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Autore: Adeia Di Elferas    14/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il crepitare lento delle braci nel camino si era affievolito notevolmente, con il passare delle ore.

Caterina non era riuscita a prendere sonno, benché ci avesse provato in ogni modo e malgrado la stanchezza che quella giornata – e quelle che l'avevano preceduta – le aveva messo addosso.

Giovanni, invece, dormiva profondamente, accanto a lei. Le coperte pesanti gli arrivavano al collo e il suo volto aveva dipinta un'espressione di perfetta calma.

La moglie si prese qualche momento per osservarlo nella penombra della stanza e non riuscì a fare a meno di ripensare alla discussione che avevano avuto il pomeriggio prima e, soprattutto, al modo in cui aveva finito per appianare le loro divergenze.

Quel genere di riappacificazione, alla Tigre ricordava troppo quelle a cui lei e Giacomo si piegavano ogni volta che qualche divergenza cercava di allontanarli.

Anche se sapeva benissimo che il fiorentino era un uomo di tutt'altra pasta e che, se era tornato da lei, non era stato solo perché la desiderava, ma perché ci aveva ragionato sopra e aveva deciso che non poteva fare altrimenti, la Sforza sentiva comunque crescere dentro di sé una sensazione molto spiacevole.

Ripensò anche alle parole che l'appestato aveva detto di lei davanti a tutti i soldati che erano accorsi a vedere che stava accadendo.

La Contessa era conscia del fatto che, probabilmente, tra gli uomini presenti ce n'era almeno uno che aveva subito la stessa sorte di quel poveraccio.

Se in un primo tempo aveva sempre allontanato con attenzione dalla rocca tutti i suoi amanti occasionali, con il tempo si era fatta un po' meno attenta e qualcuno che era a suo tempo stato debitamente allontanato, ormai era tornato.

Si chiese se potesse esserci qualcosa di vero, nelle illazioni che la volevano come causa scatenante di quell'epidemia.

Quando, per convincersi che non poteva essere così, si schermava dietro all'evidenza che anche altre città erano state colpite, alla fine doveva ammettere con se stessa che anche i signori degli altri Stati avevano peccati da farsi perdonare.

Sentendo una forte confusione nella testa, Caterina guardò ancora un momento il viso disteso di Giovanni, sulla cui fronte erano scivolati un paio di riccioli castani e un nuovo nodo le strinse lo stomaco.

Se in un'altra occasione si era rifiutata di amarlo in quella stanza, che per lei era uno dei simboli del suo smarrimento dopo la morte di Giacomo, quella volta non aveva saputo resistergli.

Il pensiero, però, ora che aveva la mente più fredda e poteva ragionare in modo più distaccato, le dava la nausea.

Con lentezza, muovendosi in modo sinuoso per non svegliare il marito, la Tigre scivolò fuori dalle coperte.

Lo sbalzo di temperatura dal tepore delle lenzuola al fresco della stanza la fece rabbrividire. Velocemente prese l'abito che le era stato tolto la sera prima e se lo infilò. Mise le scarpe e recuperò, sempre con una silenziosità invidiabile, un mantello dalla cassapanca.

Voltandosi un'ultima volta a guardare Giovanni, che ancora dormiva, Caterina uscì.

Attraversò in fretta la rocca e si diresse senza indugio alla chiesa di San Tommaso Apostolo. Anche se dava mostra di non badare a dove andasse suo figlio Cesare, in realtà era a perfetta conoscenza dei suoi spostamenti.

Dunque, passata inosservata dai pochissimi che a quell'ora erano già in strada, arrivò in piazza quando ancora non era sorto il sole.

L'aria era fredda e il cielo sembrava ingrigito. Caterina lanciò un'occhiata al palazzo dove aveva vissuto con il suo primo marito e dove ancora teneva le riunioni del Consiglio.

Era come spezzato in due. I lavori di demolizione, non portati a termine del tutto, gli avevano dato un aspetto disordinato e quasi inquietante.

'Una bella immagine del mio Stato – pensò la Contessa, ritornando a guardare davanti a sé e puntando con decisione verso San Tommaso – e di me.'

Quando arrivò nella chiesa, appena varcato il portone mezzo aperto si sentì avvolgere da una sommessa cantilena di voci maschili. Come un nugolo di mosche, religiosi e penitenti erano in ginocchio, rivolti verso l'altare e stavano pregando.

Le Leonessa individuò in fretta il figlio. Era in prima fila e la tonsura quasi riluceva di rimando alla fiammella dei candelotti che aveva accanto.

Cercando di liberare la mente da tutto quanto, restando in disparte, dietro a una colonna, Caterina ascoltò per un po' la litania e poi, quando riconobbe le orazioni che stavano portando avanti, si unì ai penitenti, così assorta nell'enunciazione di preghiere che conosceva fin da bambina, da riuscire per una misera volta, a dimenticarsi di tutto quanto.

 

Il Duomo di Firenze era così stipato che a quelli che si trovavano più vicini all'altare quasi mancava l'aria da respirare.

Girolamo Savonarola aveva atteso che si formasse una gran folla anche fuori, fino a riempire le strade laterali e solo allora si era palesato.

Aveva avuto cura che ci fossero strilloni in ogni dove, che ripetessero le sue parole pedissequamente, in modo che nessuno, nemmeno chi aveva preferito restarsene in casa invece che accorrere in chiesa, potesse dire di non aver sentito la sua difesa.

La scomunica ormai era di dominio pubblico e il domenicano, che aveva scritto immediatamente al papa in persona per avere spiegazioni più esaurienti, sentiva il bisogno di volgere anche quel colpo basso a proprio favore.

Era lui, in fondo, l'uomo che era stato capace di indurre la gente di Firenze, la più vanitosa e la più arrogante d'Italia, a bruciare i propri tesori in nome di Dio.

Se era riuscito in quell'impresa titanica, se era riuscito – così dicevano tutti – a far impazzire perfino Botticelli, non poteva forse continuare a predicare benché il diavolo Borja l'avesse scomunicato?

Con passi grevi e cadenzati, Savonarola salì i gradini che lo portavano al pulpito e, una volta là in cima, fece un lungo sospiro e cominciò la sua arringa.

Aveva passato tutta la notte a provare quella predica e aveva capito che il modo più efficace per farla, era fingere di rivolgersi direttamente a un interlocutore immaginario.

Mettendosi nell'ottica dell'uomo di strada, aveva pensato che fosse lecito fingere di ribattere a qualcuno che lo accusava di aver continuato a predicare e dir messa malgrado la scomunica. E, ovviamente, il gioco più semplice stava nel lasciare intendere che in realtà il documento papale non fosse mai esistito, ma fosse solo un'invenzione dei suoi nemici.

“L'hai tu letta questa scomunica?” tuonò, alzando un dito e puntando a caso nella folla: “Chi l'ha mandata?”

Lorenzo il Popolano sapeva che era fondamentale essere lì per sentire quello che il domenicano aveva da dire.

Anche se Semiramide aveva provato a opporsi, temendo che la confusione sarebbe stata troppa per il marito e che, in quella bolgia, qualcuno avrebbe potuto finire per prenderlo di mira e fargli del male, il Medici aveva voluto esserci ugualmente.

Premuto contro concittadini che conosceva solo di vista, Lorenzo cercava di vedere come meglio poteva il naso adunco del frate e di sentire con le proprie orecchie le sue parole, anche se, spesso, il vociare e le invocazioni dei fedeli coprivano perfino i vibranti accenti di quel fanatico.

“Non vi maravigliate delle persecuzioni nostre – stava andando avanti Savonarola, alzando sempre più il tono e cercando di coinvolgere come non mai quelli che lo ascoltavano – non vi smarrite voi buoni, ché questo è il fine dei profeti: questo è il fine e il guadagno del nostro mondo!”

Mentre un boato accoglieva quell'affermazione, Lorenzo si trovò a pensare che il vittimismo del frate stava facendo anche troppo centro, in una popolazione che si sentiva vessata da guerre, tasse e incertezze di ogni tipo.

“Parla come un vero profeta, eh?” fece Giovanbattista Ridolfi, alle spalle del Popolano.

Il Medici, che non si era accorto di averlo tanto vicino, sentì un brivido corrergli lungo la schiena e poi, ignorando per un istante l'arringa che il frate stava sviluppando in ogni meandro, si voltò appena, tanto da poterlo vedere in volto: “E immagino sia per questo che vi siete dato tanta pena per difenderlo...”

Ridolfi assunse un'espressione dura, quella che a Lorenzo non aveva mai convinto, quella che, a suo parere, sfoggiava quando stava mentendo.

“L'ho difeso perché è l'unico che può salvare Firenze.” fece Giovanbattista, quasi urlando per farsi sentire: “E mio fratello Niccolò la pensa come me.”

“Vostro fratello Niccolò.” fece eco Lorenzo, appena prima di voltarsi di nuovo per rimettersi ad ascoltare il domenicano.

Niccolò Ridolfi, il Popolano ne era quasi certo, era stato uno dei fautori della congiura con cui quasi tre anni prima si era provato a rimettere a Firenze Piero a discapito di lui e Giovanni.

Non aveva le prove, ma era sicuro che fosse così. E quella frase, apparentemente casuale di Giovanbattista, secondo lui, valeva più di ogni altra.

 

Tornata dalla chiesa, Caterina aveva cercato Giovanni, trovandolo sveglio e già intento ad aiutare il castellano.

Cesare non si era accorto di lei e, quando le orazioni erano terminate, la Contessa aveva subito levato le tende, in modo da non incontrarlo nemmeno per strada, con il rischio di sollevare domande scomode da parte sua.

“Non ti ho trovata, quando mi sono svegliato...” disse piano il Medici, mentre camminava a passo con lei, andando verso la sala dei banchetti per fare colazione.

“Sono andata in chiesa.” spiegò la donna, evitando di guardarlo.

Il Popolano fu tentato di chiederle come mai quella decisione improvvisa, ma decise di lasciar perdere.

Gli occhi della moglie erano lucidi e non gli fu difficile capire che, in qualunque chiesa fosse stata, di certo, che avesse pregato o meno, aveva pianto.

Dopo aver mangiato insieme, i due si divisero, per dedicarsi alle rispettive mansioni e Bianca sostituì di nuovo Ottaviano nei giri in città con la madre.

Mentre visitavano le case e controllavano il punto di raccolta degli appestati conclamati, madre e figlia scoprirono che Forlì, nell'arco di poche ore, la recrudescenza della malattia aveva mietuto non poche vittime.

Una volta arrivata la sera, Caterina si vide costretta a prendere una decisione che fino a quel momento aveva rimandato.

L'epidemia non se ne stava andando, a parer suo, principalmente per due motivi. Prima di tutto, il clima che, malgrado le nuvole, era secco e non concedeva nemmeno un goccio di pioggia per purificare l'aria e le strade.

In secondo luogo, serviva qualche cosa che permettesse di sanificare gli ambienti, prima di permettere alla gente guarita – pochi, ma non pochissimi – di tornare nelle proprie case senza essere un pericolo per gli altri.

Erano così rientrate a Ravaldino da poco e il medico si era appena congedato da loro, quando la Contessa prese da parte Bianca e le sussurrò: “Devi fare una cosa per me.”

La ragazzina si fece molto seria e annuì in silenzio, decisa a portare a termine qualsiasi compito.

Anche se quel giorno, girando per Forlì, aveva sentito dei pettegolezzi che l'avevano scossa, in quel momento si sentiva pronta a tutto.

Aveva sentito dire – da persone che avrebbero dovuto essere più preoccupate dalla peste che non da quel genere di chiacchiere – che secondo molti sua madre avrebbe gettato in un pozzo uno dei suoi amanti, dandogli una morte orribile.

Bianca, che sapeva la verità, perché aveva visto coi suoi occhi l'uomo che veniva issato su dal pozzo e messo in salvo, aveva avuto la tentazione di controbattere, ma alla fine si era arresa, cosciente del fatto che non avrebbe mai avuto la faccia tosta di parlare di quelle cose davanti ai sudditi di sua madre.

“Bene...” soffiò la Tigre, appoggiandole una mano sulla spalla e chinandosi un po' verso di lei, come a volersi far intendere meglio: “Vai al Paradiso. Ti darò io la chiave. Cerca nei cassetti della scrivania. Ci sono ancora delle pagine che non avevo copiato nel mio ricettario su come profumare la casa dopo la peste e cose così. Portameli tutti.”

La ragazzina non ebbe bisogno di chiedere perché sua madre non volesse andarvi di persona e così la seguì placidamente fino all'interno della rocca e si fece dare le chiavi, assicurando che sarebbe tornata subito.

 

Raffaele Sansoni Riario sgranò gli occhi e guardò incredulo la sua spia: “Avrebbe... Avrebbe sposato un Medici..?” balbettò.

La sua mente, non appena l'uomo di sua fiducia aveva detto quel che pensava, era tornata a tanti anni addietro quando lui, appena un ragazzo, era stato mandato a Firenze per fare, a sua insaputa, da esca al Magnifico e a suo fratello.

Era stato per non irritare il papa che i due fratelli Medici avevano assistito a quella Messa, solo perché c'era lui, solo perché...

“Ormai è chiaro a tutti che il Popolano faceva grandi preferenze per vostra cugina – insistette la spia, che era appena arrivata dalla Romagna – e il fatto che un altro fiorentino ora sia Governatore di Imola e che il Medici abbia preferito farsi chiudere dentro Forlì, rischiando di morire di peste, pur di non lasciare la Contessa Riario... Direi che ci sono forti segni che siano davvero sposati come pensa l'oratore di Bologna, e come crede anche quello di Ferrara. E come sospetta perfino quello di Milano.”

Il Cardinale, in quel momento, non vedeva la sala lussuosa del palazzo di Ottaviano – che lui abitava solo per evitare che cadesse in disuso e prendesse l'aria malinconica dei posti chiusi – ma rivedeva Firenze, che si apriva davanti ai suoi occhi di ignaro e ingenuo diciottenne come un fiore profumato dai mille colori e dalle mille attrazioni.

E poi, mentre la spia sciorinava le sue perplessità sull'acume dell'ambasciatore milanese, Raffaele risentì di colpo le urla, il panico, il caos infernale che si era riversato in chiesa. La fuga generale dei fiorentini, quelli che gridavano al morto, quelli che calpestavano chi era caduto nel tentativo di scappare.

E si rivide accucciato dietro l'altare, tremante come una foglia, provando pena per se stesso e per la propria codardia. Lui, che quel giorno incarnava Santa Madre Chiesa, non era stato in grado di alzarsi in piedi, condannare apertamente quegli assassini che avevano levato le armi nella casa del Signore.

Non era stato nemmeno in grado di smetterla di piagnucolare, neppure quando erano arrivati a portarlo via per metterlo al sicuro...

Se si guardava indietro, ripercorrendo i suoi anni, doveva riconoscere che il resto della sua vita, tutti i giorni, ogni ora, ogni momento, tutto quanto era stato condizionato da quel singolo giorno.

Era stato usato, a sua insaputa, da suo zio e dai suoi cugini, che lui riteneva fidati e affezionati, e aveva anche rischiato di morire.

Lo avevano usato né più né meno come esca. Come un pezzo di carne che si lancia alla selvaggina per far avvicinare la vera belva che si vuole abbattere.

Suo zio e suo cugino, loro più di tutti. Papa Sisto IV e Girolamo Riario, due tra gli uomini che più stimava e da cui si sentiva più protetto.

Si erano presi gioco di lui. L'avevano sfruttato come specchietto per le allodole per convincere Lorenzo e anche il povero Giuliano Medici, malgrado fosse malato, ad arrivare in Duomo per poi farlo uccidere come un animale.

“Un Medici...” sussurrò ancora Raffaele, allargandosi il colletto dell'abito talare, mentre il petto gli si stringeva e gli mancava l'aria: “Dell'acqua...” bisbigliò, con la gola secca, alla spia che gli stava davanti.

Temendo di vederlo collassare, l'uomo si adoperò come un servo e poi lo guardò mentre ingollava un intero calice in un unico sorso.

Pulendosi le labbra con il dorso della mano, il Cardinale occhieggiò verso la spia e poi annuì da solo, come se avesse deciso qualcosa.

“Potete andare.” lo congedò, abbastanza bruscamente.

L'uomo, ben pagato com'era, non si badò per quei gesti, che non erano classici di Raffaele, e lasciò il salone.

Rimasto solo, il porporato andò a sedersi nell'alcova della finestra e si mise a fissare Roma, o meglio, il cielo di Roma, carico di pioggia e dolore.

Non sapeva come avrebbe fatto, ma sapeva che era il momento di pagare il suo debito. Sia con sua cugina, a cui aveva ucciso l'uomo che aveva amato alla follia, sia con la famiglia Medici, a cui aveva ucciso la perla più preziosa.

 

Bianca entrò con circospezione, dopo aver fatto un po' fatica a far girare la chiave nella serratura.

Appena fu nel piccolo ambiente che era il Paradiso, la ragazzina tossì un paio di volte, per l'aria chiusa.

Avrebbe voluto aprire la finestra, per ricambiarla un po', ma non voleva trattenersi troppo e dunque preferì mettersi subito all'opera.

Tuttavia, mentre raggiungeva la scrivania, un colpo d'aria, difficile capire da dove arrivasse, visto che non c'era nemmeno vento, chiuse la porta di scatto, facendola trasalire.

La luce calante della sera di maggio filtrava ancora dai vetri, disegnando strisce di pulviscolo nell'aria e illuminando a stento i contorti di un momento spezzato.

Essendosi fermata per via del recente spavento improvviso, Bianca ebbe modo di guardarsi attorno, attirata in modo strano, come quando le capitava di trovarsi di fronte a qualcosa che le faceva paura, ma che, allo stesso tempo, la intrigava.

Il Paradiso sembrava immobile nel tempo. Sulla scrivania c'erano ancora dei fogli sparsi, sulla cassettiera era appoggiato un giaccone da uomo, il letto era ancora sfatto...

La giovane Riario sentì il fiato rarefarsi, mentre si rendeva conto che in quella stanza si poteva ancora avvertire la presenza di Giacomo e a quel punto comprese appieno sua madre e la sua decisione di lasciare quella porta serrata.

Le coperte in disordine, l'abito sul mobile, una candela a metà accanto al letto...

L'unico pensiero che riempiva la testa di Bianca era che in quel posto un uomo aveva trascorso la sua ultima notte sulla Terra. Prima che venisse ucciso. Prima che lo tirassero giù dal suo cavallo per trucidarlo.

E non si trattava di un uomo ucciso qualunque, ma di un uomo che lei stessa aveva contribuito a far morire.

Come poco prima, attratta in modo incomprensibile da ciò che l'atterriva, si avvicinò al giubbone e vi passò sopra una mano.

Era coperto da un pesante strato di polvere, ma la stoffa pregiata era ancora intatta, dopo quasi due anni di abbandono.

Sospirò e si avvicinò al letto. Quasi poteva ancora intuire un avvallamento in uno dei due cuscini. E anche sul materasso. Allungò istintivamente una mano e si fermò appena prima di sfiorare la tela.

Si chiese se quell'impressione sul guanciale l'avesse lasciata sua madre o se ce l'avesse lasciata Giacomo.

Incapace di mettere a tacere la sua immaginazione, cominciò a pensare a loro e si trovò ad arrossire, quando li rivide idealmente uno abbracciato all'altra proprio lì, dove ora le coperte si riempivano di piccoli buchi e polvere.

Fu portata a chiedersi come fosse stato, per loro due. E poi si chiese se mai lei avrebbe capito cosa spingeva una donna a cercare un uomo, così come ora sua madre aveva continuato a cerare, anche dopo la morte di Giacomo, fino a trovare Giovanni.

Chiuse un momento gli occhi e poi, con un ultimo sospiro, andò alla scrivania e cercò di ricordare le indicazioni della madre.

Trovò quasi subito quello che cercava e poi, dando un ultimo sguardo al letto sfatto e al giubbone, lasciò il Paradiso, chiudendosi la porta alle spalle con tre mandate, sicura che nessuno mai più l'avrebbe riaperta.

Una volta tornata alla rocca, porse le pagine alla Contessa.

I suoi occhi si illuminarono all'improvviso con una specie di sorriso trionfale, mentre borbottava tra sé: “Allora non mi sbagliavo...”

Poi, lentamente, si sollevarono verso quelli blu scuro della figlia e le labbra le si incresparono appena mentre diceva: “Grazie.”

“Di nulla. Se vi serve altro...” si offrì Bianca.

Caterina la guardò un lungo istante e la trovò un po' diversa. Le parve una donna, non più una ragazzina. Non si era accorta di quanto fosse cresciuta, nelle ultime settimane...

Stava per dirle qualcosa in merito, ma poi si ricordò dei sui sedici anni e di come più o meno all'età di sua figlia avesse partorito Ottaviano e bastò quel ricordo a metterla di pessimo umore.

Perciò, con un tono forse troppo distaccato, le disse solo: “Se avrò bisogno, saprò di poter contare su di te.”

 
   
 
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