Libri > Mitologia greca
Segui la storia  |       
Autore: Avareil    18/11/2017    4 recensioni
Mito ancestrale, fondativo, quello di Ade e Persefone narra del legame tra Superficie e Oltretomba, avvinte in una danza ciclica e imperitura.
Un'unione ostacolata, un sentimento messo a tacere, il destino dell'uomo minacciato dall'egoismo.
I miti raccontano l'immortalità degli dei, tralasciando il loro essere vivi e pervasi da sentimenti umani, troppo umani.
Celebriamo la vittoria della fiamma sulla brace.
Cantiamo la storia di una vita promessa alla morte.
*In revisione*
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ade, Estia, Persefone
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il peggiore degli incubi
 

Il suono del suo incedere aveva un che di sinistro.
Tutto il suo aspetto era di per sé spaventoso.
Un’ aura oscura e malsana lo avvolgeva come un nero mantello mentre un tanfo mefistofelico si diffondeva nell’etere: era furioso.
Il signore dell’Averno che procedeva con fare marziale verso la sala del trono celeste non era lo stesso che aveva lasciato le camere della sua dolce signora solo pochi istanti prima.
Quel dio aveva poco a che vedere con l’essere che con amore e devozione aveva stretto la sua regina tra le braccia.
Una rabbia cieca lo bruciava dal di dentro riportandolo a essere il sovrano imperscrutabile e impenetrabile di cui tutti gli altri dei avevano timore e paura.
Un nauseabondo odore di zucchero bruciato gli riempiva le narici man mano che i suoi passi si facevano più vicini all’uscio sacro: qualcuno pregava.
Non un solo essere in solitudine ma schiere e schiere di fedeli erano riuniti in preghiera e poco importava che fossero uomini, dei o bestie.
Tutti vedevano, tutti pativano le pene irragionevoli di un dolore immotivato e suo fratello Zeus, il padre della sua promessa, avrebbe fatto bene ad ascoltare quanto gli avrebbe detto.
Non avrebbe accettato un no come risposta.
Con l’interno guancia stretto in un morso, aveva proseguito fino all’immensa sala dove sapeva avrebbe trovato il minore ben accomodato sul bianco scranno di marmo.
Quanto è vanaglorioso.
Questo il primo pensiero a saettare i neuroni dello ctonio.
Suo fratello Zeus, l’illustre, era dinnanzi a lui, seduto sull’alto trono bianco ma, a dispetto di ogni previsione, il suo volto era cinereo, ben lungi dal solito colorito rosato che sapeva di salute e benessere.
Bianco e con gli occhi circondati da sottili rughe, palesava in una postura rigida e composta tutto il proprio turbamento, turbamento acuitosi nel momento stesso in cui i passi del sovrano dell’Orco si erano arrestati al suo cospetto.
Non un inchino, non una parola.
Il saluto del dio dell’Averno era stato un impercettibile cenno del capo indirizzato a un Zeus stranamente silenzioso e preoccupato.
“Fratello, eccoti infine. Sapevo saresti giunto”.
“Se il Fato avesse avuto pietà di me avrei fatto volentieri a meno di metter piede in questo sontuoso tempio che tutto rappresenta fuorché giustizia”.
Secco, dritto al punto.
“Non sono io il legittimo destinatario della vostra furia. Io ho permesso che mia figlia venisse a voi, l’ho lasciata nelle vostre mani a dispetto dell’ira di sua madre. È Demetra il vostro ostacolo” Zeus, rosso in volto, aveva farfugliato quella risposta in maniera impacciata: un vano tentativo di accattivarsi la simpatia del fratello.
Ma Ade, scettico in viso e con il labbro superiore leggermente arricciato, palesava un chiaro sarcasmo.
“Voi non mi avete concesso un bel niente e si, diventerete mio nemico se solo oserete chiedermi di rinunciare a Persefone, se solo oserete-“questa volta il signore dell’Averno aveva sibilato con rancore
“se solo oserete sottrarmela per un vostro ulteriore tornaconto”.
“Non sono così come mi dipingete fratello!” Un moto di rivalsa aveva animato il dio dei cieli che, quasi con impeto, si era alzato dallo scranno bianco per farsi vicino al maggiore.
“No, è vero. Siete molto peggio”.
Ade aveva fatto un passo indietro, non per paura ma per sdegno.
“Voi siete il dio glorioso che mi ha spedito nell’Erebo per un sospetto. Siete colui che per timore di perdere la primogenitura ha illuso la buona Estia, convincendola a cedere la propria libertà in cambio del sacro vincolo della verginità, lei che è fuoco e famiglia, vincolo e unione domestica! Zeus, voi siete il dio peggiore di questo intero pantheon!”
Quella risposta, proferita con durezza e severità, aveva però scatenato l’ira di una figura più a destra, mal celata dalle imponenti colonne poste a cerchio rispetto al trono.
“Come osate rivolgerti in questo modo al vostro signore, al vostro dio? A lui dovete rispetto!”
Era, nella sua maestosità di regina, aveva preso la parola e con furore aveva raggiunto il fianco del marito, ora ridotto a un’espressione seria e cupa.
Immobile, Ade, non aveva sbattuto ciglio.
Sapeva bene che la sorella avrebbe presenziato quell’incontro ma, in cuor suo aveva sperato che almeno per una volta, illuminata dal buon senso, avrebbe fatto silenzio, rimanendo così nell’ombra.
Ma no, perché tacere?
Tanto meglio. Anche lui era stanco di tenere le proprie considerazioni per sé.
“Voi, serpe”, il dio oscuro, forse con un tono ancor più cupo, l’aveva folgorata con uno sguardo al vetriolo: gli occhi iniettati di sangue, ben lontani dal placido grigio di sempre.
“Voi, traditrice del vostro nome. Come osate prendere la parola, voi che non avete esitato a rifiutare protezione ad una supplice?”
Leggermente interdetta e con il fiato in gola, Era aveva mosso un passo indietro, cercando, oramai troppo tardi, riparo vicino la colonna.
“Quello che ho fatto è stato utile a voi. Siete così stupido da non capirlo?”, vedendo lo sguardo nero del sovrano dell’Erebo anche la stessa regina aveva sentito come le gambe tremarle e, impaurita dallo spettacolo fatto di morte e torture che leggeva riflesso negli occhi del dio, aveva rivolto gli occhi altrove.
“Bugiarda”. Ade, implacabile, si era mosso così rapidamente da trovarsi al suo cospetto in meno di qualche secondo e, con mal grazia, l’aveva afferrata per un braccio, costringendola a guardarlo senza esitazione.
“Persefone vi implorava e voi avete pensato solo alla vostra vendetta, al rancore verso il vostro compagno che ha osato venir meno al suo giuramento-“
Lì Ade aveva stretto ancor di più la presa e avvicinando il proprio volto a quello di Era aveva nuovamente sibilato:
“permettete un consiglio: potrete nascondervi nel buio, correre fino all’orizzonte o trovare riparo nel più profondo degli abissi ma, osate nuovamente rivolgere parole insolenti a me o alla mia sposa e vi troverò, ad ogni costo. Io, Ade, signore dell’Averno, non devo ubbidienza né a voi né a nostro fratello Zeus. Un sovrano regna con il rispetto dei suoi sudditi e voi, balorde caricature di voi stessi, siete una vergogna per l’intero cosmo”.
Cercando di darsi un contegno aveva poi ripreso fiato e, con lo sguardo leggermente meno fustigatore, aveva continuato
“Si comanda con la ragione, con la giustizia, concetti che chiaramente sconoscete entrambi”.
Il signore dell’Averno aveva mormorato da ultimo quell’ asserzione come fosse stata una condanna e con quella aveva mollato il braccio della sorella che, col volto bianco, aveva mosso dei passi indietro, uscendo in quel modo dalla camera di marmo.
 
Con un ghigno in volto Ade aveva preso nuovamente parola
“Zeus, voi sapete che Persefone è mia. Mia per Fato, mia di diritto, mia perché lei mi si è promessa così come me, le ho donato me stesso e con ella ha accettato anche la mia cattiva sorte”, il tono di voce roco lasciava trapelare la rabbia di ritrovarsi al cospetto di quel fratello bastardo a dover dare giustificazione del proprio atto.
“Convocate quella pazza di sua madre Demetra. È tempo che accetti la situazione”.
“Se si presentasse qui, se solo il suo sguardo incrociasse il vostro sarebbe la fine, Ade”.
“Convocatela o perderà la sua unica figlia. Per sempre”.
 
 
---







Un vago senso di intorpidimento si diramava per tutto il suo corpo rendendola un piacevole ammasso di organi e nervi.
Sollevate le palpebre lentamente, aveva dapprima scorto il letto sfatto sotto si sé e poi la sua attenzione si era focalizzata sulla coperta morbidamente adagiata sul corpo nudo.
 
Ade, mio signore.
Gli eventi di poche ore prima le erano tornati alla mente con una prepotenza tale da farle sollevare di scatto la schiena dalle morbide lenzuola.
Lei…
Ade…
Loro…
Le guance, ora rosse e accaldate, erano le chiare testimoni del fatto che Persefone ricordasse esattamente quanto successo proprio lì, su quel morbido letto, tra le braccia forti e gentili del suo signore.
Il suo signore.
Un sorriso dolce le aveva incurvato le labbra mentre gli occhi, luminosi, scrutavano quel corpo alla ricerca di ricordi impressi con carezze e baci.
Avevano passato la notte insieme e su quel letto lui le aveva donato un piacere che le aveva fatto esplodere il cuore in petto.
No Persefone, non tutta la notte.
Gelata da quella riflessione era scattata in pieni stringendo contro la propria nudità la pesante coperta.
Lui era andato, andato via, più precisamente si era recato sull’Olimpo in cerca di soddisfazione e, la sua preda, il nemico da sconfiggere altri non era che sua madre.
Mamma.
Mamma perché ci fai questo?
Con un groppo in gola aveva mosso dei passi verso la grande sala da bagno dove un piccolo fuocherello fluttuante l’attendeva paziente.
“Emisu, mia ancella” come quando si vede una roccia in mezzo a un mare in tempesta, Persefone l’aveva raggiunta, il respiro particolarmente agitato.
“Mia signora, cosa vi turba?” placida Emisu, seppur nella sua deformità le aveva offerto un caldo benvenuto mentre le mani sapienti avevano iniziato a riempire la grande tinozza con acqua calda e aromi.
“Non voglio un bagno, voglio sapere dove si trova il nostro signore”.
 “Non state in pena per il signore, dolce dea, egli sarà di ritorno quanto prima e,” scostata la coperta dal corpo infreddolito e curvo della giovane dea con fare materno l’aveva sospinta verso la vasca:
“Un bagno caldo mia signora è ciò che ci vuole per calmare i nervi e rilassare i muscoli intorpiditi”, un sorriso malizioso aveva fatto arrossire vistosamente Persefone che, vergognosa, si precipitata dentro la tinozza.
“Il re di questi luoghi ha lasciato per voi un dono. Affrettatevi nel lavarvi, esso vi aspetta in camera, dentro il cassetto della scrivania”.
Un dono?
Con le sopracciglia arcuate, segno di un’immensa curiosità che però solo in parte era riuscita a scacciare la preoccupazione, la dea aveva osservato interdetta la propria ancella che, con devozione, aveva iniziato a detergerle le membra.
Impaziente però Persefone ne aveva richiamato l’attenzione e, sottraendole con abile mossa la pezza bagnata dalle mani, le aveva sorriso dicendo con una leggera nota di allegria:
“è meglio che faccia da me, sarò più veloce”.

Era stata un fulmine. Complice l’acqua calda, era riuscita in poco tempo a pulire ogni centimetro di pelle a fondo, ristorando il corpo e riguadagnando lucidità.
Quello che era successo la notte prima sarebbe stato il suo ricordo più prezioso. La memoria che avrebbe difeso con le unghie e con i denti e che avrebbe tenuta ben presente davanti agli occhi qualora qualcuno avesse osato insinuare il dubbio tra lei e Ade.
Avvolta nel morbido telo offertole da Emisu, non aveva aspettato di essere asciutta, non aveva calzato scarpe né abiti.
Così, come la dea dei prati quale era, si era mossa agilmente verso il luogo designatole dall’ancella e, quando le sue mani avevano sollevato il coperchio dello scrigno finemente lavorato in legno e oro, i suoi occhi si erano riempiti di lacrime.
Lacrime di felicità.
Si era dovuta sedere sul letto, le gambe non avrebbero retto l’emozione del cuore.
Non erano orecchini, non una collana o un anello regale, insomma: niente che l’avrebbe potuta angosciare riportandole alla mente una sovranità che le sarebbe toccata in sorte se avesse ufficializzato l’unione col sovrano dell’Averno.
Non che questo la intristisse, anzi, il problema però rimaneva sempre il fantasma della madre desolata e alla ricerca di vendetta.
Ecco, quello che teneva tra le mani non era il dono di un re a una regina quanto piuttosto quello di un dio devoto alla dea amata: egli non le chiedeva nulla ma dava e basta, dava se stesso in una maniera così profonda da farle venire la pelle d’oca.
Due piccoli e delicati fermagli giacevano brillanti e lucenti sul fondo della preziosa confezione: l’ossatura in oro sorreggeva migliaia di pietrine colorate disposte in modo tale da richiamare alla mente fiori variopinti e foglie di rami rampicanti.
Senza parole Persefone aveva portato una mano tremante alla bocca per tentare – inutilmente- di fermare i sospiri emozionati.
Ade aveva capito il suo animo irrequieto, aveva compreso il perché dei suo sguardi persi alla ricerca di natura verdeggiante, aveva inteso la sofferenza patita nel buio di un regno senza sole.
Lui aveva visto oltre. Lui l’aveva guardata dentro e ora le recava in dono dei fiori che sebbene mai avrebbero potuto spargere il loro profumo allo stesso tempo mai sarebbero potuti appassire.
Quasi timorosa - al solo pensiero di fare cadere al suolo quei preziosi monili il suo cuore accelerava- ne aveva sollevato uno ammirandone la bellezza e la delicatezza della trama.

Ricevere quel regalo era stato stordente, quasi immobilizzante.
Aveva avuto bisogno di parecchi istanti prima di riuscire a riconettere il cervello al cuore in subbuglio ma, quando vi era riuscita, ecco l’angoscia travolgerla e un unico pensiero folgorarle la mente.
La conca.
Il melograno.

Un presentimento oscuro le impediva di godere a pieno della vista di quei doni cari.
Sentiva come il bisogno di dare un'occhiata al piccolo cumulo di terra smossa che celava il tesoro a lei più caro: la possibilità di un futuro felice lì col suo signore.
Spiegata ad Emisu quella sensazione spiacevole che le attanagliava lo stomaco, aveva assistito alla tramutazione di questa in fuocherello vispo e fluttuante: era un sì, l'avrebbe accompagnata alle sponde della conca sacra.



---






 
 
Sdegno e vergogna. 
Sdegno per la bassezza di costumi del fratello e della "dolce" consorte.
Vergogna per sè stesso, per il suo ritrovarsi lì, al cospetto di un dio minore a render conto dei propri desideri.
Ancora lì, con gli occhi di brace e una sottile aria malsana che si spandeva dal corpo rigido e pronto all’attacco, Ade cercava di mantenere quel briciolo di calma che gli avrebbe impedito di scatenare morte e distruzione.
“Voi sapevate, voi tutti sapevate che la vostra vita beata avrebbe esatto un costo, e ora che vi si para dinnanzi vi nascondete, non prendete posizione. Non avete il coraggio di far rispettare il giusto!”
Con l’indice puntato contro il viso del fratello, ora nuovamente accomodato rigidamente sullo scranno, il dio ctonio aveva sibilato cavernoso:
“Fratello, né voi né lei mi sottrarrete ciò che è mio”.
“Lei, mia figlia-“ Zeus, focalizzandosi per la prima volta sul significato di quelle parole, perché Persefone era anche sua figlia, Zeus aveva risposto con lo sguardo perso dinnanzi a sé,
“lei non si unirà mai a voi sapendo quello che sua madre causa al cosmo”
 “Lei sa…” stupito il minore aveva puntato il suo vitreo sguardo sul fratello e, come scosso da quella rivelazione, aveva mormorato
“Persefone sa e non fa nulla? Che egoista”.
Un’ira cieca aveva travolto il dio avernale che, balzando come un puma, aveva afferrato il fratello per il bavero della corta veste bianca ricamata in oro.
“Non osate nominarla se il vostro obiettivo è offenderla”
Zeus, non intimorito ma sinceramente scioccato da quella reazione, aveva sospirato e, con una mano a ravvivare i capelli, aveva come saettato
“Demetra sta arrivando. Cerca di non essere così brutale”
“Sono brutale per colpa vostra”.
Torcendo il busto lievemente verso l’entrata della sala anche lui ora sentiva l’incedere affrettato di un essere.
“Dov’è la mia bambina?! Dov’è?!”
Urla di madre, alternate a singhiozzi e sospiri, avevano preceduto la visione della dea madre.
Se Ade non l’avesse riconosciuta dentro di sé come sua sorella non avrebbe mai potuto intravedere in quella pseudo-dea una sua consanguinea.
Nulla in lei mostrava segni di beatitudine e grandezza.
Il corpo, solitamente pieno e rigoglioso, era un mucchietto di pelle secca e ossa sporgenti mentre il viso, un tempo luminoso, era ridotto a rughe e solchi lasciati da lacrime perenni.
Da quanto tempo Persefone era presso i suoi altari?

Possibile che non si fosse reso conto del tempo passato in sua compagnia?
O meglio: possibile che avesse completamente perso il senso del tempo, proprio lui che sapeva la folle irrazionalità dello spazio e del tempo nel suo regno?
Demetra, o quel che ne rimaneva di lei, da quanto tempo pativa l’assenza della sua Kore?
Gli occhi vitrei e spenti della sorella divina avevano vagato incerti e desiderosi alla ricerca della figura tanto amata e cercata ma, non scorgendola in alcun luogo, nuove lacrime e nuove urla si erano aperte sul suo viso e sul suo petto.
Un dolore tramutatosi in odio quando sempre quegli occhi affaticati avevano intravisto le sembianze dell’odiato fratello.
“Bastardo!” un moto d’ira l’aveva come rianimata e scagliatasi contro di lui come una bestia feroce, ma ferita e stanca, aveva mosso solo due passi per tirare due pugni deboli contro il petto ammantato di nero del fratello avernale.
Ma come sempre, non la forza ma il gesto avevano turbato Ade che, conscio della nuova sofferenza della sorella si sentiva soffocare dentro da bile nera.
Perché la sua pietà doveva indebolirlo?

Non sarebbe la prima volta, stupido.

Facendo forza su sé stesso e la propria pietà aveva afferrato con delicatezza i polsi della sorella e, con uno sguardo gelido, aveva cercato di ottenere la sua attenzione sebbene quella si dimenasse alla ricerca di libertà.
“Me l’hai tolta, il mio unico amore, me l’hai tolta”.
“Sorella, non vi ho tolto nulla. Vostra figlia è vostra e lo sarà per sempre. Io la desidero in moglie perché mi completa, perché siamo le due facce di una stessa medaglia”.
“Non dire assurdità, lei è una bambina. Tu me l’hai portata via con la forza, barbaro!” Debole Demetra cercata di evitare il contatto visivo mentre le mani, adunche e nodose, cercavano di liberarsi dalla presa salda del fratello.
“Sorella, vi vedo disperata, ma il vostro dolore non è il solo. Senza Persefone morirei”, Ade cercava di calmarla, di farle capire che una serie di circostanze erano la cagione della sua sofferenza e che non per volontà ma solo per destino ella era costretta ad allontanarsi dalla sua bambina. Ma Demetra, irata e resa folle, aveva liberato una mano e, con uno scatto, aveva graffiato il volto del dio con le lunghe unghie.
Un gemito di dolore: Ade si ritraeva con una mano sul volto artigliato.
Demetra rideva isterica mentre lacrime le bagnavano le guance.
“Siete pazza?!”
“Si, e farò di peggio se non me la riporterete!”
Furioso, e non più simile al dio pacato di poco prima, il signore dell’Averno iniziava a rivelare le sue sembianze scatenando la più cieca delle paure nelle anime dei suoi spettatori.
Un volto bianco solcato da profonde occhiaie viola faceva da sfondo a occhi neri iniettati di sangue mentre i capelli, liberi e neri, aleggiavano intorno al suo capo spettrale.
Un fantasma.
Un demonio.
Non c’era bisogno di parole, anzi, nessuno sarebbe stato in grado di proferire verbo dinnanzi al terribile Ade, sovrano dell’Orco più nero.
“Se non avrò la mia bambina di nuovo al mio fianco saranno queste mani, queste stesse che vi hanno ferito, a distruggere l’intero cosmo…”, Demetra aveva sibilato quella parola tra i denti, mal celando odio e dolore ma troppa sicurezza vi era in quelle frasi pronunciate senza pudore dinnanzi all’ospite dei morti.
“Credete che possiate dolermi in alcun modo, sorella?” Ade le aveva scoccato uno sguardo di fuoco.
“IO SONO IL SOVRANO DEL REGNO CHE MINACCIATE DI AMPLIARE!”
Un urlo disumano era sgorgato fuori come bile nera dalla bocca del dio ctonio che, all’apice della furia, risultava avvinto in una nube nera e odorosa di zolfo.
“Demetra, ascoltate bene quanto sto per dirvi: Persefone è già mia, un rito è stato compiuto e lei mi è già fedele in uno modo che voi e quello lì che sede sullo scranno non potrete mai capire. Altre leggi governano l’Ade, le mie, e Persefone le ha accolte”.
“Non è vero, non è possib-“ Demetra, agitata era stata bloccata da un gesto secco della mano del dio che, nuovamente la riduceva al silenzio.
“Io non mento. Persefone vi raggiungerà presso i vostri altari domani stesso e da lì due mesi le saranno concessi per ponderare le sue scelte: allo scoccare di questi ella mi raggiungerà nell’Erebo e ne sarà incoronata regina, badate sorella, regina. Non concubina, non succube, non sottoposta. Ella sarà mia consorte, unica e degna consorte”.
“Ah, come se non fosse chiaro il vostro intento di strapparmela per pura vendetta verso me e nostro fratello. Non sono una sciocca Ade, voi vi circonderete di demoni lascive non appena me l’avrete portata via”, Demetra in principio ammorbidita dal vedere soddisfatta la richiesta di vedere nuovamente la figlia, aveva però assunto un’espressione cupa, come quella di chi sa come vanno realmente le cose.
“Sorella, io non sono Zeus”.
Con quelle parole, prima di perdere il controllo dinnanzi all’ennesima insinuazione, Ade aveva dato le spalle ai due dei al suo cospetto e, con passo marziale, aveva lasciato quei luoghi senza degnare più alcuno della propria attenzione.

Se solo fosse rimasto lì non sarebbe più stato responsabile delle proprie azioni.



---



 
 
Cosa avrebbe mai potuto fare da lì?
Non poteva venir meno ai suoi incarichi, non poteva abbandonare quei luoghi, semplicemente non poteva far nulla.
Lui era morto e come tale, non avrebbe mai potuto varcare le soglie della luminosa superficie.
Quelle riflessioni, di un’apoditticità schiacciante, lo annichilivano lasciandolo senza la possibilità di ribattere alla coscienza severa che abitava il suo animo.
L’unico segno di quello stato di malessere erano le sopracciglia aggrottate mentre il labro inferiore, di un mortifero colorito violaceo, veniva morso senza pietà.
Radamando per la prima volta in vita sua in morte sua, si sentiva impotente.
Lì, seduto sul bordo del letto grezzo, non faceva che osservare il camino spento dinnanzi a lui.
L’aveva spento quando, in preda all’ira, aveva sentito quella preghiera addolorata mentre sempre quella voce, unica capace di scaldargli qualcosa dentro, andava perdendosi in singhiozzi e lacrime.
Solo dopo parecchi minuti di quella rigidità imposta si era alzato di scatto: un’idea balzana sembrava avergli restituito coraggio.
Avrebbe chiesto ad Ade il permesso di lasciare l’Averno, anche solo per un poco.
Si, e se chiede il motivo di questo viaggio?
Sei capace di mentire al tuo signore, Radamanto?
 Scuotendo la testa con far didiniego, il giudice aveva portato una mano alla bocca per coprire un’espressione seria e contrita mentre i suoi occhi vagavano febbricitanti dai suoi piedi al camino spento e dal camino spento ai suoi piedi.
Lì, la folgorazione.


Era stato difficile scrivere quel messaggio ma, ancor di più, farlo giungere presso i sacri altari della dea. Ma, se l’illuminazione aveva fatto centro, ella lo avrebbe ricevuto di lì a poco.
Aveva riacceso il fuoco, in silenzio, l'animo troppo speranzoso per turbare quel momento con frasi stupide o sciocche riflessioni a mezza voce.
Se era vero che tutte le fiamme sacre del regno dei morti erano dono di Estia, allora a lei e a lei sola, sarebbe giunto ogni messaggio lasciato bruciare tra quelle lingue di fuoco. 
Questo almento sperava Radamando.
In linea teorica era un ragionamento inattaccabile.
Un biglietto, una lettera sarebbe stata lasciata lì ad ardere nel focolare della camera e, in quello scritto, il giudice avernale, a modo suo, aveva provato ad esprimere il proprio dispiacere.
 
Cara Estia
Divina Estia.
Non esistono parole adatte per descrivere il rammarico che avvelena il mio cuore.
Vi siete presentata al mio cospetto come la più assurda delle dee e io, giudice integerrimo, vi ho odiata, vi ho odiata così intensamente da riuscire a sentire la vita scorrere nel mio corpo morto  e freddo.
Vi ho odiata perché voi, nella vostra grandezza, avete sacrificato ad un dio egoista, quanto invece vi avrebbe reso veramente ciò che siete: dea materna e calorosa come un fuoco in inverno.
Vi ho odiata perché quelle cavigliere mi ricordano la vostra prigionia ma, con sommo dolore, riportano alla mente anche queste mie catene fatte di morte e zolfo che mi vincolano in questo regno.
Vi ho sentita pregare, divina, vi ho sentita urlare e piangere dal dolore e avrei voluto morire ho sofferto, ho sofferto come a noi trapassati non è dato di soffrire.
Il vostro fuoco mi arde dentro e per questo vi odio, vi odio perché da voi non potrò mai avere nulla di più che un caldo fuoco ardente nel mio alloggio vuoto; vi odio perché voi non avrete mai più che un tempio desolato.
Perdonate, se potete, le mie parole piene di astio e sdegno ma non a voi erano dirette, voi che siete buona, e in fondo non così sciocca come credevo.
Sono impotente dinnanzi alla distanza che ci separa. Mai potrò raggiungervi, mai potrò respirare l’aria fresca del bosco che si narra circondi il vostro tempio, mai…mai potrò più vedervi o tenervi tra le braccia mentre giacete svenuta.
Avrei dovuto capirlo prima: “un cuore morto ha bisogno di tempo per ritornare a funzionare umanamente”.
Mi dispiace.
Ma la verità è che non mi dispiace affatto avervi avuta nella mia vita  morte, anche se per poco.
Io non potrò aver mai nulla di oltre, lo sò, la mia esistenza è conclusa. 
Ma la vostra, sciocca Estia, ancora non è nemmeno cominciata.
Non sprecatela.
 

 ---



Avevano camminato in silenzio, lei, la dea, con le mani giunte sul grembo, l'altra, l'ancella, una pallida fiammella fluttuante.
Persefone non avrebbe saputo dire con che umore stesse procedendo verso quei luoghi abitati solo da un germoglio e da fiumi spettrali: una sorta di felicità angosciata le riempiva il petto come se l'emozione nutrita nel corpo fosse avvelenata da una sorta di cattivo presentimento.
Aveva deciso di percorrere il corridoio fatto di alberi adunchi e, sebbene l'idea di superarlo senza Ade le mettesse una certa agitazione, l'aveva percorso a passo svelto desiderosa di giungere il più presto possibile alla meta sperata.
E lì, l’aveva vista.
Lì aveva ringraziato il proprio presentimento.
Si vedeva chiaramente anche in lontananza: una figura minuta e dallo strano colorito verdognolo era inginocchiata al suolo e con mani artigliate graffiava il terreno brullo e da poco smosso.
Menta.
Aveva iniziato a correre, Persefone, la dea buona e amorevole, aveva iniziato a correre sorreggendo la veste verso l'alto in modo che non le desse impaccio alcuno nella corsa frenetica. Una rabbia nera le accecava lo sguardo mentre dall'abisso del suo stomaco iniziava ad affiorare un urlo animalesco.
"Cosa osi fare tu, demone?"
Per un solo istante la figura inginocchiata al suolo aveva smesso di muoversi come gelata da quella sorta di ammonimento ma, subito dopo, aveva ripreso a scavare con più foga alla ricerca di un qualcosa nascosto nel sottosuolo.
Il melograno.
Come fulminata da quella considerazione Persefone aveva aumentato il ritmo della corsa e per ritrovarsi alle spalle della succube folle.
"Fermati", con una spinta la dea aveva fatto leva sulle spalle di Menta che, trascinata dal vortice della pazzia, le si era voltata contro digrignando le zanne affilate.
"Tu, lurida sgualdrina di superficie, pensavi di potermelo sottrarre così?!" un gorgoglio simile ad una risata isterica aveva riempito l'aria.
"Ferma ho detto, o pagherai il fio delle tue azioni". Persefone, rigida come un soldato, la guardava come presa da forza spettrale: gli occhi, solitamente di un caldo color miele, erano invece vitrei, quasi senz'anima.
"Non sarete mai la regina di questi luoghi. Non lo permetterò mai", dando nuovamente le spalle alla dea, Menta aveva ripreso a scavare il sottosuolo ma le sue mani erano riuscite a smuovere solo poca terra perché Persefone, afferratala per i lunghi capelli serici incurante delle urla e delle mani della succube che ora le graffiavano le sue, l'aveva spinta con forza distante dal luogo in cui il prezioso melograno riposava.
"Non oserete".
"Pensate di fermarmi così, con uno strattone e una tirata di capelli? Non potete nulla contro di me, io sono una succube, figlia di questo regno d'ombra. Voi, invece siete solo una deuccia di superficie, inutile e goffa". Con quelle parole Menta era sgusciata via dalla presa della dea e con occhi iniettati di sangue la guardava con fare spiritato.
Aveva assunto le forme congeniali alla sua vera natura: due corna basse e attorcigliate facevano capolino dal capo ricoperto di serpi rossastre mentre dalla schiena, oltre alla coda verde di serpente, prendevano forma due ali di pipistrello.
"Voi non siete nulla in questo regno, puttanella" schernendo una Persefone completamente apatica e quasi assente, il demone le si era fatto incontro e con violenza l'aveva spinta verso la conca dei fiumi avernali.
"Vediamo se un bel bagnetto nel Flagetonte ti rinfresca l'animo", ridendo sguaiatamente aveva afferrato la dea che, mollemente, si era lasciata trascinare.
Stupita da quella remissività, la risata di Menta si era fatta più acuta mentre le mani, affusolate ma gelide, stringevano con forza il polso della dea.
"Qualsiasi cosa oserete farmi non rimarrà impunita". Persefone, con lo sguardo perso nel vuoto, si era lasciata condurre sulla sponda e, costretta in ginocchio, aveva mormorato quella sentenza di punizione.
"Non mi interessa se in cambio posso vedervi soffrire almeno un po’".
E con forza, la succube, afferrata la dea per i capelli, l'aveva spinta col capo dentro l'acqua.
 
 
Un singolo goccio di quelle acque e la dea avrebbe sofferto un dolore peggiore della morte.
 

 








 

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Mitologia greca / Vai alla pagina dell'autore: Avareil