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Autore: Diana LaFenice    21/11/2017    0 recensioni
Al tempo in cui il Medioevo si scambia di posto col Rinascimento, Agostino è soltanto un bambino quando la sua vita cambia per sempre e, con la sua famiglia, si trasferisce a Sirmione per sfuggire alle malelingue sul suo aspetto: a causa di un forte shock parte dei suoi capelli sono diventati bianchi.
Il suo peregrinare finirà quando lo zio lo accoglierà presso di sè a Castel Toblino, ove troverà impiego come giardiniere. Il suo intento, infatti, è quello di ricreare il Giardino dell'Eden proprio lì, nel parco del castello. Ma non sarà facile.
L'amore per i fiori e la natura, che condividerà con molte persone, intrighi, superstizioni, maledizioni, una creatura misteriosa la cui voce angelica che risuona nelle notti della bella stagione, e pericoli di varia natura, fanno da cornice alla vita del giovane giardiniere, all'incredibile storia che vivrà e a una leggenda quasi dimenticata il cui unico ricordo è ormai la spilla su cui aleggia: quella di un giovane amore sbocciato sulle sponde di un lago minacciato dai pericoli del suo tempo e l'espiazione di un cavaliere.
Questa è la Leggenda delle Stelle d'Acqua.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 5: Primavera per davvero

L
e parole di Montino ronzarono ancora per molto tempo nella testa di Agostino. A tal punto che fece un sogno dove si vedeva cavaliere e salvava un re, stranamente simile al padre, dalle grinfie di un diavolo. E poi sognò la mamma correre divertita per un bellissimo giardino fiorito. Al risveglio, mentre puliva la casa, si era interrogato a lungo sul significato di quel sogno. Ma solo due settimane dopo era riuscito a capire. Si era consultato dapprima con Montino, ma non aveva ricavato granché. Poi con il dottore, che aveva prescritto al genitore un intruglio per calmarne gli umori. Intruglio che Guido si era categoricamente rifiutato di ingoiare. E poi con il sacerdote. Il quale gli aveva cavato qualche salmo e versetto della Bibbia e un rimprovero per suo padre per aver trascurato la messa. Secondo lui il Signore era adirato perché Guido anteponeva il proprio dolore all’amore per Dio. Questo spaventò il dodicenne, che si affrettò a recitare quante più corone di rosari possibili per scongiurare ogni possibile calamità. Non voleva che per questo Gesù additasse suo padre come un peccatore di superbia e lo condannasse all’Inferno. Per i primi tempi parve funzionare perché a volte Guido si alzava dal letto, si lavava, indossava abiti puliti, andava dal barbiere a rasarsi e andava fischiettando al lavoro. Ma questo stato durava per circa una settimana o due, perciò non c’era da fidarsi di questi moti d’allegria. Il genitore si accorse anche della nuova abitudine del figlio di pregare. E cominciò a prenderlo scherzosamente in giro. «Ma che ci vai a fare in chiesa a pregare continuamente? Ma che peccati credi di avere? Guarda che Dio non è mica un tintore, non ti ridarà mai il colore di prima». Era in quei momenti che Agostino era più felice perché gli pareva che il genitore fosse tornato da lui. Ma gli bastava aprire la cassapanca dove teneva i propri vestiti con quelli della defunta moglie per ripiombare nella depressione. Allora non era difficile vederlo in ginocchio, le spalle scosse dal pianto, e un vecchio abito che sapeva ancora un po’di lei, stretto al petto. E allora le speranze del giovane si frantumavano in una nuova sequela di suppliche. In un certo senso era come se fosse a lutto due volte. Il sacerdote avrebbe detto che l’influenza del Maligno era forte in lui. Ma Agostino non vedeva alcun Maligno. Al suo posto vedeva soltanto un uomo distrutto dal dolore che cercava con fatica di rimettersi in piedi. E allora il letto lo attirava di nuovo a sé. Ma verso maggio, all’ennesimo padre nostro e ave Maria, cominciò a sentirsi cretino. Suo padre era lì a marcire in un letto e le preghiere non avrebbero certo giovato a tirarlo fuori. Inoltre gli aveva detto che sarebbe andato al mercato. Non a perdere la sua giornata in chiesa. Provò un segreto moto di dispiacere per il Padre Eterno - se lo sentiva allora sì che sarebbero stati guai - ma non era così che avrebbe salvato il genitore. Avrebbe dovuto trovare un altro modo.
In quel momento gli venne fame, perciò si cucinò qualcosa da mangiare. Fortuna che aveva fatto la spesa poco tempo fa. Ma i soldi stavano finendo. Se suo padre non avesse ripreso presto a lavorare avrebbero potuto campare e permettersi la casa ancora per poco. Certo, anche lui era alle dipendenze di Montino, ma chi gli garantiva che suo padre non avesse tentato il suicidio se si fosse allontanato troppo? Già era lontanissimo da lui, come se in qualche modo stesse cercando di raggiungere l’adorata moglie ma al tempo stesso non volesse ancora distaccarsi dalla vita. Al pensiero gli si riempirono gli occhi di lacrime.
E fu allora che, ripensando a quel sogno che non aveva ancora dimenticato, che gli venne un’idea. Finora si era concentrato solo sulla parte mistico religiosa. Ma la mamma che correva divertita per il giardino fiorito? E se la soluzione fosse stata proprio quella? Lanciò un’occhiata fuori della finestra al piccolo appezzamento di terra che faceva loro da giardino. Era ridotto davvero male da quando l’avevano abbandonato a se stesso. Inutile girarci intorno, stava rapidamente andando in malora.
Ma la visuale dalla tavola da pranzo non era delle migliori. Perciò si alzò e raggiunse il davanzale e lo vide in tutta la non curanza in cui era caduto. E fu lì che vide la figura sempre più trasparente e piangente della mamma, che gli indicò il giardino, come a domandargli: «Perché?» Il dodicenne sgranò gli occhi: «Mamma! Aspetta, non…» Disse tendendo il braccio verso di lei come a fermarla. Poi si accorse che lì non c’era nessuno. E, battendo le palpebre, si ritrovò a guardare il giardino incolto.
Finora si era concentrato su quello che c’era da fare, ma non su quello che avrebbero voluto i suoi genitori. Dopotutto l’amore per i giardini e la cura delle piante era il filo conduttore che univa lui alla sua famiglia. Ma sarebbe stato saggio ripercorrerlo? Si domandò mentre tornava a sedersi alla tavola. Voglio dire, avrebbe potuto ridestare altri ricordi talmente belli da procurargli ancora più dolore di quello che già provava. Ma la mamma non avrebbe mai voluto vederli ridotti a quel modo. Però non poteva chiedere questo a suo padre. Non era il momento. Avrebbe dovuto pensarci da sé, così gli avrebbe fatto una sorpresa. Non c’era altra scelta. Si sarebbe preso cura lui del giardino. Animato da questa speranza si mise al lavoro quello stesso pomeriggio appena finito di mangiare. Lo ripulì dalle foglie secche e dalle erbacce e, frugando in magazzino prese un sacco di semi che seminò e piantò nuove piantine che sarebbero dovute sbocciare a metà giugno. Inoltre prese delle talee rimaste dal lavoro e le piantò nel loro piccolo appezzamento. Comprò anche dei gerani che mise nei vasi appesi ai davanzali delle finestre e dei bellissimi convolvoli viola e bianchi.
Nei primi due mesi estivi che passarono, Agostino ce la mise tutta per salvare il giardino. Ma non ci fu niente da fare. Il giardino opponeva una fiera resistenza e lui non aveva tutte le conoscenze necessarie per domare quel selvatico appezzamento di terra. In breve tempo la gramigna e altre erbacce erano proliferate senza che lui se ne fosse accorto. Ed erano diventate talmente alte da sommergere e uccidere le altre piantine che aveva piantato e seminato e tentato di curare fino ad allora.
Quel giorno a fine luglio, stava lavorando cercando di fugare il sogno dove la mamma gli indicava il giardino e scuoteva il capo mestamente prima di sparire. Significava che non era riuscito nel suo intento. Era quasi agosto e lui non era riuscito a curare il giardino come facevano suo padre e sua madre. Vedendo quel piccolissimo appezzamento di terra ridotto a quel modo dalle sue mani inesperte, si sentì un incapace. Eppure nelle coltivazioni di Montino quelle stesse mani compivano miracoli. Perché lì no?
Il ragazzino, stanco e disperato, cadde in ginocchio e scoppiò in un pianto, disperato. Stava ancora piangendo quando proprio allora sentì una profonda voce roca alle sue spalle: «Che sta succedendo?» Il bambino sobbalzò e si volse stupefatto verso chi aveva parlato. Era suo padre, incorniciato sulla soglia di casa che lo guardava preoccupato. «Perché piangi?» Gli domandò l’uomo coi vestiti stropicciati. Curiosamente quel giorno indossava gli abiti da lavoro, invece che la solita camicia da notte. Il ragazzino gli si gettò addosso facendolo vacillare per lo slancio. Se Guido non si fosse retto alla porta con la mano sarebbero certamente caduti. Il bambino, che ormai gli arrivava al petto, frignò scuse su scuse. «Il giardino della mamma. Non…Io…Non sono riuscito a…Mi dispiace».
L’uomo ritrovò un po’d’equilibrio e sorrise intenerito. Poi lo strinse a sé. «Non è così che si cura un giardino. Non ti preoccupare, è tutto a posto. È tutto a posto. Ti insegnerò io a prenderti cura delle piante. Eh? Che ne dici? Riprenderemo le lezioni. Così la mamma ti guarderà e sorriderà da lassù.» Gli promise. Il bambino - perché per Guido era ancora un bambino - alzò il viso lacrimoso su di lui e tirò su col naso. «Davvero?»
«Certo. Però non sarà mai felice se continuerai a piangere. Su, pulisciti la faccia, mangiamo qualcosa e mettiamoci al lavoro».
«Va bene!» Esclamò il bambino, animato da una nuova luce di speranza, incredulità e felicità. E di lì, piano piano, il padre parve tornare alla vita. Era come se le lacrime di Agostino avessero smosso qualcosa dentro di lui e gli avessero dato la forza di lottare. Nonché una nuova ragione per sopravvivere. O meglio, vivere. Se prima viveva solo per le piante e la sua famiglia, adesso più di ogni altra cosa, viveva per Agostino. Come se le parole di Montino avessero alla fine fatto effetto. Mantenne la promessa e non si lasciò mai più andare a quella depressione così nera. Certo, soffriva ancora per la perdita della moglie. Ma lei non avrebbe mai voluto vederlo così triste. Nel giro di un anno l’ormai tredicenne Agostino, fu in grado di affiancare pienamente il genitore nel suo lavoro. Anzi, si poteva quasi dire che l’avesse superato. Ma né Montino né Guido glielo dissero mai per evitare di farlo inorgoglire troppo. L’unico che ebbe un po’di coraggio per farlo inorgoglire fu il prete che gli chiese di curare lui i fiori della chiesa. Che li coltivava direttamente nel campetto adiacente alla struttura. Per questo se ne poté occupare tranquillamente Agostino. Meglio i fiori che pensare a quello che il genitore avrebbe potuto fare in compagnia di quelle donne. Ovviamente era cresciuto e con l’età stavano cominciando a sopraggiungere anche le fantasie e le voglie legate all’adolescenza. Ed era bene distrarsi un po’ a questo modo. Ma guai a parlarne con il sacerdote. Non pensava che fosse la persona più adatta per parlarne. Perciò con lui si limitava a parlare di piante e del tempo e raccogliere qualche pettegolezzo sul paese. Ovviamente aveva ricominciato a uscire con gli amici. Perciò non era raro vederlo a giro nei giorni in cui non lavorava o nei momenti di pausa.
Ovviamente Montino si era accorto delle signore che ronzavano attorno all'amico. Spesso e volentieri lo punzecchiava e lo incoraggiava a lasciarsi andare. Ma per quanto riguardava il prendere moglie, questo era un argomento ancora troppo spinoso. Era stato Montino a sollevarlo, un giorno che i tre stavano cenando insieme a casa dell’amico. In quell’anno Montino era dimagrito. Aveva perso peso. Quasi che anche lui avesse subito un lutto. In realtà si era preso una febbre estiva. Niente di grave. Era che Montino non aveva mai sopportato il clima del lago. E non per la prima volta, Agostino si ritrovò a pensare che Montino fosse una persona tutta strana. Ma se non altro, suo padre pareva dare lievi segni di miglioramento. E di questo anche l’amico pareva esserne felice.
Padre e figlio erano talmente felici che commisero lo sbaglio di insegnare l’arte di curare le piante ai loro nuovi compaesani. E alcune gentildame formularono addirittura qualche pensiero su di lui. Ma solo le più audaci ebbero il coraggio di avvicinarsi al giardiniere e osare parlarci, per rispetto del suo lutto. Ovviamente la voce si era sparsa in quei due anni. Ma anche se erano attratte dal padre di Agostino, avrebbero atteso pazientemente il periodo di lutto. Non furono dello stesso avviso alcuni genitori di costoro che proposero al vedovo la loro figlia in seconde nozze. Invece, le popolane di ceto medio basso erano le più audaci e si mossero esse stesse verso di lui. E anche se Guido era visibilmente turbato e colpito dall’audacia di quelle dame, ringraziò sempre con un sorriso e una cortesia che lo resero non troppo dissimile da quei cavalieri dei poemi cortesi dei trovatori della sua terra.
Un giorno, mentre lavoravano ai campi di Montino, Agostino si mise a canticchiare quelle strofe che aveva sentito pochi anni prima in riva al lago, nel tentativo di ricostruirle.
«Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Non le trovo, dimmi dove le ho lasciate.
Se le hai viste dimmelo, che sono in ritardo.
Non posso andare a piedi nudi, mi vergogno troppo».

Era un gioco che aveva cominciato a fare da poco. Ovviamente col tempo l’amore per le piante non era certo diminuito, nonostante la fatica. Adesso anche le sue mani erano piene di calli e vesciche per il lavoro. Alla fine si era ricreduto, non c’era niente di divertente nello zappare o arare un campo. Solo molta fatica. E dire che pensava di essere allenato, con tutte le piante che aveva aiutato a piantare nel corso degli anni. Non avrebbe potuto sbagliarsi più di così.
In quel momento Guido gemette di dolore e Agostino si volse e vide il genitore succhiarsi il dito. Si era tagliato con la falce. «Tutto bene, papà?»
«Sì, tranquillo».
«Ti sei fatto male?»
«E’ solo un taglietto, passerà. Con un po’di saliva passa tutto.» Lo rassicurò l’uomo succhiando e spuntando il sangue.
«Vallo a cauterizzare, papà».
«Sì, sì, ora ci vado. Ci pensi tu alle rose e ai gigli, Agostino?»
«Sì, ma tu vacci».
«Ricordi quello che ti ho insegnato su come si curano?»
«Sì, sì, mi ricordo.» Rispose il ragazzino roteando gli occhi di nascosto dal genitore.
«Allora vado».
«Vai».
Così si era occupato da solo delle piante. Si deterse il sudore dalla fronte e piantò le nuove talee canticchiando tra sé e sè. Ma ci rinunciò non solo perché aveva una pessima intonazione, ma non riusciva a coordinarsi con i movimenti. Fortuna che lavoravano sempre nelle ore più fresche, altrimenti avrebbero cotto se stessi e le piante.
Quell’estate Montino dette segno di sentirsi male. Ma fu a settembre che Guido lo sostituì come malato nel letto. Si era buscato un malanno che, col passare dei mesi non fece che peggiorare. Così, a causa di ciò, pochissime irriducibili restarono al suo capezzale a vegliarlo.
E poi, neanche loro quando, nel giro di un mese cominciò a tossire sangue e si rese necessario un ulteriore intervento del dottore. Per Agostino fu in incubo ancora peggiore, perché adesso che cominciava ad essere grandicello, poté assaporare la gravità della situazione con rinnovata mestizia e nuova consapevolezza.
Infatti quel malanno non era casuale. Suo padre si era beccato un’infezione disinfettando male una ferita che si era procurato un giorno al lavoro. Il ragazzino la ricollegò immediatamente a quel giorno in cui aveva cantato. Quando Agostino l’aveva saputo, mentre l’aiutava a lavarsi, quei pochi bagni mensili, lo aveva guardato malissimo. Il genitore si era scusato dicendo che gli era successo tante volte di farsi un taglietto. Ma che non avrebbe mai pensato che la sua morte sarebbe giunta per mano di un taglietto. «Non dire così, papà».
Il genitore mollava un colpo di tosse, poi girava la testa verso il figlio e con una mano gli tirava una guancia dicendogli: «Tranquillo, sto scherzando. Certo che non ho intenzione di andarmene così rapidamente, mica posso lasciarti così da solo.» Ed era così sincero e sorridente che Agostino ci credeva sempre. Anche se Guido aveva quarantaquattro anni non era ancora così vecchio. Nonostante presentisse già i segni dell’età.
Montino si recò spesso a far visita all’amico. Come un padre che visita il capezzale del proprio figlioletto malato.
«Non dovresti essere qui.» Lo rimbrottava l’amico allettato. Ma il suo rimprovero era talmente debole, e lui era talmente malato, che più che un rimprovero pareva un delirio. Infatti, spesso, a causa delle febbri, delirava. Neanche le cure allora conosciute sembravano bastare a curarlo.
«Ma ci sono».
«Lo so».
«Cos’hai, amico mio?» Chiese Guido scrutando il volto triste e smunto dell’amico. «E’ vero che deliro ma non che sono cieco.» Ci tenne a sottolineare prima che l’altro potesse dire altro.
«E’che mi sto chiedendo se ti riprenderai».
«La porta è chiusa?» Montino si volse a guardarla e poi annuì.
«Da un’altra mandata che non mi fido.» Fece Guido. E l’amico eseguì. Non era sciocco. Infatti Agostino era al di là della porta con un bicchiere incollato alle assi di legno per origliare meglio.
«Bene, non voglio che qualcuno ci senta».
«E chi vuoi che ti senta? Siamo praticamente barricati in questa stanza.» Scherzò amaro l’altro. Poi tacque e anche Guido non disse più niente. Forse si era addormentato. Eppure Agostino ebbe l’impressione che il genitore si stesse riferendo a lui e qualcosa gli disse che anche Montino l’aveva capito. Si domandò se sapessero che era lì fuori. Ma non ebbe occasione di sentire nient’altro perché le due volpi parlarono a bassa voce. Soffocò un’imprecazione e si diresse dabbasso. Non seppe mai che cosa si fossero detti i due uomini. Né Guido nei suoi deliri ne fece parola, e neanche Montino.
Pochi mesi dopo, nel cuore dell’inverno, Guido fece venire il notaio a casa propria. Mandò proprio Agostino a cercarlo. E fu allora che Agostino capì che il genitore aveva compreso che non avrebbe superato l’inverno. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Perché, Signore? Perché?» Domandò mandando giù numerosi improperi diretti all’Altissimo, mentre avvolgendosi nel mantello e nella giacca pesante si recò dal notaio.
Quando lo raggiunse al suo studio e lo pregò di recarsi a casa propria l’uomo obbedì, incuriosito. Era forse uno dei pochi di Sirmione e dintorni a non aver mai conosciuto i Monselice. Ma aveva sentito parlare della loro abilità nella cura dei giardini. «Una mia nuora si è fatta curare le piante da voi».
«Quale, signore? Quella con gli agavi in giardino?»
«Proprio lei. Non pensavo che te la ricordassi.» Fece ammirato l’uomo mentre lo seguiva. La cartella con gli attrezzi del mestiere sotto braccio. In realtà Agostino non se la ricordava neanche. E a Sirmione non era sicuramente l’unica ad avere gli agavi in giardino. A dirla tutta aveva tirato a indovinare.
Poi non si dissero più niente, anche se Agostino avrebbe voluto. Lo accompagnò fino alla camera del genitore, che aveva finito di mangiare da poco e ora stava seduto appoggiato ai numerosi cuscini. La luce della candela ne illuminava i tratti scarni. L’infezione lo aveva ridotto davvero male. Agostino lasciò solo i due uomini. Ciò che restò della sua vita, l’uomo lo passò tra il dottore, che cercò di fare quanto era in suo potere per salvarlo, e il notaio, che redasse il suo testamento.
Tempo dopo anche il padre passò a miglior vita.
Quel giorno era Natale. E Agostino pianse come non ebbe mai pianto in vita propria. Adesso era davvero solo.
Sulle prime lo odiò per averlo lasciato da solo. E a niente valsero le parole di conforto che ricevette. La verità era che era solo. E stavolta per davvero. Avrebbe voluto persino gridarlo in faccia al prete che fece una bellissima omelia per il defunto. Ma non ne ebbe il cuore. Dopotutto quello era il suo padre confessore. E accanto a lui, sulla panca, c’era Montino. L’uomo aveva cercato di offrirgli conforto, spingendo affinché per qualche tempo si trasferisse a casa sua, ma il tredicenne non aveva voluto. Così era rimasto nella sua vecchia casa. Adesso che anche papà lo aveva lasciato quella casa gli sembrava più vuota e spoglia. Cominciò ad avercela con Dio per avergli portato via così la sua famiglia. Poi ce la ebbe con la mamma per averli lasciati soli. Se lei non fosse mai morta anche papà non sarebbe mai morto. Aveva resistito finché aveva potuto, ma evidentemente amava troppo la consorte per restare attaccato alla vita. E adesso cosa gli restava? Tasse, una casa vuota, ricordi, il lavoro che avrebbe ripreso a primavera. Ma sarebbe bastato per permettergli di sopravvivere?
In quei giorni era stato Montino a occuparsi di lui e badare che non cadesse nella depressione più nera. Ed era grazie a lui se, a tre settimane dall’inizio dell’anno, era ancora vivo e con un minimo di cervello ancora sano in zucca. Non avrebbe mai permesso a se stesso di soffrire così tanto come suo padre. Non voleva passare dei mesi interi a crogiolarsi nel proprio dolore e chiudere fuori il mondo. Stava ancora arrovellandosi con queste domande, nel tentativo di distrarsi dal dolore quando un giorno bussarono alla porta. Ormai si era abituato alle visite giornaliere di Montino, che gli teneva compagnia tutto il tempo del pomeriggio, davanti al fuoco. Quel giorno aveva anche spazzato, perciò il vecchietto non avrebbe starnutito. Né si sarebbe lamentato dell’eccessiva incuria. Guardò l’orologio: puntuale come sempre. Andò ad aprire e sgranò gli occhi. Sulla soglia c’era sì Montino, ma dietro di lui c’era un uomo che non aveva mai visto prima. L’uomo sembrava la copia più vecchia di dieci anni di Guido da Monselice. E Agostino avrebbe pensato che suo padre era risorto dalla tomba, se non fosse stato per l’occhio cieco del visitatore che lo guardava, e le ricche vesti che si intravedevano da sotto il pastrano. «Agostino.» Esordì Montino. «Come stai?»
«Bene, Montino, non mi avevate detto che avremmo avuto ospiti, oggi».
«Infatti, quest’uomo ha fatto un lungo viaggio per venire qui e conoscerti».
«Per conoscere me?» Chiese il ragazzo scostandosi per farli entrare. I due uomini si tolsero i mantelli e le giacche pesanti e si accomodarono al tavolo vicino al fuoco. Fortuna che il fuoco aveva provveduto a scaldare la stanza a dovere. Il visitatore, intanto, non faceva che fissare Agostino. Anche quando si scaldò le mani al tepore del focolare, accanto a Montino, che si scostò un po'. Il giovane lo guardava invece un po’ a disagio, indeciso e ricambiare e sostenere quello sguardo oppure no. Perciò si concentrò sull’amico di famiglia e gli portò il latte e una fetta di torta presa dal pasticcere proprio quella mattina. Ne offrì anche all’uomo, che però chiese, invece del latte, del vino speziato. Aveva la voce simile a quella del padre. Il ragazzino, trattenendo le lacrime per il dolore e la nostalgia, glielo fece avere. Poi si servì anche per sé e si sedette davanti ai due.
«Agostino, questo è messer Etienne. È venuto fin qui da Castel Toblino, la sua tenuta, proprio per conoscerti. Messer Etienne, questo è Agostino da Monselice».
«E’ un onore conoscerti dopo tutto questo tempo, finalmente. Ma guardati, somigli tanto a tuo padre quando aveva la tua età.» Fece l’uomo, guardandolo nostalgico. Ora che Agostino ci faceva caso, anche nella voce di Etienne si sentiva l’accento francese, ma, a dispetto della voce di Guido, la sua era quasi più dolce. «Sono lusingato messere».
«Tuo padre mi ha mandato una lettera quando era malato», spiegò lo sconosciuto «mi ha chiesto di prendermi cura di te invece sua. Diceva che presto avrebbe raggiunto tua madre in Paradiso e mi ha pregato di non lasciarti da solo, visto che i tuoi nonni non sanno neanche che esisti. Non avevo notizie di Guido da anni. Avrei voluto che ci fossimo tenuti in contatto, e non riprendere a sentirci in queste circostanze». «Scusatemi, messere, voi conoscevate mio padre?»
«Sì, da quando era nato».
«Avete passato l’infanzia insieme?»
«Si potrebbe dire che l’abbia cresciuto io.» Poi lo guardò a lungo prima di dire «Agostino, ascolta, lo so che non mi conosci e ti sembrerà strano. Ma desidero che tu venga con me. Ho promesso a tuo padre che mi sarei preso cura di te qualora lui fosse venuto a mancare. E intendo farlo davvero, se Montino, il tuo tutore, me ne da il benestare, s’intende.» Disse guardando l’anziano signore. Anche se probabilmente avevano la stessa età, anche Etienne pareva figlio di Montino.
«Non è il mio tutore.» Disse Agostino quasi con asprezza. Non avevano mai avuto i soldi per permetterselo. Figuriamoci il suo padrino e la sua madrina. Quelli erano rimasti nel vecchio villaggio più a sud di lì dove vivevano prima.
L’amico di famiglia sospirò e si scusò con il nuovo venuto per la maleducazione del ragazzo. Il quale, dal canto suo, non voleva staccarsi più da lì. Quella era casa sua. Lì aveva una vita, un lavoro, una casa. E’ vero che era solo e che anche Montino un giorno sarebbe morto, ma non era impotente di fronte alle avversità della vita. «Posso cavarmela benissimo anche da solo. Non ho bisogno dell’aiuto di un perfetto sconosciuto filantropo».
«Agostino…» Intervenne Montino ma l’uomo lo fermò, sia con la voce che con una mano: «No. Lascialo stare. Ha ragione ad essere arrabbiato. Gli piombo così in casa tra capo e collo e gli dico di venire a vivere con me senza neanche essermi presentato come si deve. Scusami, era che pensavo che tuo padre ti avesse parlato di me. Ma a quanto pare mio fratello non è stato abbastanza accorto».
«Vostro fratello?» Fece stupito Agostino, guardandolo.
«Certo, Agostino. Guido da Monselice era mio fratello minore. Io sono tuo zio, Etienne da Monselice».
   
 
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