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Autore: Kim WinterNight    16/11/2017    2 recensioni
Scappare non è sempre simbolo di codardia. Ognuno di noi ha un motivo valido per cui vorrebbe scappare da qualcuno o qualcosa: chi per dimenticare, chi per liberare la mente, chi per accompagnare qualcun altro nella fuga, chi per uscire di casa, chi per volere di un'entità superiore...
Ma tutti, forse, lo facciamo per cercare un po' di libertà e per rendere noi stessi più forti e capaci di ricominciare a lottare.
DAL TESTO:
Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. [...]
Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte. [...]
«Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato. [...]
«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.
«Avresti rifiutato» si giustificò.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, John Dolmayan, Nuovo personaggio, Serj Tankian, Shavo Odadjian
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ReggaeFamily

Dead Memories

[John]




Il sonno non ne voleva sapere di travolgermi, nonostante cercassi di imporre a me stesso un po' di riposo. Ne avevo bisogno, mi sentivo sfinito sotto tutti i punti di vista e non ne potevo più di pensare e pensare e pensare senza sosta.

Dopo essermi rigirato all'infinito sul letto, mi misi a sedere e mi presi la testa tra le mani. Dovevo uscire da quella stanza e fare due passi, non riuscivo a stare fermo, tanta era l'inquietudine che avvertivo in quel momento.

Sospirai e mi mossi nell'oscurità, afferrando i primi vestiti che furono alla mia portata e infilandoli velocemente. Misi ai piedi un paio di infradito e recuperai le chiavi della stanza. Lasciai il cellulare sul comodino, sospirai ancora una volta e uscii in corridoio.

I faretti posizionati al centro del soffitto illuminavano flebilmente il pavimento lucido; nessuno, oltre me, sembrava popolare l'albergo a quell'ora della notte, visto il profondo silenzio che aleggiava tutt'intorno. Avvertii, in sottofondo, lo sciabordare lontano delle onde e un leggero russare che doveva provenire da una delle stanze in cui riposavano i miei amici.

Richiusi piano la porta alle mie spalle e mi avviai verso l'ascensore, deciso però a prendere le scale che si trovavano alla sinistra del box. Inizialmente pensai di scendere di sotto, ma poi cambiai idea e cominciai a salire.

Volevo raggiungere la terrazza, certo che lassù non avrei trovato nessuno. Dovevano essere almeno le quattro del mattino, ma non potevo esserne sicuro, poiché avevo lasciato anche l'orologio da polso in camera.

Quando giunsi alla mia meta, l'ambiente mi parve deserto come me l'aspettavo. Il chiosco in legno era chiuso e vuoto, le sedie impilate le une sulle altre e riposte in un angolo; i tavoli erano spogli e gli ombrelloni ripiegati troneggiavano come sinistri spaventapasseri.

Mi accostai a una delle pile di sedie e ne estrassi una, per poi portarla poco distante dal parapetto. Mi ci sedetti sopra e inspirai profondamente, lasciando che il profumo salmastro proveniente dal mare impregnasse i miei polmoni e liberasse la mia mente dai cattivi pensieri che la affollavano.

La solitudine, il silenzio e la tranquillità di quel luogo mi facevano bene all'anima, anche se quest'ultima era attualmente in condizioni pietose.

Chiusi gli occhi e mi lasciai trascinare dai miei cupi pensieri. Con Bryah era andata male, decisamente male, ed era tutta colpa mia. Non avrei mai dovuto cedere, non avrei mai dovuto permetterle di entrare così tanto a contatto con me. Il fatto che fossimo stati insieme a livello fisico per me significava molto di più, non era stata solo una scopata come tante. Daron aveva ragione a dire che non ero proprio adatto alle avventure di una notte, soprattutto perché, fin da subito, la giornalista per me era stata più di una donna qualunque. Avevo capito fin dal principio che non mi sarebbe bastato portarmela a letto per sentirmi appagato, c'era stata fin da subito una complicità diversa, qualcosa che andava a toccare la parte psicologica e mentale del mio essere.

Qualcosa mi sfiorò la spalla e sobbalzai per la sorpresa, voltandomi di scatto. Mi ritrovai di fronte una figura non troppo familiare che mi fissava con gli occhi lucidi e arrossati dal pianto.

«Ciao» mormorò la ragazza di fronte a me. «Ah, sei tu...»

«Lakyta?» mi sorpresi, sbattendo appena le ciglia.

«Già» sospirò.

«Cosa fai qui?»

Si strinse nelle spalle. «Potrei farti la stessa domanda.»

Annuii appena, ritrovandomi a darle mentalmente ragione. «Non riuscivo a dormire.»

«Neanche io.»

La scrutai per un attimo, poi feci un cenno con la mano verso la pila di sedie. «Siediti qui.»

«Va bene.»

Mentre lei si dirigeva a prendere una sedia in plastica, mi domandai cosa mi avesse spinto a invitarla accanto a me. Poco prima avrei voluto evitare di parlare con chiunque, mentre ora non avevo più tanta voglia di stare da solo a rimuginare. Avrei volentieri svegliato Leah, con lei si era instaurato un buon rapporto, ma ero certo che l'avrei strappata dalle braccia di Shavo e non volevo rovinare i loro ultimi momenti insieme.

Ormai la partenza della ragazza si avvicinava, così come la nostra, ma lei sarebbe andata via soltanto poche ore dopo.

Il tempo era volato per tutti e anche noi avremmo dovuto affrontare la realtà, una volta tornati a Los Angeles.

Lakyta appoggiò la sedia di fianco alla mia e ci si lasciò cadere sopra a peso morto, tirando un lungo sospiro. Sembrava una persona completamente diversa dal solito, preda di sensazioni negative in grado di tormentarla. Non era truccata, non indossava degli abiti appariscenti e provocanti come suo solito e pareva una ragazza molto semplice e a modo.

«Hai pianto» osservai in tono piatto, tornando a fissare la superficie infinita e scura dell'oceano.

«Mi va tutto male» biascicò. «Ed è tutta colpa mia.»

«A chi lo dici.»

«Ho bevuto un sacco... non sto per niente bene e ho già vomitato tre volte. Sono uno straccio» raccontò con una punta di disperazione nella voce roca e tremante.

«È normale che tu stia così.»

«Mi sono sentita ferita, mi sono sentita uno schifo quando... temo di essere confusa.»

«Confusa» ripetei.

«Sì. Sono innamorata di Alwan da un sacco di tempo, ma lui... lui è uno stronzo. Non bada a me, per lui sono solo un'amica. Cornia mi dice di lasciarlo perdere, eppure io non so come fare.» Lakyta si interruppe a causa di un singhiozzo. «E ho sbagliato tutto anche con Daron.»

«Non fare caso a Daron, lui non conta.»

«Conta per me. Ho perso la dignità un sacco di volte. Vorrei solo scappare di qui, vorrei una vita diversa, migliore.» La sentii tirare su con il naso. «Mia madre era un'attrice, sai? Non è mai arrivata a Hollywood, non ha mai raggiunto delle mete davvero importanti, ma per me era la migliore. Mi ripeteva sempre che un vero attore può essere considerato tale solo se riesce a fare il suo lavoro nel modo migliore, con professionalità e serietà. Mi ripeteva sempre che non era fondamentale raggiungere la vetta il più in fretta possibile, ma nel modo migliore.»

Rimasi in silenzio ad ascoltare la sua storia, incapace di trovare qualcosa da commentare.

«L'avevano scritturata per una piccola parte, sei anni fa. Eravamo tutti in fibrillazione e ci stavamo preparando per partire a Hollywood, finalmente. Sarebbe stata la coronazione di tantissimi sogni per lei e per me, ma anche per mio padre che non desiderava altro se non la sua felicità. La adorava, per lui era come una divinità da venerare in ogni momento della sua esistenza.» Fece un'altra pausa, con la coda dell'occhio la vidi che si asciugava le lacrime con le dita. «Poi... lei e mio padre uscirono per festeggiare, una sera, e... e non tornarono più. La polizia mi chiamò e mi disse che non ce l'avevano fatta, che avevano avuto un incidente e che io ero rimasta da sola.»

«È terribile» mormorai, sentendo qualcosa di molto simile alla commozione farsi largo dentro me. Cercai di non darlo a vedere e tenni gli occhi fissi all'orizzonte.

«Da allora sono cambiata. Sono diventata una cattiva persona, qualcuno che mi disgusta ma di cui non riesco a fare a meno per sopravvivere senza soffrire come un cane.»

«Mio padre era un sassofonista abbastanza noto nel panorama jazz degli anni Settanta.» Non sapevo cosa mi stesse prendendo, ma non riuscii più a fermarmi, pur consapevole che non avrei mai più avuto un momento di confidenza con quella ragazza che per me non significava niente. «All'inizio non abitavamo in America, ma in Libano. E io ho sempre avuto una predisposizione per la musica.»

«Eri piccolo allora?»

«Abitavamo a Beirut, la capitale. Non ricordo come si stava laggiù.»

«A Beirut?»

Sorrisi appena, un sorriso amaro e impercettibile. «Sono nato laggiù, i miei genitori sono armeni, ma abitavano in Libano. C'era la guerra.»

«Oh» sussurrò Lakyta. «La guerra. Spero che...»

«Non ricordo niente della mia vita in Libano» mentii. «Ricordo solo che volevo suonare la batteria fin da sempre, ma mio padre non era d'accordo.»

«Perché mai? Suppongo tu sia bravo, se fai parte di una band famosa.»

Una sensazione di vertigine al centro del petto mi costrinse a sospirare prima di poter continuare. «Lui avrebbe voluto che seguissi le sue orme. Mi ha fatto conoscere e apprezzare il jazz, questo glielo devo. Ma non posso dimenticare le liti durante quegli anni in cui lui non voleva accettare la mia passione. Pensa che andavo a suonare la batteria di nascosto, da un amico.»

Lakyta scosse il capo. «Non capisco perché te lo volesse impedire. Ognuno deve essere libero di inseguire i suoi sogni!» affermò con sicurezza.

«Hai ragione, ma lui non la pensava così. Col tempo è riuscito a farsene una ragione, ma non saprei dirti se l'abbia accettato davvero.» Dovetti far leva su tutta la mia forza interiore per non lasciarmi sfuggire le lacrime che pungevano agli angoli degli occhi. Serrai appena i pugni e stetti immobile a fissare dritto di fronte a me, mentre i ricordi legati ai dissapori con mio padre scorrevano nella mia mente.

«Io lo spero, ma... mi dispiace.» La ragazza si portò una mano di fronte alla bocca e non osò proferire altro. Sembrava turbata, come se riuscisse in qualche modo a comprendere la mia situazione.

Rimanemmo in silenzio per un po', poi decisi di rompere il silenzio. «Non preoccuparti, ormai io sono contento e soddisfatto della mia vita. Ho una carriera che mi dà da vivere, che mi rende davvero in pace con me stesso. Se mio padre non è d'accordo, ormai è troppo tardi perché io torni indietro.» Sorrisi appena.

«La vita è ingiusta» commentò la cameriera, lasciando ricadere le mani in grembo.

I nostri sguardi si incrociarono.

«Però noi non possiamo permettere che abbia la meglio su di noi» affermai con calma. «Se è partire a Hollywood quello che vuoi, puoi farlo. Stai lavorando qui, puoi mettere da parte i soldi che ti servono e prenotare il volo. Costa un po', ma sono certo che prima o poi racimolerai la somma che ti serve. Ci vuole perseveranza.»

«Tu dici?»

«Certamente. E quando approderai dalle mie parti, allora dovrai solo cercare me e i ragazzi. Ti daremo una mano se ne avrai bisogno.»

Lakyta inclinò la testa di lato e sorrise tristemente. «Non succederà mai. E poi nessuno vuole avere a che fare con me. Daron mi odia per ciò che ho fatto, Shavo sicuramente ha avuto una cattiva impressione di me, anche perché io e Leah non andiamo d'accordo.»

«Non essere sciocca. I miei amici sono persone mature e comprensive, anche se a volte può non sembrare.»

Lei scosse appena il capo. «Non saprei.»

«Promettimi che ci proverai» aggiunsi.

«Va bene.»

Mi alzai. «Allora buona fortuna.»

Lei mi seguì con lo sguardo mentre riponevo la sedia al suo posto. «Anche a te» concluse, rimanendo ferma dov'era.


Mentre tornavo alla mia stanza, mi ritrovai a chiedermi cosa fosse successo e perché io e Lakyta avessimo intrattenuto quella conversazione assurda e tremendamente triste. Stranamente mi sentivo meglio, più leggero e improvvisamente stanco. Forse ora sarei riuscito a dormire.

Ma dovetti ricredermi non appena misi piede nel corridoio del mio piano: c'era qualcosa che non andava, anche se inizialmente non compresi di cosa si trattasse.

Solo quando fui quasi giunto di fronte alla porta della mia stanza, mi accorsi della figura che se ne stava rannicchiata sul pavimento, la schiena contro il legno scuro dell'uscio e lo sguardo perso nel vuoto.

«Bryah!» sibilai, chinandomi di fronte a lei. «Bryah, che fai qui? Hai un aspetto orribile, che succede?» domandai in preda all'agitazione. La esaminai velocemente con lo sguardo e notai il suo viso gonfio e stranamente provato.

Un sospetto prese a farsi largo in me e una sensazione sgradevole e terribilmente spaventosa mi invase, facendomi tremare le mani.

«Come sei arrivata qui?» insistetti, mentre la mia voce saliva sempre più di tonalità e la preoccupazione si aggrappava con forza alla bocca del mio stomaco.

«Io... i-io... John... oddio!» Si portò le mani sul viso e lo nascose tra di esse, scuotendo con forza il capo.

Mi frugai in tasca e raccolsi le chiavi della mia stanza; mi allungai per aprire la porta, poi mi chinai nuovamente su Bryah e la presi tra le braccia, sollevandola dal pavimento e trasportandola dentro.

Richiusi l'uscio con un calcio e adagiai con delicatezza il corpo tremante della giornalista sul mio letto; nonostante mi costasse fatica starle accanto senza provare dolore, in quel momento non volevo pensare a me stesso e alle cazzate che mi vorticavano in mente.

Un'occhiata veloce al comodino, sul quale riposava il mio orologio da polso, mi fece scoprire che erano le quattro e cinquantatré del mattino.

Bryah, nel frattempo, si rannicchiò su se stessa e nascose il viso sul cuscino, poi il suo corpo venne scosso dai singhiozzi e io mi sentii morire dentro nel trovarla in quelle condizioni.

Scalciai via le infradito e mi stesi accanto a lei; avvolsi il suo corpo tra le braccia, stringendola da dietro, e feci aderire la sua schiena contro il mio petto. La cullai in silenzio, senza osare proferire alcunché, volevo che fosse lei a raccontarmi cosa le fosse successo, nonostante un sospetto terribile si materializzava sempre più nei miei pensieri.

«Benton si è arrabbiato quando... io, John, gli ho detto la verità, gli ho detto che io e te... in realtà non gliel'ho proprio detto, ma... gli ho detto che forse la nostra relazione non può continuare, che qualcosa si è spezzato già da tempo, ma lui...»

Rafforzai la stretta sui suoi fianchi e appoggiai il mento sulla sua nuca, serrando con forza i denti per evitare di digrignarli. Non volevo ascoltare ciò che stava per dirmi, ma sapevo di doverlo fare.

«Mi ha mollato un ceffone, poi un altro, poi... lui mi ha... picchiato.»

Fu una pugnalata al petto, un fendente che raggiunse con furia il mio cuore e lo tagliuzzò in mille pezzi sanguinanti. Dovetti concentrarmi sui muscoli del mio corpo per non irrigidirli e per non stritolare troppo forte quello di Bryah. Era difficile, la rabbia mi stava accecando i sensi, ottenebrava ogni fibra del mio essere e mi mandava quasi in un mondo parallelo dove la ragione non esisteva.

«Io... non ho potuto fare altro che scappare, avevo paura, John. Non era mai arrivato a tanto, non so cosa gli sia preso. Ho lasciato tutto a casa, sono corsa fuori e ho cercato un taxi. Non so quanto ho camminato, non so quanto tempo è trascorso prima che lo trovassi... ho visto il Fyah, forse ho preso lì il taxi, ma... ero così confusa...»

«Basta così» dissi bruscamente. Mi allontanai da lei, poi la costrinsi a voltarsi nella mia direzione e la avvolsi nuovamente in un abbraccio, premendo con forza le labbra sulla sua fronte sudata. «Adesso sei al sicuro. Brava, hai fatto bene a venire qui. Oh Bryah...» La voce mi si spezzò e qualche lacrima scivolò sulle mie guance. Sollevai una mano per asciugare quelle gocce salate e ribelli, ma lei la afferrò e prese a stringerla con forza.

«Non ce l'hai con me? Ti ho fatto soffrire, lo so... ma io volevo solo... volevo chiarire le cose con Benton prima di parlare con te» farfugliò confusamente.

«Non dire niente, ti prego.» Sospirai brevemente. «Abbracciami» mi lasciai sfuggire.

Lei annuì e si strinse forte al mio corpo, lasciando che il contatto tra noi si intensificasse.

Ero profondamente amareggiato e, mentre ripensavo a ciò che avevo raccontato a Lakyta, mi venne in mente che, se non fossi diventato il batterista dei System Of A Down, allora non sarei stato in quella stanza d'albergo in Giamaica, non avrei potuto stringere Bryah a me e non avrei potuto proteggerla.

Ero certo che Benton, prima o poi, avrebbe comunque agito in quel modo nei confronti della giornalista o di qualche altra donna; questo non faceva che accrescere la mia rabbia e il mio risentimento nei confronti di quell'essere immondo e schifoso.

«John, non piangere per me» mormorò Bryah, il viso immerso nella mia t-shirt.

Sospirai. Non sapevo neanche io perché stessi piangendo, non avevo idea di come fare per fermarmi e volevo soltanto scomparire.

«Andrà bene, vedrai» tentai di rassicurarla.

«Sì, andrà bene» confermò debolmente.

Non chiudemmo occhio, rimanemmo soltanto immobili a fissare l'oscurità che, pian piano, cedeva il posto all'alba di un nuovo giorno.




Ciao a tutti, per me non è facile scrivere queste note dopo un capitolo tanto triste e doloroso. Probabilmente mi odierete perché faccio capitare sempre le cose peggiori a John, ma come vedete qui si scoprono delle informazioni in più su di lui, su Bryah e anche su Lakyta.

A proposito di quest'ultima: cosa ne pensate? Non ho raccontato la sua storia per cercare di renderla più simpatica a voi o a me – io comunque non la reggo a prescindere XD – ma solo perché cercavo qualcuno con cui John potesse sfogarsi un po'. Forse non è stata la persona giusta, forse vi aspettavate che fosse Leah a trovarlo sulla terrazza, ma nella vita capitano anche di queste stranezze.

A chi non è mai capitato di confidarsi, magari per una sola volta, con una persona che si era sempre detestata o ignorata? A me è successo e, pur rimanendo un caso isolato, è qualcosa che mi è rimasto impresso proprio per la sua stranezza e assurdità ^^ la vita gioca strani scherzi, non trovate?

La storia che John ha raccontato a Lakyta, invece, è qualcosa che ho letto su internet, o almeno in parte: se non ho capito male, suo padre non era troppo d'accordo, inizialmente, affinché suonasse la batteria; non so se sia del tutto vera come cosa, per questo ho bisogno del vostro aiuto: chi sa qualcosa di più preciso, può dirmelo?

Se la storia non dovesse essere vera, be', non importa; l'ho trovata funzionale alla trama e in ogni caso volevo che John la portasse fuori. Diciamo che se non gli è mai successo nulla del genere, meglio per lui, sarei molto più sollevata perché è qualcosa di poco piacevole non trovare l'approvazione dei propri cari per ciò che si ama fare :/

Cosa pensate invece di Bryah e di ciò che le è successo con Benton? Vi aspettavate qualcosa del genere?

Sono curiosa di leggere i vostri commenti, mi scuso ancora per il capitolo per niente allegro e vi ringrazio tutti perché, dopo trentotto capitoli, siete ancora qui a sostenermi! Vi adoro :3

Alla prossima ♥

  
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