani. Non si poteva dire fossero vestiti da giorno, ma non si trattava neanche del classico giacca-e-cravatta; era quello il marchio distintivo degli avvoltoi di Daront. 
Anche se li avesse visti nudi Jimin avrebbe potuto dire la differenza: seppure non sprizzassero gioia da tutti i pori, non avevano quell'aria cupa sul viso o quel modo molle di muovere le gambe, come degli eterni passeggiatori senza meta. E non erano minuti di quell'odioso bicchierino di Scotch. Non che a Jimin non piacesse; semplicemente gli dava sui nervi il fatto che, tutte le volte che aveva la sfortuna di incontrarli, quel bicchiere fosse sempre bevuto per metà. L'alcool, o lo bevi o non lo bevi, non stai ad aspettare che stagioni nel bicchiere. 
Probabilmente l’attuale quartetto era diretto all'ufficio, ma al solo cenno di Daront si era fermato davanti all'ingresso del salone principale. Le luci stroboscopiche colpivano gli uomini da dietro, gettando ombre ambigue sulle loro facce già scure. D’altro canto, il corpo di Jimin venne tappezzato da lucine rosate, il suo viso ben illuminato e riconoscibile. Il ragazzo era fermo immobile, rigido, il respiro sottile, come se sperasse ancora di passare inosservato. 
"Jimin." ripeté Daront, il tono di voce quasi paterno. Quasi. 
Non c'era niente che potesse dare scampo a Jimin se non stare al gioco.  
L'uomo aprì le braccia a mo' di invito e Jimin si sforzò di indossare uno straccio di sorriso e di mettere un piede davanti all'altro per raggiungerlo.
Se solo il ragazzo non si fosse perso in pensieri inutili (si sarebbe potuto evitare quest’incontro se l’autobus fosse stato puntuale?) si sarebbe accorto di altro. Forse avrebbe notato come due dei tre uomini a lui sconosciuti avessero iniziato a trafficare al cellulare non appena Daront lo aveva chiamato per nome.
Invece restò ignaro di tutto e camminò dritto nella ragnatela.
Un paio di mani scaltre si poggiarono sulla schiena di Jimin, attirandolo a Daront per un abbraccio.
Quel paio di pacche amichevoli dell’uomo volarono sempre più rasoterra, tramutandosi in carezze poco discrete. Il pugno chiuso di Jimin gli sfiorava a malapena il fianco.
Come prevedibile, a Daront bastò far risalire di poco le mani per trovare l'ampia scollatura sulle sue scapole. Jimin strinse i denti, percependo chiaramente come la postura dell'altro cambiò quando quei polpastrelli tentacolosi si ritrovarono a contatto diretto con della pelle. I due anelli che Daront era solito portare, tra cui la fede nuziale, erano cubetti ghiacciati contro di essa.
Uno strano odore impregnava il completo di Daront, e non era quello di sigaro. Era qualcosa di più dolciastro, di più familiare. 
Jimin se ne sentì inebetito.
 Se fosse stato qualcun altro, chiunque altro ci avrebbe messo meno di tre secondi per prendere le distanze e rimetterlo al proprio posto, ma qualcosa, forse nella grande differenza d'età o nell'alta posizione sociale dell'uomo, gli impediva di farlo. Jimin lo temeva come non aveva mai temuto nessun altro e preferiva di gran lunga mostrarsi accomodante e pregare di essere lasciato in pace per buona condotta che fare l'impavido e ritrovarsi nei casini. L'ultima cosa che al rapporto tra Jimin e sua madre mancava era uno strano uomo di mezza età ad aspettarlo sotto casa.
"Allora, Jimin." disse Daront senza liberarlo dalla stretta. La sua bocca schifosa sfiorava i capelli argentei del ragazzo ad ogni parola. "Sei qui per fare festa? Non mi è sembrato di aver letto il tuo nome tra il personale di questa notte."
Jimin desiderò ardentemente che il bagno del locale fosse provvisto di un qualsiasi tipo di sapone per grattarsi via la cute dalla testa. Quella vicinanza gli faceva orrore, orrore. 
Doveva aver indovinato la natura dei suoi pensieri uno degli uomini posti di fronte a Jimin, oltre le spalle di Daront. Come gli altri due teneva le distanze, ma a differenza loro non aveva il naso puntato su un cellulare. 
Era alto, smilzo, dall'aria un po' scapestrata. Sarà stata l'aria compassionevole che gli si era accumulata tra le curve di quel sorriso che rivolse a Jimin, ma gli ispirò subito più simpatia di tanti altri. 
Uno così se lo sarebbe immaginato in un qualche club del libro per donne in menopausa, o a gonfiare palloncini ad una festa di compleanno. Di sicuro non all'Anathema.
Quel paio di occhi azzurri, un colore così raro da vedere in giro per Seul, erano stranamente... curiosi. Quasi pimpanti. 
La risposta di Jimin non stava arrivando, così Daront lasciò che il ragazzo si riprendesse i suoi spazi. Un'ondata di sollievo pervase Jimin che si circondò immediatamente lo stomaco con le braccia. Stupida maglia, stupida scollatura, stupida stoffa sottile e aderente. 
Notando quel suo gesto istintivo, Daront non poté non compiacersene. Lo lusingava il fatto che uno spavaldo come Jimin sentisse il bisogno di mettere una barriera fisica tra di loro. Questo era quello che lui chiamava potere.
La voce del ragazzo uscì leggermente strozzata, come se non avesse parlato per un lungo periodo di tempo. "In realtà sono venuto qui solo per ballare. Non ho intenzione di fare grande improvvisate."
"Peccato, avresti intrattenuto il pubblico. Se hai voglia di ripensarci basta che me lo dici e io aggiungo la serata al tuo salario, non c'è problema."
"Non c'è bisogno, grazie." 
Jimin premette le labbra una contro l'altra, sostenendo lo sguardo divertito e insieme frustato di Daront. Pochi secondi e quegli occhi scivolarono sulla linea sinuosa della sua guancia, risalendo alle orecchie da gatto che spuntavano fra i capelli. Riemerse quel mezzo sorriso ripugnante.
Il cellulare di Jimin vibrò contro il suo fianco, premuto sulla pelle dal bordo aderente dei pantaloni.
"Sarà il caso di tornare ai nostri affari e lasciare che i giovani si divertano." disse Daront, aggiustandosi il nodo della cravatta spiegazzata. "Alla prossima, Jimin. Spero di vederti sul palco."
"Senz'altro."
Sfilato l’ultimo sorriso cordiale, gli uomini ripresero il loro cammino, sparendo nel buio pece del corridoio. 
Jimin poté finalmente rilassare la postura. Il cuore gli martellava all’interno della cassa toracica. 

(4) November 1st, 2015 - Sunday

Lo stomaco vuoto di Jimin non accolse molto volentieri la serie di drink che gli furono offerti nell'ora a seguire. Di solito reggeva bene l'alcool, ma forse avrebbe davvero fatto meglio a mettere qualcosa sotto i denti prima di bere. 
Dopo essersi assicurato dell’assenza di sigarette ed erba, Jimin aveva accettato di buon grado l'invito a sedersi ad un tavolo da parte di un gruppetto misto di ragazzi e ragazze. Non era sicuro di aver già fatto la conoscenza di quella piccola compagnia, ma il fatto che sapessero chi fosse e lo trattassero come uno di loro non escludeva nessuna possibilità. 
Avevano fatto spazio a Jimin sul divanetto in pelle dove si erano accalcati, passandogli subito un drink. Un paio di ragazze particolarmente affettuose gli si erano strette attorno, già brille; appoggiavano le loro lunghe gambe avvolte nelle calze velate sulle sue ginocchia, gli passavano le mani curate tra i capelli con il pretesto di volerne ammirare quel colore così insolito e delicato, gli accarezzavano le braccia da sopra la maglia. 
Chiunque conoscesse Jimin anche solo di nomea sapeva chiaramente quali fossero le sue preferenze sessuali, ma questo non impediva ad un sacco di fanciulle di farsi avanti. A Jimin non davano fastidio, anzi. Trovava le ragazze in un qualche modo dolci nei loro modi di fare. Gli piaceva da morire ballarci insieme, con i loro profumi sempre all’orlo dello stomachevole ed i capelli lunghi che si appiccicavano ai loro rossetti. 
Una delle ragazze si alzò dal divanetto e si mise a fatica in piedi sul tavolino laccato di nero. Jimin vide giusto le sue caviglie gracili traballare in avanti su quei tacchi vertiginosi prima di sentire un rumore di vetri rotti. Un secondo bicchiere seguì subito il primo oltre il bordo del tavolo, rovinando sul pavimento. 
La ragazza si coprì la bocca con una mano, camuffando una risata argentina. La piega ondulata che una volta doveva essere stata impeccabile della sua chioma gli era tutta colata sul viso. 
Come se niente fosse, lei iniziò a seguire il ritmo della musica. Il vestito corto non ne voleva sapere di coprirle le cosce e le sue mosse teoricamente accattivanti rese bieche dall’alcool non erano d’aiuto.
Ormai ballava da un paio di minuti quando incrociò lo sguardo di Jimin. Al ragazzo venne immediatamente offerta una mano, accompagnata da un gran sorriso. Lei ne scosse le dita, come se gli stesse lanciando un incantesimo, incitandolo ad afferrarla e farle compagnia. Jimin non si fece pregare. 
Un paio di occhiate storte volarono verso la direzione della ragazza, ma lei nemmeno se ne accorse. Jimin era salito sul tavolo per affiancarla e lei si poteva dire felice così. Inebriata dall’alcool, non riuscì a smettere di ridere quando il ragazzo la tenne stretta per la vita incredibilmente sottile, accusandolo di farle il solletico. Visto il paio di trampoli che l’altra si ostinava a tenere ai piedi, Jimin non mollò comunque la presa.
Ballarono insieme per un paio di canzoni, i movimenti disordinati di lei accompagnati da quelli contenuti di lui. Jimin aveva lasciato che la musica lo affondasse, il sorriso della ragazza così dolce e incosciente da fargli compassione. 
Per un attimo valutò la possibilità di tornare a casa con lei. Non che Jimin desiderasse farci qualcosa, ma di sicuro la ragazza aveva un posto dove far ritorno. Senza contare che le notti passate in compagnia del sesso opposto erano sempre state caratterizzate dai sonni ristoratori migliori di sempre. Per adesso nessuna di loro aveva mai cercato di forzare qualcosa; al massimo gli chiedevano di spogliarsi, giusto per potersi abbarbicare al suo petto. 
Si, Jimin avrebbe optato per quello. Poteva chiedere alla ragazza di farsi venire a prendere anche in quel momento considerando la quantità di alcool che aveva già in corpo. 
Jimin si sporse verso l’orecchio di lei, pronto a chiederlo senza mezzi termini.
“Hai casa libera?”
La ragazza corrugò le sopracciglia disegnate, facendo un evidente sforzo mentale prima di scuotere il capo. “Genitori.” si limitò a bofonchiare. 
Okay, possibilità svanita. Jimin doveva trovare qualcun altro. 
Stava cercando le parole per congedarsi da lei quando si sentì afferrare da dietro per i polpacci. In un tentativo di mantenere l’equilibrio, Jimin mollò la ragazza, il suo ballo compromesso. 
Quando si voltò si ritrovò davanti uno dei ragazzi della compagnia. Se ne era rimasto in disparte a bere fino a quel momento, ascoltando distrattamente i discorsi altrui. Il modo in cui la sua attenzione era stata tutta focalizzata su Jimin, o più precisamente sul modo in cui la pelle lucida dei suoi pantaloni rifletteva le luci dell’Anathema, non era passato inosservato. Essere squadrato dalla testa ai piedi non era certo una novità, per cui Jimin non ci aveva dato tanto peso. 
Non era brutto, davvero. Anzi, era carino. O forse chiunque sarebbe sembrato carino avvolto dalla penombra. Doveva essere altissimo, perché il suo capo arrivava al petto di Jimin nonostante questo fosse in piedi sul tavolino. 
Mentre Jimin era intento ad analizzare la situazione, le mani dell’altro iniziarono a risalire; passarono oltre le ginocchia, scorsero tra le grinze dei pantaloni, tastarono le forme sode di Jimin fino a quando non trovarono un punto saldo nei suoi fianchi. Lo sconosciuto strinse la presa attorno ad essi e Jimin si ritrovò sollevato di peso. Se solo quest’ultimo fosse stato un po’ più sobrio, l’altro avrebbe avuto ben poco da sballottare in giro con quei modi bruschi e inaspettati. 
C’erano un paio di cose che la gente tendeva sempre a dimenticare di Jimin, tra cui il fatto che il suo essere fisicamente flessibile e minuto non dava loro il diritto di spupazzarselo letteralmente. L’altra cosa riguardava il suo ruolo a letto: non c’era scritto da nessuna parte che i suoi tratti somatici delicati lo costringessero a stare sotto ogni volta. 
Jimin venne rimesso sui suoi piedi. Lo sconosciuto non gli diede tregua e lo afferrò subito per un polso in una sequenza veloce; trascinandolo giù per la breve scalinata che rialzava la zona tavoli di un piano, si era poi messo a scansare senza tante cerimonie quella miriade di corpi accalcati in pista.
Jimin si voltò all'indietro una sola volta, incontrando lo sguardo immensamente triste della ragazza. Aveva smesso di ballare, una spallina che le ciondolava sulla clavicola. 
Se non fosse stato per la voglia di andare a dormire, e di conseguenza l'urgente necessità che qualcuno se lo portasse a casa, Jimin si sarebbe assicurato di farla salire in auto con i suoi. Sperò solo che lo sconosciuto avesse voglia di una scopata, o tutto ciò sarebbe stato inutile. 
Le istruzioni erano chiare, semplici, collaudate da lì in poi. Bastava seguire la indole del tizio. 
Ballarci insieme. 
Essere provocante. 
Lasciare che lo toccasse, ma non troppo. 
Baciarlo. 
Farlo eccitare. 
Farsi portare ovunque lui residesse. 
Scopare. 
Dormire. 
Svegliarsi. 
Tornare finalmente a casa.
E Jimin avrebbe subito dato il via a tutta quella trafila se qualcosa non avesse attirato la sua attenzione. 
Degli enormi bicchieri da cocktail alti quanto una persona erano stati posizionati solo per quella serata ai lati del palchetto come ornamento per Halloween. Dovevano far parte della scenografia degli spettacoli di burlesque infrasettimanali; una volta Danielle, una delle ragazze con cui era solito esibirsi, si era quasi rotta un polso nel tentativo di salire dentro il boccale per improvvisarci uno stacchetto. 
Come Jimin ne vide il contenuto i suoi piedi si fecero di granito. 
La musica che un secondo prima gli sfondava i timpani divenne lieve, modificando suoni e ritmo in una storpiatura che nessun altro parve notare. Il suo polso scivolò dalla presa ferrea dello sconosciuto che continuò a camminare imperterrito; le dita gli restarono arcuate dietro di sé come a portare a spasso un amico immaginario. 
Jimin si guardò intorno, unico corpo immobile in una marea in tempesta. Non solo nessuno si mostrava infastidito dai nuovi esperimenti del DJ, ma tutti si ostinavano a ballare secondo un basso inesistente. La sua attenzione tornò al bicchierone da cocktail. 
Lo stomaco parve ruggirgli quando riconobbe la forma familiare del frutto che pareva galleggiarci all’interno.
Mele. 
Jimin iniziò a scivolare fra la gente, sinuoso, felino, passando tra schiene, gomiti e braccia senza che nessuno si accorgesse di lui, la fame che lo accecava. 
Arrivò al cospetto del bicchiere da cocktail, constatando che fosse alto poco meno di lui. Doveva essere di vetro o di un altro materiale abbastanza robusto da permettere a una persona di tuffarcisi dentro senza romperlo. Catturava e rifletteva i fasci di luce rosati, violacei e bluastri che piovevano dal soffitto del locale, proiettando una bizzarra aurora boreale sul viso di Jimin. L’acqua al suo interno, anch’essa tinta dai colori che sembravano ricoprire e amalgamare ogni superficie disponibile di uomo, donna, mobilio o parete, sobbalzava ogni volta che i bassi della musica battevano nell’aria. 
Jimin non si curò del fatto che sia il livello dell’acqua che la gente pressata attorno a lui continuassero a muoversi ad un ritmo ben scandito mentre nelle sue orecchie la canzone era strascicata, un inno lamentoso. 
Tutta la sua attenzione era su quelle mele poggiate sul pelo dell’acqua, lucide e grosse, di un rosso cupo che prometteva dolcezza. La buccia perfetta e senza una grinza gli misero il sospetto che fossero finte, l’ennesimo oggetto di scena, ma Jimin ne desiderava una così tanto che avrebbe corso il rischio di ritrovarsi in bocca del polistirolo. 
Il ragazzo dai capelli argentei si alzò sulle punte dei piedi e allungò una mano oltre l’orlo del bicchiere. Si stupì quando sentì davvero la pelle bagnarsi, quasi si aspettasse che anche il liquido fosse in un qualche modo fasullo. Immerse più deciso le dita nell’acqua e le strinse intorno al frutto più vicino. Con una pazienza innaturale per una persona così torturata dai morsi della fame, Jimin estrasse la mela lentamente, come il ladro che teme di far scattare l'allarme. Le goccioline gli solleticarono l’interno del palmo mentre la sollevava oltre il bordo e se la portava alle labbra, indugiando sulla consistenza della buccia e su quel profumo familiare. 
Jimin affondò i denti nella mela, abbassando le palpebre. Ne staccò un morso e il suono croccante della polpa che veniva spezzata parve sovrastare ogni rumore. 
Una volta inghiottito quel boccone un po’ acidognolo si sentì immediatamente sazio. 
Qualcosa nel suo corpo scattò. Partì dallo stomaco e crebbe, arrampicandosi come linfa tra le sue vene, toccandogli la punta dei piedi e affluendo verso il suo cervello, bloccandogli il respiro. Gli parve di perdere sensibilità agli arti, un fastidioso formicolio in espansione che gli diede l’impressione di essere appena stato affetto da un virus.
Poi tutto scemò così come era iniziato. La musica tornò al volume originario e le dita riacquistarono sensibilità. Jimin aprì gli occhi, inconsapevole di come le sue pupille si fossero ridotte a due cerchi piatti e dorati, come quelle dei gatti al buio. Lasciò ricadere la mela nel bicchiere da cocktail e si allontanò. 
Il frutto galleggiò per pochi secondi prima di affondare, inghiottito dal liquido. Anche da sotto di esso si poteva vedere chiaramente la polpa bianca rivelata dal morso di Jimin, in netto contrasto con il colore scuro del resto del frutto. Tracce di rossetto viola venivano lavate via in turbini sottili e impalpabili, disperdendosi. 
Jimin si ritrovò di nuovo trascinato per il polso dallo sconosciuto del tavolo, come se non si fosse mai liberato dalla sua presa. Come se non si fosse mai fermato e non avesse mai assaggiato quella mela. 
Si sarebbe detto che non si era mai davvero allontanato se non fosse stato per la sua vista. Gli si appannava ad ogni passo un po’ di più, come se delle gocce gli incrostassero le ciglia. Le persone intorno a lui diventavano sagome confuse, le luci stroboscopiche giocavano ai lati della sua mente rendendo tutto più caotico di quanto già fosse. 
Finalmente il ragazzo che lo stava guidando sembrò trovare un punto del salone che lo soddisfacesse e i due poterono fermarsi. Jimin cercò di danzare ma le ginocchia gli cedettero da subito e fu costretto ad aggrapparsi alle spalle dell'altro. Quest’ultimo scambiò il suo gesto per un approccio fisico e, dato che non sembrava aspettare altro, si fiondò con la bocca sul suo collo.
Jimin alzò il viso verso il soffitto del locale, lasciando allo sconosciuto più spazio d’azione. I contorni dei tubi e dei cavi che sorreggevano tutto l’impianto luci tremolavano, il luccichio del metallo che rifletteva i led colorati era prepotente, gli segnava la retina. 
Tutto si fece ovattato, sempre più ovattato e scuro. 
Quando tutto fu buio pesto Jimin seppe di essere caduto. Dove? Non lo sapeva. 
Probabilmente nell’ombra della mela. 
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Tutto era nero, tutto era silenzio. 
Le orecchie gli fischiavano fortissimo dopo essere state sottoposte all’incedere continuo della musica. 
Jimin era certo di trovarsi sempre all’interno dell’Anathema; le punte delle sue scarpe potevano raschiare le scanalature tra una piastrella del pavimento e l’altra. Protese le mani davanti a sé, convinto di trovare il ragazzo con cui stava ballando, ma non trovò altro che il vuoto. Si girò velocemente dalla parte opposta, ma era chiaro che anche lì non ci fosse nessuno. Il rumore dei suoi passi echeggiava nell’immenso salone principale, rendendo evidente la sua solitudine.
Si volse una seconda volta verso un punto indefinito, come per cogliere di sorpresa i colpevoli di quella malefatta. Sussultò: qualcosa gli aveva sfiorato la pelle esposta della schiena. Successe di nuovo e lui si piantò immediatamente le mani all’indietro, bloccando contro di sé qualsiasi cosa lo stesse facendo  impazzire. 
Se poteva fidarsi del proprio tatto, avrebbe giurato di riconoscere una striscia di stoffa. Ne risalì la lunghezza passandola tra l’indice e il dito medio, saggiandone la consistenza vellutata. Culminava in un nodo legato contro la sua nuca. 
Con una delicatezza intrinseca di timore, Jimin fece scorrere i polpastrelli di entrambe le mani ai lati, arrivando fino a toccare da sopra la stoffa i propri occhi chiusi. Provò a sollevarsi la benda sulla fronte, a strattonarla via, a scioglierne il nodo, ma quella non si mosse di un centimetro. Fu inutile anche provare ad aprire le palpebre da sotto, nella speranza di vedersi i piedi. 
Non c’era niente che potesse fare se non restare immobile in mezzo alla pista. Jimin tenne i pugni stretti contro le cosce, nell’attesa che succedesse qualcosa. 
Ma il tempo passava e non accadeva niente. 
Solo quando Jimin fece per sedersi a terra venne strattonato all'indietro per la testa, come se qualcuno avesse tirato l'altra estremità della benda. In quella nuova situazione, l'unica azione concessagli era girare il capo. 
Un gemito femminile gli solleticò l’orecchio, un tipo di sospiro inequivocabile. Due mani si poggiarono sul suo braccio e presero ad accarezzarlo. Jimin non fece in tempo a rivolgersi in modo brusco a chiunque lo stesse toccando senza il suo permesso che un terzo paio di mani, più robuste e forti, gli pressarono sullo stomaco, facendolo indietreggiare. Una quinta e una sesta mano si strinsero sul retro delle sue ginocchia, una settima formicolava sul suo petto. 
Il numero delle mani raddoppiava, triplicava, tutte intente a strusciarsi contro il suo corpo. Con gli occhi bendati Jimin non avrebbe mai potuto dirsene certo, ma tra le tante mani gli pareva di sentire anche la presenza di dita solitarie, senza palmo e senza polso, tutte unghie e falangette che brulicavano sulla sua carne e si accalcavano le une sulle altre per conquistare un centimetro di pelle. Un concerto di gemiti e mugolii di piacere coprivano i respiri affannosi di Jimin, il panico e un senso di claustrofobia che lo prendeva alla gola. 
Era come se, non solo tutte le persone con cui aveva fatto sesso, che non erano certo un numero limitato, ma anche tutte quelle che si erano permesse letteralmente di allungare le mani si fossero date appuntamento per inchiodarlo lì, per toccarlo nello stesso modo in cui l'avevano già toccato in passato.   
Una delle mani ammucchiate contro la sua schiena si separò dal gruppo, ritenendo inutile insistere su un punto sovraffollato. Corse giù per lo stomaco di Jimin e giù per metà coscia, arrivando sul ginocchio. Le dita sforbiciarono per allargare lo strappo dei suoi pantaloni, intrufolandocisi sotto. A contatto diretto con la pelle, Jimin sentì chiaramente il tocco freddo di due anelli. La mano gli accarezzò l’interno coscia, spingendosi a palpare dove la pelle era più sensibile. 
Posseduto da un orrore sordo e paralizzante, a Jimin salì un grido in gola.

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(5) November 1st, 2015 - Sunday

Jimin per poco non cadde in avanti. 
Il ragazzo che gli stava tenendo compagnia ballava con la sensualità di un armadio a doppia anta. Patrick Daront era sicuro che se avesse bussato contro la sua testa e poi contro il suddetto pezzo da mobilio il suono sarebbe stato identico. Almeno si poteva dire che la prontezza di riflessi non gli mancasse, perché aveva afferrato subito Jimin da dietro la schiena.
Le figure dei due giovani si fecero troppo vicine, troppo confuse, troppo in ombra. Era difficile distinguere chi fosse chi tra tutto quel bianco e nero. 
Tutte le telecamera di sicurezza erano accese in quel momento, ma i due fratelli Daront avevano impostato lo schermò affinché mostrasse quella particolare inquadratura più grande delle altre. 
Il bianco degli schermi si rifletteva sulle pareti opposte dell'ufficio, rischiarandolo. Patrick era seduto sulla sua poltroncina, lo schienale buttato all'indietro e le caviglie poggiate al bordo della scrivania, mentre Lloyd se ne era rimasto in piedi tutto il tempo, le mani sui fianchi e la silhouette sottile che si stagliava scura.
Una volta individuato chi fosse Jimin durante quell'incontro nei corridoi ed essere entrati virtualmente nel suo cellulare, George e Matt lo avevano pedinato nella maniera più discreta possibile. La telecamera nascosta tra i loro vestiti era mal camuffata, ma tra tutti quei costumi di Halloween nessuno ci avrebbe fatto caso. 
Le loro riprese balzavano subito all'occhio nella grande schermata, essendo le sole a non essere statiche.
Un bip precedette un rumore ruvido ed elettronico. 
Dalla radiolina che Lloyd teneva appoggiata sulla scrivania, George li informò che Jimin aveva ufficialmente ingoiato il boccone. 
Il fratello più giovane si affrettò a dare una qualche conferma, parlando dritto dentro il microfono, poi sfilò velocemente il proprio cellulare da una tasca, la lucina supplementare dell'aggeggio che gli illuminava gli occhi azzurri.
Da dov'era seduto, Patrick lo vide scorrere i pollici sulla home di un'app che non riconosceva. Lloyd aveva fatto partire un timer. 
"Due del mattino." annunciò una voce robotica. "L'evento scadrà tra: una settimana."
Daront si allargò il colletto della camicia con l'indice. Ancora non ci credeva di star vivendo una situazione del genere in prima persona. 
"Sicuro che la tua roba non nuoccia? Stava perdendo i sensi, è evidente." 
Lloyd, evidentemente più rilassato di pochi istanti prima, si appoggiò con il fondoschiena alla scrivania, neanche a dirlo, sorridente. 
"Starà benone, tranquillo. Non te la rovino la tua bambolina."
L'uomo più giovane si voltò solo con il capo, trovando esattamente l'espressione che si aspettava dal fratello. 
"Che c'è?" disse Lloyd, la faccia da gnorri. "Pensavi di essere discreto? Ti avevo detto di avvicinare Jimin il minimo indispensabile per fargli respirare l'essenza della mela, giusto per aiutarlo a trovare il frutto vero e proprio. Tra le mie istruzioni non c'era tutto quel tocca-tocca." 
Patrick grugnì. Non tentò neanche di negare l'evidenza, anche se la cosa lo infastidiva. 
Invece pescò una bottiglia di Scotch, accompagnata dai famigerati bicchierini. Li riempì senza badare alle gocce sfuggitegli via che avrebbero reso appiccicaticcia la scrivania. 
Lloyd prese il suo e lo tintinnò contro quello di Patrick, buttando giù l'alcool in un solo sorso.
"A quel mucchio di soldi che mi ritroverò sul conto corrente." disse. "E alla star del mio show: buona settimana, Park Jimin."

SPAZIO AUTORE:
E voi? 
Team Lloyd o Team Patrick? 
Il televoto è aperto per scegliere il vostro Daront preferito.
DAN DAN (pure l'uscita drammatica era d'obbligo)

   
 
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