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Autore: Adeia Di Elferas    18/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Rodrigo Borja aveva il suo bel da fare a cercare di non perdere le staffe. Sorrideva, ma sotto al tavolone di legno laccato d'oro, la sua mano si apriva e si chiudeva ritmicamente attorno alla stoffa dell'abito papale, mentre continuava a rassicurare il suo interlocutore.

Il quarantaduenne Ascanio Sforza, che dalla partenza del parente alla volta di Pesaro era teso ancor più dell'ambasciatore milanese in Vaticano, ascoltava le parole del papa, dette con un tono quasi allegro, ma più Sua Santità si sforzava di sembrare rilassato, più il Cardinale si faceva inquieto.

In tutta Roma non si parlava d'altro della fuga improvvisa di Lucrecia Borja, che si era rintanata in convento assieme a tutto il suo seguito. Certi dicevano che stesse scappando dal padre o dai fratelli, altri sostenevano che volesse farsi monaca, altri ancora avevano osato vociferare che stesse aspettando un contingente armato del marito, che l'avrebbe scortata fino alla dimora di Giovanni Sforza di nascosto da Alessandro VI.

“San Sisto – riprese Rodrigo, aggiungendo perfino una breve risata – è un luogo religioso e onestissimo e mia figlia ha preferito recarsi lì, sua mia personale indicazione, nell'attesa che il vostro parente si decida...”

Il Cardinale sollevò gli occhi scuri verso il pontefice e si sentì in dovere di chiedere: “Decidersi?”

“Sapete che il suo frettoloso rientro a Pesaro ha delle motivazioni molto gravi...” cominciò a dire il papa, scrutando l'altro con attenzione, al fine di capire quanto ne sapesse più di lui: “Dunque è chiaro che il vostro parente stia rivalutando la sua posizione in questa famiglia...”

Ascanio sentì la pancia ribollire, sintomo della paura che sempre quel genere di insinuazioni gli metteva addosso. Muovendosi a disagio sulla sedia, fece solo un breve cenno del capo e non si sbilanciò con commenti che avrebbero potuto essere pericolosi.

Dopo ancora qualche chiacchiera vuota del Borja, lo Sforza chiese il permesso di congedarsi e quando Rodrigo glielo concesse, per Ascanio fu un autentico sollievo poter lasciare il salone.

Rimasto solo, anche Alessandro VI si permise di tirare il fiato, facendo sparire all'istante il sorriso stupido che si era stampato in volto a beneficio di quell'intrigante del Cardinale Sforza.

Si tolse la papalina con un gesto secco e poi si mise a fissare il soffitto, assorto. Sua figlia gli aveva tirato un bel colpo basso. Poteva fare tutte le recite che voleva, ma nemmeno lui sapeva cosa avesse in mente di fare Lucrecia e la cosa lo atterriva.

Dopo un lungo momento di esitazione, Rodrigo andò a chiamare un servo e gli chiese di andare a cercare suo figlio Cesare.

Se Lucrecia era scappata a quel modo, significava per forza o che qualcuno le aveva fatto paura, o che qualcuno le aveva fatto facili promesse. Per come la vedeva lui, in entrambi i casi l'unico colpevole poteva essere solo uno.

 

“Come faceva nostra sorella a sapere che nostro padre ha mandato a Pesaro quella mummia di frate Mariano?” chiese Cesare, aggressivo, dando una piccola spinta alla spalla di Juan.

Questi, che si era appena svegliato, lo guardava frastornato: “Ma di che stai..?”

“Lo sapevamo solo noi e i segretari di nostro padre.” insistette il prelato, fissando in cagnesco il fratello, che affettava uno sbadiglio.

“E perché avrei dovuto dirglielo, secondo te?” fece Juan, grattandosi un po' la cicatrice sulla guancia e aggirando Cesare per raggiungere la sua cassapanca.

Di norma aveva qualche valletto ad aiutarlo e almeno un coppiere a versargli un po' di vino per sostenerlo nel risveglio, ma vista la presenta del fratello, il figlio prediletto del papa preferiva fare da sé, quella mattina.

Cesare stava per ribattere, già pronto anche a invogliare il fratello alla confessione usando le mani, quando qualcuno bussò alla porta.

Juan, visibilmente sollevato, esclamò subito: “Avanti!”

Ne entrò uno dei servi, che abbassando il capo, disse in fretta: “Sua Santità cerca voi, messer Borja.” e indicò con un gesto cerimonioso Cesare.

A quel punto, con un ultimo sguardo d'ira rivolto al fratello, il porporato seguì quello che l'aveva cercato soggiungendo in un sussurrò: “Sappi che non è finita qui.”

 

“Padre. Mi avete cercato?” iniziò Cesare, restando sulla porta anche quando venne chiusa alle sue spalle.

Rodrigo gli fece segno di avvicinarsi e poi, appena l'ebbe abbastanza vicino, si alzò dal suo scranno e lo afferrò repentinamente per il colletto dell'abito talare: “Ma che accidenti ti è saltato in mente, eh? Si può sapere che hai fatto o detto per convincere tua sorella a chiudersi in convento?!”

Il figlio del papa non disse nulla, limitandosi a guardarlo con fissità negli occhi fino a che, improvvisamente intimidito da quella sfrontatezza, Alessandro VI lo lasciò andare di scatto.

Rimettendosi a posto, Cesare si ritrasse di mezzo passo e disse, con una calma che sorprese molto il padre: “Non sono io ad aver convinto Lucrecia a scappare.”

“E allora chi è stato?!” sbottò il papa: “Ma ti rendi conto che tutti continuano a chiedermi che diamine ci fa mia figlia a San Sisto?! E tutti dicono che è lì contro il mio volere, che è fuggita a mia insaputa, che nemmeno io so che ci sta a fare là... E la cosa peggiore è che è così!”

Il giovane fu tentato di esporre i suoi dubbi circa Juan, ma sapeva che in quel modo si sarebbe giocato in un soffio tutta la possibile attenzione del padre, che lo avrebbe tacciato di essere il solito invidioso, senza nemmeno provare ad ascoltarne le ragioni.

“Non so chi sia stato, ma non è quello il problema grosso, adesso, non pensate?” chiese Cesare, allacciandosi le mani dietro la schiena e trovandosele incredibilmente ferme.

Quasi sorrise, nel pensare che fino a qualche mese prima, nell'affrontare a quel modo il padre, gli sarebbero tremate come foglie in autunno.

“Che intendi dire?” fece Rodrigo, stringendo gli occhi.

“Che non sappiamo se sia in patti con qualcuno per scappare anche dal convento. Se volete davvero scrollarvi di dosso Giovanni Sforza, vi consiglio di farla riportare subito qui, anche con la forza, se necessario.” si spiegò Cesare, sempre parlando con tranquillità, senza tradire l'agitazione che invece cominciava a salire.

Più di ogni altra cosa, voleva sua sorella libera da quell'inetto di Giovanni Sforza, e, secondariamente, la rivoleva lì, assieme a lui, non in un convento o chissà dove.

Il papa non commentò, ma da come inclinò di lato la testa, il figlio fu abbastanza certo che avesse tacitamente accettato il suo consiglio, benché non avesse intenzione di dargli la palese soddisfazione di un ringraziamento.

“E poi c'è quella storia della scomunica...” borbottò tra sé Rodrigo, che non aveva ancora ricevuto risposta da Savonarola.

Il domenicano gli aveva scritto per chiedere numi circa la scomunica spiccata contro di lui e il pontefice non aveva potuto far altro di rispondergli con domande e scuse, dicendo chiaramente che non ne sapeva nulla. Per pararsi un eventuale colpo, però, aveva anche aggiunto che, benché la firma fosse palesemente falsa, poteva essere che gli esperti di legge canonica avessero preso la decisione con cognizione di causa e dunque aspettava le risposte del frate ai suoi quesiti per valutare meglio la situazione.

“Avete intenzione di smentirla?” chiese Cesare, deglutendo con difficoltà, ma restando ben dritto con le spalle.

“E che altro dovrei fare? Non l'ho scritta io!” fece il padre, allargando le braccia e facendo traballare il doppio mento molle.

“Però avreste voluto farlo – disse il giovane Borja, approfittando di quell'esternazione per sferrare il suo assalto migliore – dunque perché non approfittarne? Non è forse il segreto della nostra famiglia, approfittare dei colpi di fortuna?”

“Ma non posso far passare per mio un documento scritto da un altro!” si alterò Alessandro VI, fissando il figlio con la solita espressione che lo corrucciava quando pensava di aver davanti un imbecille: “Chiunque sia stato, vedendo che io lascio correre, si sentirà libero di rifarlo di nuovo, magari con cose ancora più importanti e pericolose!”

“Quella scomunica l'ho fatta scrivere io.” disse allora Cesare, sostenendo lo sguardo di Rodrigo e vedendo il suo volto scalare dal rosso fino a un grigio temperato e poi riaccendersi come un piccolo fuoco.

Dopo quasi tre ore, durante le quali il figlio del papa elencò senza più reticenze i suoi pensieri e i suoi piani per il futuro, Sua Santità restò in quasi completo silenzio ad ascoltarlo, vedendolo per la prima volta con occhi completamente nuovi.

Quando Cesare lasciò il salotto privato del padre, Rodrigo si alzò dal suo scranno, le labbra stirate in una linea dritta, e andò alla finestra. Guardando le nuvole nere che si stendevano su Roma, pensò a suo figlio, a quello che aveva sempre sottovalutato, e si rese conto di non averlo mai conosciuto davvero.

Con un brivido difficile da decifrare che gli correva per la schiena, il papa accolse il primo lampo di quel temporale che annunciava finalmente l'estate come un segno.

 

Caterina continuava a tirare calci al corpo senza vita di Ludovico Marcobelli, mentre le luci sempre più accecanti della cella la facevano sudare come fosse stata piena estate.

Più lo colpiva, più la vista le si annebbiava e le membra le dolevano. Stava per mettersi a chiamare il suo nome, per indurlo a svegliarsi, perché doveva soffrire per ogni colpo, non poteva restarsene lì per terra, senza vita, senza più il tormento della carne, no, era troppo facile...

Però, appena aveva preso fiato per gridare il nome di Ludovico Marcobelli, la luce della cella si era acuita in un lampo e poi s'era spenta, lasciando il posto a una notte molto buia.

Tese l'orecchio e sentì il fresco suono della pioggia. Pioveva davvero forte e nell'aria c'era il profumo della primavera che si stava trasformando in estate.

Batté le palpebre molte volte, prima di riuscire a mettere a fuoco il cortile. Era quello della sua rocca, lo riconosceva benissimo...

E là, in mezzo, sotto lo scrosciare del temporale, c'era qualcuno.

Caterina non perse nemmeno tempo a cercare di mettere meglio a fuoco quello che aveva davanti.

Iniziò a correre subito, fino a raggiungerlo appena sotto gli archi. Lo seguì per un po', sperando che si voltasse verso di lei, che si accorgesse che lei era lì. Erano stati lontani per così tanto tempo...

Alla fine, prese il giovane uomo che le camminava davanti per un braccio e lo convinse a voltarsi.

Il viso di Giacomo, bagnato di pioggia, le apparve nitido come non mai. Le sorrideva e le stava dicendo qualcosa, ma lei non riusciva a sentirlo.

Mossa dal desiderio di assaporare di nuovo il suo calore, gli gettò le braccia al collo, sentendo di nuovo le sue spalle larghe e il suo fisico muscoloso contro di sé. Si beò per qualche istante della forza che il ragazzo metteva nel ricambiare la sua stretta e poi lo baciò, mentre il battere forte della pioggia le assordava ancora di più le orecchie.

Quando si allontanò da lui, però, tra le braccia non stringeva più l'amore della sua vita, ma un cadavere dal volto distrutto e dall'addome squarciato. Guardò in basso e oltre al sangue che scivolava in terra in piccole cascate, vide la gamba spezzata, con l'osso sporgente che riluceva alla luce dell'unica torcia a muro.

Lo lasciò cadere in terra, con un tonfo sordo, e poi si guardò le mani. Erano rosse di sangue.

Facendo un piccolo scatto, la Tigre si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi. Era prona, aveva il viso contro il cuscino ed era madida di sudore gelato. La vestaglia leggera che indossava le si era incollata alla pelle e perfino le lenzuola si erano inumidite.

Sentiva il braccio di Giovanni sulla schiena e, dopo che il suo cuore smise di battere a velocità folle, sollevò la testa e si voltò a guardarlo. Dormiva, respirando piano, come sempre.

Se il marito non si era svegliato, significava che almeno quella volta non si era messa a parlare e gridare nel sonno.

Con un sospiro spezzato, Caterina si mosse con attenzione, fino a mettersi supina e a fissare il soffitto, continuando a ripetersi che era stato solo un sogno, come sempre.

Richiudendo gli occhi e controllando il respiro, intrecciò lentamente le dita di una mano con quelle di Giovanni e cercò di assaporare il silenzio e il tepore della stanza.

Il silenzio, però, si rese conto presto, aveva qualcosa di strano. A parte il borbottare del camino e il respiro leggero del fiorentino, c'era qualcos'altro...

Aprendo la bocca in un'espressione di stupore, la Sforza si mise a sedere di scatto, con tanta rapidità da far svegliare anche il marito che, un po' confuso, aprì un occhio e chiese: “Hai avuto un incubo..?”

Ma la moglie non lo stava ascoltando. Era scesa dal letto a gran velocità ed era corsa alla finestra, spalancandola.

Il suono prorompente ed entusiasmante di un acquazzone entrò nella camera da letto, risvegliando del tutto anche il Medici, che, saltando subito accanto alla moglie, esclamò: “Per Dio, piove, Caterina... Finalmente!”

La Contessa fece un sorriso che per poco non si tramutò in un pianto di gioia e stanchezza e poi guardò il marito, mentre i primi lampi riempivano l'aria, seguiti a breve da tuoni fragorosi: “Se andrà avanti così anche solo fino a domani, a breve potremo riaprire le porte...”

Giovanni allora l'abbracciò, mentre il vento che portava l'odore della pioggia faceva entrare qualche spruzzo dalla finestra.

La Tigre, tra le braccia del Medici, si trovò di colpo a ripensare al sogno che aveva fatto prima di svegliarsi. Prima di ripiombare con troppa forza nel ricordo, allontanò appena il marito, con la pretesa di voler chiudere la finestra.

Il Popolano la lasciò fare, benché avesse capito che in quel gesto c'era qualcosa di strano. Si passò una mano tra i riccioli castani e si rese conto che era giunto il momento di farseli tagliare un po'.

Non appena le acque si fossero calmate e il Novacula avesse riaperto la barberia, sarebbe andato a farsi dare una spuntatina.

Una volta chiusi i vetri, Caterina tornò a guardarlo. Giovanni aveva addosso un camicione largo, un po' rovinato, che non metteva più di giorno, ma solo per riposare o dormire, e un paio di brachette di lana che arrivavano al ginocchio.

Senza poterlo evitare, gli occhi verdi della Leonessa corsero alle gambe del marito e, per quanto fossero disinfiammati, i piccoli tofi che aveva a livello delle articolazioni più basse le diedero una stretta al cuore.

“Quando le porte saranno riaperte – disse la donna, cercando di distrarre se stessa per prima – ci sarà moltissimo da fare...”

Il Medici, che aveva seguito lo sguardo della moglie e aveva capito cosa le aveva fatto cambiare improvvisamente espressione, tentò di seguire il suo esempio e rispose: “Sì, avremo un sacco di cose da fare... Quando pensi di iniziare i lavori a Bubano?”

Per rilanciare l'economia dopo il duro arresto che la peste aveva imposto, Caterina aveva pensato di ricostruire la rocca di Bubano, che era stata distrutta dai francesi, e di far anche edificare una nuova chiesa. A quel modo, oltre a dare lavoro a molta gente, avrebbe mosso il commercio, visto che dove c'era gente, c'era bisogno di cibo, vestiti e un sacco di altre cose. In più, con una chiesa e una rocca, avrebbe contribuito a ripopolare un paese che era diventato un cumulo di macerie.

Quando qualche giorno prima ne aveva parlato anche con il castellano, Cesare Feo era stato molto ottimista, guardando i conti della città. Anche se gran parte degli uomini dello Stato della Tigre erano nell'esercito, c'era anche una bella fetta di aspiranti manovali e di giovani senza occupazione, dunque di certo avrebbero trovato senza sforzo i lavoratori di cui avevano bisogno.

“Appena avremo stimato bene i danni qui in città – rispose la Sforza, andandosi a sedere sul letto e facendo segno a Giovanni di imitarla – e appena avrò saputo in che stato versa Imola. Se avessero già riaperto le porte, scriveresti a Simone per spiegargli cosa abbiamo intenzione di fare?”

“Certo.” assicurò il Medici, mettendosi accanto a lei, spalla contro spalla, un orecchio ancora teso a sentire il suono del temporale.

“Ce la stiamo cavando anche questa volta.” sussurrò Caterina, allungando una mano per sfiorargli la guancia.

“Cavarcela è la nostra specialità.” sorrise lui, fermando le dita della moglie sulla sua pelle coperta di barba e portandosele alle labbra per baciarle.

 

Suor Girolama Pichi strinse per un momento il crocifisso nel pugno e poi, con l'aria risoluta che l'aveva contraddistinta fin da bambina, si presentò al cospetto del bargello di Roma, i cui armati, rumorosi e rozzi come solo i soldatacci del papa sapevano essere, aspettavano appena fuori dal convento di San Sisto, turbando con le loro scurrili volgarità la pace e il candore di quel santo luogo.

Mentre camminava con passo sicuro verso l'uomo che la stava aspettando, la badessa ripercorreva tra sé tutte le possibili rimostranze che si era preparata. Lucrecia Borja era nel suo convento da una settimana scarsa, eppure alla donna sembravano già passati mesi.

La corte variopinta e confusionaria che la figlia del Santo Padre aveva portato aveva sconvolto le consorelle ed eccitato le novizie, tanto che, per mantenere un minimo di ordine, suor Girolama aveva dovuto destinare alla giovane Borja un'ala a parte del convento.

“Parliamoci chiaro, donna – cominciò il bargello, piantandosi i pugni sui fianchi e allargando le gambe – questo è un ordine del papa e voi siete una suora. Gli dovete obbedienza e quindi dovete ridargli la figlia, che vi piaccia o no.”

“Madonna Lucrecia ha chiesto la protezione di questo convento e io non posso negargliela.” disse subito la badessa, senza scomporsi.

“Badate, che faccio entrare i miei uomini nel convento e allora non so che ne sarà delle vostre consorelle!” minacciò il bargello, sfiorando l'elsa della spada che aveva al fianco.

Suor Girolama storse un po' il naso al puzzo di vino che usciva dalla bocca mezza sdentata del soldato e ribadì: “Ogni cristiano ha il diritto di cercare rifugio in un convento e sta al buon Dio dare protezione si suoi figli. Se vorrete usare violenza a questo sacro luogo, fate pure. Parlerete con Dio una volta spirato e allora potrete mettere avanti come scusa tutti gli ordini papali che volete.”

Il bargello stava perdendo la pazienza, ma, più cercava di intimidire la badessa, più questa si faceva ferrea nelle sue posizioni.

A un certo punto, le due suore che stavano accanto alla porta chiusa, a mo' di guardiane, sentirono la voce dell'uomo alzarsi e inveire in modo molto irrispettoso, ma, senza sorprendersene, poco dopo sentirono la loro superiora ribattere con altrettanta violenza e molta più sagacia.

Dopo quel breve scambio di colorite opinioni, le voci erano tornate basse e serrate e le due suore non avevano più potuto intendere cosa i due si stessero dicendo.

Alla fine, a sera quasi fatta, il bargello uscì dall'ufficio della badessa con le spalle incassate e il volto scuro, mentre Suor Girolama Pichi si presentò alle consorelle tranquilla e impassibile come sempre.

“Andiamocene da qui!” gracchiò l'uomo per richiamare i suoi, quando fu oltre il portone del convento: “Rientriamo!”

I soldati, che nell'attesa avevano cominciato ad annoiarsi, ma che erano comunque restati abbastanza calmi, pregustando la prospettiva di fare irruzione in un convento pieno di giovani donne, non ubbidirono subito all'ordine.

Il bargello, già adirato all'inverosimile, montò a cavallo e sbraitò: “Andiamocene! Chi non si mette in marcia, avrà una mano tagliata di netto prima di notte!”

E con quel pacato invito, il soldato convinse i suoi uomini a lasciare il convento senza averne nemmeno varcata la porta.

 

“Riapriremo presto le porte?” chiese Bianca, prendendo ancora una fetta di pane dal vassoio.

Stava piovendo da due giorni, ormai, e in città non si erano più registrati nuovi casi di peste.

Quell'improvvisa umidità aveva precipitato i malati in bilico, soprattutto i più anziani e i più giovani, ma in compenso aveva permesso a quelli più in forze di godere di una temperatura più mite e di affrontare il morbo con tutt'altro spirito, fino a guarirne.

“Sì.” confermò Caterina, che le stava seduta accanto: “Ancora qualche giorno, per sicurezza, e appena non avremo più nuovi appestati, riapriremo le porte.”

La ragazzina fece un sospiro di sollievo e mangiò con più foga del solito il pane, intingendolo anche nel vino, per insaporirlo.

La tavola della colazione era deserta, a parte la Contessa e sua figlia. Era molto presto e forse per quello ancora nessuno si era presentato a mangiare.

La Tigre sentiva lo stomaco stretto, perché più pensava a quello che sarebbe accaduto una volta riaperte le porte, più si lasciava prendere da un misto di frenesia e paura.

La peste, paradossalmente, le aveva dato un momento di pausa dai problemi dello Stato. Anche se l'aveva messa a dura prova, le aveva permesso di non perdere la testa dietro a strategie militari e sofismi diplomatici.

Aveva anche voglia e timore di sapere se fuori da Forlì le persone che per lei contavano qualcosa stessero bene. Il suo pensiero ormai andava spesso a suo fratello Piero, suo cognato Tommaso, Gian Piero Landriani e anche Simone Ridolfi. Se anche solo uno di loro fosse morto di peste, la Leonessa non sapeva come avrebbe reagito.

Quando stava per lasciare la tavola, Caterina vide sulla porta Giovanni. Non era sceso subito assieme a lei perché prima aveva voluto scrivere la lettera destinata a suo cugino a Imola.

“O lo faccio adesso – aveva detto, appena sveglio – o poi ho paura di non ricordarmi tutto.”

Dal tono che aveva usato, però, la moglie aveva avuto il sospetto che non avesse in mente solo la lettera per Simone, ma anche una per il fratello.

Dalla notte in cui aveva cominciato a piovere e si era parlato di riaprire le porte, infatti, il fiorentino si faceva di quando in quando pensieroso e, apparentemente per caso, si era messo a nominare Firenze più spesso del solito.

“Buongiorno...” fece Giovanni, rivolgendosi a Bianca, mentre si sedeva accanto a Caterina.

La ragazzina ricambiò il saluto e andò avanti a mangiare, mentre la Contessa sorrideva al Medici che, senza pensarci, le ridiede il buongiorno con un piccolo bacio sulle labbra.

La figlia della Tigre fece del suo meglio per far credere di non aver visto nulla, ma il rossore sulle sue guance lasciava intendere l'esatto contrario.

“Per quando riapriremo le porte, avrei un messaggio da mandare a Firenze...” fece il Popolano, confermando subito il dubbio che aveva avuto la moglie quella mattina: “Per caso sai indicarmi una staffetta affidabile? Adesso che i segretari che vivevano in città hanno lasciato Forlì per scappare dalla peste, non so a chi rivolgermi...”

La Leonessa annuì e, prendendo un pezzetto di carne salata, tanto per non restare con le mani in mano, assicurò: “Ho una staffetta veloce e affidabile. Deve consegnare a Firenze anche una lettera mia, quindi, quando vuoi, dammi pure anche il tuo messaggio, così li facciamo partire insieme.”

Bianca, alla destra della madre, si concentrava sempre di più sulla sua colazione, ma notò ugualmente un velo di sorpresa nella voce del Medici: “A chi scrivi, a Firenze?”

Caterina, che in realtà aveva voglia di dirglielo, perché non voleva avere misteri per suo marito, si pentì di essersi lasciata scappare quell'informazione.

Lanciò uno sguardo alla figlia, che capendo l'antifona, si sbrigò a buttar giù quel che restava della sua improvvisata zuppa di pane e vino caldo speziato, e si alzò, facendo una riverenza alla madre e all'ambasciatore: “Con permesso...” disse e se ne andò a passo svelto.

“Ho scritto una lettera a Savonarola.” confessò la Contessa, senza guardare il marito e mettendosi a masticare la carne.

“E per dirgli cosa?” domandò Giovanni, accigliandosi.

“Voglio chiedergli un parere spirituale, tutto qui.” rispose la donna, alzando le spalle.

“Proprio a Savonarola?” fece il marito, riappoggiando nel vassoio il pezzo di pane che aveva appena preso.

“In questo modo – disse la Sforza, deglutendo quello che stava mangiando – capirò anche come ragiona. Potrebbe tornarci utile.”

A quelle parole, il Medici si passò una mano sulla fronte e poi si massaggiò un momento gli occhi stanchi, prima di scuotere piano il capo: “Lo sai che cosa ha fatto alla mia città.”

“Si tratta solo di una lettera.” si difese lei: “E potrebbe anche tornarci utile, cercare un contatto con lui. In fondo, ai suoi occhi, io non sono una Medici.”

“Lo sei, invece. Ormai lo sei.” sussurrò l'uomo, azzardandosi a guardarla, ma con un'espressione un po' timorosa: “Dovresti provare a pensare come una Medici, adesso. Siamo sposati. Fai parte della mia famiglia, come io faccio parte della tua.”

Caterina si morse il labbro e sospirò: “Non cambio idea. Voglio mandargli questa lettera e lo farò.”

Giovanni sollevò le mani, in segno di resa e poi, siccome sulla porta della sala si stavano profilando Ottaviano e Galeazzo, chiuse in fretta il discorso con un: “Forse hai ragione tu. Però mi piacerebbe sapere se in questa lettera parli anche di politica.”

“Parlo solo di questioni dell'anima.” ribatté velocemente la donna, prima che i figli fossero troppo vicini per sentirla.

“Sono cose di cui potresti parlare con me...” provò a proporre il fiorentino, ma ormai Ottaviano e Galeazzo erano arrivati al tavolo e Caterina ne approfittò per alzarsi.

“Ci vediamo più tardi.” si congedò dal marito e poi fece un abbozzo di saluto anche verso i figli, che ricambiarono – Ottaviano con più secchezza di Galeazzo – con un cenno del capo.

Rimasto solo con due dei figli della moglie, Giovanni cominciò a sbocconcellare qualcosa, mentre i due parlottavano tra loro.

Seguì il loro discorso per un po', ma quando capì che si trattava solo di una lunga dissertazione di Galeazzo sulle meraviglie dei cannoni ferraresi e di una serie di domande fin troppo stupide di Ottaviano, il fiorentino si isolò nei suoi pensieri.

Capiva che Caterina era in un momento difficile. La vedeva spesso distratta, a tratti spaventata, anche se lei non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce. Era chiaro che i ricordi del passato e le ansie per il futuro la stavano tormentando e Giovanni avrebbe voluto poter fare di più, per rasserenarla.

E invece si stava rendendo conto sempre di più che l'incertezza della sua salute, che pendeva su di lui come una spada di Damocle, altro non faceva se non metterla ancor più in difficoltà.

E poi... E poi c'era sempre vivo il fantasma di Giacomo.

Il Medici sospirò a fondo, mentre Ottaviano e Galeazzo ancora si concentravano sulle bocche da fuoco che uscivano dalle fucine estensi.

Anche la notte in cui era scoppiato il temporale, un paio di giorni addietro, dopo essersi presi qualche momento per pensare ai risvolti positivi di quell'acquazzone, lui e Caterina si erano amati, ma, a un certo punto, la donna gli era parsa lontana, come se in realtà non fosse lì con lui, ma da qualche altra parte e con qualcun altro.

Come se anche lei si fosse accorta di quell'assenza, aveva aperto gli occhi, cercando lo sguardo del marito e poi si era stesa su di lui, placando per un attimo la furia con cui lo stava facendo suo, e abbracciandolo con quello che a Giovanni era parso smarrimento.

Spaventato lui per primo da quell'atteggiamento della moglie, aveva provato a riprendere in mano le redini e con delicatezza l'aveva fatta scivolare sul fianco e poi sulla schiena, mettendosi sopra di lei.

Per fortuna quel movimento aveva avuto il potere di rassicurare, almeno all'apparenza, la donna che da quel momento in poi, era tornata presente a se stessa e aveva ritrovato la sua consueta sicurezza.

Tuttavia, quando poi erano rimasti l'uno tra braccia dell'altro ad aspettare l'alba, il Popolano aveva continuato a ripensare a quel fugace momento e nulla gli aveva tolto di mente l'idea che Caterina avesse fatto a quel modo perché si era accorta di star pensando a Giacomo e non a lui.

Sentendo un gusto amaro in bocca, il Medici lasciò a metà il pane che stava mangiando e lasciò la tavola della colazione, dicendo a Ottaviano e Galeazzo: “Vi auguro una buona giornata.”

Contravvenendo ai consigli della moglie, che lo voleva alla rocca ancora per qualche giorno, almeno fino a quando non fossero state riaperte le porte della città, il fiorentino andò a prendersi un mantello con cappuccio, per far fronte alle pioggia, e uscì da Ravaldino per andare a cercarla per le strade di Forlì.

Voleva starle vicino, qualsiasi cosa stesse facendo. Ci fosse anche stato da mettersi a seppellire dei morti di peste, lui l'avrebbe fatto, pur di starle accanto.

Appena passato il ponte levatoio, si trovò a dover aggirare l'enorme statua bronzea che raffigurava Giacomo Feo. Sollevò lo sguardo verso il viso scuro che la pioggia stava rendendo traslucido.

Si ricalcò il cappuccio sulla fronte e poi, stringendosi un po' nelle spalle, andò senza altri indugi verso il centro della città, in cerca della Leonessa di Romagna.

 
   
 
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