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Autore: Adeia Di Elferas    26/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Fatemi passare! Fate largo!” sgomitò Alessandro VI, spostando di peso le guardie che chiudevano l'accesso della stanza.

“Santità! Fermatevi!” lo implorò il soldato che aveva portato la notizia al papa pochi minuti prima, per poi doverlo inseguire fino a Castel Sant'Angelo, nel buio della notte che ormai era calata su Roma, nel tentativo di impedirgli di vedere il cadavere nello stato in cui lo avevano trovato: “Non fatelo, Santità! Il dolore sarà troppo...”

Ma mentre stava ancora dicendo quelle ultime parole, Rodrigo aveva attraversato lo stanzone in cui era stato deposto il corpo di Juan e si era gettato in terra davanti al figlio senza vita, lanciando un urlo straziante e scoppiando a piangere.

Quando si avvicinò, il soldato spagnolo trovò il papa riverso sul cadavere gonfio e sporco e tentò per un'ultima volta di sottrarre Alessandro VI a quella vista, che, a parer suo, poteva solo sommare dolore al dolore.

“Lasciatemi!” sbraitò invece il pontefice, quando l'uomo cercò di spostarlo prendendolo per un braccio: “Andatevene! Chiamate i miei figli! Chiamate Cesare! Chiamate Vannozza! Li voglio qui...”

Non vedendo come poter fare altrimenti, il soldato si ritrasse e andò a cercare i figli del papa e la sua vecchia amante.

Rimasto da solo, con unicamente un paio di guardie vicino alla porta che erano rimaste al loro posto per preservare la sicurezza del papa e del corpo ripescato dal Tevere, Rodrigo guardò il volto del figlio.

Juan era stato trasfigurato da una pugnalata in pieno viso, ma era comunque impossibile non riconoscerlo. Indossava ancora gli abiti sfarzosi che aveva scelto per la cena a casa della madre e il mantello, rovinato, era impiastrato con i rifiuti del fondo del fiume.

Più lo fissava, più il papa notava dei dettagli in quel cadavere, con una freddezza che quasi lo sconvolse, si rese conto che stava analizzando il corpo del figlio come se fosse di qualcuno che non conosceva.

Contò nove nette pugnalate, al viso, al torace, al ventre e alle gambe. Si accorse che la piccola bisaccia piena di monete d'oro era ancora al suo fianco, intatta. Allungò una mano e sciolse il nodo del cordino, che era imbevuto d'acqua, ma ancora al suo posto, come se nemmeno il Tevere avesse osato rubare i soldi a un morto.

Il papa contò trenta ducati d'oro. Trenta, come le monete con cui era stato pagato Giuda. Poteva essere? Era solo una casualità?

Cacciandosi i soldi nella tasca dell'abito, il Borja cominciò a pensare, elencando mentalmente una serie di possibili colpevoli, benché la rabbia e il dolore gli facessero dimenticare nomi e volti.

Quando sentì alle sue spalle i passi svelti di Jofré, Vannozza e Cesare, il pontefice si chiese fugacemente da quanto tempo fosse lì, accanto al corpo congesto di Juan. Forse ore, forse pochi minuti, chi poteva saperlo.

Quando si voltò, incrociò per un lampo gli occhi pieni di lacrime di Vannozza che, come Jofré, si lanciò in terra, accanto al cadavere di Juan, che era stato pietosamente posto su un rialzamento in legno, da cui sgocciolava ancora un misto di acqua di fiume e umori residui.

Cesare, a differenza degli altri, restò in piedi. Fissava il corpo senza vita del fratello con un'espressione assorta, quasi incredula.

Rodrigo, troppo scosso per farsi domande su quell'atteggiamento che poco si sposava con il modo di solito estroverso di manifestare il dolore e la rabbia di quel figlio, lo abbracciò con forza e gli sussurrò all'orecchio: “Adesso sei tu, Cesare, il mio erede...”

Il giovane restò rigido, all'abbraccio del padre e, quando il papa si spostò un po' da lui, lo guardò con occhi taglienti e, storcendo il naso all'odore pressante dell'incenso e delle candele che li circondavano, ribatté: “Doveva morire lui, per poter avere il mio posto nel vostro cuore?”

“Sei ingiusto, a parlare così.” rimbeccò Alessandro VI, trattenendosi appena dal dargli uno schiaffo.

Cesare abbassò lo sguardo e strinse il morso, tenendo le mani strette in grembo e, quando udì la madre lanciare un'invocazione alla Madonna, per poi mettersi a singhiozzare senza posa, malgrado Jofré che le dava coraggio bisbigliandole parole di conforto nell'orecchio, lasciò una lacrima libera di scivolargli lungo la guancia.

Tanto bastò al padre, in quel momento, per perdonare la sua insolenza.

“Sistematelo...” disse Alessandro VI, andando da uno dei preti che erano appena entrati, portandosi appresso il necessario per inumare il corpo: “Lavatelo a fondo, rendetelo bello... Lui era così bello...” sospirò, prima di riprendere: “Lo seppelliremo questa notte stessa in Santa Maria del Popolo.”

Cesare, accanto al papa, vedendo che il vecchio genitore non aveva altro da dire, si intromise e ordinò, con voce ferma e decisa: “Fate suonare le campane di tutta Roma a morto. Che tutti sappiano quello che è successo. Quando il corpo di mio fratello sarà pronto, voglio vedere tutta la Roma che conta davanti a Castel Sant'Angelo. Ci dovranno seguire tutti in corteo fino a Santa Maria del Popolo. Che si sappia che a nessuno sarà permesso di non esserci.”

Rodrigo guardò con tanto d'occhi il figlio e poi annuì appena, ribadendo al prete: “Fate come dice lui...”

 

Quello era un giorno di trionfo, per Forlì. Caterina aveva voluto, su suggerimento del marito, che la riapertura delle porte avesse una risonanza notevole presso la popolazione.

Anche se quel lungo isolamento li aveva quasi messi in ginocchio, quel giorno la città doveva sentirsi rinascere.

Così, a metà mattina, vestita con il suo abito migliore, la Contessa aveva scelto i gioielli da indossare, optando per quelli più grossi e visibili anche da lontano, e aveva predisposto per guidare un corteo che andasse da una porta all'altra, man mano che venivano aperte.

Sotto gli occhi pieni di nuove speranze della sua gente, la Tigre aveva attraversato in sella a un grosso cavallo da guerra, le strade di Forlì, ancora fangose, ma senza più monatti che si aggiravano con carretti coperti di cadaveri, come un condottiero in trionfo.

A nessuno sfuggì la disposizione del suo seguito. Alla sua destra, appena un po' indietro rispetto a lei, c'era Giovanni Medici, che portava colori neutri, quel giorno, quasi a non voler ricordare a nessuno la sua provenienza fiorentina.

Dietro di loro seguivano Ottaviano, che portava i simboli dei Battuti Bianchi, Bianca, vestita di bianco e rosso come la madre, e Cesare, in abiti da prete.

Appena dopo, Galeazzo, su un piccolo baio, con indosso una mezza armatura, e Sforzino e Bernardino, che condividevano la seduta su un piccolo calesse.

A chiudere, dopo una rappresentanza dei nobili forlivesi – dei pochi rimasti in città durante quell'epidemia – seguiva gran parte dell'esercito, che, per fortuna, era stato solo parzialmente intaccato dalla peste, dimostrando come l'isolamento del quartiere militare fosse stata una mossa più che riuscita.

Prima che la giornata giungesse al termine, dalle porte nuovamente aperte di Forlì entrarono molti carri e cavalli e la città parve rianimarsi in poche ore. Di quel ritmo, sarebbe bastata meno di una settimana per far riprendere del tutto i commerci.

Dalla città uscirono anche dei messaggeri, diretti a Imola, Forlimpopoli e Firenze.

“Domani sera – annunciò Caterina, presiedendo la prima riunione del Consiglio, che non contava ancora la totalità dei membri – terrò un banchetto alla rocca per festeggiare il ritorno alla vita di questa città. Siccome abbiamo avuto settimane dure di isolamento, mi aspetto che siate voi possidenti che avete preferito restare fuori le mura a portare il necessario. Potrete lasciare il cibo ai miei cuochi domani mattina.”

Accolta da un applauso dei presenti, e da qualche borbottio di quelli che avrebbero dovuto procurare il cibo, la Sforza si risedette.

Attese con pazienza che gli interessati assorbissero il senso dell'ordine che aveva impartito e poi lasciò che quel paio di Consiglieri che erano rimasti fuori dalle mura le raccontassero, per quanto ne sapevano, tutto quello che era successo fuori da Forlì durante quelle settimane.

 

Il concistoro di quel 19 giugno fu particolarmente strano e non solo per il clima freddo che aveva attanagliato improvvisamente Roma, ma, soprattutto, per l'atteggiamento del papa.

In quei giorni, senza darsi requie, quasi senza toccare cibo né mettersi a letto per dormire qualche ora, Rodrigo aveva cercato senza sosta un motivo e un colpevole per la morte di Juan.

La notte del funerale, come Cesare aveva voluto, da Castel Sant'Angelo fino a Santa Maria del Popolo una folla sconclusionata di nobili, preti, spagnoli, parenti di ogni tipo, aveva seguito il corteo funebre piangendo e disperandosi.

Quanto ci fosse di reale cordoglio e quanto di paura, il papa non poteva saperlo, ma di certo non avrebbe mai più dimenticato quella strada buia e fredda e quel coro di pianti e preghiere che aveva scortato il suo bellissimo e amatissimo Juan fino alla sua ultima dimora.

Da quel momento non aveva fatto altro che porsi dei dubbi su tutti. Dapprima, aveva subito pensato a una vendetta di Giovanni Sforza.

Aveva scartato quasi immediatamente l'idea, quando si era reso conto dell'assurdità di quel pensiero. Oltre a no averne il coraggio, il pesarese non ne avrebbe avuto nemmeno modo.

Allora le ombre si erano addensate su Ascanio Sforza. In fondo, era stato lui ad adombrarsi per la questione del convitato impiccato dopo una schermaglia con Juan.

Dopo averci parlato un po', però, il papa era stato certo che nemmeno lui c'entrasse e che, anzi, fosse sinceramente sconvolto da quell'omicidio, tanto da dichiararsi disposto a indagare in prima persona, se fosse stato necessario.

Una volta eliminati gli Sforza dalla lista dei possibili colpevoli, Rodrigo aveva pensato, con repulsione, a Jofré. Tutti sapevano che Sancha lo tradiva con Juan. Anche in questo caso, però, era bastato un soffio per sgombrare la mente del pontefice da quel dubbio.

Sempre seguendo la pista passionale, aveva rivolto la propria attenzione ad Antonio della Mirandola, la cui figlia, come dicevano tutti, era stata forzata da Juan e più di una volta, ma anche in quel caso, oltre a non avere nessuna prova, non trovò nemmeno un appiglio logico per poterlo incriminare davvero.

Aveva preso in considerazione anche Guidobaldo da Montefeltro e Federico Sanseverino, ma più ci speculava sopra, più si rendeva conto di allontanarsi dalla verità.

Appena prima di sedersi in concistoro, quella fredda mattina di giugno, era giunto alla risoluzione del caso, o, almeno, sperava di averlo fatto.

C'era una persona che nutriva nei suoi confronti un astio mai nascosto e mai sopito. Una persona che già aveva umiliato Juan una volta e che forse aveva voluto usarlo per vendicarsi.

Bartolomea Orsini, la strega di Bracciano, il cui orribile marito aveva messo in fuga l'esercito del papa avvalendosi di biechi trucchetti da rissaiolo di paese. Gli Orsini avevano conoscenze ovunque, a Roma. Era così assurdo pensare che la longa manus di quella donna fosse arrivata fino a lì?

Distratto da quello che gli ronzava in mente, il papa subì le prime battute del concistoro senza sentire una parola. Quando venne il suo turno, poi, non riuscì a parlare d'altro se non del figlio appena perduto.

“Un colpo più forte non ci poteva toccare, perché noi amavamo il Duca di Gandia sopra ogni altra cosa al mondo... Daremmo volentieri sette triregni, per richiamarlo in vita.” Rodrigo fece un sospiro dolente e poi riprese, cominciando a piangere sommessamente, sconcertando tutti i presenti: “Iddio ci ha puniti per i nostri peccati, perché il Duca di Gandia non meritava una morte così terribile e misteriosa...”

Si addossò ancora per qualche minuto la colpa morale della morte del figlio e poi, facendo spalancare molti occhi e sudare molti porporati, cominciò a parlare di una riforma necessaria e completa del Vaticano, oltre che del suo stile di vita.

“Ma che sta dicendo...” sussurrò attonito Oliviero Carafa, le labbra molli aperte in un'espressione stolida.

“State zitto – lo rimbrottò il Cardinale Ascanio Sforza, che gli era accanto – state zitto, per l'amor del cielo.”

Il milanese si sentiva già un miracolato per essere uscito dalla lista di sospettati dal papa. Ci teneva troppo alla pelle, per permettere che qualcuno mettesse i bastoni tra le ruote del Borja proprio in quel momento.

Non si sentiva irragionevole nel pensare che qualsiasi ammutinamento nella curia, in quel momento, avrebbe avuto sul Santo Padre un effetto immediato e per lui molto spiacevole: far ritornare subito i sospetti su di lui, o almeno, sugli Sforza in generale.

“D'ora in poi – stava continuando a dire Alessandro VI, le lacrime ormai asciugate e la voce tonante di nuovo ad alto volume – i benefici saranno conferiti solo a chi li meriti: vogliamo rinunciare al nepotismo e cominciare la nostra riforma da noi stessi.”

Quando il concistoro si sciolse, gli uomini di Santa Madre Chiesa sembravano navi senza nocchiero. Parlottavano tra loro, si facevano domande senza trovare risposta e si chiedevano se e quando quei propositi del papa sarebbero mai stati messi davvero in pratica.

Rodrigo, dal canto suo, aveva già deciso di affidare al Cardinal Costa – uno dei pochi uomini morigerati ancora presenti in Vaticano – di supervisionare una grande riforma e di metterlo a capo di una commissione di uomini specchiati che potessero rendere attuativi tutti i punti del rinnovamento.

Appena fu di nuovo nei suoi appartamenti, però, l'aura di santità di cui si era sentito investito poco prima, stava già svanendo e nella sua mente i pensieri di redenzione lasciavano di nuovo spazio a quelli di vendetta.

Se la colpa era davvero di Bartolomea Orsini, come ormai si era convinto fosse davvero, come la poteva colpire, per farla pentire amaramente della sua mossa?

Più ci pensava, più ritornava alla prima intuizione: ucciderle il marito. Bartolomeo d'Alviano era l'unico uomo di cui sembrasse importarle qualcosa, a parte il fratello.

Il papa chiamò un servo e ordinò che gli venisse portato all'istante Cesare.

Il figlio arrivò in un lampo, quasi si aspettasse una convocazione da un momento all'altro. Non indossava gli abiti cardinalizi, ma Rodrigo non se ne accorse nemmeno. E poi, da tempo Cesare li smetteva, quando scendeva la sera.

“Sappiamo dove si trova al momento Bartolomeo d'Alviano?” chiese Rodrigo, mettendosi a camminare per ampie falcate attorno alla scrivania.

“Dovrebbe essere ancora in Umbria. Vicino a San Gemini.” rispose prontamente il giovane Borja, le mani dietro la schiena e le spalle dritte come un soldato: “Sta combattendo per Spoleto, contro i Colonna.”

Il padre non si era aspettato una simile preparazione, da parte di quel figlio, ma da qualche giorno aveva preso a rivalutarlo in modo sostanziale.

“Bene – disse, fermandosi di colpo e fissando Cesare – scriviamogli e diciamogli che lo vogliamo qui a Roma per una questione importantissima.”

“Posso sapere quale?” chiese il figlio.

Alessandro VI titubò, ma poi rispose: “Sono convinto che ci siano gli Orsini, dietro la morte di tuo fratello. Attireremo qui lui con una scusa, e lo metterò a morte. Che quella dannata Orsini soffra quanto sto soffrendo io...”

Cesare non riuscì a trattenere un moto di sorpresa per la strana conclusione a cui era giunto il padre, tuttavia, con un mezzo inchino, assicurò: “Scriverò immediatamente e quando quell'uomo sarà qui, me ne occuperò personalmente, se lo vorrete.”

“Vedremo...” lasciò in sospeso Rodrigo, congedando poi il figlio con un cenno del capo.

“Siete sicuro di volerli così corti?” chiese Bernardi, agitando un po' in aria le forbici.

Giovanni alzò un po' le spalle e rispose: “Sì...”

Nella barberia non c'era nessun altro. La città era stata aperta solo dal giorno prima e pareva che farsi tagliare barba e capelli non fosse proprio il primo pensiero dei forlivesi.

Il Medici era andato dal Novacula così presto principalmente perché quella sera ci sarebbe stato il banchetto alla rocca e non voleva mostrarsi troppo in disordine. Caterina aveva insistito molto sul fatto che quella festa avrebbe dovuto simboleggiare la ripresa della normalità a la forza del loro Stato, dunque era necessario fare del proprio meglio per apparire al meglio.

“Ma la moda imporrebbe...” cominciò a dire il barbiere.

“Non me ne importa nulla della moda.” lo fermò subito il Popolano: “Per favore, tagliateli come vi ho detto e basta.”

Allora Bernardi, sollevando un sopracciglio con un lieve disappunto, iniziò a tagliare i riccioli castani dell'ambasciatore fiorentino.

“E sì – si lasciò scappare a un certo punto – che voi arrivate da una città in cui si dice che la moda sia tutto...”

Giovanni non sbuffò solo per non sembrare maleducato, ma la sua impazienza trapelò dalle sue parole, quando disse: “Firenze non è più la città della moda da un po'. Sapete chi è Savonarola, immagino...”

Il Novacula annuì e si tirò un po' indietro, come a essersi accorto di aver esagerato: “Intendevo solo dire che da un uomo come voi mi aspettavo più attenzione a certe cose.”

Il Medici cercò di far cadere il discorso con una seconda alzata di spalle e poi si immerse nei suoi pensieri senza parlare più.

Quella mattina, mentre alla rocca arrivavano i carretti con il cibo offerto dai ricchi forlivesi che erano rimasti nelle campagne per tutto il corso della peste, erano tornate anche le staffette da Imola e Forlimpopoli.

Piero Landriani aveva scritto per dire che la peste li aveva appena sfiorati e che chiudendo le porte di Forlì il contagio era stato del tutto scongiurato anche a Forlimpopoli.

Simone Ridolfi, invece, annunciava che Imola aveva riaperto le porte anche prima di Forlì e che le perdite erano state contenute. Aggiungeva pure che non c'erano problemi per cominciare i lavori a Bubano e che lui stesso – 'assieme a mia moglie' aveva voluto sottolineare – sarebbe andato in loco per controllare in che stato verteva di preciso l'ammasso di rovine lasciate dai francesi qualche anno prima.

“Ecco qui.” fece alla fine il Novacula, passando il pettina in mezzo ai capelli di Giovanni.

Il Popolano ringraziò e si alzò, mettendosi le mani nella scarsella: “Ditemi quanto vi devo....”

“Lasciate stare...” ribatté Bernardi, i cui occhi, involontariamente, erano corsi all'anello che campeggiava sull'anulare sinistro del fiorentino: “Consideratelo un regalo di nozze in ritardo. Non è molto, come dono, ma non navigo nell'oro.”

Il Medici lo guardò di soppiatto, chiedendosi se quella frase potesse significare qualcosa di più.

“Ascoltatemi – fece il barbiere, con un tono molto più colloquiale, abbassando perfino la voce, benché a parte loro non ci fosse nessuno nella barberia – in città parlano di quello che è successo alla rocca... Dicono che la Contessa getti nel pozzo i suoi amanti per toglierseli di torno...”

“Caterina non ha gettato nessuno dal pozzo... Quell'uomo è stato...” iniziò a dire Giovanni, sulla difensiva, ma il Novacula stava già facendo segno di no con la testa.

“So che queste voci vengono ingigantite. Vi sto solo dicendo di stare attenti. Anche se non ho avuto molti clienti, da che ho riaperto – continuò il barbiere, rimettendosi le forbici nella cintura – tutti quanti, invariabilmente, mi hanno parlato di due cose: del pozzo e di voi che le eravate accanto in corteo alla riapertura delle porte.”

Il fiorentino si morse l'interno della guancia e incrociò le braccia sul petto: “Non so che dirvi... Io e Caterina abbiamo deciso di non negare il nostro stato. Siamo sposati e...”

“Non vi dico di negarlo, ma state attenti a sottolinearlo troppo.” lo mise in guardia Andrea, accompagnandolo già alla porta: “Le notizie corrono veloci e so che a vostra moglie non farebbe troppo comodo che questa storia si sapesse in tutta Italia...”

“Ieri è stata la prima volta che ci siamo esposti.” si schermì il Popolano, affiancando il barbiere e sporgendo un po' in fuori il mento ben rasato: “Sapete bene che finora abbiamo cercato di non gridare al mondo che siamo sposati.”

“Ne siete sicuro?” fece allora Bernardi, tornando a fissare la mano sinistra del Medici: “L'avete seguita quasi sempre in giro per Forlì, durante la peste, e poi quell'anello... Un nodo coniugale uguale a quello della Contessa. Quell'anello grida la verità anche a chi non la vuole sapere.”

Coprendosi istintivamente l'anello con l'altra mano, Giovanni fece un cenno secco con il capo e provò a congedarsi: “Arrivederci, Bernardi.”

“Stasera ci sarà un banchetto alla rocca, vero?” si informò il Novacula, apparendo quasi sulle spine.

Il fiorentino strinse gli occhi, ma poi annuì.

Il barbiere lo fissò a lungo, quasi si aspettasse qualcosa in più e in quel momento il Medici fu certo che attendesse di sentirsi invitare. Fosse stato per lui, l'avrebbe fatto subito, ma sapeva che Caterina era contraria a coinvolgere quell'uomo in quel genere di banchetti.

La Tigre aveva paura che sottolineare troppo la sua amicizia con un suo suddito che nemmeno aveva la scusa della ricchezza avrebbe portato la gente a diffidare di lui, e così nessuno, o ben pochi, sarebbero andati da lui a farsi sbarbare e a sparlare di lei.

“Una simile fonte di informazioni – aveva detto una volta la Contessa – non può andare persa per un motivo stupido come un banchetto. L'informazione è una parte fondamentale del potere. Se perdo quella, non mi basterà un esercito per restare al comando.

“Passate una buona serata...” concluse il Novacula, dopo un po', capendo che il fiorentino non aveva alcuna intenzione di mangiare la foglia.

Giovanni lo salutò di rimando e uscì in strada, accelerando il passo – ancora un po' claudicante dall'ultimo attacco di gotta – e raggiungendo Ravaldino appena in tempo per incrociare la moglie che stava andando nelle cucine a supervisionare la preparazione della cena.

“Ti dico che ne sta soffrendo.” assicurò l'uomo, dopo averle riassunto ciò che lui e il barbiere si erano detti: “Dovresti dargli più risalto. Pagalo per essere lo storiografo ufficiale di Forlì. Lasciagli chiudere la barberia. Dagli più importanza.”

“Lo sai che non posso...” ribatté secca Caterina, guardando altrove.

Erano nel corridoio che portava alle cucine e là sotto, tra le spesse pietre dei muri di Ravaldino, il freddo dell'inverno non era ancora andato via.

“Troverai un altro informatore. Ti dico che, continuando a fare così, finirai per trovare un nemico in quello che credevi un amico.” la mise in guardia il marito: “E poi quell'uomo ti ha salvato la vita già più di una volta. Non credi che meriti un riconoscimento?”

“Quando ho provato a concederglielo, è stato lui a non volerlo.” ricordò la Sforza, ricominciando a camminare, per chiudere in fretta l'argomento.

Giovanni sospirò e le disse, filandole dietro: “Ti prego, Caterina, pensaci. Ragionaci sopra. Ti chiedo solo questo.”

“Ci penserò, ma non credo che cambierò idea.” lo avvertì la donna e poi, quando già si sentivano le voci delle cuoche, tra cui spiccava pure quella di Bianca che, tanto per cambiare, doveva essersi imboscata nelle cucine per chiacchierare con le sue amiche, la Contessa gli accarezzò la guancia liscia e concluse: “Vai a prepararti, adesso. Stasera ti siederai alla mia destra. Basta nasconderci. Al diavolo quello che dice Bernardi. Sono stanca di stare attenta, te l'ho già detto.”

Il Popolano afferrò la mano della moglie che stava scivolando sul suo mento e disse: “Va bene, non ci nasconderemo più.”

 
   
 
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