Fanfic su artisti musicali > Ed Sheeran
Segui la storia  |       
Autore: Sea    29/12/2020    0 recensioni
Non sempre le cose vanno come ci aspettiamo e Sara ed Edward lo sapevano bene. Nulla di tutto ciò che avevano immaginato prima di incontrarsi si era avverato, la vita aveva superato di gran lunga le loro aspettative. Non credevano che avrebbero potuto provare davvero la felicità, eppure…
Eppure, non sempre le cose vanno come ci aspettiamo. Non sempre, al mattino, ci svegliamo nello stesso letto, nella stessa vita in cui credevamo di essere. Non sempre siamo le persone che gli altri credono di conoscere. Non sempre il senso che diamo alle cose, le verità da cui dipendiamo, sono corrette.
A volte la vita ci costringe a ricominciare da capo.
Edward e Sara, i protagonisti di Afire Love, dovranno varcare il sottile confine che separa i sogni dalla realtà ed intraprendere un nuovo viaggio. Di una sola cosa sono certi: comincia una nuova vita.
«Si portò una mano al petto, sperando di contenere il dolore, ma non servì.
Scoppiò in lacrime non appena Edward cominciò a cantare: Loving can hurt…»
Il sequel di Afire Love cambia scenario e si ambienta nella...realtà.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CAPITOLO III
 







25 Ottobre 2014
 
Aveva dormito male, troppo impaziente di continuare a raccontare quella giornata al parco divertimenti. Voleva rivivere l’emozione di quel giorno ancora e ancora, distinguendo chiaramente la sete che aveva di quel bacio che non le aveva dato. Poteva sentire ancora il brivido delle montagne russe e la calura che le ardeva la gola. Durante quei dieci giorni in cui si era attaccata al computer, non aveva pensato ad altro se non a scrivere, a ricordare e soprattutto a nascondere a chiunque ciò che stesse facendo. Sua madre, sua nonna, persino suo padre, le chiesero cosa facesse tutto il giorno alla tastiera, ma aveva sempre risposto con “Niente”, nonostante fosse evidente che si trattasse di qualcosa che assorbiva tutta la sua attenzione, tanto da farla sentire meglio.
Non aveva rivelato nulla nemmeno ad Olga. Se non lo sapeva nessuno, si sentiva più libera di continuare, di esprimere tutta se stessa senza remore. Così, quando andava al reparto ed entrava nella stanza col vecchio divano, si limitavano a chiacchierare della sua salute, dei suoi rapporti sociali inesistenti, di Edward, di lui sempre.
Da un paio di pomeriggi il fisioterapista, un uomo di mezza età, le faceva fare qualche esercizio in meno, canticchiando di tanto in tanto le canzoni che ascoltava con l’altoparlante, non potendo tenere le cuffie alle orecchie. La cosa quasi l’aveva fatta sorridere, ma era stato solo un attimo.
Durante le sue mattinate a casa, da sola, si spostava per le stanze sedendosi dove Edward era passato, continuando a scrivere col portatile. Qualche volta piangeva, altre rideva. Non importava cosa, ciò che più era importante era che si sentisse viva. Quando la sera spegneva il computer, tornava a morire nel silenzio della sua casa buia, cullata solo da One, ormai la sua ninna nanna e il suo risveglio ogni giorno.
Quella mattina, quando la luce l’aveva ridestata, si diresse in cucina senza pensarci due volte e mise su il caffè. Nell’attesa uscì fuori, a piedi scalzi, il solito panorama di vecchie case era vagamente illuminato dall’alba, uno scorcio di mare azzurro e liscio in lontananza. Si disse che faceva piuttosto freddo per essere Luglio, così rientrò e fece colazione. L’orologio segnava le 7:00. Entro un’ora Ed sarebbe passato a prenderla e lei doveva ancora preparare il pranzo al sacco. Avrebbe avuto sicuramente fame dopo la visita al cratere e agli scavi archeologici, quindi sarebbe stato meglio abbondare con le provviste. Aprì il frigo, si assicurò che ci fosse il necessario per preparare qualcosa, poi si diresse al bagno per gettarsi sotto la doccia. Canticchiò vagamente Lego House, ricordando la sua voce che rimbombava nel bagno dell’hotel, due giorni prima. Una volta asciutta, sentì sua madre dirigersi in cucina per fare colazione e tornò in camera sua per prendere i vestiti ed avvertire Ed che probabilmente avrebbe fatto un po’ tardi.
Un brivido la percorse, camminando in biancheria, ma pensò prima ad inviargli quel messaggio. Aprì la rubrica, scorse i contatti fino alla E e cominciò a cercare, ma dovette fermarsi subito, perché il primo nome elencato non era alfabeticamente corretto: Elena. Doveva stare dopo “Ed”, non prima. Continuò a scorrere l’elenco, ma il suo nome non comparve mai. Ci riprovò, guardò meglio, scrisse il suo nome nella barra delle ricerche, ma non ottenne alcun risultato. Per un momento pensò che sua madre avesse cancellato il suo numero per dispetto e per un attimo la rabbia la prese. Stava per chiamarla, col viso già rosso per la collera, ma alzando lo sguardo verso la sua stanza, vide le stampelle e le parole le morirono in gola.
La parola “mamma” si fermò a metà sulle sue labbra e Sara smise di respirare. Letteralmente. Un intenso brivido la percorse, ma non la smosse. Non vedeva altro che le stampelle. Non riusciva più a pensare. Era solo cosciente del fatto di aver sbagliato mese. Di aver sbagliato mondo. Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre si portava le mani alla bocca, ma tremava fin troppo visibilmente. Il cellulare cadde a terra.
Il tonfo richiamò l’attenzione di Anna dalla cucina.
Sara non sentì la sedia stridere sul pavimento, poteva percepire solo il dolore lancinante al petto, il senso di vomito, la sensazione che a momenti sarebbe svenuta, tutto il resto non esisteva. Si lasciò andare allo stipite della porta, con le gambe molli. Si portò le mani ai capelli, aprendo la bocca per respirare, ma soffocò non appena ci provò. Il suo viso divenne pallido, il viso si contrasse in una smorfia e le lacrime cominciarono a lasciare i suoi occhi. Guardò il piumino pesante sul letto: un altro pugno nello stomaco. Quando finalmente l’aria le sibilò in gola, urlò e si accasciò a terra.
Non sentiva nulla. Le mani di sua madre non erano su di lei. Suo padre non si era alzato dal letto. Non sentiva nemmeno le sue grida. Un insopportabile fischio le faceva scoppiare la testa ed era sicura che a momenti sarebbe morta, privata dell’aria. Strinse più forte i capelli che aveva tra le mani, dilatò gli occhi e dopo poco, come se qualcuno le avesse conficcato un coltello nello stomaco, il dolore spense qualsiasi cosa alla sua vista. Era sicura di essere morta.
 
Era evidente che il sonno fosse una delle tecniche di autodifesa più efficaci per il suo corpo, perché quando aprì gli occhi vide la sua stanza buia. Sentì il suo respiro lento e piacevole sul cuscino caldo, una vecchia coperta addosso. Dalla porta aperta giungevano le voci di qualcuno.
  • Deve restare a riposo…
In un attimo ricordò cosa fosse accaduto. Il ricordo della vista delle stampelle si ripropose ai suoi occhi con un flash, poi vide ancora il buio. E sentì il silenzio.
Il silenzio.
Niente musica. Non aveva le cuffie alle orecchie. Scattò, ritirando le gambe e spingendo contro il materasso per alzarsi. Già sentiva lo stomaco aggrovigliarsi e la paura divorarla, mentre volava giù dal letto e cominciava a cercare per la stanza, spostando vestiti ed oggetti lasciati in giro. Aprì i cassetti e scrutò la scrivania, respirando affannosamente, ma non le trovava. Non trovava nemmeno il suo cellulare. Voleva scoppiare a piangere, ma non lo fece. Non voleva stare ancora male.
Un secondo flash le ricordò del racconto che stava scrivendo, ma lo ignorò.
Respirava l’aria d’autunno inoltrato a grandi boccate, cercando di mantenere la calma. Edward le trovava sempre tutte le cose che perdeva. Dove avrebbe cercato, lui?
Ripercorse la sua stanza da cima a fondo, ma non c’erano. Stava per arrivare al limite. Non era mai rimasta tanto tempo senza musica e quando era capitato, al suo risveglio, le faceva male persino l’anima. Sospirò, insofferente, e guardò alla porta pensando di non avere altra scelta che chiedere a sua madre. La luce della cucina illuminava per diffusione anche il corridoio, richiamandola. Con i pugni stretti, mise da parte l’orgoglio e le paure e con passo pesante si diresse nella direzione da cui proveniva la sua voce. Qualsiasi cosa per riavere la musica. L’unica cosa rimasta di Edward.
Decisa come mai prima di quel momento, entrò in cucina senza esitazioni e strizzò gli occhi per la luce troppo forte. Distinse chiaramente il medico di famiglia, seduto al tavolo, che parlava con sua madre. Si voltarono entrambi a guardarla senza sapere bene cosa fare, probabilmente non si aspettavano di vederla. Non attese che dicessero qualcosa, fu diretta.
  • Dove sono il mio cellulare e le mie cuffie?
Sua madre assorbì lentamente le parole, riflettendo chiaramente su qualcosa. I secondi sembravano secoli e i suoi occhi castano-verdi vagavano nel vuoto, scavando nella memoria.
  • Non hai mal di testa? – le chiese. Tutto quel tempo per elaborare quella domanda.
  • Dove sono?! – insistette impaziente. Cosa le importava del mal di testa?
  • Li ho messi nella tua borsa. – rispose Anna, con un tono indistinguibile tra la stizza e il timore.
Sara girò i tacchi, avendo individuato l’oggetto con la mente e filò via, sotto gli occhi del medico perplesso. Sentiva sua madre spiegare il motivo della sua fretta e la cosa la infastidì, ma la ignorò presto. Dietro la porta della sua camera era appesa, ad un vecchio attaccapanni, la sua borsa di cuoio e sacco, raggrinzita dal tempo ma ancora bella come quando l’aveva comprata al mercato. Era convinta di averla buttata, dopo tanti anni – anni che non erano mai trascorsi – e invece era ancora lì. Quella borsa aveva visto lei ed Edward incontrarsi e innamorarsi. La prese con delicatezza, lasciandosi prendere dai ricordi, e tornò a sedersi sul letto. Dentro, il cellulare e le cuffie se ne stavano in mezzo a tante cianfrusaglie. Prima di guardare il resto, infilò le cuffie e fece partire la playlist: Tenerife Sea. Quando finalmente la melodia le entrò in circolo e il suo cuore decelerò, rimise le mani nella borsa e cominciò a scavare: un accendino, il suo porta-tabacco, dei fazzoletti, le sue chiavi di casa, qualche moneta e delle cartacce e solo alla fine, la sua agendina. Quella fiorata che Edward aveva portato con sé a New York. Quella su cui aveva scritto Photograph. Fece per aprirla, ma esitò. Sapeva che al suo interno non avrebbe trovato quella scrittura un po’ disordinata, anche se aveva visto la penna scorrere su quelle pagine più di una volta. Sapeva che non c’era alcun testo, ma aveva paura di avere la conferma materiale che avesse ragione. Carezzò il dorso e sfiorò l’elastico con la punta delle dita, ricordando quante volte lui l’avesse usata per scrivere. I fogli che dovevano essere gonfi per l’eccessivo uso, erano ben stirati e piatti tra la copertina e il retro. Lentamente la aprì, cominciando dalla prima pagina.
26.07.2013, un vecchio disegno in penna blu del protagonista del suo film preferito. All’epoca doveva essere il meglio che riuscisse a fare e non era granché. Di seguito tentativi simili, sempre più curati.
16.08.2013, il disegno stilizzato di un tramonto tra le onde era accompagnato dalla frase “Il valore dei luoghi dipende dal valore delle persone”. Ricordava bene che quello fosse il giorno in cui tornava dalle vacanze. Doveva essere stata davvero felice.
5.09.2013, un disegno di Dario, poco riuscito. Voltò immediatamente pagina.
14.10.2013, “Le colonne del tempio si ergono distanti”, un aforisma sulle relazioni che l’aveva molto colpita al corso di Psicologia della famiglia.
Di seguito ritratti, disegni e frasi che riguardavano film e canzoni, avvenimenti e ricordi e solo dopo diverse pagine, si fermò a contemplare.
27.11.2013, il testo di Thinking Out Loud scritto in diverse grafie, contornato da una cornice. Tristemente, pensò, ricordava esattamente il momento in cui l’aveva scritto, all’università. Un altro pugno nello stomaco. Voltando pagina, il primo disegno che aveva fatto di Edward, i versi delle sue canzoni:
We can all be loved the way that God made us
Put your open lips on mine and slowly let them shut, for they’re designed to be together
Should this be the last thing I see, I want you to know it’s enough for me, ‘cause all that you are is all that I’ll ever need
14.01.2014 Un nuovo ritratto di Edward. L’ultimo. Le pagine seguenti erano bianche.
Un anno della sua vita, quello prima di incontrarlo, era racchiuso in quelle pagine di scarabocchi e appunti, poi il nulla. Lì, dove doveva esserci il testo di Photograph, di Give me Love, di One, c’erano solo pagine vuote. E solo allora si rese conto, sentendole risuonare nella sua mente, che quelle canzoni, prima di lei, prima della sua comparsa nella vita di suo marito, esistevano già. Non una sola parola, non un solo verso era stato scritto per lei. Non una di quelle canzoni avrebbe avuto più lo stesso significato.
Il cuore le vibrava atrocemente.
L’amore di cui si nutriva la sua anima, la fonte della sua felicità, non era che fumo effimero. Un nodo di nuvole. Inconsistente. Un fenomeno avvenuto solo nella sua mente.
La carta ruvida, a righe, le grattava via i sogni dalle dita.
Una lacrima ebbe la meglio quando capì che da quel momento la sua unica certezza – ciò che legava lei ed Edward – era definitivamente crollata. E non avrebbe più ascoltato quelle canzoni provando lo stesso dolore. La aspettava qualcosa di molto più buio e profondo: la consapevolezza che lui non l’avesse mai amata. I suoi stessi sentimenti erano vani, nulla di ciò che aveva fatto, detto o pensato aveva più senso. La sua stessa precaria identità aveva perso significato, oramai. Era appena passata da una secchiata d’acqua gelida al cadere in un lago ghiacciato, dal lutto per l’abbandono all’incommensurabile dolore della cosciente e reale perdita. Rinnegata dalla sua stessa esistenza.
Quell’amara vita di falsi ricordi e stenti era appena diventata il cancro che l’avrebbe consumata fino alla vera e profonda follia.
L’attacco di panico che seguì quel suo risveglio interiore l’aveva consumata a fondo, tenendola prigioniera di una catena invisibile per ore che le sembrarono anni. Aveva urlato, coscientemente, ma senza controllo. Si era lasciata andare alla disperazione come mai prima di allora. Nemmeno quando aveva saputo di Henry, il presunto figlio di Edward, era stata così male. Un’altra pugnalata. Avrebbe voluto trovare un interruttore e spegnersi il cervello ogni volta che la sua mente faceva riferimento agli avvenimenti che ricordava, come se fossero esperienze concrete e in realtà erano solo fantasie. Fantasie che le avevano cancellato l’identità, certo, ma l’avevano anche resa quella che era. Nel suo coma era maturata e se ne rendeva conto. Quel suo grande dolore era dovuto anche all’innegabile consapevolezza di aver amato davvero l’uomo che aveva sognato. Ma, giunti ad un tal punto, chi era Edward?
Mentre il suo corpo perdeva ogni controllo e facoltà, la sua mente delirava, troppo turbata dalla verità. Quella che aveva cercato di negare con tutta se stessa.
E non era ancora finita.
 
1 Novembre 2014
 
Il rombo dei tuoni preannunciava una tempesta. Doveva provenire dal mare. Riusciva a sentire il profumo della salsedine ogni volta che sua madre apriva il balcone. O magari stava sognando anche quello, perché ormai chi sapeva dire se fosse in un sogno o nella realtà. Chi sapeva dire se sarebbe mai riuscita ad alzarsi dal letto o si sarebbe fossilizzata lì, sotto la coperta, fino a data da destinarsi. Il cibo aveva ancora meno sapore tra le lenzuola, la luce era una lama da schivare ogni giorno. Il computer la fissava dalla scrivania, restituendole il suo riflesso stropicciato.
Le cuffie erano appendici del suo corpo, inseparabili e in costante attività. Il cuore pulsante che la teneva ancora in vita. Non aveva rinunciato alla musica solo perché ormai aveva capito di essere folle, era ancora l’unico mezzo che le consentisse di restare lucida e levigare ogni giorno le sbarre della prigione invisibile in cui la sua psiche l’aveva rinchiusa.
Era a letto da sei giorni, troppo spaventata dal mondo – troppo spaventata da sé – per poter lasciare l’unico luogo sicuro che conoscesse, eppure ancora riusciva a leggere nelle note di Multiply qualcosa di così familiare e rassicurante, quelle sfaccettature che credeva di conoscere solo lei, i dettagli dell’anima di un uomo di cui aveva esplorato ogni centimetro. Poteva ancora analizzare quei testi e quelle melodie traendone le stesse conclusioni. Come se fossero uno specchio puntato sempre nella stessa direzione, restituendo in eterno lo stesso riflesso. Ogni volta Edward si materializzava davanti ai suoi occhi e la naturalezza con cui accadeva stava diventando inconcepibile. Avrebbe dovuto imparare a lasciarlo andare e a pensare a lui esattamente come faceva pochi mesi prima: il cantante di fama mondiale. Qualcuno per cui avrebbe potuto avere una cotta e niente di più. Non lo conosceva. Non lo avrebbe conosciuto.
Strinse di più le lenzuola tra le dita tiepide, fissando la parete cobalto, e provò a ripetere quel concetto più volte nella sua mente, credendo che prima o poi sarebbe diventata una certezza. Dando le spalle alla porta, in posizione fetale, arricciò le dita dei piedi ancora freddi e si convinse che avrebbe dovuto lasciare che quel dolore la ferisse.
Sì – si disse – devo lasciarlo fare.
Se si fosse data la possibilità di soffrire fino in fondo, forse nel suo cuore si sarebbe creato un nuovo spazio, un angolino da dedicare alla rassegnazione.
Avrebbe lasciato scivolare via almeno le sensazioni. I ricordi – le immagini della sua finta vita – non sarebbero mai svaniti.
Si tirò su, sedendosi al centro del letto. Il buio avvolgeva l’ambiente illuminato solo dalla vecchia lampada sul comò, davanti a lei il panorama della sua stanza: lo stesso mercatino delle pulci che era sempre stato, solo mancante di qualche foto e biglietto del cinema che non aveva mai conservato. Le sue palpebre si mossero impercettibilmente e per un attimo si trovò di nuovo in quella mattina di Luglio in cui fissava il soffitto e la sua stanza, ancora troppo incredula per poter dormire serenamente.
Il rombo di un nuovo tuono, più dirompente del precedente, mise fine a quella visione e riattivò tutte le sue percezioni: le lenzuola calde, il rumore dell’aspirapolvere, il profumo del pranzo proveniente dalla cucina, la sensazione che si prova quando arriva una tempesta e tu sei al sicuro. Era in casa sua e si sentiva così spaesata. Avrebbe voluto far scorrere il tempo più velocemente e lasciarsi tutto alle spalle, chiudere quel libro e dimenticare quella storia per sempre, eppure – si rese conto, alzandosi – ne avrebbe percepito la mancanza, avrebbe percepito il vuoto che resta dopo aver letto un magnifico romanzo. Sapeva che le sarebbe mancato. Non poteva dire cosa, con esattezza, ma avrebbe sofferto la nostalgia di quella grande avventura. Avrebbe sentito la malinconia per l’unica vita in cui era stata felice. Avrebbe sempre inevitabilmente misurato la sua reale felicità sull’illusione del coma, probabilmente senza mai riuscire a sentirsi davvero appagata.
Il parquet caldo e liscio sotto i piedi la guidò automaticamente al balcone. La serranda si alzò per la prima volta dopo una settimana, la corda ruvida sotto le mani era il pizzico che serviva a risvegliarla dal suo torpore. Il vetro le mostrava il suo riflesso, ancora.
Alzò gli occhi chiari ad osservare il cielo grigio e la luce cupa le colpì il viso pallido. I capelli spettinati e annodati le solleticavano il collo mentre pensava a cosa avrebbe detto Edward se l’avesse vista in quelle condizioni. Probabilmente l’avrebbe sgridata, chiedendosi che fine avesse fatto la donna forte che era diventata. A quel pensiero il cuore perse un battito, poiché forte lo era stata. Anche se si trattava di un sogno, aveva dovuto affrontare le proprie paure, fronteggiare situazioni in cui non avrebbe mai voluto trovarsi, vivere esperienze che avevano modificato il suo modo di pensare e di prendere decisioni. Lo stesso che quella mattina l’aveva fatta alzare dal letto.
E come poteva negare che quella riflessa nel vetro del balcone fosse una donna diversa da quella che era pochi mesi prima? Come poteva negare l’amore che aveva ricevuto e che ancora la stava trasformando? 
Strinse ancora la mano attorno alla corda ruvida, si appoggiò al muro lì accanto e lasciò gli occhi inumidirsi. Avrebbe lasciato che il dolore la ferisse, ma non avrebbe sprecato quell’amore. Non avrebbe gettato via tutto ciò che di bello conoscesse al mondo, tutto ciò che l’aveva resa concretamente felice, più di quanto fosse prima del coma. Non avrebbe rinnegato i suoi sentimenti, poiché quelli – che l’universo lo volesse o no – erano reali. E sopravvivevano.
La prima pioggia precipitava sulla ringhiera, tintinnando e cambiando il tono del suo colore. Ben presto svanì ogni traccia di polvere ed insieme ad essa le esitazioni di Sara.
Prese un profondo respiro, sentendo in gola il fermentare dei suoi sentimenti e lentamente si scostò dal balcone per voltarsi alla sua destra e fronteggiare la scrivania. Il legno di rovere, che le aveva sempre ricordato il miele quando veniva colpito dal sole, portava i graffi dei suoi anni di studio e disegno, dei suoi gomiti poggiati sullo spigolo mentre lavorava a qualche nuovo racconto. La tastiera bianca dai tasti sottili era consumata per il troppo digitare. Quasi aveva dimenticato di averla usata a lungo nei giorni precedenti, ancora troppo lontana dalla realtà per poter incidere ricordi nitidi di quelle ore di scrittura. In quel momento, invece, la sua mano spingeva il tasto di accensione registrando ogni immagine, quasi divorando il presente. Stava firmando un contratto con se stessa.
La luce dello schermo era meno abbagliante e spaventosa di quanto ricordasse, come se fino a quel momento fosse stato solo un ostacolo davanti al quale fermarsi.
Forse quella volta sarebbe riuscita a rispondere alle chiamate di Olga, che ormai non aveva notizie di lei da troppo tempo e non voleva che interrompesse le sedute, dati i recenti avvenimenti. Forse sarebbe riuscita a dirle che stava scrivendo.
Una volta accomodatasi alla scrivania, inforcò gli occhiali rossastri e tirò vagamente su le maniche del suo pigiama, per poi poter guardare fuori ed incidere nella memoria il nuovo primo ricordo della sua vita: la pioggia che profuma l’aria vaporosa di novembre.
8 Novembre 2014
Quando sua madre la vide in piedi non osò dire una parola. Si era immobilizzata davanti alla porta, ancora di passaggio, la fissò insistentemente e poi andò via. Forse il suo sguardo era troppo vuoto e vacuo o – forse – era ancora troppo pieno di tutto quello che stava rigettando sulla pagina luminosa. Forse alla fine aveva riconosciuto la presenza di un sentimento che non c’entrava nulla con tutti i film mentali che aveva sicuramente elaborato sulla sua salute mentale. L’aveva ignorata e aveva continuato a raccontare del loro primo litigio in hotel, del giorno in cui Edward aveva scritto Photograph sulla sua agenda. Quando, stesi sul letto, sembrava che non esistesse nulla se non il millimetro che separava ancora le loro labbra.
Ogni tanto temeva che non avrebbe potuto sopportare oltre quell’amore, che avrebbe ceduto e avrebbe lasciato quel mondo, che non le tornasse più il respiro. Di tanto in tanto piangeva, lasciando che dopo averla ferita quel male uscisse e la lasciasse libera.
Quei giorni di pioggia erano trascorsi nel più totale silenzio, lasciando spazio solo al film che stava andando in onda nella sua testa poi, un pomeriggio, il suo cellulare squillò ancora, facendola precipitare di nuovo nel mondo in cui era in cura da una psicologa, il mondo senza Edward.
Aveva esitato un momento, tenendo il cellulare sospeso a mezz’aria senza sentirne il peso, poi le aveva risposto. La sua pseudo-confidente aveva esordito con un semplice “Come stai?”, una domanda di cortesia che voleva solo nascondere le intenzioni mediche di Olga oltre che l’imbarazzo che anche una professionista come lei prova.
Sara le aveva risposto come si fa con una conoscente, tornando a poggiare la schiena sulla sua sedia bianca per rilassare i muscoli. Non si sentiva turbata da quella telefonata, l’anima troppo intorpidita dalla prima volta in cui le labbra di Edward avevano avvolto le sue. Dal momento in cui le slaccia il costume. Dalla sua voce che le canta Afire Love.
La voce di Olga che le chiedeva di raggiungerla alla clinica per prendere un tea insieme era come una carezza se paragonata al ricordo della loro ultima notte in albergo, un pugnale conficcato a fondo nel cuore.
Aveva guardato lo schermo luminoso e aveva pensato che ormai non aveva nient’altro da perdere, le restava a stento il suo riflesso nello schermo. Non ebbe esitazioni: le assicurò che sarebbe andata da lei ed interruppe la telefonata.

«Con gli occhi chiusi, senza curarsi di una sua possibile reazione, le baciò il collo e poi le spalle, minimizzando qualsiasi distanza ci fosse tra loro. Soltanto quando le sue dita ebbero sbottonato anche i suoi pantaloncini, la fece voltare non riuscendo più a rimandare il contatto con la sua bocca. Sentire le sue mani sul petto, sulle sue spalle, nei capelli, lo mandò in una confusione tale da non riuscire a sbottonarle il reggiseno, ma fu lei stessa ad aiutarlo e a tirarlo sul letto. Sorrise, labbra a labbra con lei, rendendo quel sesso quasi un gioco a chi osava di più nonostante il tremore. Arrivò secondo quando lei, seduta a cavalcioni su di lui, gli prese il viso tra le mani e, carezzandolo con i pollici, lo guardò dritto negli occhi. Fu intenso. Gli venne la pelle d’oca. Gli baciò il naso, gli zigomi, gli occhi e per la prima volta, probabilmente in tutta la sua vita, si sentì sinceramente amato per la persona che era nel privato. La amò con tutto il fervore che aveva in corpo e prima di dormire, la strinse a sé, pregando che quella notte fosse eterna.»

Le avrebbe dimostrato che nulla di ciò che le aveva raccontato fosse finto. Le avrebbe dimostrato che non una sola goccia di quei sentimenti fosse frutto di una fantasia. Che nulla avrebbe lasciato il suo cuore senza prima lasciare una profonda incisione.
L’avrebbe portata nel mondo di carta più concreto che avesse mai visto, esponendola alla fiamma viva dell’anima di Edward.














Note dell'autrice:

Riproviamoci.

 
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Ed Sheeran / Vai alla pagina dell'autore: Sea