Personaggi: Aoba Tsumugi, Harukawa Sora, Tenshouin Eichi.
Pair: TsumugiEichi
(onesided)
Note: questa sarà una raccolta di
tredici oneshot, una per personaggio (più o meno). Sono
tutte collegate da uno stesso contesto (soulmate!au
e zodiac!au) ma non tutte dipendente l’una dall’altra.
Gli aggiornamenti potrebbero essere irregolari, ma cercherò di non far passare
troppo almeno tra quelle collegate tra loro uu”
Per una spiegazione più accurata dell’universo di questa raccolta vi rimando
alle note in fondo. Ogni titolo, invece, è preso da una canzone (tutti brani
della cantante Aimer);
in questo caso viene dal testo di Us.
while hurting each other, we've forgotten.
La
prima volta che sua madre gli disse della sua maledizione, aveva tredici anni.
Nei suoi ricordi d'infanzia, sua madre lo trattava sempre come se fosse più
speciale di tutti gli altri: "il mio adorato, adorato bambino" era il
modo in cui lo apostrofava quando voleva farlo sentire apprezzato quando stava
leggendo o era nella sua camera a fare i compiti. Tsumugi
era così felice che decideva di leggere ancora più libri, così da rendere sua
madre fiera di lui. Lei stava fuori tutto il giorno, e quando tornava a casa
gli chiedeva sempre «Cos'hai letto oggi, Tsu-chan?» e
lui le mostrava con orgoglio la storia, raccontandole dell'eroe e del cattivo.
Lei sembrava così felice, mentre gli accarezzava la testa.
Poi, a tredici anni, lei gli raccontò una storia tremenda: «Vedi, Tsuchan» aveva iniziato «la nostra famiglia è maledetta.»
Così sua madre gli aveva spiegato di come ogni volta che un membro della
famiglia Aoba era innamorato di qualcuno finisse con
il trasformarsi in un animale, uno dei dodici che appartenevano allo zodiaco
cinese; nessuno sapeva la ragione per cui la loro famiglia fosse stata
maledetta in quel modo, però. «Anche altre famiglie hanno subito la stessa
sorte. Ma loro sono diverse da noi, Tsuchan. Loro lo
hanno desiderato, sono felici.»
Tsumugi non ne era molto sicuro. Ultimamente sua
madre gli diceva sempre più bugie, e quella suonava come una storia del tutto
inventata, di fantasia. Sua madre, però, era tutto il suo mondo.
«Ti diranno che la persona per te più importante non ti farà trasformare in un
animale, ma mentono. Non voglio che le persone ti feriscano, Tsuchan, tu lo capisci, vero? Perché sei il mio tesoro più
prezioso.» gli aveva detto in quell'occasione, ed era stata così dolce, lo aveva
fatto sentire così amato – e poi sua madre lo aveva guardato: «Non dovresti più
andare a scuola, Tsuchan. Dovresti stare qui con me,
la persona che ti ama di più.»
Mamma è la persona che non mi farà
trasformare in un mostro?
La verità era che lei non gli aveva raccontato tutta la storia. Non aveva mai
spiegato che poteva abbracciare le persone, ma che avrebbe causato dei problemi
se fosse stato innamorato di loro quando lo faceva; sua madre non gli disse mai
che il fatto di non trasformarsi in un animale non significava che era amato
come credeva.
La prima volta che ebbe una delusione d'amore aveva quattordici anni: c'era
questo compagno di classe che pensava fosse carino e gentile, e parlavano
spesso per darsi dei consigli sulle attività del club. Tsumugi
non aveva davvero pensato di dichiararsi. Era contento del rapporto che avevano
e non c'era ragione di cambiarlo, di rischiare; era la sua prima cotta, il tipo
di amore puro che si finiva con il ricordare con una sorta di tenerezza. Fu un
incidente: una stupida lezione di Educazione Fisica in cui era bastato
inciampare, quasi cadere e il suo compagno di classe lo aveva semplicemente
aiutato, prendendolo al volo prima che potesse farsi male. Tsumugi
avvertì la strana e al tempo stesso familiare sensazione del proprio corpo che
cambiava: non si era mai trasformato in un animale prima, non aveva mai visto
cosa la sua maledizione poteva fare, ma non fu quello l'aspetto più spaventoso.
Più di ogni altra cosa, Tsumugi era triste: il fatto
che si fosse trasformato in un mostro, significava che non era amato?
Fortunatamente non fu scoperto. Fortunatamente, qualcuno arrivò per sistemare
le cose – ma chi fosse quella persona, lo avrebbe scoperto solo anni dopo –,
eppure non si considerò mai "fortunato". Per la prima volta nella sua
vita era stato rifiutato, ed era stato peggio di un compagno di classe che gli
diceva "ti odio" guardandolo negli occhi. Era stato un rifiuto
silenzioso, inequivocabile.
Si ricorda ancora di essere tornato a casa, quel giorno, di sua madre che gli chiedeva
com'era andata la giornata e lui non era riuscito a non abbracciarla – perché
sua madre era il suo porto sicuro, il suo amore era qualcosa di cui si fidava.
Perciò se c'era una persona in tutto il mondo che poteva capire cosa fosse
accaduto, quella era lei: glielo disse.
Fu un errore.
«...Ti hanno visto? Il ramo principale della famiglia mi sgriderà...! Ma non
potevo farci nulla, giusto? Non è stata colpa mia, il ragazzo era lontano da me—
no, questo non è mio figlio. Sei il mostro dentro di lui, vero? Perché lo hai
fatto?»
Tsumugi l’aveva guardata, confuso; sua madre lo stava
osservando come se fosse un estraneo e si era allontanata da lui. Tsumugi, le braccia ancora protese verso quell'abbraccio
mancato, aveva sentito una strana sensazione nello stomaco: cosa stava dicendo
sua madre?
«Mamma» aveva provato, un lieve sorriso forzato sulle labbra «sono io. Io...
dirò alla famiglia che non è stata colpa nostra. Sono solo inciampato, io...
qualcuno se ne è occupato, non lo farò più. Starò attento. Se tu mi vuoi bene,
io ci posso riuscire davvero.»
«Non toccarmi!» aveva urlato lei, uno sguardo disgustato nei
proprio occhi che Tsumugi non aveva mai visto
prima «Non riesco nemmeno a immaginare quale disgustosa creatura tu sia...
portarmi via mio figlio... un mostro simile...»
«Mamma...»
«Smetti di chiamarmi così! Ridammi il mio bambino! Non è possibile che qualcuno
possa amare un mostro come te!» aveva pronunciato lei, l'odio nelle parole e la
rabbia nella voce – Tsumugi aveva fatto un passo in
avanti, perché non glielo aveva forse detto? Che era il suo tesoro più
importante? Di sicuro, se fosse riuscito a calmarla...
«Mamma, ti prego.»
«Che creatura sciocca» aveva detto lei «non sei mai stato amato, né lo sarai
mai.»
Per un po’ era stato nell’abitazione del cosiddetto “ramo principale”. I Tenshouin avevano amministrato tutte le famiglie colpite
dalla maledizione per generazioni, persona dopo persona, animale dopo animale. Tsumugi aveva sentito cose su di loro, ma non li aveva mai
incontrati – non l’erede. Perciò quando alcuni servitori si erano presentati a
casa sua per prenderlo, ne era stato sorpreso. Non aveva mai pensato che
un’altra famiglia maledetta potesse interessarsi in qualcuno al di fuori della
casata. Non aveva potuto dire nulla, perché anche se avesse voluto rimanere con
sua madre, ormai non era più possibile; perciò li aveva seguiti, e non aveva
nemmeno fatto attenzione alle strade percorse dalla macchina.
Aveva lasciato che lo guidassero lungo i corridoi e aveva perso il conto delle
porte che avevano incontrato in ognuno di essi; quando si erano fermati aveva
fatto lo stesso, occhi rivolti al pavimento e dita intrecciate tra loro. Chi
c’era oltre la porta?
«Eichi-sama» aveva pronunciato uno dei servitori
«l’erede della famiglia Aoba è qui.»
«Bene, puoi andare ora. Voglio parlare con lui da solo.» aveva risposto una
voce bassa che veniva da dentro la stanza. Gli uomini avevano annuito e, con
un’ultima occhiata verso di lui, avevano lasciato Tsumugi
da solo di fronte allo shogi.
Aveva esitato: che tipo di persona poteva essere questo Eichi?
Le uniche cose che sua madre gli aveva detto a proposito delle famiglie
maledette non erano esattamente lusinghiere – ma sua madre gli aveva anche
detto di amarlo, e quella si era rivelata una bugia.
Alla fine, aveva deciso di entrare nella stanza: la prima cosa che aveva
notato, mentre lo shogi
si apriva lentamente, era stata la grande finestra di fronte alla porta; quando
era stato in grado di entrare del tutto, aveva visto lui. Seduto al lato della
finestra, i capelli biondi e un corpo esile, Eichi
gli aveva sorriso e Tsumugi aveva sentito all’improvviso
il bisogno di piangere. In quel momento, si era ricordato di quando sua madre gli
aveva raccontato di quella volta, quando aveva tre anni. Nel mezzo della notte
si era svegliato, era andato nella sua stanza, piangendo.
«Non ho mai capito perché piangessi così
tanto, ma eri inconsolabile.» gli aveva spiegato «Continuavi a dirmi “è qui, è qui” mentre singhiozzavi. Forse avevi
avuto un incubo.»
Ma guardando Eichi, in qualche modo aveva capito – perché
il suo cuore stava battendo così forte e gli stringeva il petto solo
guardandolo. Qualcosa dentro di lui gli aveva urlato che, in quel momento, era
incredibilmente felice. Come se la sua vita intera fosse stata degna di essere vissuta
solo per quell’incontro, per incontrare l’undicenne di fronte a lui. Lo aveva
visto alzarsi, un morbido maglione sulle sue spalle, e lo aveva guardato
camminare lentamente fino a fermarsi di fronte a lui. Tsumugi
si era lasciato sfuggire un piccolo singulto quando la mano di Eichi gli aveva sfiorato la guancia – e in quel momento
aveva realizzato di stare piangendo. Eichi gli aveva
sorriso come se Tsumugi fosse la persona più
importante del mondo, per lui.
«Finalmente ci incontriamo, Tsumugi.» aveva detto Eichi con una voce bassa e gentile «Ne sono felice. Non
preoccuparti, nessuno ti farà più del male.» gli aveva assicurato, aprendo le
braccia e invitandolo ad abbracciarlo. Tsumugi non se
lo era fatto ripetere due volte: anche se era il più grande dei due, si era
concesso di farsi abbracciare da quell’esistenza speciale che era Eichi Tenshouin.
Non si era nemmeno accorto della promessa pronunciata dal più giovane in niente
più di un sussurro.
«Non lo permetterò mai.»
Dopo poco più di un mese, Eichi gli aveva parlato
dell’esistenza di una famiglia che voleva adottarlo. Tsumugi
non era riuscito davvero a crederci: nemmeno sua madre era stata in grado di
amarlo abbastanza da stare con lui e trattarlo come propria famiglia… perché
mai degli estranei avrebbero dovuto occuparsi di lui?
«...Adottarmi?» aveva chiesto, un’espressione attonita sul viso e gli occhi su Eichi. Tsumugi aveva quasi quindici
anni ed Eichi, un dodicenne che aveva il mondo – il
loro piccolo, privato e mostruoso mondo – sulle proprie spalle, gli aveva
sorriso: «Sì. La famiglia Harukawa ha avuto uno di
noi, anni fa. Hanno anche un figlio, più piccolo di
noi e che non è stato maledetto, visto che l’ultimo animale dello zodiaco è
nato l’anno prima di lui. Hanno detto che ti accetteranno volentieri. Non
preoccuparti, Tsumugi: non ti manderei mai in una
famiglia che potrebbe ferirti.» lo aveva rassicurato Eichi.
Non si trattava di non credergli, ma c’era qualcosa dentro di lui che stava
combattendo l’eventualità di abbandonare Eichi.
Eppure il più giovane non era sembrato particolarmente preoccupato: che fosse
perché si era assicurato che gli Harukawa fossero
brave persone o che non fosse granché affezionato a lui, Tsumugi
non lo sapeva. L’aver vissuto un mese con Eichi lo
aveva aiutato e ora poteva capirlo meglio, ma c’erano volte in cui era davvero
difficile. Occasioni in cui Eichi sembrava così
vicino e poi, l’attimo dopo, sembrava lontanissimo; Tsumugi
non era mai stato maltrattato da lui. Eichi gli
sorrideva sempre con gentilezza, lo abbracciava quando Tsumugi
aveva bisogno di lui, e continuava persino a ripetergli che era una persona
incredibile così com’era, senza bisogno di cambiare. Tuttavia, da qualche parte
dentro di sé Tsumugi sentiva che non importava cosa
faceva, Eichi era e sarebbe stato irraggiungibile.
«Tsumugi» la voce di Eichi
aveva chiamato il suo nome e lui non aveva potuto fare altro che guardarlo «Ti
ameranno. Non ho dubbi su questo.»
Perciò aveva accettato quella direttiva, e una settimana dopo era stato guidato
a casa degli Harukawa; ricorda ancora quanto fosse
nervoso mentre viaggiava in macchina, mentre guardava fuori dal finestrino e
vedeva in parte il suo riflesso in esso. Cosa avrebbero visto in lui? Che tipo
di persone potevano promettere di prendersi cura di un mostro senza nemmeno
incontrarlo, prima? Com’era il loro parente maledetto? Non poteva che
chiederselo e pensare che se qualcosa fosse andato storto, almeno Eichi lo avrebbe di certo ripreso con sé.
Perso nei suoi pensieri, non si era nemmeno reso conto della strada fatta e
sentire la macchina fermarsi lo aveva fatto rabbrividire; sceso dall’auto aveva
guardato la casa che sarebbe stata la sua, almeno per qualche tempo: era molto
semplice, con un piccolo cancello che divideva la strada dal piccolo cortile
prima della porta. Un piano terra e un primo piano, che di certo ospitava le
camere da letto, erano individuabili grazie alle finestre. Aveva guardato
quella casa e aveva trattenuto il respiro, sentendo la porta aprirsi e
vedendone uscire tre persone: i due adulti sembravano due persone normali, ma
ciò che aveva attirato il suo sguardo era stata una testa bionda, i capelli
scompigliati e i movimenti del corpo abbastanza esagitati. L’autista che lo
aveva portato lì lo aveva affiancato, in un silenzio generale, accompagnandolo
fino al cancello. Tsumugi aveva cercato di immaginare
come sarebbe stato arrivare lì, conoscerli, dargli almeno un’opportunità… senza
sapere cosa avrebbe avuto in risposta, o quale reazione avrebbero avuto.
Innanzitutto, quando Eichi aveva accennato a un
figlio nella famiglia Harukawa e più piccolo di loro,
non aveva detto di quanto fosse più giovane e Tsumugi
pensava si trattasse solo di qualche anno. Il bambino che sembrava non riuscire
a stare fermo lì vicino ai suoi genitori aveva cinque o sei anni, non di più, e
gli occhi azzurrissimi. Era una sfumatura diversa da quella di Eichi: se quella dell’erede dei Tenshouin
era l’azzurro delicato del cielo durante l’alba, quella sfumatura che durava
troppo poco ed era spessa mescolata ad altri colori, gli occhi del figlio degli
Harukawa erano invece di quell’azzurro pieno e
brillante, quello delle lunghe giornate estive che ti facevano pensare nemmeno
una nuvola sarebbe mai apparsa.
Tsumugi aveva appena alzato lo sguardo, ascoltando il
signor Harukawa parlare di quanto fossero felici che
avesse accettato di unirsi alla loro famiglia e di dar loro una possibilità,
quando Tsumugi vide il loro figlio liberarsi della
presa gentile di sua madre e fiondarsi, letteralmente, verso di lui fino a
cingergli – per quanto riusciva – la vita con le braccia esili. Abbassando lo
sguardo stupito, le mani poggiate con fare incerto sulle spalle del bambino, Tsumugi lo aveva visto alzare il viso verso di lui e
sorridergli raggiante: «Tu sarai il fratellone di Sora?»
Era del tutto diverso dal modo in cui lo aveva accolto Eichi
e diverso dall’esistenza di Eichi stesso, ma Tsumugi aveva avvertito un nodo alla gola e la voglia di
piangere un po’; quel bambino così piccolo non lo aveva mai visto prima, eppure
sembrava averlo aspettato per tutto il tempo, di aver atteso proprio lui. Si
era sentito voluto, in modo diverso da come era successo dai Tenshouin e quindi, forse, per la prima volta.
La sua permanenza dagli Harukawa era durata molto più
di quanto Tsumugi aveva creduto, piuttosto guardingo,
quando Eichi gliel’aveva proposta la prima volta.
Grazie a loro aveva potuto di nuovo frequentare la scuola con regolarità – cosa
a cui aveva rinunciato nel passaggio tra la sua famiglia, poi i Tenshouin per brevissimo tempo, e poi gli Harukawa –, aveva potuto coltivare i suoi interessi e si
era sentito accolto. Non avrebbe mai pensato che Sora potesse diventare per lui
un’esistenza così importante e invece, giorno dopo giorno, l’affetto di quel
bambino lo aveva aiutato più di qualsiasi altra cosa. Quando era passato un po’
di tempo dal suo arrivo, era stata la madre di Sora a raccontargli del membro
della famiglia che era stato maledetto anni prima: si trattava di suo padre,
che era stato il Gallo della propria generazione fino a che la maledizione non
era stata spezzata. Tsumugi si era stupito nello
scoprire che poteva essere annullata, ma quando aveva chiesto come fosse stato
possibile, la mamma di Sora aveva sorriso con un po’ di amarezza.
«Purtroppo non te lo so dire.» aveva ammesso «All’epoca di mio padre chi veniva
maledetto pregava solo perché non toccasse ai propri figli, e se loro non
rientravano nella maledizione, non se ne faceva parola. Gli animali dello
zodiaco della generazione di mio padre subirono una perdita molto grave
all’interno della loro cerchia… perciò nessuno di loro ne volle più parlare
quando si liberarono della maledizione. Oltretutto» aveva proseguito,
stringendo le mani tra loro come se stesse pregando mentre parlava «pare che
annullare la maledizione non sia “per sempre”, a volte. Dicono che qualcuno
l’ha vista poi tornare dopo anni passati senza… mi dispiace non riuscire a
dirti più di questo.»
Tsumugi aveva cercato di sembrare tranquillo, perché
non voleva che una persona così buona si sentisse in colpa. Gli anni erano
passati, lui era arrivato all’anno del suo diploma del liceo e allora aveva
capito che dopotutto non era importante che la maledizione tornasse o meno:
capì che la sua non sarebbe mai stata spezzata.
«Tsumugi…? Va tutto bene?» sentì chiamare da fuori,
dopo un paio di colpetti contro la porta della sua stanza. Non voleva davvero
parlare di niente, in quel momento, perciò nonostante fosse cosciente di quanto
si sarebbe sentito in colpa dopo, scosse la testa – non che potesse essere
visto – senza dare una risposta. Poteva quasi figurarsi l’espressione
preoccupata della madre di Sora.
Trasalì, però, nel sentirla rivolgersi a una terza persona: «Mi dispiace, Tenshouin-kun. Ti sei disturbato a venire fino a qui...»
«Non si preoccupi, Harukawa-san. Sapevo già che non
avrebbe voluto vedermi. Possiamo comunque incontrarci a scuola.» assicurò,
continuando a dire qualcosa mentre si allontanavano, scendendo probabilmente al
piano inferiore. Tsumugi avrebbe voluto raggiungere
la porta, aprirla e lanciare qualcosa dietro Eichi.
Non era mai stato il tipo da avere una reazione simile, né era nel suo
carattere – adorava Eichi ma in quel momento sentiva
sentimenti contrastanti nei suoi confronti. Quel modo di parlare, come se ogni
scelta di Tsumugi fosse già scontata per lui, lo
innervosiva. Era come se Eichi fosse il primo a
ricordargli costantemente che non c’era modo di scegliere il proprio destino e
quindi era come se gli scagliasse contro una seconda maledizione; una cosa
simile dall’erede dei Tenshouin era doloroso quasi
quanto aver abbracciato Eichi a scuola, nemmeno due
ore prima, ed essersi ritrovato tra le sue braccia nella forma di una pecora,
l’animale da cui Tsumugi era stato maledetto.
Era stato orribile in modo diverso dalla prima volta; Tsumugi
era stato convinto per anni che quanto accaduto alle medie fosse stato brutto,
ma non aveva mai considerato cosa avrebbe significato avere di fronte qualcuno
che conosceva il significato della sua trasformazione, della maledizione. Eichi se lo era ritrovato tra le braccia e gli aveva
sorriso con lo stesso fare gentile del loro primo incontro, ma Tsumugi si era sentito imbarazzato, umiliato. Amava Eichi in modo diverso da come avrebbe dovuto amare chi gli
aveva teso la mano per aiutarlo, ed Eichi ora lo
sapeva e chiaramente non provava lo stesso per lui.
«Io provo amore per te, Tsumugi» gli aveva mormorato Eichi, mentre accarezzava il vello della sua forma animale
per calmarlo «solo, non sono la persona che ti è destinata.»
Più ci pensava, più gli si stringeva lo stomaco e sperava di sparire lì sotto
le coperte e non uscirne più. Se non riusciva ad amarlo nemmeno Eichi, che era per i maledetti la figura più simile al Dio che
aveva invitato gli animali dello zodiaco cinese al banchetto della leggenda,
chi ci sarebbe riuscito? Tsumugi si era convinto che
quello fosse un messaggio inequivocabile: la sua maledizione non sarebbe mai
stata spezzata da nessuno.
«Mugi-nii?» sentì chiamare oltre la porta,
riconoscendo senza difficoltà la voce di Sora; non ebbe il tempo di calmarsi e
formulare una risposta di qualche tipo, che Sora aveva già socchiuso la porta e
fatto capolino nella sua stanza. La prima volta che Tsumugi
si era trasformato alle scuole medie, aiutato poi a riprendere il controllo
della situazione, aveva impiegato diverso tempo a tornare nella sua forma
umana; quando Eichi lo aveva preso con sé e Tsumugi gli aveva chiesto se sapesse qualcosa in merito, Eichi gli aveva detto che a volte poteva capitare che la
trasformazione da animale a umano richiedesse più tempo, se i sentimenti di
inquietudine o di tristezza erano molto profondi. Sora, di soli nove anni e suo
fratello adottivo da quattro, non lo aveva mai visto trasformato. Tsumugi non sapeva quanto sua madre sarebbe stata
entusiasta della cosa – se lui si fosse mostrato nella sua forma animale, nella
sua forma mostruosa, lei lo avrebbe cacciato via per aver lasciato vedere a
Sora una cosa così orribile? Il fatto che lui stesse portando in una casa
libera da sofferenze il peso di una tale maledizione… temeva sarebbe stato
imperdonabile.
Eppure, nonostante quei pensieri, non si agitò sotto le coperte che lo
nascondevano, né si sforzò di dire nulla, ignaro della possibilità o meno di
comunicare come una persona normale persino in quella forma, non avendo mai
provato prima. Sentì un peso aggiungersi sul materasso e capì che Sora gli si
era seduto vicino ancor prima che il più giovane scostasse le coperte e lo
guardasse: che strana impressione doveva fargli vedere una pecora su un letto?
Sora però non rise e non scappò spaventato. Tsumugi
lo guardò provando vergogna mentre Sora lo osservava, non riuscendo ad
aspettarsi altro che esiti negativi. La storia non gli aveva insegnato niente
di diverso, purtroppo. Invece, con sua sorpresa, una piccola mano affondò con
gentilezza nel suo vello e Tsumugi la sentì, gentile
e calda mentre lo accarezzava. Azzardò a incrociare gli occhi azzurri di quel
bambino troppo piccolo, forse, per capire appieno l’intera situazione e trovò
solo un sorriso ad attenderlo: nessun disprezzo, nessun giudizio, nessun
rifiuto.
«Mugi-nii» ripeté lui, più sicuro «Sora può dormire
con te, stanotte?»
Fu così semplice, ma Tsumugi si sentì salvato. Anche
se qualcosa dentro di lui si spezzava piano, senza far rumore, lui sentì di
potersi almeno concedere il lusso di piangere in silenzio.
Ma non sarebbe meglio non provare niente?
Posso farlo io per te, umano.
Da
quell’episodio sono passati altri sei anni.
Fa ancora parte della famiglia Harukawa, ogni tanto
Sora dorme ancora con lui per il semplice gusto di stare insieme e condividere
uno spazio; Tsumugi lo accetta sempre volentieri,
come ogni occasione di passare del tempo con lui. Si occupa dei suoi studi
quando l’altro ha bisogno di aiuto, si premura di fare la sua parte nelle
faccende domestiche e ha abbracciato la propria passione per il cucito come
anche per i portafortuna; ne fa persino qualcuno lui stesso, da qualche anno.
Il diploma è arrivato come la sua laurea in letterature straniere, ma di cosa
occuparsi nella vita in realtà non lo ha ancora deciso. Si accontenta di un
part-time e di lavori su commissione con vecchi compagni del club di cui faceva
parte all’università. Vede ancora Eichi, andandolo a trovare di tanto in tanto, incapace di spezzare
il legame tra loro che la maledizione gli impone – ma in verità Tsumugi si sente libero. Non importa che una vecchia
maledizione renda la sua vita parte di quella di persone che non ha mai
conosciuto o che ha visto solo una volta; gli interessa poco del fatto che Eichi non lo amerà mai come Tsumugi
lo ha amato in passato; non è rilevante che uno spirito dentro di lui a volte
sembri troppo ingombrante per dividersi lo spazio insieme alla coscienza di Tsumugi. Con il tempo ha imparato che possono convivere. Se
avesse saputo quanto fosse facile sentirsi libero anche da incatenato, le cose
sarebbero state molto più semplici.
«Benvenuto.» pronuncia con un sorriso gentile, mentre la porta del negozio di
fiori dove dà una mano si apre, il piccolo campanello che tintinna annunciando
un nuovo cliente. Il ragazzo appena entrato arriccia il naso, poco convinto
quando lo vede; nel riconoscerlo Tsumugi non fatica a
capire il perché della sua espressione, ma non lascia vacillare per nulla il
proprio sorriso, come se invece la sua presenza fosse stata appena accolta con
un’espressione felice.
«Natsume-kun!» esclama invece «Posso esserti
d’aiuto?»
La risposta era così scontata, e lui per anni non l’ha mai capita.
Se butti via i
tuoi sentimenti, umano, come potresti mai provare dolore?
Note finali
Il concetto della
zodiac!au è preso e
riadattato dal manga di Fruits Basket. Con le
modifiche che ho apportato, mescolando il tutto alla soulmate!au, la questione è la seguente: persone di
varie famiglie sono state maledette negli anni. La maledizione in questione
richiama la leggenda del banchetto dello zodiaco cinese (qui se volete farvi un’idea,
tenendo conto che ci sono diverse versioni in cui si alternano
Dio/Buddha/Imperatori e alcuni animali come Capra/Pecora), motivo per cui i
maledetti si trasformano nell’animale che rappresenta l’anno in cui sono nati.
Mentre nella versione originale del manga basta il contatto fisico con una
persona del sesso opposto esterna alla famiglia protagonista, in questo caso la
trasformazione dipende dal contatto fisico ma con una qualsiasi persona di cui
si è innamorati ma che non è la propria anima gemella.
Brevissimo
discorso a parte per l’organizzazione tra famiglie, perché è volutamente poco
chiaro in questa prima oneshot: le famiglie maledette
(Aoba, Harukawa, Sakasaki e via dicendo) non
sono un’unica famiglia. Tuttavia, la figura di Dio/Buddha (sempre nata tra i Tenshouin) è avvertita come esistenza speciale da tutti gli
animali che, inevitabilmente, finiscono con il gravitarle intorno. Per questo
motivo i Tenshouin sono considerati “il ramo
principale” di una famiglia intesa in senso ampio e relativo alla maledizione,
non nel più canonico insieme di legami di sangue.