Videogiochi > Ensemble Stars
Segui la storia  |       
Autore: Rota    14/11/2017    0 recensioni
Una luce rossa, improvvisa, lo fa quasi sobbalzare sul proprio sedile: deve aver superato un posto di blocco, un appostamento di pattuglia della onnipresente e dilagante polizia. Non si è accorto di essersi appisolato stancamente, dopo quell’ennesima e lunghissima giornata di sfiancante lavoro, e il male leggero alla guancia indolenzita gli suggerisce di aver passato troppi minuti di totale abbandono contro il finestrino della propria vettura.
Dev’essere stato un momento in cui ha abbassato la guardia, e tutto il peso delle sue occhiaie si è fatto sentire tra palpebre e mal di testa.
Sbadiglia e torna ad appoggiare la spalla infreddolita contro lo schienale morbido della vettura, recuperando la giacca e cercando un poco di calore per le ossa tremanti. Guarda in avanti, verso il traffico del rientro serale.
Neanche ad aver automatizzato completamente tutti i mezzi di trasporto, da quelli pubblici a quelli esclusivamente privati, ha liberato l’umanità dalla piaga dell’ingorgo: è un po’ l’ironia amara che tinge di colore l’umorismo di chi si ritiene sagace.
Lui, di certo no.

[Keito!Centric - KuroShu]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Keito Hasumi, Kuro Kiryu, Mika Kagehira, Shu Itsuki
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

1. Due mondi - Discesa



 

Una luce rossa, improvvisa, lo fa quasi sobbalzare sul proprio sedile: deve aver superato un posto di blocco, un appostamento di pattuglia della onnipresente e dilagante polizia. Non si è accorto di essersi appisolato stancamente, dopo quell’ennesima e lunghissima giornata di sfiancante lavoro, e il male leggero alla guancia indolenzita gli suggerisce di aver passato troppi minuti di totale abbandono contro il finestrino della propria vettura.

Dev’essere stato un momento in cui ha abbassato la guardia, e tutto il peso delle sue occhiaie si è fatto sentire tra palpebre e mal di testa.

Sbadiglia e torna ad appoggiare la spalla infreddolita contro lo schienale morbido della vettura, recuperando la giacca e cercando un poco di calore per le ossa tremanti. Guarda in avanti, verso il traffico del rientro serale.

Neanche ad aver automatizzato completamente tutti i mezzi di trasporto, da quelli pubblici a quelli esclusivamente privati, ha liberato l’umanità dalla piaga dell’ingorgo: è un po’ l’ironia amara che tinge di colore l’umorismo di chi si ritiene sagace.

Lui, di certo no. Trova noioso e alquanto indisponente il fatto di non poter mangiare tutti i giorni alla stessa ora. Ma ecco che l’uomo si rivela proprio lì dove la macchina è sempre stata imperfetta e non ammette sbagli, in quel caos approssimativo che rende l’idea stessa di vita.

Piuttosto che questi pensieri, però, nella sua testa vorticano ancora numeri e sigle, codici infiniti che ha dovuto controllare e ricontrollare un numero infinito di volte nel giro di appena cinque ore. Quel pomeriggio è dovuto accorrere in aiuto di uno dei dirigenti dei piani intermedi - rete fognaria, o qualcosa del genere, si ricorda a malapena davvero poco di quale sia stato il problema iniziale, perché ha dovuto eseguire da solo una serie di scansioni e backup e controlli simultanei su tutto l’impianto idrico della città - e non è stato molto divertente per i suoi nervi già molto provati.

Sotto di lui, di parecchi metri di vuoto, la città propriamente detta. Non si ricorda di quale delle Grandi Macchine è stata l’idea, ma sopraelevare le vie di traffico lasciando così libero l’ambiente cittadino sia dallo smog, risucchiato dagli impianti di aerazione all’altezza delle nuvole, sia dalla vista ugualmente inquinante di autoveicoli e cose simili è stata un’idea a dir poco geniale, lo deve ammettere. Ben pochi pedoni incauti, poi, possono morire con un sistema del genere.

L’idea del vuoto non lo spaventa più, ma c’è stato un tempo in cui non si sentiva a proprio agio a galleggiare senza controllo nell’aria. Non che ora si fidi di più delle macchine, ma certo è che non lascia né lascerà mai più che sia una mente artificiale a controllare ogni singolo aspetto della propria vita.

Perché in quel frangente l’unica cosa umana che può possedere, è soltanto una profonda estraneazione.

Vorrebbe pure guidare manualmente, certe sere. Non questa, perché è davvero troppo stanco e una parte di lui, che neanche ha voce o emette suono, è grata all’insistenza e alla sottile manipolazione che Eichi ha eseguito su di lui imponendogli come obbligo lavorativo d’avere una macchina sempre pronta alle sue esigenze.

Keito non lo ammetterebbe mai, neppure a se stesso, neppure nelle ore più buie della propria solitaria esistenza: non avrebbe testa né corpo per riuscire a guidare la sera, con tutte quelle ore di lavoro sulle spalle.

Adocchia l’esterno della autovettura, una volta abbassato l’oscurante del finestrino con cui è solito isolarsi dal resto del mondo. Ma il cielo è davvero troppo scuro perché lui riesca a scorgere qualcosa del monotono paesaggio e capisca quanto tempo ancora manchi all’arrivo alla propria dimora; ha registrato anche un calo della vista, nell’ultimo periodo, a causa dello stress e dei ritmi sempre troppo frenetici del suo nuovo impiego.

In quel momento, quindi, si allunga verso il cruscotto anteriore, dove con un paio di click ben sapienti si apre una schermata non nel vuoto, ma sopra il vetro appena superiore e gli mostra la strada fatta, la strada ancora da fare, una stima più o meno precisa del tragitto rimanente e anche la temperatura esterna, nella rassicurazione ulteriore che lui sia fornito di ombrello perché molto probabile che persino nella Città Alta inizi una di quelle tempeste acide che non è bene prendere direttamente sulla pelle nuda e debole. L’uomo sospira, finalmente, cercando di liberare buona parte dello stress accumulato, ma nel tornare in posizione perfettamente seduta, schiena contro i cuscini dello schienale, urta leggermente la propria borsa rigida con il gomito: questa si apre appena, nell’aggancio che dovrebbe tenerla sigillata, facendolo sbuffare d’irritazione.

La tiene soltanto in quanto regalo di suo fratello, non per una vera e propria affezione personale.

Tuttavia, questo particolare gli permette di sentire il leggero allarme insistente che un dispositivo situato all’interno di quella sta disperatamente mandando già da diversi minuti. Apre la borsa rigida, rovista per un poco tra i documenti e il resto del lavoro che si è portato appresso per tenersi occupato anche quella notte e trova un piccolo schermo rigido lasciato acceso che trema e manda una luce rossa a intermittenza. Veloce, come se quella cosa avesse spazzato via completamente ogni spossatezza dalle sue membra, lo afferra e con un semplice tocco sullo schermo ne accende tutti i colori e la luce principale.

Una mappa molto stilizzata della città compare ai suoi occhi - perché il puntino rivela una posizione troppo lontana da lui per fare altrimenti - che allargandosi sempre di più finisce poi al di fuori delle mura di confine. E quel piccolo puntino prosegue, prosegue imperterrito fino a scomparire oltre il suo raggio d’azione.

Ben oltre la periferia est, nelle discariche cittadine.

Keito fa una smorfia che contrae completamente il suo viso. Stava aspettando quello sviluppo da giorni e certo non è il momento di lasciarsi sfuggire un’occasione simile, tuttavia è stranito da quanto ha visto.

Senza titubare troppo, che di tempo ne ha già perso parecchio, si china di nuovo in avanti e digita un nuovo ordine alla propria autovettura, una nuova destinazione per il suo viaggio di ritorno.

Questa volta, Kuro Kiryuu dovrà spiegargli diverse cose.

 

Non è fiero di quello che ha fatto, questo è indubbio: programmare, nel sistema della macchina personale del collega, un navigatore che mandasse a lui le coordinate esatte in cui il veicolo si dirigeva e si muoveva all’insaputa del padrone stesso, non era stato facile né a livello morale né a livello materiale. La sua fortuna, in un certo senso, è che Kuro non sembra avere quel certo cuore sospettoso per cui mette in discussione l’integrità altrui.

Se ne vede, semmai, o si nasconde, ma pensare a un tranello teso ai suoi danni sarebbe forse quel balzo mentale in più che qualcuno come lui è incapace di compiere a prescindere. E questo, ovviamente, va a vantaggio dell’altro.

Per giorni Keito ha atteso quest’occasione, sbirciando quel segnale in isolato silenzio. La sera e la mattina, le ore che non era sotto controllo diretto di lavoro o impegni personali: niente, nessuna novità per quasi due settimane.

Però, se il sospetto nel cuore puro di Kuro non ha il permesso di entrare, nel cuore di Keito ha fatto fissa dimora da diverso tempo e gli ha suggerito più e più volte, con una malizia e una perfidia che lo hanno corroso a più livelli, che non era normale.

Certi comportamenti, certe azioni, certi interessi, certi misteri, certe domande che quell’uomo faceva, certe ore e certi interi giorni in cui spariva e ricompariva all’improvviso. Troppo sospetti, per il suo modo di vedere le cose.

In un certo senso, è stato quasi costretto. Non è più il tempo in cui le macchine fungono da ricettacolo di ogni sospetto e tra le fila degli umani ci sono separazioni troppo nette, troppo in contrasto tra di loro riguardante l’etica morale legata al processo tecnologico. Senza contare, in ultima analisi, come Kuro Kiryuu ha sempre con lui condiviso un’opinione ben precisa a riguardo. Ma tutto questo non ha impedito a Keito Hasumi di seguire la propria natura sospettosa.

Natura che lo ha allontanato sempre più non solo dalla propria abitazione, calda e confortevole e con la cena pronta nel forno elettronicamente fin troppo preciso ad aspettarlo, ma anche dal centro della città e pure dalla periferia stessa di quella.

Sempre meno case, sempre meno fabbriche, sempre meno strade da seguire, sempre meno macchine dietro cui nascondersi. Il segnale è comparso ogni tanto per poi sparire altrettanto in fretta - Keito sa che quella è la destinazione giusta, ma pare che Kuro abbia lasciato la macchina in un posto dove ogni segnale elettrico viene interferito da qualcosa e forse è ancora lì, forse no. Keito pretende solo le proprie risposte, non altro.

Il tutto si riduce a un’unica strada, poi. Una corsia che procede, una corsia che torna, per diversi interi chilometri di nulla. Al di sotto dell’autovettura, nella parte inferiore dove le scie elettromagnetiche che permettono ai veicoli di ultima tecnologia di procedere senza l’utilizzo di ruote o altre cose simili, vi sta un nero così profondo che ingloba qualsiasi cosa.

Forse è acqua, forse è cemento, Keito non lo sa.

In quel momento, riconosce solo il rumore della pioggia acida che batte sopra il tettuccio della sua macchina e contro le portiere, e guarda davanti a sè. Un fulmine grande, spaventoso, squarcia l’intero cielo, e mostra il profilo delle montagne di spazzatura di metallo, cemento e ferro che compongono le Discariche della capitale.

 

Il parcheggio per gli autoveicoli privati rimane all’esterno della discarica, dal momento che al suo interno non sarebbero di nessuna utilità.

Una grande quantità di metallo, tutta riunita, potrebbe spaventare chi ha ricordi ancora ben vividi di quella che è stata la Guerra, o Depurazione delle anime ferrose, ma tutti gli animi si calmano nel momento in cui quella tutta massa riunita di metallo in ogni forma è delimitata in uno spazio entro cui niente di bionico può materialmente avere vita: tutta l’area è attraversata da fasce di forza elettromagnetica, rinchiusa e incanalata in tubi metallici dal colore sfavillante, nel caso qualcuno abbia la malaugurata idea di inciamparvici sopra in modo disattento. Questi grandi tubi scorrono anche lungo le mura dell’esterno, risultando minacciosi a chi della prima impressione conserva ben più di un passeggero sentimento.

Ma Keito Hasumi, in quel preciso momento, ha ben altri problemi a cui pensare: come entrare nella Discarica rimanendo riparato dalla pioggia acida, come entrarci senza dover dare una spiegazione che possa poi legarlo alla scena del crimine, come poi cercare Kuro Kiryuu in un luogo dove nessuna tecnologia in suo possesso funziona.

Gli pare evidente, dopo qualche pensiero, che il suo collega sia entrato non dall’ingresso principale, ma da un’entrata secondaria o fatta da lui stesso proprio per evitare questo tipo di problema. Rispetto alla Grande Fornace, che sempre col ventre pieno per merito del duro lavoro degli Addetti alla Fusione Metallica instancabilmente fonde tutto il ferro, l’acciaio e il rame inutilizzati presenti su suolo cittadino, deve aver messo parecchia distanza - o almeno, così gli suggerisce l’animo umano, perché certo anche la parte bionica di Kuro può temere una tale voragine di fuoco e fiamme.

Con questi pensieri in testa, decide di prendere il proprio ombrello elettronico, la propria borsa rigida e uscire all’esterno, finalmente. L’ombrello si apre sopra la sua testa, ciondolando nel vuoto, e crea un campo di forza attorno alla sua persona impenetrabile per la pioggia acida.

Rimane tutto nel buio della notte, eccetto che quel limitato cono entro cui lui stesso sta. Individua con una semplice occhiata l’ingresso principale e la sua torretta di controllo - fari accesi e un po’ troppo rumore proveniente da quella direzione - e quindi comincia a camminare veloce nella direzione opposta, cercando guardare sia avanti sia la strada su cui cammina, per non inciampare in qualcosa.

Sente il rumore del mare in tempesta, in lontananza, e ogni tanto vede ciò che lo circonda grazie all’intervento di uno di quei fulmini verdi che aprono il cielo.

La capitale è davvero lontana, da quell’isola maledetta, e i profili dei grattacieli e di tutte quelle strutture così immense, così tendenti al sole e alla luna, non paiono per niente rassicuranti da quella distanza. Pare davvero che esistano due mondi ben separati.

Dopo diverso insistere, e dopo troppi metri di mura sempre uguali, finalmente trova un piccolo deposito costruito in cemento e tegole scure, sotto cui si trovano parcheggiati una fila molto lunga di navette dalle larghe e spesse ruote tonde.

Non vedeva affari simili da quando aveva poco più di sei anni, ma la loro visione non fa nascere in lui alcun tipo di sentimento nostalgico. Una volta avvicinatosi abbastanza alla piccola struttura male illuminata, e riuscito a guardare meglio quelle strane vetture, si accorge non solo che esse sono assolutamente prive di qualsivoglia controllo elettronico cui lui potrebbe mettere mano, ma anche l’evidente mancanza di una di esse dalla fila ordinata e precisa. Proprio l’ultima, proprio quella messa nell’angolo di confine.

Questa per lui non è che l’ulteriore prova che Kuro è stato in quel luogo e ha prelevato illecitamente mezzi con cui muoversi all’interno della discarica. Non può che fare altrimenti.

Spegne il proprio ombrello e sale, dopo un paio di alti scalini, al livello della portiera di uno di quelli. Tutto l’abitacolo del conducente, posto sull’asse che collega le quattro ruote motrici, è costruito in simil plastica, adatta a isolare sia da eventuali radiazioni sia da eventuali piogge acide. Il braccio meccanico davanti al muso anteriore, utilizzato in altri tempi per prelevare il metallo inutilizzato e trasportarlo fino alla Fornace, cade come una mano morta contro il pavimento, con la bocca larga e aperta e i denti ben in vista.

Keito sospira, guardando un poco sconsolato tutti i comandi manuali sul monitor davanti a sé. Non ha la minima idea di come far funzionare quell’affare, e dubita davvero che da qualche parte ci sia una sorta di manuale d’istruzione. Teme pure che, accesi i propri marchingegni elettronici, questi possano sentire l’influenza delle onde provenienti dalla vicina discarica e per questo vengano danneggiati.

Non può permettersi di perdere giorni e giorni di lavoro per quel motivo.

Sospira di nuovo, si sistema gli occhiali sul naso e, alla fine, si toglie i guanti scrocchiando rumorosamente le proprie dita.

Impiega diverso tempo a comprendere come far muovere quello strano aggeggio. Finisce anche per sfasciare le altre autovetture lì presenti, sia con la fiancata della propria sia col braccio meccanico che l’appesantisce sul davanti. Spie verdi e rosse continuano a lampeggiare di fronte ai suoi occhi, e mille manopoline si intestardiscono a non lasciarsi piegare in alcun modo persino quando, finalmente, riesce a mettere in moto e procedere di qualche metro in avanti. Supera il confine della tettoia del piccolo deposito e non sapendo neppure come fermarsi o girare, per poco non finisce con l’andare sugli scogli e quindi precipitare in mare - fortunatamente, il suo istinto di sopravvivenza e il suo sangue freddo sono ancora in grado di fargli gestire appieno situazioni di pericolo tanto urgente.

Così, riesce ad avere un discreto controllo su quella piccola navetta.

Procede in avanti, nella direzione che ha seguito fino a poco prima, senza esitazione. Le mura di cinta ancora scorrono al suo fianco, instancabilmente identiche, fino a quando pian piano non si abbassano fino a scomparire nel cemento del suolo: in quella zona estrema della piccola isola, era solito in altri tempi far attraccare le navi piene di rifiuti di altre oasi e di altre città, e anche se in quel momento la pratica è in disuso non si corre alcun pericolo: le rocce che compongono gli scogli aguzzi, fieri oppositori di quel mare in tempesta, rifrangono benissimo ogni tipo di onda elettromagnetica, fornendo una barriera naturale a qualsiasi essere bionico abbia la sventurata occasione di capitarvi appresso.

Lì, quindi Keito si introduce illegalmente all’interno del territorio della Discarica.

Come benvenuto, l’ennesimo fulmine verde illumina i profili dei grandi ammassi di metallo, che formano come delle piramidi più o meno ordinate e onde imponenti in un mare immobile quanto angosciante e freddo e sconfinato. L’uomo non ha modo di comprendere dove il proprio collega sia andato, precisamente, e l’unica cosa che gli resta da fare è procedere verso una direzione casuale.

Comincia quindi ad arrampicarsi sul primo livello di rifiuti solidi - le grandi e alte ruote di gomma glielo permettono senza problemi - e continua ad avanzare senza troppi dubbi.

 

Ha quasi toccato il cielo e, per un attimo, si ferma sul crinale ripido di una di quelle montagne artificiali, per guardare in basso. Ma oltre che una superficie incalcolabile di lamiere di ogni tipo, e lontano la bocca sempre aperta e sempre calda della Fornace che aspetta solamente di inghiottire tutto quello, non riesce davvero a scorgere nulla.

Nota, piccoli ed efficienti, i veicoli che portavano lemmi il materiale a sciogliere e a costruire nuove forme, entro un processo di morte e rinascita degno di molta della filosofia umana. Umani, la maggior parte di loro, ma anche diverse macchine prive di Intelletto.

Non pare esserci alcun tipo di controllo ulteriore.

Keito gira quello che ha individuato essere il volante e cerca di tornare indietro, per seguire un’altra strada che lo porti in un posto diverso e gli faccia vedere angoli nuovi - anche se in quella notte eterna pare quasi che tutto sia uguale e niente abbia davvero un aspetto riconoscibile.

Sono soltanto tanti musi di robot, braccia e gambe e torsi bionici di ciò che fortunatamente non è più in grado di far loro nulla.

Ma ecco che qualcosa di imprevisto accade, proprio mentre qualcosa cede sotto la ruota posteriore di sinistra: il veicolo borbotta, annaspa, sotto la pioggia ancora battente emette un singolo singulto di protesta e poi si spegne, per mancanza di carburante.

Keito rimane a fissare il vuoto, ora che neppure le luci dell’abitacolo di plastica che lo inglobano illuminano qualcosa oltre la punta del suo naso, e in un attimo isterico muove a caso più leve di quelle che dovrebbe davvero. Ma nulla, non accade proprio nulla.

Keito non ha neppure il tempo di lasciarsi troppo prendere dal panico perché, con un gridolino acuto, il veicolo comincia a inclinarsi verso destra, dove il crinale di quella strana montagna fredda scende in picchiata.

Pochi secondi e comincia tutto a roteare. La sua testa, la sua spalla, le sue ginocchia vengono sbattute a caso contro tutta quella plastica dura - la sua mano si aggrappa disperatamente alla cintura di sicurezza che è riuscito ad allacciarsi, come unica risposta vagamente istintiva che riesce a dare al tutto.

Rotola, e con quel veicolo rotola anche altro metallo e altre lamiere, espandendo un rumore così assordante e così grave.

La sua folle corsa riesce a fermarsi, ma ecco che dopo la durata di un respiro qualcosa gli cade addosso e schiaccia il veicolo e lo accartoccia quasi. L’abitacolo protegge l’uomo, che da quello scontro non ne riceve alcun danno: urla scaricando in quel modo la paura, urla dietro occhiali rotti e la testa che gli pulsa e gli sanguina dalle tempie.

La sua mano riesce a muoversi, dopo diversi secondi di immobilità assoluta, dove la priorità era riuscire a respirare in modo normale. La cintura però non si slaccia e quindi l’uomo si vede costretto, come può e come il dolore a tutto il suo corpo glielo permette, a scivolare fuori da quella gabbia strisciando, scivolando tra lamiere che lo hanno lasciato vivo.

Non può neanche permettersi di pensare troppo alla pioggia acida che gli cade addosso, quando riesce a fuoriuscire da sotto il veicolo tutto schiacciato. Tocca con mano tremante quello che ha attorno, senza riuscire a vederlo davvero, e solo dopo aver liberato anche il piede completamente storto pensa a cercarsi un riparo - rimane accucciato a terra, tenendosi le gambe, e sotto una lamiera rimane immobile cercando di pensare a cosa poter fare.

Certo, non rimanere lì, dove nessuna tecnologia lo può raggiungere, a disposizione delle interprerie e senza alcun tipo di provvista. Sente la pelle delle mani bruciare e la volontà vacillare come di fronte all’esigenza di un sonno profondo, ma questo non lo ferma.

Affronta la pioggia, coprendosi come riesce con la propria giacca per proteggere almeno il capo; corre come può, evitando lastre o altri spigoli sporgenti da matasse incomposte. Ogni tanto riesce a ripararsi qualche secondo sotto un tetto improvvisato, ma non si ferma troppo.

Ed è in questo suo vagare che, incomprensibilmente, scorge una luce in mezzo a quel mare buio. Corre, corre in quella direzione, inciampa diverse volte e le sue gambe si riempiono di lividi, graffi e tagli.

A pochi metri riconosce quella che dovrebbe essere, circa, la forma di una piccola casa, l’ingresso le pareti e il tetto. Inciampa di nuovo, e quella porta si apre - pare che qualcuno urli mentre lui sviene, mentre lui semplicemente cede al bisogno fisico di arrendersi in quel preciso istante.

-Hasumi!

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Ensemble Stars / Vai alla pagina dell'autore: Rota