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Autore: Snow_Elk    24/11/2017    0 recensioni
L'amore. Un sentimento profondo, capriccioso, instabile. Un'emozione oscura, qualcosa che tutti cerchiamo. Anche Alan, uno studente universitario, lo sa bene. Pensava di averlo finalmente trovato, ma si sbagliava, tutto ciò a cui teneva è svanito, l'ennesima relazione "andata a puttane" come direbbe Phil, il suo coinquilino. Eppure, mesi dopo, Alan è ancora tormentato da strane visioni, da ricordi vividi e da lei, da quella stessa ragazza a cui aveva dato il proprio cuore. Perché l'amore può trasformarsi in odio, l'odio in consapevolezza e quest'ultima ci aiuta a crescere, a capire. Perché anche se un cuore è andato in frantumi può ancora battere, riecheggiando nel silenzio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Fragments of a Silent Heart



Frammento VIII – Gli echi di un abbraccio

 

Note dell'Autore: Ed eccomi qui, non pensavo sarei mai arrivato all'8° episodio eppure ci siamo. Questa storia era nata come un'esperimento, qualcosa di inconcreto, ma episodio dopo episodio è cresciuta, intrecciando legami tra i vari personaggi, creando situazioni e scene che all'inizio neanche io avevo immaginato. Era da tanto che non scrivevo fragments e questo episodio era particolarmente ostico, soprattutto dopo il finale del settimo. Spero vi piaccia e grazie di cuore a tutti voi che continuate a leggermi. Enjoy.
 
Snowstorm
 
Continuo a camminare seguendo un sentiero che sembra infinito: non so dove mi trovo, sembra una foresta o qualcosa di molto simile, ma non riesco a vedere oltre la luce dei lampioni che costeggiano il sentiero.
È notte fonda, il buio che mi circonda viene contrastato dal bagliore candido della luna, eppure l’ultima volta non era ancora notte, ricordo di un pomeriggio, sì, doveva essere pomeriggio. Pioveva.
Continuo ad avanzare, passo dopo passo mi sembra di essere più vicino a qualcosa: ogni tanto gli alberi finiscono per essere inghiottiti dalle ombre e in quella sorta di sipario oscuro vedo scene, no, ricordi, parti della mia vita messe lì a caso come se qualcuno si stesse divertendo mettendo a soqquadro la mia povera memoria.
Perché? Che sta succedendo?
Non riesco a capire da quanto tempo mi trovo in questa foresta, né fino a che punto sia vera o una semplice illusione. È tutto molto strano, ma al tempo stesso familiare.
Il sentiero prosegue coraggioso in mezzo all’oscurità, scortato dai lampioni e dalle torce che si ergono come guardie di metallo, prosegue verso uno spazio ampio che si spinge oltre le chiome degli alberi. Una piazza?
La pietra si allunga vorace in ogni direzione, bloccata solo da alcuni edifici anch’essi in pietra e dai tetti spioventi: le porte sono tutte serrate, ma dalle finestre coperte dalle tende si intravedono luci e sagome. C’è qualcuno, non sono solo.
Mi avvicino con calma all’edificio che si affaccia accanto alla fine del sentiero, poco prima che la piazza inizi a reclamare i suoi spazi, ma in quel momento le luci all’interno delle case si spengono, una dopo l’altra, e solo il lampione accanto a me rimane acceso a difendermi dall’oscurità.
Che diavolo sta succedendo? Vedo alcune figure sbucare dal manto del buio, immerse in una sorta di penombra lunare. Le riconosco, sono tutte persone che conosco: c’è Phil, Mark, tutta la mia famiglia, alcuni miei amici d’infanzia, intravedo anche il mio gruppo dell’università, sono fermi lì che mi fissano, in silenzio.
C’è anche Harry e come gli altri mi fissa senza aprire bocca.
Continuo a guardarmi intorno incredulo e incontro lo sguardo di Christie: c’è anche lei, ma perché stupirsi? Dopo tutte quelle visioni ormai sembra che ci stia facendo l’abitudine a vederla dovunque, ma ciò che mi colpisce è la persona accanto a lei: capelli corvini, occhi dello stesso colore del caffè. Lizbeth.
Tutti mi guardano come se stessero aspettando una risposta da me, qualcosa, qualunque cosa, ma non riesco a fare niente, a dire niente. Perché mi sento così?
Cerco di avvicinarmi a loro, a Mark, a Lizbeth, ma tutti si allontanano, inizio a correre, ad inseguirli, ma per ogni mio passo loro sembrano farne tre.
Non riesco a raggiungerli, per quanto mi sforzo continuano ad allontanarsi, lontani dalla piazza, di nuovo immersi nella foresta in cui mi aggiravo prima.
Non so come ma riesco ad avvicinarmi a Mark, lui mi guarda con uno sguardo colmo di paura e confusione.
- Mark? Che cazzo sta succedendo?! – non mi risponde, sembra quasi che mi stia ignorando. Gli altri interrompono la loro corsa, e rimanendo a debita distanza tornano a fissarmi.
- Mark, Mark rispondimi! – lo afferro dalle spalle e lo scuoto, ma non ottengo alcun risultato. Una goccia d’acqua mi scivola lungo la guancia, sta iniziando a piovere.
- Mark dannazione…-
- Fermati Alan, fermati – mormora lui fissando un punto imprecisato alle mie spalle.
Lo osservo, sconvolto, senza riuscire a capire quale sia il senso di quella frase.
Lui continua a fissare il vuoto alle mie spalle, così come tutti gli altri, così mi volto anch’io e le vedo: due luci distinte, una accanto all’altra, che si fanno più grandi, sempre più luminose. La pioggia si intensifica.
Ho già visto questa scena, l’ho già vissuta: ricordo la pioggia, le due luci, qualcuno che urla il mio nome, mi dice di fermarmi, la paura e infine il calore.
Quelle non sono due semplici luci, sono due fanali, riesco ad intravedere la sagoma scintillante dell’automobile in mezzo alla pioggia, mentre tutte le persone intorno a me scompaiono nel nulla, lasciandomi solo.
Non riesco a muovermi, sono pietrificato dalla paura, la macchina è sempre più vicina, i due fanali mi accecano e tutto diventa bianco, indistinto.
Rumori di freni, gomma contro l’asfalto.
Apro gli occhi, ho il fiato corto, mi sembra quasi di ansimare, come se qualcuno avesse tentato di soffocarmi. Mi guardo intorno: la foresta, la piazza, l’auto, è sparito tutto quanto, sostituito da una semplice stanza dalle pareti bianche e arredata con pochi semplici mobili.
Ho ancora la vista offuscata, mi sento addosso lo stesso schifo che si prova dopo essersi sbronzati, con la sola differenza che sta svanendo più velocemente della sua contro parte.
C’è qualcosa attaccato al mio braccio sinistro, dei tubi. Flebo? Le vedo spuntare anche dal braccio destro e tutte finiscono appese ad una sorta di asta. Sono in ospedale? Come ci sono finito qui?
Cerco di ricordare, ma è tutto annebbiato, la testa mi fa ancora male. Osservo lo spazio che mi circonda: è la classica stanza d’ospedale, con due sole differenze, una finestra più grande del solito e una sfilza di oggetti ammucchiati sul comodino e su un piccolo tavolo lì accanto.
Fiori, libri e altri oggetti che non riesco bene a distinguere, sono tutti incartati per bene, sembrano dei regali. Per me? Perché? Cosa ci faccio in ospedale?
La sensazione di sbornia assoluta sta scemando, ma continuo a sentirmi confuso, frastornato, vorrei scendere dal letto, ma sento le gambe intorpidite, come se fossero ferme da mesi.
Qualcuno apre la porta e spingo il mio sguardo verso quel punto della stanza per capire chi è entrato: i miei occhi incontrano quelli sgranati di Lizbeth.
- Liz…beth – balbetto, provando ad alzare il braccio invaso dalle flebo per salutarla.
Lei rimane ferma sull’uscio della porta, immobile, prima di scoppiare in lacrime e lanciarsi contro di me.
Mi abbraccia, piangendo silenziosamente, riesco a sentire il suo profumo, il calore di della sua pelle. Ora che ci penso, non mi aveva mai abbracciato.
- Così mi fai male… - le sussurro e lei si allontana dolcemente, con il volto rigato dalle lacrime. Sta sorridendo, mentre cerca di asciugarsi le guance.
- Che cos…. – cerco di chiederle cosa ci faccio lì, ma lei scuote la testa, facendomi segno di non parlare.
Si avvicina al tavolo, rimedia carta e penna e inizia a scrivere, proprio come ha fatto il giorno che ci siamo conosciuti. Parola dopo parola si forma un vero e proprio racconto che mi consegna con ancora gli occhi lucidi:
“E’ così bello vedere che ti sei svegliato, Al.
Quando ho saputo che avevi avuto un incidente non volevo crederci, pensavo fosse uno scherzo. Ma poi ho incontrato uno dei tuoi colleghi, Mark, e lui ha confermato ciò che si diceva in giro: una macchina ti aveva investito ed eri finito in coma”
- Coma?! – chiedo, incrociando il suo sguardo e lei annuisce, consigliandomi con le dita di continuare a leggere. Sono davvero stato in coma?
“Ho chiesto ai tuoi amici se potevo venire con loro a trovarti e hanno accettato, siamo venuti qui e tu eri nel letto, immobile, con tutte quelle flebo, sembrava che stessi dormendo, ma sapevamo tutti che non era così. E’ stato orribile, il giorno prima stavamo parlando e il giorno dopo eri quasi morto. I medici non ci hanno voluto dire se ti saresti risvegliato o meno, non sapevamo cosa pensare.
Sono passati due mesi da allora e finalmente ti sei risvegliato.
Sono davvero felice che tu ora stia bene, per un attimo ho temuto il peggio”
Finisco di leggere e torno a guardare Liz, che nel frattempo ha abbassato lo sguardo, come imbarazzata per quello che ha scritto.
- Sono davvero stato in coma per due mesi? – le chiedo guardando fuori dalla finestra: prima non ci avevo fatto caso, ma il paesaggio è tutto innevato.
Lei annuisce di nuovo, continuando a sorridere.
In coma, stento a crederci, eppure tutto inizia ad avere un senso: la chiacchierata con Lizbeth, l’incontro con Christie, lo scontro con Harry e infine i due fanali in mezzo alla pioggia. Mi sembra quasi di riuscire ancora a sentire il rumore dei freni e le urla di Christie, il dolore lancinante e poi il vuoto.
- Cazzo, sono stato davvero investito… mio Dio -mi sento come se tutte le sensazioni di quel momento, tutte le emozioni di quei pochi attimi, fossero riemerse in un colpo solo. Scuoto la testa, incredulo, guardandomi le mani sulle quali si vedono ancora le cicatrici di quel pomeriggio, tornando poi a guardare Liz che si è rimessa di nuovo a scarabocchiare sul foglio.
“Sono venuti tutti a trovarti: i tuoi amici dell’uni, il tuo coinquilino (è davvero simpatico) altre persone che non conoscevo e anche la tua famiglia. Ognuno di loro ti è stato accanto e ha lasciato un ricordo in attesa che ti risvegliassi. Ognuno di noi a turno ti ha tenuto compagnia, non sei mai rimasto solo.
Eravamo tutti in pensiero per te” quelle parole sono più profonde di quanto mi aspettassi, mi lasciano stupito. È proprio vero che finisci per apprezzare qualcosa solo quando stai per perderla. Sento gli occhi inumidirsi e lascio che le lacrime scivolino via, senza opporre resistenza. Liz mi lascia il foglio prima di alzarsi e puntare alla porta.
“Devo avvisare i medici che ti sei risvegliato, dovranno sicuramente farti dei controlli, e devo avvisare anche tutti gli altri, saranno felici di sapere che sei sveglio”
La osservo ferma lì sull’uscio della porta, proprio come quando è entrata, abbozza un mezzo sorriso e mima lentamente una parola con le labbra.
“Bentornato”.
   
 
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