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Autore: Capitano Rogers    30/11/2017    2 recensioni
Axel è un ragazzo problematico che vive con suo padre e la sua matrigna, con cui non ha un buon rapporto. Le cose prendono una piega differente quando si trasferiscono in una nuova città, dove sperano di riuscire a plasmare un po' il pessimo carattere del figlio.
Nonostante ciò, però, tutto va per il verso sbagliato.
[ AkuRoku ]
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aerith, Axel, Roxas, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun gioco
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«La mia notte mi soffoca per la tua mancanza. 
La mia notte palpita d’amore, 
quello che cerco di arginare ma che palpita nella penombra, 
in ogni mia fibra. 
La mia notte vorrebbe chiamarti ma non ha voce.»



I

“You are note alone, I am here with you” così recitava la canzone di Michael Jackson che ascoltava a ripetizione come un mantra, mentre dal finestrino osservava il cielo rossastro e le case che sfilavano davanti a lui, come a volersi pavoneggiare ai suoi occhi; si mostravano  come le fanciulle più belle della serata e, seppur stanco, non riusciva a distogliere lo sguardo. 
Sbatteva lentamente le palpebre e, ad ogni nota della canzone – “Though we’re far apart, You’re always in my heart” – non riusciva ad evitare di spostare lo sguardo, osservando le due figure che, rilassate e abbandonate contro ai sedili, gli stavano davanti. 
Alla guida –da più di cinque ore- c’era suo padre Reno, così identico a lui da temere di poter essere la sua copia adolescente, con gli stessi capelli color del fuoco e gli occhi accesi, vispi e lo stesso sorrisetto furbo di chi, in effetti, ha qualcosa da nascondere. Poteva dire che questa somiglianza con lui era uno dei tanti  motivi dell’odio che nutriva nei suoi confronti. 
Al fianco dell’uomo si trovava la sua seconda moglie, così innocente e giovane da parer una ragazzina. Se ne stava per i fatti suoi, silenziosa, e di tanto in tanto se ne usciva con un sorriso nei suoi confronti; non c’era che dire, Aerith sarebbe stata una donna perfetta, se solo non avesse preso forzatamente il posto di sua madre. 
Sbuffò, tornando a  guardare da fuori il finestrino. 
Poi c’era lui, Axel. L’unico figlio di Reno e figlio acquisito di Aerith, che sedeva dietro di loro comodamente, abbandonato disordinatamente sopra entrambi i sedili . Non rivolgeva mai un sorriso a nessuno dei due genitori e, ad essere sinceri, era abbastanza raro che avesse anche una sola parola gentile per qualcuno che non fosse il proprio riflesso. 
«Siamo quasi arrivati, siete contenti?», la voce di Reno riuscì a coprire quella di Michael Jackson e, con un gesto abbastanza infastidito, si sfilò dall’orecchio l’auricolare così da prestar maggior attenzione a quel che diceva l’uomo, senza però parlare. Quello notò i movimenti del figlio e, allora, lo guardò dallo specchietto retrovisore, inarcando un sopracciglio. 
«Tu, là dietro, sei contento?»
«Quando potrò scendere da questa trappola infernale, allora, sarò contento» ,esclamò con un ennesimo sospiro, gonfiando e sgonfiando i polmoni in meno di un minuto. Lanciò una minuziosa occhiata in direzione di Aerith e allora si concentrò altrove, notando i movimenti della donna. 
Gli dispiaceva odiarla in quel modo ma quando sorgevano questi dubbi, Axel, pensava a sua madre, alla sua vera madre, con i suoi lunghi capelli neri e il viso sempre dolce, materno. Tifa era stata la donna che lo aveva messo al mondo e nonostante i suoi vari problemi, nonostante la lontananza, e il matrimonio del padre con Aerith, continuava ad esserlo. 
Fu proprio quest’ultima a catturare l’attenzione dei due uomini presenti, inducendo entrambi a voltarsi verso di lei mentre congiungeva le mani e si portava le dita al volto, sfiorandosi le guance. 
«Sono così impaziente, sarà l’inizio della nostra nuova vita!», parlava, visibilmente eccitata. I suoi occhi si andavano ad accendere di una luce propria ed ogni volta che accadeva, Reno, si ritrovava a fissarla con sguardo sorpreso, meravigliato. Si chiedeva come fosse possibile avere tanta fortuna ma a detta sua, Axel, l’avrebbe definita sfortuna. 
Scrollò un po’ le spalle. 
«Quante volte volete iniziare una nuova vita? Il vostro matrimonio non era un ennesimo inizio, mh?» , Axel parlò con fare stanco e  provato. 
La canzone finì con una nota bassa e lui, allora, si sfilò del tutto anche l’altro auricolare, inspirando a fondo. Sapeva di essere vicino a casa, lo poteva ben notare dal “ci siamo” di suo padre e dalla via abitata che andarono ad inforcare dopo una curva, formata da case della stessa grandezza ma diverse esteticamente. 
«Guardate quella casa!», esordì poi Aerith, riuscendo ancora una volta a far voltare i due uomini. Fissava una casa quadrata, grande, con un tetto largo e scuro. In sé, le mura esterne dell’abitazione erano di un giallo canarino tenue, quasi più bianco che giallo. Sul portico c’era una sedia a dondolo con ancora sopra una coperta ed un libro e, poco distante, un tavolino in fine legno, intrecciato. 
Per alcuni secondi anche Axel, così come il padre, si perse a guardare. 
«Però. Iniziare una nuova vita in una casa del genere sarebbe perfetto», disse l’uomo con un pesante sospiro e, a malincuore –sentimento generale, in quel momento- inforcò il vialetto della casa affianco, anch’essa grande ma di un bianco deciso, ferreo. Un bianco che più lo guardavi e più pareva bianco. 
«Eccoci qui!» , soggiunse l’uomo, spegnendo la macchina dopo aver parcheggiato davanti al garage chiuso. Si guardò un po’ attorno, come a voler tutto sott’occhio, e poi osservò la moglie.
«Pronta?»
In quel preciso momento nell’auto si andò a materializzarsi un emozione generale che poteva essere sia positiva che negativa. Di sicuro, c’era da dire, mentre Axel scendeva dalla vettura e si tirava dietro la sua borsa a tracolla, di sicuro non era il ragazzo più felice del mondo, anzi. 
Reno lo fermò prima che potesse superare l’auto, fischiandogli dietro. Lo fece fermare, certo, ma non voltare. L’uomo rimase a fissarlo, mentre allungava la mano in direzione di sua moglie e attendeva, pazientemente. 
«Quel ragazzo mi farà morire, prima o poi», borbottò, mentre riceveva sul palmo aperto il mazzo di chiavi della loro nuova abitazioni. Lanciò uno sguardo rassegnato alla donna, quasi a volerle chiedere scusa, e poi fischiò ancora in direzione del ragazzo. 
«Ehi, campione. Non dimentichi qualcosa? Spero proprio che tu non voglia entrare in casa buttando giù la porta.» 
Il fulvo si voltò meccanicamente, come colto sul vivo. Fissò le chiavi e poi l’aria tronfia del padre. 
«Sarebbe bello, ma dubito che mi sia permesso», esclamò, afferrando al volo le chiavi che il padre gli lanciò. 
«Dici bene ragazzo, dici bene. Vuoi fare tu gli onori di casa?», continuò, mentre finiva di liberarsi dalla cintura di sicurezza e a raccogliere le proprie cose. 
Borbottò un “come vuoi”, Axel, mentre si voltava e si indirizzava verso l’entrata della loro nuova casa. 
Infilò le chiavi nella toppa della serratura e sbuffò. 
Quando tornerò a casa mia, sarà il giorno più bello del mondo. Lo pensò mentre la porta si apriva e lui, rassegnato, entrava lasciando la porta spalancata. 
Rimase davanti alla rampa di scale, immobile, senza guardarsi attorno. 
Ai muri erano già state appese le foto di famiglia, da qualche parte c’erano delle riviste di chissà quando e su un mobile, affianco all’entrata, un telefono di casa chiuso. 
Quanto tempo avrebbe dovuto passare là dentro? Quanto sarebbe durata la sua punizione? 
Sobbalzò nel sentire una mano sulla spalla e, poco dopo, si rasserenò. In effetti se a toccarlo fosse stata Aerith, ora, non avrebbe smesso di divincolarsi. 
Alla donna era vietato posare una mano su di lui, questi erano i patti dettati da Axel per una civile convivenza. 
Il padre avvolse poi le spalle del ragazzo con un braccio, tirandoselo contro. 
«Allora, come ti sembra?», domandò, eccitato come un ragazzino mentre cercava di sporgersi per vedere zone della casa a lui, ora, inaccessibili, «Ti piace?» 
«E’ una casa. Non mi deve piacere per forza », soggiunse con una nota di fastidio nella voce. 
Aerith fece il suo ingresso poco dopo, portando alcune delle sue borse verso quella che doveva essere la cucina, visto il suo entusiasmo. 
«Ma la tua vecchia casa ti piaceva, o sbaglio?», gli fece notare ancora una volta il padre, più incline a stuzzicarlo che a parlare seriamente. 
«Nella mia vecchia casa c’era la mamma.», fece notare lui e il divertimento sparì del tutto dal volto del padre. Avanzò di un passo, staccandosi da lui. 
«Camera mia?» 
Reno ci mise un po’ a parlare, rimanendo concentrato sopra alla figura del ragazzo. I suoi movimenti, i suoi sguardi, le sue parole, tutto gli ricordava il perché erano finiti in quel posto. 
«La prima camera, davanti alle scale. E… Axel?», lo chiamò, ma non ottenne risposta, semplicemente proseguì a parlare quando lo vide fermo, sul terzo scalino, «so che siamo qui per quel che hai fatto, per come ti sei comportato, ma ti ho fatto un regalo. Un regalo… stupido, sicuramente per te lo sarà, ma spero che un po’ ti piaccia. E ricorda, Axel, se ti serve qualcosa io sono qui per…»
«Grazie per il regalo», si affrettò a parlare, Axel. Lo fece per non dover sentire l’ennesima bugia della giornata. 
Sono qui per te. Pensò, salendo i gradini con una calma estenuante. 
Era stanco di tutte queste bugie. 
** 
Il computer portatile sopra alla scrivania era suo, le trapunte sopra al letto anche. Gli apparteneva, in effetti, anche la libreria colma di libri affianco alla finestra, il televisore sulla parete e i vestiti dentro all’armadio, gli apparteneva tutto eppure, nonostante ciò, non riusciva a pensarla come camera sua. Il solo pensiero gli faceva correre brividi lungo la schiena. 
Si avvicinò al letto e abbandonò la borsa a tracolla, così da guardarsi attorno e stringere le labbra. 
Suo padre aveva parlato di un regalo ma lui non vedeva nulla di nuovo, là dentro. Era tutto come l’aveva lasciato neanche una settimana prima, quando avevano ultimato le sistemazioni. 
Di sicuro non era la prima frottola che suo padre gli raccontava. 
Si lasciò cadere sopra al letto a pancia in giù, fissando il pavimento.
Si diede dello stupido per averci creduto, poi. Come se il pensiero di ricevere un regalo, in quel periodo che si sentiva solo in dovere di ricevere prediche su prediche, avesse potuto seriamente migliorare la situazione. Si maledì per dei minuti buoni. 
Si girò sulla schiena e lì, allora, trattenne il respiro nel trovare il regalo di cui suo padre aveva parlato; il soffitto era colorato di scuro e su di esso, per tutto lo spazio, vi erano disegnate delle stelle, alcune collegate tra di esse, con una bravura così perfetta da risultare quasi reali. 
Axel rimase a guardarle, forse un po’ sorpreso. Se c’era una cosa di cui suo padre continuava a ricordarsi di lui era che aveva una passione infinita per il cielo, per le costellazioni. 
Si passò una mano sul volto, coprendosi gli occhi quando avvertì un brusio basso e poi i passi di suo padre che lo portavano sulla soglia della camera. 
Reno non parlò subito, rimase a guardare un po’ il figlio e un po’ il soffitto. Alla fine si disse costretto a parlare, così almeno da palesarsi agli occhi del ragazzo. 
«Sarà il primo ed ultimo regalo che riceverai, sappilo, ma volevo che… insomma … » Reno incominciò a balbettare, messo evidentemente alle strette dalle sue stesse parole. 
«Lo so, è una punizione non una vacanza. Lo so », per una volta parlò con un tono di voce basso, arrendevole. Anzi, forse c’era da dire che, più di dirsi battuto, si sentiva sconfortato al pensiero che, nonostante tutto, ancora una volta suo padre non avesse affrontato il vero problema. 
Si mise a sedere e Reno si poggiò allo stipite della porta. 
«Con me … puoi parlare, lo sai.», soggiunse poco dopo, annuendo lentamente. Per quanto fosse preoccupato, la sua espressione sembrava quasi chiedere l’incontrario, sembrava chiedere altro silenzio anziché parole. 
«Sì, come no. Lo so. Ora… ti dispiacerebbe, che ne so, andartene?» Axel si alzò dal letto, dandogli le spalle. Si diresse verso la finestra che dava sul fronte della casa e rimase lì a guardare. 
Inizialmente non fece caso al ragazzo dai capelli biondi che proveniva dalla bella casa, sino a quando non lo vide andare a nascondersi dietro all’albero che stava davanti alla sua finestra. 
Axel si concentrò sul ragazzo, riuscendo perfino ad incrociare il suo sguardo. 
Inarcò un sopracciglio quando gli intimò di fare silenzio. 
«Hai capito quel che ho detto, Axel?» 
La voce di Reno lo fece sobbalzare, come se si fosse appena reso conto di averlo lì, in camera. 
Il ragazzo si voltò verso il padre. «Come dici?» 
«Ti ho detto se ti va il cinese, per cena. Aerith non ha molta voglia di mettersi subito ai fornelli.» 
«Sì, va bene. Il cinese va bene.» 
Axel tornò a dare le spalle al padre e a guardare davanti a sé, così da incrociare ancora lo sguardo del biondo. 
Reno se ne andò senza farsi domande, senza chiedersi sul perché di punto in bianco Axel si mettesse a mangiare cinese quando, era risaputo a tutti i suoi amici, era una delle cucine che detestava. 
Il fulvo aspettò ad aprire la finestra sino a quando non sentì Reno chiudere la porta della sua camera e, allora, si appoggiò al davanzale, così da guardare giù. 
«Ehi, tu? Che stai facendo?», domandò, attirando così ancora l’attenzione del biondo. 
Quello si voltò ancora verso di lui, facendogli segno ancora una volta di parlare a bassa voce. 
«Mi nascondo, non si vede?» 
«Si vede, certo. Ma da cosa ti nascondi?», domandò Axel, guardandosi attorno. 
improvvisamente sentì un incredibile voglia di raggiungerlo in giardino e perdere un po’ di tempo come quando era un bambino. 
«Non lo so, in effetti. Scappo e basta. Tu che fai alla finestra?» , chiese di rimando lo sconosciuto. 
Sorrideva con fare infantile e i suoi occhi si andavano a socchiudere di tanto in tanto, facendo fare la medesima cosa anche ad Axel, senza che se ne potesse rendere conto. 
«Nulla, ti guardo nasconderti. Sai che sei su una proprietà privata?», soggiunse ancora una volta, inarcando un sopracciglio. 
«Ah, sì?», quello si guardò attorno e poi, con fare teatrale, si guardò la suola delle scarpe, «Devo ripagarti?»
«No, però… puoi dirmi come ti chiami. Io mi chiamo Axel, ci siamo trasferiti oggi. Abiti nella casa affianco? E’ molto bella.» 
Il biondo ridacchiò. 
«Quanto parli, Axel! Mi chiamo Roxas, se vuoi saperlo i guardò attorno» , poi osservò la propria casa increspando le labbra, «E’ una casa, non ha nulla di speciale. Non deve piacere per forza.» 
Axel avvertì un calore sparso per tutot il suo volto, concentrato principalmente sulle sue guance. 
Roxas andò ad allarmarsi quando la porta di casa sua, evidentemente, si andò ad aprire. Si mise in una sorta di posizione di attacco e poco dopo sollevò lo sguardo su Axel. 
«Mi dispiace, devo andare.» 
«Allora scappi da qualcuno? Dai tuoi?», domandò Axel, sporgendosi un po’ dalla finestra. 
I suoi lunghi capelli rossi, scarlatti, parvero attirare l’attenzione di Roxas che per un po’ vacillò. 
Non disse nient’altro, semplicemente continuò a correre, uscendo dalla sua proprietà privata. 
Axel rimase per un po’ a guardarlo, continuò a farlo sino a quando non riuscì più a distinguere la sua figura. Gli fu impossibile, infatti, sporgersi così tanto da vederlo affianco alle altre abitazioni.

Scese neanche un ora dopo e con suo sommo piacere trovò i genitori calmi, placidi sopra al divano; Reno aveva allungato le gambe sopra al tavolino e con un braccio cingeva le spalle di Aerith, mentre questa sonnecchiava un po’ sopra alla sua spalla. 
Sempre sul tavolino, poi, ancora dentro al sacchetto, c’erano sistemati dei pacchettini caldi, fumanti. 
«La cena è servita.», esordì Reno alla vista del figlio, facendo smuovere un po’ la moglie. Gentilmente la riscosse dal torpore nel quale era caduta e si allungò a distribuire i pacchetti caldi. Ne allungò due ad Aerith e poi uno per sé e per Axel. «Tieni, non fare complimenti.»  
Axel si avvicinò silenziosamente e alla stessa maniera si mise seduto a terra, davanti a due, così da dare le spalle al televisore acceso a basso volume dietro di sé. 
Scoperchiò con cura il pacchetto e la vista dei ravioli al vapore, lucidi e morbidi, gli fece venire la nausea. Rimase a contemplarli per un po’, prima di prendere le bacchette e sollevarne uno. 
Guardò poi suo padre con la voglia di fargli notare, poi, quanto in effetti lui odiasse quella cucina. 
Non disse nulla e, mandando giù un boccone di saliva dovuta alla nausea, masticò frettolosamente il raviolo, cercando di non pensarci. 
Aerith, invece, con un cucchiaio prese un po’ di riso. «Tra poco inizia la scuola, sei contento?» Domandò in direzione del ragazzo, sorridendo leggermente. 
«Manca… meno di una settimana, vero?» 
Il giovane non rispose, continuò semplicemente a mangiare con sguardo chino. Ci pensò suo padre, allora, a prendere parola.
 «Sì, inizia lunedì. E’ così emozionato che a stento riesce a parlare, vero campione?» 
Strinse le labbra Axel, mandando giù, ora, non solo la saliva e il raviolo, ma anche tutte quelle parole che minacciavano di voler uscire dalla sua bocca. 
Gli altri quattro bocconi di ravioli li ingurgitò frettolosamente, così da potersi alzare subito. 
«Buonanotte.», esordì allora, senza guardare realmente nessuno dei presenti. 
Per tutto quel lasso di tempo, Aerith e Reno, avevano incominciato a lanciarsi occhiate dubbiose che alla fine erano finite in una nota di delusione quando quello si alzò, per andarsene via subito. 
Axel non si soffermò a guardare né suo padre e tantomeno sua moglie, semplicemente salì le scale con una rinomata fretta. 
In quel momento, mentre puntava al bagno, si domandò se fosse stato il caso di parlare di Roxas, del figlio dei vicini e della sua fuga. 
Si chiuse all’interno del bagno e, avvicinandosi di corsa al water, si piegò in due. 
Odiava la cucina cinese e, ancor di più, odiava dover essere sincero con suo padre. 

**

Quella notte, più di tutte le altre, la trovò insopportabile; suo padre e sua moglie erano andati presto a letto e, considerando i risolini alla quale si lasciavano andare di tanto in tanto, dormire non era nei loro progetti, come non lo era nemmeno in quelli di Axel. Lui, all’incontrario, passava il tempo alla finestra, con gli auricolari nelle orecchie e il cellulare in mano, concentrandosi sopra ai svariati messaggi che gli comparivano davanti agli occhi. 
Sporco finocchio.  
Ti sei già suicidato? 
Fai ancora la femminuccia? 
Lesse solo pochi dei messaggi che aveva ricevuto e, alla fine, dopo alcuni secondi, posò il telefono sopra al ripiano della finestra, socchiudendo gli occhi. Alle volte si chiedeva per quale motivo continuasse a farsi del male in questo modo, quando nessuno –in quel momento- glielo imponeva. Ma come poteva ignorare qualcosa che sapeva riguardargli?  
Si leccò le labbra alla svelta e, tirando su con il naso, ricacciò all’indietro le lacrime. Gli occhi corsero un po’ lungo l’interno della camera e alla fine, come fu ovvio immaginare, si perse a guardare oltre la finestra e fu lì che, allora, sobbalzò tanto da alzarsi di scatto dal piano e inciampare, nell’indietreggiare frettolosamente. 
L’albero che gli stava davanti alla finestra ora, si poteva dire, ospitava un qualcosa di differente da un animale. Difatti, sul ramo spesso che punzecchiava quasi la sua finestra, appoggiato al tronco, c’era seduto come se nulla fosse Roxas. 
Il biondo osservava senza battere ciglio l’interno della camera e, quando Axel inciampò, rise. 
Non disse nulla, però. Aspettò a parlare, attese di vedere il rosso avvicinarsi alla finestra e aprirla. 
Per un attimo, il fulvo, non disse alcunché. Fu Roxas a prendere la palla al balzo e a parlare, cercando di sbirciare dentro alla finestra. 
«Penso di averti spaventato, scusami.», esordì, dondolando appena le gambe. Vestiva come un ragazzino di strada, con i jeans strappati e una maglietta a maniche corte, slargata. I capelli biondi erano spettinati e la punta del naso sporca di terriccio, «Ti ho visto da giù e allora…» 
«Ti sei arrampicato.», concluse ancora un po’ stordito Axel. Si decise ad abbassare il livello della voce solamente quando avvertì altre risate dalla camera di suo padre. Strinse brevemente le labbra, sporgendosi un po’ in avanti. «Ma quanti anni hai, si può sapere? Due, per caso?» 
«Al dire il vero di anni ne ho 16, se proprio lo vuoi sapere. E tu quanti ne hai, 30 per caso? Visto che fai il grand’uomo…», Roxas roteò un po’ gli occhi, visibilmente divertito. Lo fece, poi, dondolando le gambe nell’aria fresca della sera. 
«Ne ho 17. Non c’è molta differenza di età.», notò Axel, sbuffando un po’. Per i suoi atteggiamenti, però, Roxas pareva ancor più piccolo. Axel, con molta calma, tornò a sedersi sopra al davanzale della finestra, appoggiando la schiena al muro e fissando di traverso Roxas. 
«Che ci fai ancora in giro?» 
«Volevo conoscere i nuovi vicini.», esclamò tutto divertito Roxas, come se stesse nascondendo qualcosa. Lanciò uno sguardo fugace a casa sua, prima di sospirare. 
«A dire il vero… non vado molto d’accordo con i miei genitori, e i miei fratelli. Quindi sto spesso in giro.» 
«Anche a quest’ora?», investigò poco dopo Axel, sempre più incuriosito dal ragazzo, «Se vuoi puoi tornare domani mattina e presentarti a mio padre.», concluse poco dopo, annuendo così da voler marcare maggiormente quelle parole. 
Roxas scosse il capo. 
«Sarebbe meglio di no, per il momento. I miei genitori, credimi, sanno essere delle vere rotture di scatole! Nonostante non mi vogliano in casa sarebbero disposti a far cadere il cielo in terra, se dovessero sapere che vengo aiutato nelle mie fughe. Quindi meglio di no, almeno fin quando le acque non si calmano. Sai, loro non sono poi così male!» Roxas smise di dondolare le gambe e, tenendosi sul ramo per non cadere, le incrociò così da schiacciare le caviglie. Quella posizione, oramai, non gli procurava più dolore, non dopo tutte quelle giornate che aveva passato appollaiato sui rami degli alberi della città. «Tua madre dov’è?» 
«Come?» , domandò abbastanza sorpreso Axel, rimanendosene accomodato con tranquillità. Teneva una gamba piegata sul davanzale e l’altra a terra. 
«Prima hai detto solo “mio padre”, dov’è tua mamma?», insistette ancora una volta Roxas, continuando a sporgersi per guardare all’interno come se, alla fine, avesse potuto trovare realmente qualcosa. 
«Lei non è qui con noi. Mio padre si è risposato da un anno, più o meno. Vivo con la mia matrigna.», esclamò lui, scrollando le spalle. 
Il biondo rise. «Mi pare di averla vista oggi, in effetti. Non sembra così brutta da essere chiamata matrigna. Oppure mi sbaglio?»
«Sarà, ma di sicuro non è la persona più bella del mondo, e non parlo dell’aspetto.» 
Il rosso si decise poi a continuare quando Roxas, prontamente, rispose con un svelto “Ah, sì?” invogliandolo così a continuare con quel suo racconto. «Certo! Dovresti proprio vedere le aree che si dà, quella donna. E poi dico, ha trent’anni e passa praticamente, e si comporta come una bamboccia! Proprio non la sopporto, davvero.» Scosse la testa, rabbrividendo un po’. 
Lo fece come se, in effetti, Aerith fosse proprio lì davanti a lui e la sola vista gli provocasse un immenso disgusto. 
«Mi dispiace per te, allora. Sai, mia mamma è  spesso via per lavoro e spesso mi è capitato di immaginare mio padre con un'altra donna. Sarebbe… strano.»
«Disgustoso, sì. E poi la mamma è sempre la mamma, no?» Concordò Axel, annuendo subito. 
Roxas rispose con un sorriso e poi guardò il cellulare del ragazzo, inducendo proprio quest’ultimo ad avvampare vistosamente. 
In effetti lo aveva visto in un momento delicato. 
«Che guardavi, prima? Sembravi sul punto di piangere.», osservò Roxas e questa volta, però, non lo fece sorridendo. 
«Non mi va di parlarne. Diciamo che non siamo qui per una vacanza, ecco.», mormorò il giovane, abbassando lo sguardo. Anzi, continuava a sperare di fare presto ritorno a casa sua, da sua madre e da quei pochi amici che lo stavano aspettando. Lo pensò anche se, in effetti, Roxas poteva essere il suo primo amico in un posto del genere, in quella determinata situazione. Sollevò lo sguardo su di lui. «Ma dimmi. Tu vai alla scuola del paese, vero? Io inizierò a frequentare da Lunedì.» 
Roxas scosse il capo. «No, vedi … vado in una scuola speciale, diciamo. I miei due fratelli sono tutti e due più grande di me e fanno entrambi gli avvocati, quindi … mio padre ci tiene a mandarmi in una scuola rigida di educazione, conoscendomi bene. Molto probabilmente seguirò il loro percorso! E tu invece che vorresti fare?» 
Boccheggiò per alcuni secondi, Axel. Non ci aveva mai pensato. «Non lo so, in effetti.»
«Ti piacciono le stelle, no?» , Roxas indicò con un cenno del capo il soffitto della sua camera. «Potresti fare l’astronauta e andare nello spazio!», continuò, sgranando gli occhi per l’emozione delle sue stesse parole. «Sarebbe da urlo! Mi porteresti con te, vero?»
«Mh, non penso che si possano portare passeggeri ma … fai un po’ come vuoi!» Axel lo guardò, inclinando il capo di lato, «Sei parecchio strano, tu.» Lo disse ad alta voce e ciò provocò una risata divertita del diretto interessato. 
«E che ti ridi, ora? Sono serio! Sei uguale ad Aerith. Sembri un bamboccio!»
«E tu sembri un musone, ma non per questo te lo vengo a dire! Comunque… penso che ora sia abbastanza tardi per stare a parlare alla finestra, e poi fa anche freddo. Quindi se vuoi ci vediamo domani, mh?», domandò, assumendo ora un espressione un po’ più “calma”. 
I suoi occhi azzurri tradivano una certa impazienza di rivederlo subito e la cosa, Axel, non se la seppe spiegare. 
Possibile che fossero così simili, loro due? Entrambi soli al mondo e con la voglia di attaccarsi alla prima persona simile che trovavano?
Axel deviò lo sguardo, scrollando le spalle. 
«Sì, faresti meglio a tornare a casa, sai? E poi… sarò in punizione almeno per un mese, senza contare la scuola, quindi … puoi venire a farmi compagnia quando vuoi!», fece notare Axel, mettendosi in piedi, alzando le mani per porle sulla finestra, «Poi mio padre mi ha detto che qui accadono cose strane, fuori dal mondo. Vorrei proprio vedere di cosa parla, in effetti.»
«Non ho mai sentito parlare di cose strane, ma … possiamo rimediare domani, allora!», Roxas si mosse un po’, forse un po’ troppo velocemente perché rischiò di cadere di lato, come un sacco di patate. Ciò fece impallidire Axel che continuò a fissarlo, sbigottito,  «Sto bene, sto bene!» Cantilenò un po’ Roxas, tornando a ri-acquistare l’equilibrio. 
Con molta calma si voltò e prese ad abbracciare il tronco, così da scalarlo per poter raggiungere nuovamente terra. 
Si muoveva sicuro, deciso, e i suoi movimenti mostravano una vera e propria abilità. 
Axel rimase alla finestra e con un cenno del capo, allora, rispose al saluto di Roxas, intento ad agitare un mano con fare frenetico, fuori dal mondo. 
Chiuse la finestra e l’osservò dirigersi furtivamente verso casa sua per poi sparire sotto al portico. 
Vide chiaramente il riflesso di luce sul terreno buio e poi nulla, nient’altro. 
Quello sì ch’era un ragazzo strano, non come lui. Era così fuori dal comune che forse, forse, Axel poteva incominciare a sperare seriamente di avere un vero e proprio amico, in quel posto. 
Non sarebbe poi così male. Pensò, lasciando il cellulare là sul davanzale della finestra mentre a passo lento, stanco, si avvicinò al letto. 
Si lasciò cadere a peso morto sul materasso e con movimenti secchi, stanchi, si mise sotto alle coperte così da sistemarsi sul cuscino e chiudere gli occhi. 
Si addormentò poco dopo, nell’arco di una manciata di minuti, immaginando di poter seriamente passare in mezzo al cielo per raggiungere ogni singola stella. 
   
 
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