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Autore: Sea    14/11/2017    0 recensioni
Non sempre le cose vanno come ci aspettiamo e Sara ed Edward lo sapevano bene. Nulla di tutto ciò che avevano immaginato prima di incontrarsi si era avverato, la vita aveva superato di gran lunga le loro aspettative. Non credevano che avrebbero potuto provare davvero la felicità, eppure…
Eppure, non sempre le cose vanno come ci aspettiamo. Non sempre, al mattino, ci svegliamo nello stesso letto, nella stessa vita in cui credevamo di essere. Non sempre siamo le persone che gli altri credono di conoscere. Non sempre il senso che diamo alle cose, le verità da cui dipendiamo, sono corrette.
A volte la vita ci costringe a ricominciare da capo.
Edward e Sara, i protagonisti di Afire Love, dovranno varcare il sottile confine che separa i sogni dalla realtà ed intraprendere un nuovo viaggio. Di una sola cosa sono certi: comincia una nuova vita.
«Si portò una mano al petto, sperando di contenere il dolore, ma non servì.
Scoppiò in lacrime non appena Edward cominciò a cantare: Loving can hurt…»
Il sequel di Afire Love cambia scenario e si ambienta nella...realtà.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II







5 Ottobre 2014

Tum.
Rimbombava incessantemente nel petto e nella stanza.
Tum. Tum.
Instabile, proprio come tutto il resto.
Tum.
Come tutto ciò che le era rimasto.
Tu-tum.
Per quanti lunghi respiri facesse, sembrava che l’aria non volesse entrare.
Olga era seduta accanto a lei, mentre l’infermiera cercava di vestirla. Suo padre le aveva portato una vecchia tuta nera da casa. Ricordava di averla usata spesso per andare a correre al porto, ma il profumo del mare che le risaliva le narici proveniva da un lontano ricordo in cui Edward le sedeva di fianco. Ricordava alla perfezione il contrasto che quel giorno le sue ciglia chiare facevano col cielo. Il sapore di quella birra le scendeva ancora in gola.
Espirò, i muscoli doloranti, la sedia a rotelle la aspettava a pochi passi. Non voleva salirci. Non voleva essere portata via come se…
Infilare la maglia fu la parte più dolorosa, il torace le doleva in modo indicibile. Qualche lacrima le aveva già rigato il viso, ma nessuno – per quella volta – glielo aveva fatto pesare. Stava per lasciare l’ultimo appiglio che le era rimasto per continuare a sperare e non era pronta. Aveva la vaga sensazione che non appena avrebbe messo un piede fuori, si sarebbe dissolta nell’aria. Non c’entrava niente con quel mondo.
  • Tuo padre sta per entrare. – Olga abbassò lievemente il volume dello stereo che aveva riacceso appena aveva aperto gli occhi. – Gli infermieri ti aiuteranno ad alzarti e dovrai stare ferma, altrimenti vi farete male.
Annuiva, respirava e piangeva. La porta si aprì.
Suo padre e il medico entrarono con cautela, sotto lo sguardo vigile di Olga.
  • Allora, signorina. Siamo pronti. – disse il giovane, dando un ultimo sguardo alla cartella. – Hai il mio numero, quello di Olga e il pass per venire allo sportello di ascolto del reparto. Quando ne hai bisogno, vieni pure.
  • La ringrazio, dottore. – suo padre strinse la mano all’uomo, simulando una serenità che chiaramente non provava.
Sara si chiese quali avvertimenti gli avessero dato riguardo la sua salute psichica, per fargli assumere quell’espressione. D’un tratto la musica si interruppe e immediatamente il panico la prese. Dilatò gli occhi e si voltò verso lo stereo, Olga aveva staccato la spina, ma subito si curò di prenderle la mano e dirle che suo padre le aveva portato delle cuffie per il cellulare.
  • Eccole tesoro, così puoi ascoltare la musica quanto vuoi.
Lo seguì con lo sguardo passo dopo passo e osservò attentamente ogni movimento che fece per inserire il jack nella presa, quasi avesse paura che la stessero prendendo in giro, come se volessero privarla anche di quello. Un momento dopo allungava la mano al telefono, ignorando gli sguardi di tutti; inserì il codice che conosceva sono lei e sbloccò il cellulare. Non notò le migliaia di notifiche sulle icone dei social, ignorò del tutto la foto di sfondo con Sabrina. Portò il dito sul simbolo della nota musicale, selezionò la playlist di Ed e impostò la riproduzione casuale. Non riusciva a mettere le cuffie, perché le tremavano le mani. Suo padre, con una fermezza che solo Olga aveva avuto fino a quel momento, la aiutò. Tenerife Sea, la sua canzone preferita, placò in pochi istanti la crisi che stava per coglierla. Aveva già vomitato la colazione. Nella stanza si sentì il suo profondo sospiro.
La mano che Olga le poneva sulla spalla, le fece capire che fosse ora. Senza guardarla, annuì e si fece prendere in braccio da due infermieri. Continuò a guardare dritto davanti a sé anche quando lasciò la stanza.
Olga la accompagnò fino all’uscita e prima di lasciarla andare le tolse una cuffia.
  • Ci vediamo domani. Se dovessi averne estremo bisogno, chiamami.
Le fece un sorriso che non poté ricambiare.
Una volta che suo padre le ebbe stretto la mano quella si allontanò, poi lui si chinò alla sua altezza e la guardò negli occhi.
  • Sto per avvicinarmi alla porta. Te la senti? – i suoi occhi chiari erano sempre stati rassicuranti, ma quella volta non bastavano a non farla cadere nel panico. Un altro conato di vomito. Un altro capogiro. – Prendimi la mano.
Senza aspettare, lui le prese la mano libera e riprese a spingere la carrozzina. Un metro dopo, la porta automatica si aprì e il sole la accecò. Strinse gli occhi, quasi consapevolmente. Non voleva guardare fuori e non vedere Londra.
Il tranquillante che le avevano dato era utile, ma Sara continuava a sentirsi come se la stessero torturando. Fu caricata in macchina, la cintura allacciata. Solo allora aprì gli occhi e guardò l’esterno. Delle vivaci strade di Londra non era rimasto nulla.
Quando suo padre montò in macchina, accanto a lei, le tirò via le cuffie. La musica era già partita dall’autoradio e Photograph la colpì dritta al cuore.
Si portò una mano al petto, sperando di contenere il dolore, ma non servì.
Scoppiò in lacrime non appena Edward cominciò a cantare: Loving can hurt
Suo padre non pronunciò una sola parola durante tutto il tragitto. Non accellerò troppo in autostrada, contrariamente al solito. Non aveva messo i Kool & the Gang a tutto spiano, come quando erano solo loro due. Ma Sara non rifletté su quelle piccolezze, badando solo al paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, pensando a quanto veloce Edward andasse ogni volta che percorrevano quel tragitto.
All’uscita di Torre del Greco, i suoi occhi non avevano esaurito le lacrime, ma il suo pianto divenne silenzioso.
La rotonda dell’autostrada.
La piazza.
Il mare il lontananza.
Tutti posti che aveva visto l’ultima volta con lui.
Si concentrò sui ricordi, rifiutandosi ancora di credere che fosse stata un’illusione. Non sapeva spiegare quanto fosse assurdo il pensiero che le sensazioni che aveva sentito fossero fittizie. Lei aveva camminato, respirato, toccato, provato, assaggiato. Con lui. In quella città.
E nessuno le avrebbe mai fatto cambiare idea.
Una volta, passando per quelle strade, la gente si sarebbe fermata a guardarla, la fidanzata del famoso Ed Sheeran che tornava a casa e invece nessuno la degnò di uno sguardo mentre faceva il suo ingresso nel parco privato. Sperò di vedere la moto di Edward parcheggiata al solito posto e invece…
Il cancello automatico giallo, quello che l’aveva vista montare dietro di lui per un’intera settimana, si muoveva con difficoltà, ma poi li lasciò passare.
Conosceva i fossi a memoria e istintivamente si preparò alle scosse che avrebbero provocato. Poco dopo, erano davanti al suo vecchio portone.
Non sarebbe sopravvissuta. Non se ogni luogo le ricordava lui.
Il vecchio ascensore traballò durante la salita fino al quinto piano. Nella sua testa era un’eternità che mancava da casa. I nove mesi di quel coma corrispondevano ad un anno prima del suo matrimonio, quando lei ed Edward erano tornati per dare la notizia alla famiglia, anche se i giornali avevano tappezzato la loro foto ovunque.
I giornali.
Doveva ritrovare quei giornali.
Mentre Don’t era sparata al massimo nelle sue orecchie, cominciò a riflettere su quante prove avesse che quegli eventi erano stati reali. Ma certo. Forse Edward era morto e volevano farle credere di aver sognato tutto.
  • Bentornata!
Massimo, il marito di Anna, comunicò a sua moglie che Sara non la sentiva, poi lentamente le carezzò una guancia col dorso delle dita per attirare la sua attenzione e poi le sfilò una cuffia.
  • Mamma ti sta salutando.
Glielo aveva detto con dolcezza, ma non bastò. L’espressione persa di sua figlia diventava sempre più scura, mentre tirava la sedia a rotelle fuori dall’ascensore e la faceva entrare in casa. Non degnò la madre di uno sguardo, ma sembrò prestare molta attenzione alla casa.
Quando Sara varcò la soglia, sospinta da suo padre, un sentore misto tra paura e meraviglia le stropicciava l’anima. Il colore caldo del parquet avvolgeva tutto l’open space dell’ingresso e del salotto alla sua sinistra. Il divano-penisola in copertura marrone dove avevano guardato Dragon Trainer era ancora disposto di fronte all’enorme libreria, nel mezzo un tavolino di vetro. Le tende arancioni incorniciavano il balcone. Alla sua destra il pavimento grigio della cucina, sul frigo incastonato nell’angolo c’erano decine di calamite. Il forno lucido le restituiva il suo riflesso attraverso una doppia porta scorrevole che restava sempre aperta. Davanti a lei, il corridoio.
Il momento in cui Edward aveva cercato di baciarla la prima volta, era ancora impresso in quella stanza. Il vociare dei pranzi e delle cene a cui lo aveva portato faceva ancora eco.
Se non fosse stato per la cuffia che aveva ancora nell’orecchio, avrebbe ceduto.
  • Vuoi qualcosa da mangiare o da bere? – le chiese sua madre, portandosi davanti a lei.
Senza guardarla, scosse la testa. La rassegnazione la stava costringendo ad accettare l’idea di essere a casa, poiché timidamente faceva capolino la speranza di ritrovare qualcosa che la riportasse a lui. Strinse di più il cellulare.
Senza chiederle niente, suo padre la portò nella sua stanza e la adagiò sul letto, sistemandole il cuscino ed aprendole la zip della tuta.
  • Vuoi restare sola? – le chiese, seduto sul bordo del materasso.
Annuì, guardandolo, mostrandogli una calma che non provava. Dentro di lei il cuore stava ancora cercando di uscirle dal petto ma, per avere un momento per sé, doveva far credere a tutti che fosse tranquilla. Dopo averle carezzato il viso, suo padre si alzò e prima di uscire socchiuse la porta. Mentre Don’t finiva e lasciava spazio ad un’altra canzone, riuscì a sentire la voce di suo fratello, poi si perse nella contemplazione della sua “vecchia” stanza. Il cobalto delle pareti e le mille cianfrusaglie che aveva posato sulle mensole bianche le ricordavano lunghe notti insonni, giorni di studio intenso, momenti di allegria e disperazione. Pochi minuti dopo si addormentò, esausta.
Doveva aver saltato il pranzo, perché aveva fame quando si svegliò. Una coperta le teneva le gambe al caldo, l’odore di polvere dei suoi peluche le solleticò il naso e un senso di malessere generale la intorpidiva. Restare a letto – in quella realtà che aveva tristemente riconosciuto subito – sembrava essere il modo migliore per evitare chiunque fosse presente in quella casa, ma doveva andare al bagno. Riuscì a sfilarsi dalle coperte, riportando immediatamente le cuffie all’orecchio, ma non era in grado di alzarsi da sola. Pur di non chiamare i suoi, si sforzò di girarsi sul fianco per spingere sulle braccia con tutta la forza che aveva. Attaccata al comò, si alzò in piedi. Era la prima volta che lo faceva da sola. Scalza, arrivò alla porta, ma dovette fermarsi data la distanza tra la porta della sua stanza e quella del bagno, proprio di fronte eppure così irraggiungibile.
Le voci dei suoi genitori erano vicine, ma il pensiero di chiamarli era inconcepibile. Fissò l’ingresso alla sua destra, riflettendo sul da farsi, ma suo fratello le spuntò alle spalle, facendola sobbalzare.
  • Ti accompagno io?
Il suo viso di adolescente le ricordò la sua reale età. Quei 18 anni – non 22 – le presero una mano e la portarono fino al bagno, senza proferire altre parole. La aspettò fuori.
  • La prossima volta mandami un messaggio. – le disse, mentre la riportava nella sua stanza, dandole il braccio come ad una vecchietta.
  • Sara! – entrambi si immobilizzarono. – Non puoi ancora alzarti da sola!
Sua madre si avvicinò a grandi passi, isterica come sempre, e senza pensarci due volte la prese per l’altro braccio. La voce dolce che risuonava nelle cuffie non si addiceva allo spintone che Sara diede a sua madre. Lo aveva fatto senza pensarci, per istinto. Non le dispiacque.
Tirò suo fratello e rientrò in camera sua, sul letto. I passi di suo padre sopraggiunsero a consolare la moglie.
Sara non sapeva per quanto tempo avrebbero avuto pazienza con lei, ma infondo non le importava, non le riguardava. Qualsiasi cosa non riguardasse Edward o la sua voce o la sua presenza, le scivolava addosso. Sapeva di essere stata cattiva e che poteva farci?
Potevano pretendere qualcosa, da lei?
Potevano rifiutarsi di capire?
La rabbia che cominciava a provare nei confronti del mondo, accoccolata accanto al suo dolore, deformava la sua personalità.
Nel pomeriggio un fisioterapista si presentò a casa e le fece fare degli esercizi per tornare ad essere autonoma, ma facevano male. Ogni muscolo le doleva. E il suo cellulare si scaricava troppo spesso.
I suoi giorni cominciarono a scorrere tra il silenzio, il letto, i messaggi che mandava a suo fratello per aiutarla ad alzarsi, la musica e la fisioterapia. L’unica sua àncora di salvezza era Olga. Suo padre la prendeva e la riportava all’ospedale tutti i giorni, scortandola fino al reparto. Quando fu in grado di camminare con le stampelle, gli impose di aspettarla fuori. Quello era il suo unico momento da essere umano, lontano da docce acrobatiche, da ascensori troppo stretti per la carrozzina, vestiti troppo larghi nell’armadio, la voce di sua madre. Quel tragitto dalla macchina allo sportello era percorso da Sara De Amicis, non da ciò che gli altri credevano fosse rimasto di lei. Era il momento in cui nessuno le ricordava che Edward non esistesse. Non che qualcuno ne avesse fatto parola, ma la pietà che leggeva negli occhi di chiunque fosse andata a trovarla era insostenibile. Credevano che fosse pazza, era ovvio, credevano che ormai avesse perso tutte le rotelle per via di quell’Ed Sheeran. Allora aveva cominciato a contare i minuti ogni giorno, fino al momento in cui lasciava tutti e attraversava l’ospedale per raggiungere Olga. Mostrò il pass ed entrò nella stanza.
  • Permesso. – disse, come d’abitudine.
  • Entra pure, Sara. – la sua voce proveniva dallo studio di fianco, poi la sua figura si materializzò nella stanza. – Allora, oggi avevo proprio voglia di proporti qualcosa di interessante.
Sara si accomodò sul vecchio divano di quella stanza ricreativa e poggiò le stampelle di fianco a lei. Passandosi una mano tra i capelli a caschetto, sciogliendo i ricci, si chiese di cosa si trattasse, ma non tolse comunque la cuffia dall’orecchio. Afire Love.
  • Credo che tu sia pronta per parlarne. – disse la donna che ormai aveva perso qualsiasi velo di professionalità ai suoi occhi. – Se te la senti, chiaramente.
  • Ne stiamo già parlando…no? – Darling hold me in your arms the way you did last night… - Tutti i giorni. È quello che voglio.
Nonostante le sedute giornaliere, la sua voce era ancora atona e tagliente, graffiata dalla rabbia e lieve per il dolore. Ma quello era il solo modo che aveva per restare con lui: raccontarlo. Cercarlo nei vividi ricordi di quella follia. E inconsciamente, sperare.
  • Certo, ma non mi hai mai raccontato tutta la storia. – si alzò i capelli con una matita. – Potrebbe essere il momento giusto per cominciare. Hai fatto un bel progresso da quando ti sei svegliata, sei riuscita ad accettare la realtà abbastanza in fretta, ma sappiamo benissimo entrambe che non sei ancora convinta di quello che sta succedendo…vero?
Sara non capì subito cosa volesse dirle Olga, lasciò che le sue parole si sedimentassero nella mente per cercare di afferrare il concetto. Non aveva accettato la realtà, si sbagliava, non poteva ancora togliere le cuffie dalle orecchie. Non appena lo faceva il silenzio la divorava e gli attacchi di panico le abbreviavano la vita. Aveva ben più di una batteria di riserva per il cellulare, ancora quello col vetro spaccato e rovinato che aveva tirato fuori il giorno che lo aveva conosciuto. Proprio come se il tempo si fosse fermato.
Con gli occhi troppo aperti e le gambe tirate al petto, tornò a parlare.
  • Dove vuoi arrivare? – chiese, quasi sfidandola. – Non mi rassegnerò mai.
  • Nessuno ti sta chiedendo di farlo, ho solo voluto farti notare che riesci ad affrontare la cosa in modo meno traumatico rispetto al tuo risveglio. – Gli occhi della sua paziente si ridussero a due fessure, fissandola. Stava studiando la sua prossima mossa, come un animale.
  • Qual è la tua proposta? – chiese alla fine, pronta a prendersi ogni briciola di speranza da quell’opportunità. Avrebbe valutato attentamente le sue parole.
  • Che ne dici di scrivere?
Olga aveva una voce particolarmente morbida, non era fastidiosa, tantomeno notabile, eppure quella volta le sue parole arrivarono più chiare che mai. Scrivere?
Non capiva.
Cosa c’entrava la scrittura con Edward? Voleva che tenesse un diario, come per quelle terapie psicoterapeutiche da film?
  • Io voglio parlare di Edward. – precisò, senza aspettare oltre.
  • Ed è proprio quello che voglio. – le sorrise, fiduciosa. – Hai un bel modo di raccontare le cose, potresti scrivere la vostra storia. Sarebbe anche un ottimo esercizio per la tua memoria, potrebbe aiutarti a stare meglio. Rielaborare.
  • Dovrei scrivere… - And we’re set alight, we’re afire love. - …di noi?
  • Ti piacerebbe?
Era seria.
  • Cioè, devo scrivere un diario? – chiese, mostrando scetticismo.
  • No, no…non un diario. Lo so che non sarebbe all’altezza nemmeno come terapia. Io intendevo qualcosa tipo un racconto. Una cosa come un libro. Mettere ogni evento nero su bianco. – Olga cercò di studiare la sua reazione ad una proposta che sapeva essere allettante per lei. Di certo un semplice diario di flashback non sarebbe bastato per quella paziente, un libro invece poteva risultare di un certo spessore. Era il meglio che poteva proporle in quel momento.
  • Tutto?
  • Tutto ciò che vorrai.
Non che non ne fosse capace, ma come poteva? Come poteva mettere nero su bianco anni della sua vita e pretendere di rendere ogni cosa così come l’aveva vissuta? Come poteva raccontare solo di sé? Lei e Edward avevano sempre condiviso ogni cosa, progetti, desideri, pensieri, canzoni. Come poteva scrivere di loro, senza di lui?
  • Non posso. – sentenziò.
  • Pensi che non sia abbastanza? – chiese Olga, con lo sguardo aggrottato, chiaramente deluso dalla sua reazione.
  • Senza di lui non posso. Racconterei solo di me. Sarebbe un monologo, non un racconto.
  • Vuoi dirmi che il tuo romantico Ed non ti ha mai raccontato cosa abbia pensato quando ti ha conosciuta o la prima volta che avete condiviso qualcosa? – quasi rideva. – Avanti, tutte le coppie si raccontano dei propri sentimenti. Sarete stati sdolcinati proprio come il resto di noi.
Sara ostentò freddezza, ma quella lì l’aveva colpita in un punto veramente sensibile.
  • Non avete mai parlato dei vostri sentimenti?
Sì.
Ne avevano parlato eccome.
Probabilmente, se solo avesse voluto, avrebbe potuto scrivere un’intera serie narrata dal punto di vista di lui, senza mai esitare.
Aveva sempre saputo cosa pensasse, non glielo aveva mai nascosto e – in ogni caso – era sempre stato dannatamente leggibile. Spesso le bastava guardarlo negli occhi, senza porre domande.
  • Non sarebbe come inventare?
  • Beh… - quella alzò gli occhi, riflettendo. – Fin’ora mi hai sempre detto di conoscerlo meglio di chiunque altro, quindi no. Se è vero quello che dici, non hai bisogno di inventare.
  • E allora che devo fare?
  • Scrivi quello che sai. Scrivi delle cose che ti ha detto, che vi siete detti.
La psicologa del reparto l’aveva incastrata. Non aveva modo di rifiutarsi o forse non voleva. Non era una di quelle con l’autostima bassa, tantomeno pensava di non conoscere abbastanza Edward. Forse aveva solo paura di smettere di sperare, di uscire da quel limbo che la teneva con un piede nella favola e l’altro nell’abisso. Aveva il terrore che scrivere la aiutasse a lasciarlo andare e non voleva.
Però…
Però.
Quella proposta, oltre alla sua playlist riprodotta all’infinito, restava l’unico modo per non perderlo definitivamente. Per fissare quelle poche verità che le erano rimaste su qualcosa di materiale, che la gente potesse vedere e toccare.
In un certo modo, lo avrebbe reso vivo.
Lo avrebbe riportato indietro.
Vide Olga alzarsi dalla sua vecchia sedia da ufficio, chiedendole se volesse anche lei del tea, ma aveva capito che si fosse allontanata per lasciarla riflettere. Il suo camicie bianco aveva le tasche stracciate, penzolavano e ondeggiavano insieme al resto della stoffa.
Non sapeva decidersi e la pressione non era qualcosa che riusciva a tollerare negli ultimi tempi, ma era così tentata.
Quando quella tornò con la tazza calda tra le mani, il vapore che si avviluppava su se stesso la riportò a troppe delle mattine piovose di Londra, quando il cielo bianco illuminava la stanza e rendeva visibile ogni singola lentiggine sul viso di Edward, che si stagliava dietro la sua tazza di tea.
Avrebbe potuto riprodurre quell’immagine in qualunque momento, tanto era nitida.
  • Puoi pensarci. – Olga interruppe i suoi pensieri. – Non sei obbligata a farlo.
Sara annuì, scavando a fondo negli occhi castani della donna che aveva davanti, alla ricerca del trucco, del tranello che l’avrebbe ingannata e tirata fuori da quella storia. Lei rappresentava la guarigione.
Un traguardo che non voleva tagliare.
Quando Sara uscì dalla stanza per tornare a casa, ripercorse il corridoio con una certa tensione.
Cosa doveva fare?
Scavare così a fondo in se stessa e tirare tutto fuori, significava mettere in discussione ogni cosa, ogni ricordo, verità, convinzione. Scoprire vecchie ferite, rivivere brutti momenti, capire cose che aveva preferito seppellire ed ignorare. Svegliarsi. Anche dentro.
Le stampelle facevano rumore più del solito a causa dell'agitazione e dovette costringersi a rallentare il passo, perché stava affannando, la mente vorticava tra i pro e i contro di quella decisione. Sapeva che avrebbe amato scrivere quella storia, avrebbe trovato una pace che aveva provato solo da incosciente, ma sarebbe stato terribilmente doloroso.
Quando tornò in macchina da suo padre, non sfilò le cuffie dalle orecchie, ignorando i suoi tentativi di conversazione. Non sapeva quanta angoscia le aveva provocato quell'incontro con Olga, forse più del dovuto. Quel nuovo sentimento che le occludeva il petto riusciva ad allungare le mani fino alla sua gola, stringendola in un pugno di emozione e paura: la felicità che il solo parlare di lui le donava e il terrore che tirandolo via dalla sua mente sarebbe svanito per sempre.
Quello era il mese che nella sua testa corrispondeva alla sua prima convivenza post-coma con lui, ma l'aria di ottobre della sua città, si disse, era ben diversa da quella che aveva respirato a Central Park con lui, nello stesso momento ma in un mondo parallelo. La ricordava benissimo, ma gli altri come potevano percepirne la differenza senza mai averla provata?
A casa, sua madre le aveva preparato qualcosa di caldo e dopo averne ingerito appena metà tornò nella sua stanza e si accostò - dopo mille indecisioni - alla sua scrivania. Il computer non veniva acceso da secoli, eppure ricordava di averci scritto la tesi. Aveva paura di accenderlo e non trovarci nulla. Perché era sicura che fosse così, infondo. E come poteva non esserlo quando il suo cellulare squillava di continuo, mostrandole il nome del suo fidanzato?
Erano diversi giorni che provava a chiamarla, ma non aveva mai risposto. Aveva paura che prima o poi si sarebbe presentato a casa.
Attese che la chiamata terminasse, poi tornò a fissare il suo riflesso smunto. Nel vetro lucido, si guardò negli occhi e si disse che non voleva farlo, eppure doveva.
Tese la mano e accese il computer.
Non importava se avrebbe dovuto incollarsi alla scrivania e ignorare il mondo, ignorare Dario, avrebbe scritto finché le dita non si sarebbero consumate o la sua mente non si sarebbe rifiutata.
Non aveva aperto i social che ancora le segnalavano i migliaia di messaggi, ma quando avrebbe finito e sarebbe stato il momento, avrebbe ripreso in mano quella parte della sua vita che la voleva convincere che Edward non esistesse. E li avrebbe fatti ricredere, uno ad uno, avrebbero sentito Edward come mai si aspettavano.
Un vecchio sfondo illuminò lo schermo e le mostrò tutte le cianfrusaglie che usava tenere sul desktop.
Sfiorò il mouse con cautela, come se potesse scottare e lo sentì poco familiare sotto le dita, ma non si fece frenare. Il cursore finì su Word ed aprì un nuovo documento, la pagina bianca era quasi troppo luminosa per i suoi occhi, chiaramente troppo vuota. Tese le mani sulla tastiera ed esitò, poiché il nitido ricordo della proposta di matrimonio di Edward si insinuò tra lei e le parole che voleva scrivere: “La mia vita è come un romanzo a metà, il resto delle sue pagine sono ancora bianche.” – Will your mouth still remember the taste of my love? - “Vuoi scriverle con me?”.
Non avrebbe potuto fermare le lacrime. Non poteva non piangere. Non poteva rifiutare il lutto. Credere di poter dimenticare.
Ma non sarebbe rimasta con le mani in mano, non avrebbe ignorato quel dovere, avrebbe provato in ogni modo a non perderlo.
Il segno di Edward non poteva essere cancellato.
Lo avrebbe riportato indietro.



 
14 Ottobre 2014
 
Aveva battuto la prima parola con una scoordinazione impressionante, non riusciva a scrivere velocemente, doveva pensare alle lettere una alla volta, tuttavia non si tirò indietro. Scrivere a mano era ancora più faticoso per lei, i muscoli ancora intorpiditi.
Comunque non aveva concluso granché, aveva scritto e cancellato centinaia di parole, non riuscendo a decidere da dove cominciare. Avrebbe voluto scrivere di lui molto di più che del momento in cui si erano incontrati, ma avrebbe finito per scrivere una biografia. Allora si lasciava guidare dalle immagini che le affollavano prepotentemente la memoria, cercando di tradurle in parole, ma sembrava non cogliere mai il giusto evento da cui iniziare quel racconto. Poi, quando i suoi cominciarono ad osservarla poco discretamente dalla porta, spense il computer e rinunciò.
Mentre raccontava ad Olga di quei particolari, lei prendeva appunti sulla sua cartellina, una cosa che non aveva mai fatto e che la mise un po' in soggezione.
  • Non lo so fare. - le disse, più agitata del solito.
  • Non è vero. - rispose quella. - Tua madre mi ha detto che scrivi bene, probabilmente ti sei caricata di troppe aspettative. Pretendevi da te stessa di prendere un foglio e buttare giù qualcosa di perfetto.
Ed era ovvio che fosse così, avrebbe voluto dirle. Perché Edward meritava quell'attenzione ed altre ancora.
  • Non so da dove cominciare. Mi sembra sempre troppo o troppo poco, ho paura di dimenticare qualcosa. – Si tormentava la pelle arida delle mani, ripensando alla nitidezza dei suoi ricordi, alle pieghe di quelle mani chiare e calde e prepotenti, che la rincorrevano e la cercavano sulle rive di Sorrento.
  • E anche se fosse? – interruppe i suoi pensieri. – Quando ti verrà in mente la aggiungerai. Non è una tragedia. – disse Olga sorridendo. – Non sovraccaricarti di qualcosa di così difficile da sostenere, datti tempo.
  • Ma io voglio scrivere, subito. - era quasi sicura che la sua voce fosse meno decisa del solito, ma la stretta sulla stoffa della sua felpa arancione suggeriva impazienza.
  • Allora perché non ti lasci andare? Smettila di pensare e butta tutto fuori.
Prese un profondo respiro, cercando di placarsi e spegnere quel nervosismo come se fosse un incendio. Con la cuffietta nell’orecchio, non riusciva a pensare ad altro se non alla voce di Edward che cantava per lei, finendo ancora nel baratro. Doveva riprovare? Perché lo stava facendo? Perché voleva lasciarsi seppellire da quell’angoscia? Perché lo faceva per gli altri e non per se stessa?
Non riusciva ancora a lasciarsi scivolare addosso gli sguardi della gente, non poteva accettare di essere considerata una folle. Quelle persone calpestavano i suoi sentimenti quasi con disprezzo e con quale diritto? Cosa avrebbero fatto se fosse stata lei ad infierire, ficcando il naso nei loro problemi?
Voleva riscattarsi e riprendersi tutto il diritto di amare che le stavano togliendo.
Anche quel giorno lasciò il reparto con un certo malessere e tornò a casa senza dire una parola. Le fisioterapie cominciavano a fare effetto, riusciva a mangiare sempre qualcosa in più a pranzo e a cena, agli occhi degli altri sembrava sempre più vicina alla normalità. Si lavava da sola, non parlava più di Edward con nessuno. Restava solo la cuffietta nell’orecchio. Quella non la toglieva mai. Anche quando tornò in camera sua, la musica continuava a tenerla stabile mentre si accomodava alla sua scrivania e cominciava a far girare la sedia su se stessa. La panoramica a 360 gradi della sua stanza la aiutava a studiarne i dettagli, cercando inconsciamente le prove che Edward fosse passato di lì, ma non si era mai spinta oltre. Tuttavia, ora che il suo cervello si sforzava di trovare il modo di cominciare a raccontare, si faceva sempre più strada in lei il desiderio di risentire la sua presenza in quegli ambienti. Di guardare il suo divano e rivederlo lì, senza scarpe, i capelli spettinati dalle montagne russe e la t-shirt blu che sembrava tingersi dei suoi occhi. A volte riusciva ad immaginarlo e a vederlo percorrere ancora via Roma con lo sguardo perso nelle vetrine. Riusciva a vederlo scendere dall’aereo che lo aveva portato in Italia, senza sapere che l’avrebbe incontrata entro il pomeriggio e che si sarebbero innamorati. Le sensazioni erano così nitide, i ricordi così vividi di sensazioni e sentimenti, che mai, neanche Dio si presentasse ai suoi occhi, avrebbe potuto considerare l’idea che quel rimembrare fosse solo una scritta da lasciar cancellare dal mare. Era piuttosto uno scoglio di inchiostro indelebile.
Si alzò e aprì il suo armadio: le sue converse bianche erano ancora lì, impolverate, le sue ballerine rosse subito di fianco. Il giubbotto di jeans aveva ancora i risvolti alle maniche, ma accanto a quello, la felpa blu che le aveva regalato non c’era e le si formò un nodo alla gola. A volte la realtà la colpiva troppo forte. Le mostrava quell’assenza in ogni modo possibile. Senza pietà.
Non riusciva nemmeno a pensare che lui non fosse stato in quella stanza. Lo aveva visto con i suoi occhi, ora pieni di lacrime torbide di insofferenza. Quella sua vita le scorreva via dagli occhi, andando persa sulle sue guancie ogni giorno e continuava a vederla sprecarsi solo lei. Continuava ad avere concretezza solo nella sua mente. Nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito. Eppure, guardando il suo corpo allo specchio, avrebbe saputo indicare ogni angolo del suo corpo che era stato sfiorato da quelle labbra. La sua pelle, le sue vene, i suoi polmoni, avrebbero voluto rigurgitare ogni residuo di quel contatto: era ora che lasciasse le sue dita correre su quella tastiera, perché non avrebbe potuto sopportare un altro giorno senza sentirlo ancora una volta accanto a sé.
E tutti, dal primo all’ultimo, si sarebbero ricreduti.
Passandosi una mano sugli occhi, con l’altra riaccese il computer. Poco dopo il cursore lampeggiava sul documento vuoto.
Aveva le mani gelate.
 
  • Hai fame?
La voce di sua madre la fece sobbalzare, tirandola fuori dall’immagine che si era formata nella sua mente. Edward, così come le aveva raccontato quella volta a New York, aveva appena preso il treno per arrivare a Napoli. Davide cominciava il suo discorso sulla Camera dei Segreti. Aveva immaginato quella scena mille volte, riuscendo a vederlo sorridere.
  • No. – disse, senza ammettere obiezioni. – Dove sono i miei occhiali?
Le facevano male gli occhi a causa della luminosità troppo alta dello schermo, ma era troppo persa nel suo mondo per potersi preoccupare di regolarla. L’orologio che segnava le 21:30 e l’assenza di luce, significavano che aveva scritto ininterrottamente per 4 o 5 ore. Si era completamente isolata dal mondo ed era entrata in quello in cui Edward era con lei. Di parola in parola, la stava andando a prendere.
Sua madre si avviò nella sua direzione, arrivando giusto dietro di lei, alla ricerca degli occhiali nascosti da qualche parte in quella libreria piena delle sue cose dell’università. Un po’ di frastuono la infastidì, poi Anna le porse gli occhiali, cercando di sbirciare tra le parole che vedeva sul monitor. Sara nascose la finestra e prese il cofanetto rosso e nero dalle sue mani.
  • Domani devo tornare al lavoro.  – cominciò sua madre. – Sarai sola fino a pranzo. Vuoi che faccia venire la nonna o…Dario?
  • Starò benissimo. – rispose con gli occhiali sul naso, un nodo alla gola nel sentir pronunciare quel nome.
  • Prima o poi dovrai vederlo.
Lo sapeva, si disse mentre sua madre la lasciava da sola ed ancora sentì repulsione nei suoi confronti. Si chiese come potesse non capire che non doveva forzarla, sarebbe stato solo peggio. Era tutta la vita che provava a trasformarla in una sua copia, a prendere decisioni per lei. Stavolta non glielo avrebbe permesso.
Continuò a scrivere finché non le fecero male le dita, poi andò a dormire con l’immagine del suo primo incontro con Edward stampata nella mente.
Ricordava esattamente il modo in cui i suoi occhi scavarono nella sua anima, non appena sfilò gli occhiali.

Azzurri.
  
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