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Autore: giambo    02/12/2017    2 recensioni
Crescere è una sfida difficile. Lo sa Naruto, lo sa Hinata così come lo sanno tutti i loro compagni ed amici di Konoha. Eppure, in un mondo che sta vivendo una pace con ancora troppi lati oscuri, essi dovranno imparare a diventare adulti, ad affrontare i propri demoni, le proprie paure, ed anche i propri fallimenti. Con la consapevolezza che una coppia non si costruisce in una notte di passione sfrenata, ma giorno dopo giorno, affrontando le sfide della vita, consci delle proprie forze e delle proprie debolezze.
Raccolta di One-Shot incentrata sulla coppia Naruto/Hinata, ma con ampi spazi dedicati alle altre coppie canoniche del manga, con in più qualche sorpresa.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Boruto Uzumaki, Himawari Uzumaki, Hinata Hyuuga, Kurama, Naruto Uzumaki | Coppie: Hinata/Naruto, Sasuke/Sakura, Shikamaru/Temari
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
Capitoli:
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The Biggest Challenge

 

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Croci

parte seconda

 

 

Mirai pestò i piedi nel tentativo di riscaldarsi, percependo lo stomaco brontolare dalla fame. Era l’alba e banchi limacciosi di nebbia si alzavano dal terreno, riempiendo l’aria di fredda umidità. Al suo fianco, ingobbiti per il freddo, c’erano Aimi e Shigeru, entrambi cupi a causa del freddo e del digiuno forzato.

Il tempo passò lentamente, mentre i primi raggi di sole si aprivano faticosamente la strada attraverso la nebbia. Mirai iniziò a sfregarsi le braccia nervosamente, le mani gelide nonostante indossasse i guanti regalategli da Kiba, incapace di rimanere ferma. Le parole di Shikamaru la sera prima l’avevano irritata oltre ogni misura. Era come se il suo padrino vedesse in lei una bambina immatura, ignorando tutti i progressi compiuti negli ultimi tempi. Un qualcosa che non riusciva a tollerare minimamente. Shikamaru era stato una figura fondamentale per lei, fin da quando era nata. Ogni ricordo bello che possedeva era in qualche modo collegato allo shinobi. Sentirsi rimproverare come una mocciosa viziata da lui le aveva acceso un fuoco dentro, qualcosa di acido, cattivo, bruciante. Un miscuglio di sensazioni che le donavano il desiderio impellente di fare a pezzi qualsiasi cosa le si parasse di fronte.

Rivolse un’occhiata ai suoi compagni, reprimendo a stento un moto di stizza. Poteva anche accettare il fatto che accusare gli altri dei propri fallimenti fosse sbagliato, ma le rimaneva ancora poco chiaro come avrebbe fatto a collaborare con quei due.

Non mi importa niente di loro. Se voglio raggiungere il mio obbiettivo dovrò dare il massimo. Non mi farò fermare da quell’arrogante di Aimi.

La comparsa della figura di Hanabi interruppe i suoi pensieri bellicosi. Quest’ultima indossava gli stessi vestiti del giorno prima, con l’aggiunta di una sacca da ninja legata alla vita. Un dettaglio che fece capire ai tre Genin come quel giorno avrebbero visto la loro Sensei in azione.

“Probabilmente vi starete domandando in cosa consisterà questo test.” esordì senza preamboli la kunoichi. “La risposta è semplice: un’esercitazione sul campo.”

I tre ragazzini inclinarono la testa, perplessi da quella definizione. Sorridendo, Hanabi estrasse dalla tasca due campanelli d’argento, accrescendo la loro confusione.

“Fino ad ora, vuoi avete lavorato soprattutto sulla teoria.” la Jonin prese a scuotere i campanelli, diffondendo un rumore argentino nell’aria. “In Accademia avete sempre appreso ogni cosa in un ambiente protetto, dove sbagliare era considerata una cosa accettabile. Tuttavia, ora non siamo più in Accademia, anche se entro la fine di questa giornata, uno di voi ci tornerà.”

Quelle parole ebbero l’effetto di abbassare ulteriormente la temperatura nella zona circostante. L’aria divenne carica di tensione, mentre una goccia di sudore freddo prese a scendere lungo la schiena dei tre novelli ninja.

Cosa significa?! E’ uno scherzo?!

“Vedete questi campanelli? Avete tempo fino a mezzogiorno per provare a sfilarmeli dalla cintura. Potete usare il terreno circostante come preferite, ed ogni strategia sarà ritenuta valida. Chi ci riuscirà potrà mangiare, oltre ad avere il permesso di rimanere. Se invece fallirete, verrete rispediti subito in Accademia, e dovrete ripetere l’ultimo anno.”

In quell’istante Aimi parlò, dando voce all’atroce dubbio che stava prendendo vita dentro ognuno di loro.

“Ma… i campanelli sono solo due. Questo significa che…”

Gli occhi di Hanabi brillarono di crudele divertimento.

“Che uno di voi, indipendentemente da come andranno oggi le cose, sarà costretto a tornare in Accademia.” la sua voce risuonò velenosamente dolce, cadendo però con la violenza di un tsunami sopra le teste dei ragazzini. “Domande?”

Mirai deglutì, il volto ricoperto da una patina di sudore. Aveva il cervello completamente vuoto, mentre le parole appena pronunciate da Hanabi le rimbombavano dentro, lasciandola svuotata dalla paura.

Potrei tornare in Accademia?

Era un pensiero intollerabile. Avrebbe significato fallire, essere un fallimento, incapace di rendere realtà i propri sogni. Ma soprattutto, avrebbe visto Aimi avere successo dove lei non ci era riuscita e questo le era impossibile da accettare.

Non importa… non fallirò!

Strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, contraendo ogni muscolo che possedeva. Non avrebbe mai perso, non arrivata a quel punto.

“Molto bene… potete cominciare!”

 

 

Circa un’ora e mezza dopo, Hanabi poteva tranquillamente ammettere di essere profondamente delusa da ciò che aveva appena visto. Certo, esisteva del potenziale, ma l’idea di doverlo tirare fuori da quei tre lattanti era sfibrante.

Da quello che aveva osservato, ognuno dei tre giovani Genin era profondamente diverso come carattere e punti di forza. Shigeru possedeva una capacità di leggere il territorio circostante incredibile, così come la sua capacità di sfruttare l’abilità innata del suo clan era notevole in rapporto alla sua età. Per due volte Hanabi era stata sul punto di cadere in una trappola preparata con cura maniacale da parte del giovane Aburame, e la cosa l’aveva colpita. Tuttavia, in entrambi i casi, Shigeru era apparso troppo prudente, preferendo rimanere nascosto piuttosto che osare un assalto una volta che la Hyuga l’aveva scoperto. Questo limitava di gran lunga le sue abilità, ma era un difetto che si poteva limare con discreta facilità.

Con Aimi le cose erano diverse. La Yogonuchi aveva tentato un paio di volte un assalto, fruttando le condizioni ambientali a lei favorevoli, quali un banco di nebbia particolarmente fitto. Hanabi però non aveva riscontrato alcuna difficoltà a prevedere il metodo d’attacco di quest’ultima, troppo scolastico e banale. Era sicuramente una ragazza che sapeva usare il cervello, oltre che possedere una padronanza del chakra molto superiore a quella di un novello Genin, ma era ancora troppo ancorata agli schemi che l’Accademia le aveva inculcato in testa. Lavorarci sopra non sarebbe stato per niente facile.

Mirai invece era una testa calda, irruente e rumorosa. I suoi assalti non erano solo banali, ma anche stupidi e privi di qualsiasi tattica alle spalle. Tuttavia, per quanto fosse irritante, Hanabi non aveva potuto fare a meno di notare quanto la mocciosa fosse portata per il corpo a corpo, con quale facilità modificava il proprio stile di lotta in una frazione di secondo. La sua non era improvvisazione e neanche fortuna. L’unica parola per definire il sangue caldo della Sarutobi era talento. Era una combattente nata, che si faceva guidare dal proprio istinto in battaglia. Sfortunatamente, quello era anche il suo punto debole.

“Rumorosa, priva di inventiva, banale e prevedibile.” osservò la Hyuga, subito dopo averle regalato un occhio nero. “Dire che sei un disastro sarebbe estremamente riduttivo.”

Mirai si rialzò subito, ferita nell’orgoglio. Non era mai stata brava ad aspettare il momento giusto per un assalto, dato che la sua pazienza si esauriva quasi subito. Da quel punto di vista, aveva preso molto da Temari.

Ora basta!

Hanabi spalancò gli occhi quando vide qualcosa che non poteva essere vero: un Genin che formava i segni per una tecnica di livello superiore.

Come può essere?! La Katon superiore è roba da Jonin!

“Katon: Drago di Fuoco!” una gigantesca fiammata rossa uscì dalle labbra di Mirai, investendo Hanabi e l’intera radura circostante per circa una trentina di secondi. Quando il fumo si dissolse, Mirai rimase sorpresa nel vedere l’area completamente deserta.

“Niente male, pivella.” la Sarutobi si voltò di scatto, osservando Hanabi a testa in giù sul ramo di un albero poco distante. “Sei riuscita a prendermi alla sprovvista, ti faccio i miei complimenti.”

Subito dopo, la kunoichi scomparve, ricomparendo dopo un istante di fronte alla ragazzina, tirandole un tremendo calcio al mento.

“Ma se non sfrutti l’istante dove abbasso la guardia, la tua tecnica diventa solo uno spreco di energie.” il colpo spedì a parecchi metri di distanza la Genin, lasciandola intontita al suolo.

Subito dopo, il corpo di Mirai svanì, lasciando al suo posto un ciocco di legno annerito.

Si è sostituita… prevedibile, ma è un buon diversivo.

Nell’ora successiva, Hanabi riuscì ad individuare ognuno dei membri del team, costringendoli a rapide fughe. Tuttavia, con il passare dei minuti, la Hyuga divenne sempre più nervosa: era palese che quell’esercitazione non stesse sortendo i frutti sperati. Decise di porvi fine prima di mezzogiorno, ormai stufa di gironzolare per il boschetto del campo di addestramento.

Dovrò usare le maniere forti per farmi capire da questi mocciosi.

Il primo a cadere fu Shigeru. Le sue copie di insetti erano ingegnose, ma la kunoichi era troppo esperta per lasciarsi ingannare. Finse di cadere preda di uno dei suoi sciami, solamente per sostituirsi e colpire alla nuca con un colpo secco il giovane Aburame, lasciandolo stordito.

E uno…

Aimi fu meno dura da sconfiggere. La ragazza tentò invano di moltiplicarsi per darsi alla fuga, ma Hanabi la intercettò, colpendola con un violento pugno allo stomaco.

E due…

Rimaneva solo Mirai, la quale dopo il fallimento della tecnica di fuoco si era tenuta in disparte, cercando di pensare ad un’idea per rubare uno dei campanelli.

E’ velocissima e per quanto arrogante non abbassa mai la guardia… il suo stomaco brontolò per il digiuno forzato, mettendole difficoltà a riordinare i propri pensieri. E quegli occhi sono inquietanti… pare che veda ogni cosa.

Per quanto odiasse ammetterlo, Mirai non sapeva cosa fare. La tecnica di prima l’aveva privata di quasi tutto il chakra, lasciandola in debito di ossigeno. Uno sfogo di rabbia che aveva pagato caro. Poteva reggere soltanto un altro attacco, e pertanto non poteva assolutamente fallire.

“Deve avere un punto debole…” borbottò a bassa voce, passandosi una mano tra i capelli.

“Certo che ce l’ho.” esordì una voce alle sue spalle. “Sono allergica alle pivelle incapaci.”

Mirai reagì allontanandosi di scatto, iniziando a formare i segni, seguendo il proprio istinto, ma Hanabi non aveva voglia di perdere altro tempo. Con un movimento inumano, la kunoichi si portò alle spalle della Sarutobi, la quale fu troppo lenta nel voltarsi.

“Buh!” la Hyuga la spedì lontano tramite un tremendo montante. La Genin precipitò ad alta velocità al suolo, schiantandosi violentemente con il tronco di un albero distante, dove rimase a boccheggiare senz’aria.

Hanabi si sistemò i capelli con un gesto meccanico, sbuffando per la noia.

“Fine dell’esercitazione.”

 

 

Una secchiata di acqua gelata fece rinvenire di colpo Mirai, la quale tossì violentemente. Si sentiva il corpo bloccato ed indolenzito, oltre ad avere un mal di testa atroce. Provò a muoversi, ma si accorse di essere fissata ad un tronco tramite delle corde.

Cosa è successo? tentò di divincolarsi, ma non ottenne alcun risultato di sorta. Ai suoi lati, su due tronchi simili, Shigeru ed Aimi erano nella sua stessa identica situazione.

“Ben svegliati.” Hanabi si trovava di fronte a loro, le braccia incrociate, mentre il caldo sole primaverile aveva preso ad illuminare la radura. “Avete dormito proprio bene, pivelli.”

“Cosa significa tutto questo?!” borbottò Aimi, tentando di divincolarsi con scarso successo. “Se i miei lo venissero a sapere…”

“Terranno la bocca chiusa, visto che decido io come si svolgono gli allenamenti, mocciosa!” la redarguì la Hyuga. “Vi ho legati perché avete tutti fallito miseramente la prova. Se avessi un minimo di buonsenso vi rispedirei in Accademia con un calcio così forte che non potreste sedervi sulle vostre chiappe per un anno intero.”

“Era un test impossibile!” si difese Mirai, senza smettere di lottare contro i nodi che la bloccavano. “Lei è un Jonin esperto, mentre noi siamo soltanto dei Genin!”

“Credi che questa scusa sia sufficiente per spiegare il vostro fallimento?” replicò Hanabi. “Se durante una missione incontraste un ninja più abile di voi vi arrendereste subito?! Mettereste in pericolo il vostro villaggio solo perché avete la spina dorsale di una lumaca? E’ questo il tuo Nindo, pivella?!”

Le parole sferzanti della kunoichi chiusero la bocca alla Sarutobi. Questi sentiva che, sotto il tono acido e sarcastico della sua insegnante, c’era del vero. La stessa verità racchiusa nelle parole del suo padrino.

Quando si fallisce non esistono scuse…

“Non avete fallito perché non avete afferrato i campanelli. Ad essere sincera, sarei rimasta stupita del contrario.” proseguì Hanabi. “Vi siete mai soffermati su come potermi affrontare? Avete mai riflettuto sul fatto che singolarmente non avete mai avuto una vera possibilità di battermi?” Aimi corrugò le sopracciglia, mentre Shigeru proseguì nel suo silenzio stoico. Tuttavia, era palese come anche lui fosse a disagio nel sentire quelle parole.

“Il motivo per cui dovrei farvi tornare subito in Accademia è solo questo: siete degli individualisti. Ed un ninja che ragiona solo per sé non andrà da nessuna parte. Ora siete una squadra, maledizione! E questo significa che dovete iniziare a comportarvi come tale, che si tratti di rubare un campanello o di sacrificarsi per i propri compagni, dovete ragionare sempre come team, come se faceste tutti parte di qualcosa di più importante.” Hanabi scosse la testa, emettendo un sospiro. Nonostante si aspettasse un simile risultato, era delusa dalla mancanza di collaborazione tra i tre.

“Ecco... questo era il vero test: scoprire il lavoro di squadra!” concluse con tono stanco. Li slegò, rimanendo soddisfatta nel vederli pensierosi: era segno che le sue parole erano entrate nelle loro piccole testoline.

“Domani vi voglio qui all’alba.” proseguì, lanciandoli addosso due cestini del pranzo. “Inizieremo con gli allenamenti, ma se non vedrò dello spirito di gruppo entro tre giorni, giuro sui miei antenati che vi riporterò tra i banchi a litigarvi i dolcetti, è chiaro?!”

“Sissignore.” fu la laconica risposta dei tre.

“Ora prendete quei cestini e sparite dalla mia vista!”

Mirai, Shigeru e Aimi obbedirono senza fiatare, tutti tenendo la testa bassa. Sapevano di aver fallito. Mirai non provava solamente delusione ma anche rabbia. L’idea di essere stata definita una debole priva di volontà l’aveva ferita nel profondo, molto più di quanto desiderasse ammettere. Si era sempre considerata una buona studentessa, abile ed in gamba. Ma nel giro di qualche ora sia il suo padrino che la sua Sensei l’avevano definita una debole, priva della forza per andare avanti. Era qualcosa che non riusciva ad accettare, per quanto capisse che c’era del vero in quelle parole.

Giunsero in silenzio ad una panchina, ognuno immerso nei propri pensieri. Mirai si sedette con uno sbuffo, infuriata con il mondo. Era così arrabbiata che non batté ciglio quando Aimi le si sedette affianco.

I loro stomaci ruppero il silenzio, brontolando all’unisono. Nel corso delle ultime ore la fame era aumentata in modo esponenziale.

Tre paia di occhi fissarono famelici i due cestini che Hanabi aveva loro lanciato. Era palese che qualcuno sarebbe dovuto rimanere a bocca asciutta alla fine.

“Mangiate voi!” sbottò Mirai, incrociando le braccia con fare stoico. “Questa storia mi ha fatto passare la fame.”

Era una bugia, ma i rimproveri subiti nelle ultime ore l’avevano ferita, donandogli il desiderio di mostrare al mondo che non era una debole, anche se ciò significava restare a digiuno.

Aimi non replicò alla compagna. Si limitò ad aprire uno dei cestini, afferrare un onigiri con le bacchette e portarlo davanti alla bocca della Sarutobi.

“Mangia.”

“Cosa?!”

“Hai sentito, stupida. Mangia e piantala di fare la dura.” borbottò la Yogonuchi a disagio. Era chiaro che fare un favore alla sua acerrima nemica le stava costando moltissimo.

“Non ho bisogno della tua carità!” rispose Mirai digrignando i denti. “Posso restare benissimo senza mangiare fino a stasera.”

“Senti Mirai, tu non mi piaci ed io non piaccio a te.” dichiarò con tono minaccioso Aimi. “Ma ora siamo nella stessa squadra. Questo non significa che ho smesso di detestarti, ma se voglio raggiungere il mio obbiettivo mi serve collaborare con te. Quindi mangia, altrimenti ti ficco il cibo in gola con la forza.”

Per un istante Mirai fu tentata di rifiutare, ma quando vide Shigeru accettare l’onigiri di Aimi, aprendo anche il secondo cestino, decise di deporre le armi, iniziando a mangiare assieme ai due compagni.

“Questo non cambia un bel niente, mettitelo in testa.” sibilò la figlia di Asuma, assaporando il cibo come se non mangiasse da una settimana.

“Lo so meglio di te!” replicò l’altra.

A pochi metri di distanza, nascosta dietro un albero, Hanabi osservò la scena a braccia conserte, sbuffando.

“Finalmente l’hanno capito.” borbottò, incamminandosi verso casa. “Stupidi mocciosi!”

 

 

Dieci minuti dopo, Hanabi giunse innanzi al portone del condominio dove abitava. La Jonin era di discreto umore dopo quello che aveva osservato nel parco. Nonostante tutto, quella mattina non era stata sprecata, dato che quei tre mocciosi avevano capito finalmente cosa significasse collaborare. Il prossimo passo sarebbe stato farli diventare una vera squadra, che capisse l’importanza del lavoro di gruppo.

I suoi pensieri tuttavia, sviarono subito dai suoi studenti quando vide una figura a lei familiare vicino al portone.

Konohamaru.

Saru...

Era sorpresa. Ormai erano passati più di due mesi da quando si erano lasciati e da allora non aveva più avuto sue notizie. Da un certo punto di vista le era andato bene: quella era una ferita ancora fresca e rivederlo rischiava soltanto di farla sanguinare nuovamente. Era per questo motivo che non aveva dato a nessuno, tolto suo padre e sua sorella, il suo nuovo indirizzo, in modo da evitare di rivedere il suo ex fidanzato.

Eppure, nonostante i suoi sforzi, Konohamaru era lì, che l’attendeva, sul viso un’espressione di nervosismo, quasi fosse a disagio in quel posto. Disagio che, nel suo caso, era moltiplicato all’inverosimile, fino a farlo diventare puro terrore.

Ora cosa vuole…

Si avvicinò, irrigidendo ogni muscolo, per evitare di darsela a gambe. Dopo quello che si erano detti l’ultima volta, le era difficile anche solo pensare di rivolgergli la parola.

Lui la vide. Sobbalzò, quasi anche lui fosse tentato di fuggire da quel confronto. Hanabi si chiese cosa diavolo fosse venuto a fare, visto che entrambi sembravano terrorizzati all’idea di parlarsi.

“Ciao.” fu il Sarutobi a rompere per primo il silenzio, osservandola nel tentativo di capire cosa le passasse per la testa.

“Come hai fatto a scoprire dove abito?” fu la domanda secca della kunoichi, sempre più irritata e spaventata da quell’incontro.

Konohamaru fece un sorriso amaro. Era preparato ad una simile accoglienza.

“Desideravo vederti… così ho chiesto in giro.”

“Un desiderio che non condivido.” sbottò la ragazza. Il Sarutobi fece un sospiro, cercando le parole giuste.

“Non desideravo darti fastidio. Solo che… ho saputo che hai lasciato gli Anbu e quindi…”

“Come fai a saperlo?” lo interruppe subito, la mente che acquistava freddezza, mista ad un atroce sospetto. Qualcosa di così assurdo che si diede dell’imbecille ad averlo solo pensato. Il fatto che gli occhi del Sarutobi cercassero di evitarla tuttavia non faceva che rafforzarlo.

“L’ho saputo dall’Hokage.” fu la risposta di lui, ma il tono appariva falso alle sue orecchie. Conosceva bene Konohamaru e sapeva quando mentiva.

“E perché l’Hokage avrebbe dovuto dirti una cosa così riservata?”

Scese un silenzio teso per alcuni secondi. Una goccia di sudore scese dalla fronte di Konohamaru, il quale rimase in silenzio fino a quando non cadde sul selciato.

“Perché sono stato io… a suggerirgli di affidarti una squadra di Genin.”

Niente. Non sentì assolutamente nulla. Non percepì rabbia, dolore, sorpresa… la sua mente rimase calma e fredda come una lastra di ghiaccio, il cuore che pompava tranquillamente il sangue.

Ne ebbe paura.

Il colpo arrivò improvviso, secco. Un montante tremendo al mento, che lasciò stordito il Jonin. Questi barcollò all’indietro, portandosi una mano sulla zona lesa, gli occhi fissi sul volto gelido della sua ex.

“Prima di ammazzarti vorrei sapere una cosa.” esordì Hanabi, il tono tranquillo. Pareva quasi stesse discutendo in maniera disinteressata. “Quale ragione ti ha spinto a rovinarmi l’esistenza?”

Il Sarutobi sollevò il volto, gli occhi scuri che si specchiavano in quelli perlacei della donna. Dentro di lui provava soltanto amarezza nell’osservare quel viso ricolmo di risentimento nei suoi confronti.

“Perché volevo aiutarti.”

“Nessuno ti ha chiesto nulla!” ringhiò la Hyuga con tono furioso. La rabbia stava montando ora, incagliandosi nello stomaco. “Non avevi nessun diritto di intrometterti nella mia vita!”

“Invece sì!” fu la secca replica di Konohamaru. “Stavi male, te lo si leggeva chiaramente in faccia. Non potevo lasciarti sprofondare senza tentare nulla, non è nel mio carattere abbandonare una persona a me cara al suo destino.”

Lei gli rise in faccia.

“Persona a te cara?!” il suo bel viso si contrasse in una smorfia di pura collera. “Soltanto perché siamo stati assieme per qualche tempo non significa che io ti debba qualcosa, così come tu non devi nulla a me. Finiscila con quest’ossessione, Konohamaru. Sei soltanto patetico.”

Entrò nel condominio, superandolo con una spallata, furiosa con il mondo intero per ciò che aveva appena udito. Ignorò le domande di Kabera, chiudendosi in camera. Sentiva la rabbia bollirle nello stomaco come magma incandescente. Era furiosa per ciò che Konohamaru le aveva fatto, forse troppo dal momento che rimase spaventata nello scoprire che, sotto la rabbia, covava un altro sentimento, più profondo, ma sufficientemente blando da poter essere sommerso e dimenticato dal suo orgoglio.

Non aveva alcun diritto! Maledetto stupido!

Nello stesso istante, in strada, Konohamaru Sarutobi si riscosse lentamente, distogliendo lo sguardo dalla porta che la Hyuga gli aveva sbattuto in faccia.

Non mi importa di apparire patetico…

Perché c’era una crepa nella corazza di rabbia e di disprezzo di Hanabi Hyuga, qualcosa che non aveva mai visto prima in lei e che gli fece comprendere, nonostante tutto, di aver fatto la scelta giusta.

Con il carattere che si ritrova… quando mai ha avuto gli occhi lucidi in quel modo?

Annui, emettendo un sospiro. La sua parte l’aveva fatta, proprio come gli aveva ordinato Moegi. Adesso doveva attendere, sia che la cosa funzionasse sia che Hanabi proseguisse a vivere lontano da lui.

Stupida orgogliosa.

 

 

Nelle tre settimane successive, il tempo scorse fin troppo rapidamente per Mirai, trasformandola più di quanto volesse ammettere.

Hanabi era diventata semplicemente il loro incubo. Ogni giorno, indipendentemente dal tempo, costringeva i tre Genin a sedute di corsa, esercizi fisici, ginnastica e palestra. Non contenta, dopo una breve pausa per il pranzo, la Hyuga li sottoponeva a lunghe esercitazioni, obbligandoli a collaborare per affrontarla in uno combattimento, lasciandoli liberi di tornare a casa solo verso ora di cena.

“Voi mi odierete.” dichiarava sempre la kunoichi quando li vedeva sul punto di crollare. “Arriverete al punto di odiarmi, ma la cosa non mi interessa. Sputate sangue, urlate dalla rabbia, imprecate, desiderate pure la mia morte… ma non osate mollare o vi rispedisco subito in Accademia, chiaro?”

La tentazione era forte, molto forte. Ogni giorno diventava sempre più difficile per Mirai trovare la motivazione per scendere dal letto. Si rendeva conto che non era quella la vita che si era aspettata dopo il diploma. Hanabi era dura, fredda e sempre piena di rabbia e risentimento nei loro confronti. Non faceva compiere loro alcun tipo di missione, limitandosi a sfinirli per inculcare loro il lavoro di squadra e la fatica.

Potrei sempre tornare in Accademia, rifare l’ultimo anno e ripartire con una squadra nuova ed un Sensei migliore…

Era il suo primo pensiero la mattina, quando cercava di trovare la forza di scendere dal letto. Invariabilmente lo scacciava, ma si accorse che ogni volta ci voleva maggiore forza mentale per farlo. Capì infine che lo scopo ultimo di Hanabi non era quello di insegnare loro qualcosa, ma solo quello di spezzarli dentro.

 Eppure, non si arrese. Le parole di Shikamaru bruciavano come fuoco nella sua mente, e si accorse che non sarebbe mai riuscita ad accettare l’idea di fallire, non dopo che il suo padrino le aveva dato della vigliacca.

Che spezzi pure il mio fisico… continuerò a lottare con la mente.

In quei giorni, seppur controvoglia, iniziò ad entrare in confidenza con Aimi e Shigeru. Si accorse che l’Aburame, per quanto silenzioso e sgarbato, pareva comprenderla molto bene. Ogni volta che i suoi muscoli la tradivano per la stanchezza, lui era lì, ad aiutarla, sorreggendola se necessario. Non diceva una parola, ma la Sarutobi iniziò a chiedersi se non fosse stata frettolosa nel definirlo uno strambo fissato con gli insetti.

Aimi invece l’aveva colpita. Aveva sempre pensato a lei come ad un’arrogante egocentrica, incapace di passare dalle parole ai fatti. Eppure, nonostante Hanabi la torchiasse e la umiliasse continuamente, urlandole contro ogni insulto possibile, la Yogonuchi non protestò mai, proseguendo imperterrita nei propri esercizi. Sembrava semplicemente non accusare la fatica, e più Hanabi si impegnava per farla cedere, più quest’ultima appariva inscalfibile nella propria volontà.

Come fa ad avere tutta quell’energia?

Era un quesito che attanagliava spesso la mente di Mirai, incapace di dargli una risposta. Tuttavia, se con Shigeru era stato relativamente facile ricredersi, la sola idea di cambiare giudizio su Aimi Yogonuchi la faceva inorridire.

Eppure, poco alla volta, fu proprio l’esempio della rivale a spronarla ogni giorno, a trovare le energie per non arrendersi. Senza accorgersene, la Sarutobi e la Yogonuchi avevano iniziato a fissarsi non più con disprezzo, ma con riluttante rispetto. Entrambe comprendevano che i motivi d’attrito tra loro erano nient’altro che futili bambinate innanzi a ciò a cui li stava sottoponendo Hanabi. Se volevano sopravvivere, erano costrette a sostenersi a vicenda.

Era quando scendeva la sera però che l’astio tra di loro diventava più sfumato, quasi impercettibile. La stanchezza le rendeva più vulnerabili, più disposte a vedere la rivale come a qualcuno con cui condividere un legame. Un legame forgiato da sudore e sangue, qualcosa per cui valeva la pena provare a superare il disprezzo che le divideva. Sarebbe bastata una parola, un segno, per far crollare definitivamente anni di inimicizia.

Ma nessuna lo fece.

 

 

Kabera inclinò la testa verso destra, le iridi celesti fisse verso la parete di fronte a sé, un’espressione di irritante beatitudine sui tratti infantili del viso. Era difficile capire cosa passasse per la mente della giovane Anbu, quale astruso pensiero stesse focalizzando la sua concentrazione.

L’ingresso irruento di Hanabi in casa la riscosse dal suo torpore. Annuì scioccamente un paio di volte, osservando con blando interesse la sua coinquilina aprire il frigorifero, afferrare una bottiglia di birra e correre a sdraiarsi scompostamente sul divano dove prese a bere lunghe sorsate della bevanda.

Lentamente, come se la cosa non risvegliasse in lei che un blando interesse, Kabera si alzò, avvicinandosi con passo indolente alla Hyuga, osservandola sbottonarsi i pantaloni con un sospiro di sollievo.

“Buonasera, Senpai.” mormorò dolcemente la ragazza. “Come è andata la sua giornata?”

La risposta di Hanabi fu un assai poco signorile rutto. Normalmente, la Jonin si guardava bene dal comportarsi in quella maniera, ma Kabera la conosceva da troppo tempo per non capire che c’era qualcosa che non andava.

“Qual è il problema, Senpai?” domandò con tono sognante, sedendosi a gambe incrociate sul pavimento. “I vostri allievi sono dispettosi?”

“I miei allievi…” esclamò sarcasticamente la Hyuga. “Sono tre maledetti marmocchi che dopo venti giorni non hanno ancora capito cosa diavolo significa collaborare. Perfino un Baka come Naruto avrebbe afferrato il concetto dopo tutto questo tempo!”

“Capisco. Immagino che questo vi renda triste.”

Hanabi ingollò un nuovo sorso di birra, lanciando un’occhiata all’amica assai distante dal concetto comune di tristezza.

“Sono solo degli incapaci!” sbottò infine. “Dovrei rispedirli a calci in Accademia. In questo modo questa ridicola storia dell’insegnamento avrebbe fine e potrei tornare negli Anbu con te.”

“Eppure non lo fate.” replicò dolcemente l’Anbu. “Perché?”

Non rispose. Non aveva una risposta ben precisa da dare. Da quando aveva parlato con Konohamaru una sola idea le aveva preso possesso del suo cervello: tornare negli Anbu, il suo posto, la sua vera casa. Aveva stilato un programma di allenamento disumano per i suoi allievi con il chiaro intento di farli mollare, ma finora li aveva visti sopportare le peggiori angherie del suo repertorio senza battere ciglio. Era rimasta sorpresa da tanta determinazione, ma questo non faceva che frustrare le sue speranze di tornare ad impugnare la Shinobigatana, lasciandola sempre più cupa e di malumore.

Sentì lo sguardo di Kabera su di sé e la cosa la irritò. Con un gesto improvviso si alzò, scaraventando la bottiglia contro il muro, gli occhi contratti nel Byakugan.

“Piantala di fissarmi! Non ho nessun motivo per spiegarti le mie decisioni, è chiaro?!”

La sua voce risuonò furiosa nel salotto, seguita subito da un silenzio carico di tensione. Kabera sembrò stupita da tanto astio nei suoi confronti, ma le sue successive parole furono pronunciate con tono dolce e gentile.

“Avete ragione… vi chiedo scusa.” si alzò, dirigendosi verso camera sua. “Ma dovreste stare attenta. Non vi fa bene stare così male.”

Digrignò i denti, osservando la coinquilina andarsene con passo lento. Fu solo quando sentì la porta in fondo al corridoio chiudersi con uno scatto che la sua ira esplose.

“Non c’è niente che non va in me, hai capito?! NIENTE!”

Non udì nessuna risposta. Non che la desiderasse. Tutto quello che voleva era lasciarsi alle spalle quella storia ridicola, ma non vedeva nessuna via d’uscita. Era in trappola, costretta ad un ruolo per il quale non si sentiva assolutamente tagliata.

Io sono un’omicida a sangue freddo, un’assassina, non una stramaledetta balia per dei marmocchi! Questo non è il mio posto!

Chiuse gli occhi, disattivando la propria abilità oculare, la mente bombardata dalle parole di Konohamaru, poche frasi che la perseguitavano da settimane, facendola sentire furiosa con il mondo intero.

Maledetto bastardo…

Voleva una maschera, una lama, una persona da uccidere nel buio, una vita passata da omicidio ad omicidio, qualcosa che la rendesse morta dentro, che le donasse la capacità di piantare un coltello nella gola di Hazuba, permettendole di adempiere al proprio dovere di Anbu e di Hyuga. Invece tutto quello che aveva erano tre marmocchi, un ex fidanzato cocciuto ed una coinquilina fastidiosamente perspicace, che la metteva maledettamente in difficoltà nell’accettare i propri sentimenti.

Cosa ci faccio qui?

Non dormì quella notte. Trascorse le ore che la separavano dall’alba bevendo ogni bevanda alcolica che trovò in casa, riempiendo successivamente di vomito il lavabo in cucina. Quando decise di strisciare in doccia era già in ritardo per l’allenamento del mattino, facendola uscire di casa, poco dopo, in uno stato di profonda ira, furiosa con il mondo intero.

Oggi giuro che mi libererò di loro.

Sogghignò, il volto magro e sciupato deturpato dalla rabbia. Una collera pronta a riversarsi contro tre inesperti Genin.

Stamattina mi diverto…

 

 

Quella mattina Mirai fece fatica a trattenersi dallo sbottare. Hanabi era più irritante e sadica del solito e, come al solito, stava prendendo di mira Aimi, insultandola in tutte le maniere possibili.

“E tu saresti la figlia di un ricco proprietario terriero?” ringhiò la Hyuga, osservandola fare piegamenti sotto l’ennesimo acquazzone d’aprile. “Come ti senti ora a mangiare fango? Come ci si sente ad essere una nullità, principessina?!” le sue parole si persero sotto il rombo dei tuoni, mentre la Yogonuchi proseguiva imperterrita nel proprio esercizio, lasciando la Sarutobi sempre più arrabbiata e perplessa. Perché non reagiva? Cosa c’era che la bloccava? Possibile che avesse paura di Hanabi Hyuga?

“Non rispondi? Del resto non mi sorprende.” la Jonin le voltò le spalle, un sorrisetto maligno sulle labbra. “Sei solo una fallita.”

Fu un istante, un attimo così veloce che Mirai non fu certa di averlo veramente visto. Il corpo di Aimi ebbe un fremito, quasi si stesse trattenendo. Era difficile capire la sua espressione sotto la patina di fango, ma la Sarutobi udì distinto il rumore di un singhiozzo trattenuto a stento.

Fu troppo per lei.

Digrignò i denti, affondando le dita nella melma sotto di sé, il corpo pieno di rabbia. Non sapeva neanche lei il perché di quella reazione. Aveva sognato per anni di vedere la sua rivale umiliata, ma ora che era successo sotto i suoi occhi provava solo un cieco desiderio di farla pagare ad Hanabi per le sue parole sprezzanti.

Ha passato il segno…

Si alzò di scatto, lo sguardo puntato contro la Hyuga, la quale socchiuse gli occhi, un sogghigno ad incorniciarle il volto.

“Non ti ho detto di fermarti, Sarutobi.”

Mirai rimase immobile, le iridi color ossidiana fisse in quelle pallide della sua Sensei. Per un istante si chiese se fosse giusto quello che voleva fare, ma i singhiozzi di Aimi le rimbombavano ancora in testa, scaldandole il sangue.

Con un gesto deciso afferrò il proprio copri-fronte, scaraventandolo a terra.

“Non intendo più darle ascolto!” esclamò. “Non rimarrò qui a farmi umiliare da lei!”

“Allora tornatene in Accademia.” fu la secca replica della Jonin. “Vai a frignare tra i banchi. Evidentemente, è quello il tuo posto.”

“Sempre meglio che obbedire ai comandi di una vigliacca!”

Il sorriso svanì dalle labbra di Hanabi, le unghie che penetravano lentamente nella carne dei palmi, gli occhi stretti in uno sguardo glaciale. Aimi e Shigeru si alzarono, fissando sbalorditi il comportamento della loro compagna.

“Cosa hai detto?!” sibilò la Hyuga, avvicinandosi lentamente verso la Genin. “Cosa sarei io… piccola mocciosa sputasentenze?!”

“Lo sa benissimo!” Mirai sentì le viscere contrarsi per la paura, ma non indietreggiò, resa ebbra dalla rabbia che le circolava in corpo. “Noi siamo qui per imparare, per diventare qualcuno su cui la nostra gente possa contare un giorno. E lei cosa ha fatto? Nient’altro che offenderci ed umiliarci, sfogando su di noi i problemi della sua vita privata!”

“Zitta.” schiaffeggiò la ragazzina, scottata da quelle parole. “Cosa sai tu di me, mocciosa? Chi ti credi di essere per venire qui a farmi la predica? Sei solo una stupida bamboccia che ha sempre vissuto nella bambagia.”

Con uno scatto, Mirai si rialzò, sorprendendo tutti. Successivamente, afferrò per il bavero la sua insegnante, sfogando tutta la frustrazione accumulatasi nelle ultime settimane.

“E’ lei che non sa niente di me! Non ha la minima idea di tutti i sacrifici che ho fatto per arrivare a questo punto, di quanta fatica ho impiegato per provare a raggiungere il mio sogno! E adesso lei arriva qui, dal nulla, a dirmi che sono solo una stupida bambina buona a nulla?! Cosa sa di noi tre per giudicarci così?! Per buttarci addosso le sue croci?! Niente, lei non sa niente! Proprio come quello che può insegnarci!”

Lasciò di scatto la presa, quasi si fosse scottata, il fiato corto per tutto ciò che aveva urlato. Si sentiva leggera, quasi capace di volare. Finalmente aveva detto tutto ciò che pensava di Hanabi Hyuga, ed era una percezione magnifica.

Hanabi sembrò recuperare il proprio autocontrollo. Per un lunghissimo minuto rimase immobile, l’espressione sul volto glaciale. Tuttavia, quando parlò, la sua voce apparve tremendamente fragile.

“L’allenamento per oggi è finito.”

Non disse altro. Diede loro le spalle, incamminandosi verso casa, la schiena dritta. I suoi occhi però, apparivano sperduti, quasi spaventati.

Mirai recuperò lentamente il fiato, sentendosi sfinita, la pelle che bruciava dove era stata colpita. Fece per raccogliere il proprio copri-fronte quando Aimi la precedette, consegnandoglielo con un’espressione strana sul volto: un misto tra sorpresa e gratitudine.

“Grazie.”

La figlioccia di Shikamaru non disse nulla, accettandolo con un gesto secco. Ora che la rabbia stava svanendo, si accorse dell’enormità del suo gesto. Non solo si era condannata ad un inglorioso ritorno tra i banchi dell’Accademia, ma aveva costretto Shigeru ed Aimi allo stesso destino.

“Non dovresti ringraziarmi.” esordì, i capelli pregni d’acqua appiccicati sulla fronte. “Per causa mia tornerete in Accademia anche voi.”

Sul volto della Yogonuchi si dipinse una smorfia di insofferenza al pensiero, ma non aprì bocca.

“Hai scelto di fare ciò che pensi sia giusto.” mormorò Shigeru. “Questo non è mai un male, Mirai.”

Le iridi scure della Sarutobi si soffermarono sui volti dei suoi compagni. Ci vide stanchezza, delusione, forse dolore, ma entrambi non tentarono minimamente di accusarla di quella situazione, nonostante ne avessero il diritto. Erano una squadra, e come tale avrebbero vissuto quell’insuccesso assieme, condividendone la vergogna.

Grazie…

 

 

Sentiva la pioggia battere sul vetro, ma non la vedeva. Ogni cosa attorno a lei era scura, immersa in un silenzio rotto solo da quel ticchettare monotono. Ogni tanto, un lampo illuminava a giorno l’ambiente, facendolo sprofondare subito dopo nell’oscurità.

 

“Non avevi nessun diritto di intrometterti nella mia vita!”

“Invece sì!... Stavi male, te lo si leggeva chiaramente in faccia. Non potevo lasciarti sprofondare senza tentare nulla, non è nel mio carattere abbandonare una persona a me cara al suo destino.”

 

Digrignò i denti, conficcandosi le unghie nel tatuaggio sulla spalla. Percepiva una sordida collera bruciarle nello stomaco, rivolta indistintamente contro tutti. Odiava tutti, compresa se stessa.

Il mio destino…

 

“Gli Anbu sono tutto per me, non potete buttarmi fuori!”

 “Ho deciso di farlo perché ritengo che il tuo compito all’interno dell’ordine sia concluso. Rimanerci ancora non sarebbe di alcun beneficio per nessuno, neanche per te.”

 

Qual era il suo compito? Il suo destino? Perché non riusciva a comprenderlo? Com’era possibile che chiunque fosse riuscito a trovare il suo posto nel mondo, mentre lei era ancora lì, a brancolare nell’oscurità?

La collera prese a gorgogliare nel suo stomaco, inacidendosi, otturandole la gola. Scavò nella pelle della spalla, facendola sanguinare. Un odore, quello del sangue, che conosceva fin troppo bene.

Non sono altro che un’assassina… il mio posto non è tra le persone normali.

 

“Cosa sa di noi tre per giudicarci così?! Per buttarci addosso le sue croci?! Niente, lei non sa niente! Proprio come quello che può insegnarci!”

 

Si Incastrò la testa tra le ginocchia, sentendosi confusa. Era stanca. Stufa di tutta quella sofferenza. Fin da quando era una bambina aveva dovuto convivere con il dolore, specialmente quello di sua sorella. Aveva creduto che fuggire, nascondersi dietro una maschera, dietro una sciocca ambizione di diventare più forte, potesse salvarla da quel dolore, da tutta quella sofferenza umana che la schiacciava. Un modo per staccarsi da quel nome che aveva cominciato ad odiare con tutta se stessa: Hanabi Hyuga, l’erede del potente clan Hyuga.

Ma si era sbagliata.

Il dolore non aveva smesso di perseguitarla, di schiacciarla sotto il suo atroce peso. Sua sorella aveva ancora bisogno del suo aiuto, così come il suo clan ed il suo villaggio. Non era cambiato niente da prima e allo stesso tempo era cambiato tutto, sotto i colpi di una guerra civile, capace di sommergendola sotto una montagna di cadaveri, i suoi morti, uccisi per una patria che mai come in quell’istante sentiva di detestare.

Digrignò i denti con tanta forza da farli scricchiolare, le unghie incastrate tra i palmi delle mani. Era stanca, tremendamente stanca di quella vita, ma allo stesso tempo si sentiva inadatta a qualsiasi alternativa. Era giunta ad odiare ed amare quella vita, proprio come amava ed odiava se stessa. La speranza di salvezza, di redenzione, che il Sesto Hokage le aveva concesso non era altro che una futile illusione, che si sarebbe infranta presto.

Quando sono diventata così? Rialzò la testa di scatto, le iridi color lavanda perse nell’oscurità della sua stanza. Quando ho perso ogni speranza per il futuro?

Forse era stato alla fine della guerra civile. Vedere con mano la vera essenza del dolore era stata un’esperienza terribile, che inconsciamente l’aveva cambiata nel profondo, facendola a poco a poco allontanare da ogni affetto che si era costruita nel tempo, salvando solo sua sorella e quell’idiota di suo marito. Neanche Konohamaru era stato risparmiato da quella fuga ossessiva da ogni cosa, convinta che annullarsi per il proprio dovere fosse l’unico modo per smettere di soffrire.

E poi era arrivato Kakashi e quel suo maledetto incarico. Un lavoro che aveva odiato, osteggiato e detestato fin dal primo istante… almeno fino a quando una ragazzina infuriata non le aveva sbattuto in faccia frasi che scottavano troppo per liquidarle come farneticazioni infantili.

Fece un sospiro, chiudendo gli occhi, desiderando ardentemente che qualcosa, un segno, l’aiutasse a capire. Comprendere cosa dovesse fare della sua vita. Per la prima volta, Hanabi non sapeva cosa fare.

 

“Noi siamo qui per imparare, per diventare qualcuno su cui la nostra gente possa contare un giorno. E lei cosa ha fatto? Nient’altro che offenderci ed umiliarci, sfogando su di noi i problemi della sua vita privata!”

 

Non chiuse occhio quella notte. Rimase tutto il tempo seduta sul letto, lo sguardo perso nel vuoto, in testa solo le parole urlatele contro da una ragazzina arrabbiata.

I miei allievi…

 

 

La mattina dopo, Mirai giunse al campo d’addestramento con la sensazione che fosse l’ultima volta. Ci aveva pensato a lungo durante la notte, ed era giunta alla conclusione che fosse giusto così. Era palese che Hanabi Hyuga non avesse alcuna intenzione di insegnare loro alcunché.

Speriamo solo che mamma non si arrabbi troppo. Non aveva avuto il coraggio di dire nulla al genitore, temendo una lavata di capo. Kurenai non era un genitore abituato ad alzare la voce, ma possedeva un’autorità innata, capace di averla spesso vinta anche con una testarda come sua figlia.

Sopraggiunsero Aimi e Shigeru, entrambi con un’espressione cupa in volto. Ciò che la colpì più di tutto furono gli occhi della Yogonuchi: due pallidi pozzi chiari, ricolmi di qualcosa di molto simile alla disperazione. Era evidente che per lei ciò che stava per accadere sarebbe stata un’onta difficilmente dimenticabile.

La mattina avanzò, lasciando i tre Genin sempre più perplessi. Ad eccezione del loro primo incontro, Hanabi non aveva mai fatto tardi ad un allenamento.

“Forse è andata in Accademia dal preside, chiedendogli di riprenderci.” ipotizzò all’improvviso Shigeru, dando voce alle preoccupazioni delle due ragazze.

“Forse…” la voce di Aimi era così bassa che fecero fatica ad udirla. “Forse anche noi dovremmo andare… in Accademia.”

Mirai non aprì bocca. Vedeva la realtà davanti a lei, tremendamente chiara: aveva fallito. Nonostante tutto quello che si era ripromesso in merito a quella sfida, alla fine aveva ceduto alla sua irruenza, perdendo tutto. C’erano molte attenuanti, ma il solo pensarci la disgustò. Il suo padrino era stato ben chiaro su quel concetto, e non aveva alcuna intenzione di perderlo.

Infine, quando ormai si stavano decidendo a dirigersi verso l’Accademia, Hanabi comparve con passo lento, il volto inespressivo, gli occhi gelidi. Sembrava quasi avesse dimenticato la sceneggiata del giorno prima.

Una volta arrivata innanzi ai propri allievi, la kunoichi li guardò a lungo, mettendoli a disagio. Si soffermò in particolare su Mirai, la quale non riuscì a reggere quello sguardo freddo, sentendosi ancora in colpa per le azioni compiute il giorno precedente.

Un vento freddo si sollevò improvvisamente, facendoli rabbrividire. Nonostante quella mattina splendesse il sole, l’aria era ancora fredda, risentendo della pioggia caduta durante la notte.

“Seguitemi.”

Un comando secco, come al solito. Tuttavia, il tono di voce lasciò i tre compagni perplessi. Non c’era più alcuna traccia di arroganza o di cattiveria nella voce della kunoichi, quanto più una grande stanchezza.

“Vi ho detto di seguirmi.”

Scelsero di obbedirle, sempre più confusi quando la videro imboccare la direzione opposta rispetto all’Accademia. Mirai non riusciva a formulare una sola ipotesi riguardo ciò che stava accadendo, incapace di comprendere perché non avesse ancora stracciato i loro diplomi di fronte a loro.

Non sembra neanche lei… rimuginò, osservandone la camminata. A prima vista appariva rapida e sicura come sempre, ma la Sarutobi notò un tremito impercettibile nelle spalle della Jonin, quasi fosse sconvolta da sensazioni contrastanti.

Forse ha qualche rimorso per il suo comportamento. Non ci credeva molto, ma avrebbe spiegato in parte il comportamento anomalo della Hyuga.

Improvvisamente, Hanabi si fermò innanzi ad un piccolo negozio. I Genin si limitarono a notare che fosse uno studio fotografico quando la Hyuga li spinse rudemente dentro.

“Venite.”

“Cosa ci facciamo qui?” borbottò Aimi, squadrando con un’occhiata guardinga la Jonin, la quale però rimase impassibile.

“Lo vedrai.”

Quello che avvenne nei successivi dieci minuti fu qualcosa di così assurdo che Mirai non l’avrebbe mai dimenticato.

Una foto. Hanabi Hyuga li aveva portati a fare una foto tutti assieme.

Era un gesto così assurdo che per un istante la ragazza fu convinta di stare ancora dormendo, immersa in un bizzarro sogno.

Percepì la mano di Hanabi sulla sua spalla. Un tocco delicato, niente a che vedere con l’arroganza e il sadismo messi in mostra nelle ultime settimane. La scrutò con la coda dell’occhio, notando come sembrasse calma, priva di quella tensione che le aveva incarognito il volto nei giorni precedenti.

“Di solito nelle foto si guarda l’obbiettivo e si sorride, mocciosa.” osservò la Jonin senza spostare lo sguardo. Colta in fragrante, Mirai non poté far altro che riportare gli occhi innanzi a sé, ancora troppo confusa dagli ultimi avvenimenti per riordinare il miscuglio di sensazioni che le si agitava nel petto.

Forse fu quello il motivo per cui non riuscì più di tanto a sorridere innanzi all’obbiettivo. La sua figura lievemente sorridente si stagliava alla desta di Hanabi. In mezzo, con un immenso sorriso di sollievo sulle labbra, c’era Aimi, mentre alla sinistra della Hyuga, con le mani in tasca, c’era Shigeru, apparentemente indifferente a ciò che stavano facendo.

E proprio dietro di loro, con un sorriso furbo sulle labbra, c’era Hanabi Hyuga, apparentemente di nuovo in pace con se stessa.

La mocciosa ha ragione… non devo scaricare su di loro i miei problemi… era giunta alla conclusione che, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, non era giusto prendersela con quei tre Genin. Nonostante fosse un compito che non amasse, per ora non poteva fare altro che compierlo, in attesa di vedere cosa il futuro le riservasse di preciso.

Forse dovrei iniziare a fare come Saru: non pensare.

Il pensiero del suo ex le procurò una fitta. Non era stata giusta con Konohamaru, infischiandosene dei suoi sentimenti e preoccupandosi soltanto di essere un buon Anbu. Lo stesso compito che ora si trovava tra le mani era un gesto, per quanto non desiderato, del suo affetto nei suoi confronti.

Sono stata troppo dura.

Chiuse gli occhi, un istante dopo il flash, sentendosi incredibilmente più leggera nell’averlo ammesso. Era incredibile quanto fosse difficile ammettere per lei le sue colpe. Eppure, la sensazione di benessere che le riempì lo sterno, all’altezza dello stomaco, era magnifica, qualcosa che non assaporava da troppo tempo ormai.

Riaprì gli occhi, rivolgendo un sorriso sincero ai suoi allievi.

Forse non era troppo tardi per ricominciare.

 

 

Subito dopo la foto di gruppo, Hanabi riportò i suoi allievi al campo di addestramento. Qui li squadrò uno ad uno, cercando di capire cosa stessero provando in quegli istanti. Lesse sollievo e riconoscenza sul viso delicato di Aimi, indifferenza su quella glaciale di Shigeru e profonda confusione in quello magro di Mirai.

In un certo senso, le loro reazioni erano lo specchio del loro carattere.

Fece un profondo respiro. Ora toccava a lei rimediare alla sua stupidità.

“Ieri c’è stato… un comportamento disdicevole.” esordì con voce atona. “Ho riflettuto a lungo su ciò che è successo, e sono giunta alla conclusione che la colpa è stata solo mia.” notò gli occhi della Sarutobi diventare grandi come piattini da tè e la cosa la divertì. “Pertanto, se voi siete d’accordo, direi di modificare i nostri programmi quotidiani d’ora in avanti, in modo che tali comportamenti non si ripetano più.”

Tirò fuori un rotolo, motivo del suo ritardo quella mattina. Se si concentrava, poteva ancora vedere il sorriso nascosto dalla maschera di quello stronzo di Kakashi, quando gli aveva chiesto una missione per la sua squadra.

“Se nelle prossime ore riuscirete a completare tutti gli esercizi dell’allenamento, questo pomeriggio inizieremo la nostra prima missione come Team.” non ricevette alcuna risposta, sentendosi incredibilmente stupida, ma ormai non poteva più tornare indietro. “Siamo d’accordo?”

Per alcuni secondi non si udì alcun suono. Poi, con un movimento secco del volto, Shigeru annuì. Subito seguito a ruota da Aimi e da una finalmente sorridente Mirai.

Sul volto della Jonin comparve un sorriso.

“Allora cominciate subito a fare un centinaio di piegamenti! Al lavoro!”

E questa volta ottenne una risposta inequivocabile.

“Sì, Sensei!”

 

 

Nei tre giorni successivi, le cose mutarono rapidamente.

Hanabi prese le redini della squadra. La mattina li sfiniva ancora con allenamenti durissimi, ma nel pomeriggio li portava sempre a compiere qualche missione di livello D. Anche il suo atteggiamento nei confronti degli allievi mutò: era ancora molto severa e brusca, ma aveva smesso di trattarli male, cercando di essere più comprensibile, in modo da guadagnarsi la loro fiducia. Non era facile, specie per una come lei dal carattere più adatto al battibecco che al dialogo, ma era convita che, se si impegnava al massimo, sarebbe riuscita a guadagnarsi il loro rispetto.

“Sensei?” la voce di Aimi ruppe il silenzio attorno a loro, richiamando l’attenzione di tutti. “Posso farle una domanda?”

Si trovavano fuori dai confini del Villaggio. Gli ultimi acquazzoni avevano danneggiato molte fattorie nelle zone circostanti, e la loro ultima missione consisteva nel riparare il tetto di una di queste. A causa dell’ora tarda in cui finirono il lavoro, Hanabi aveva deciso di farli dormire nel fienile, piuttosto che rischiare di portare a spasso tre dodicenni nel cuore della notte.

“Dimmi.” la kunoichi non distolse gli occhi dal fuoco, le gambe strette al petto. Pareva una gatta che si rilassava dopo una lunga giornata.

“Mi chiedevo… quando ci insegnerà qualche nuova tecnica?” la Yogonuchi parlò con una punta di timore nella voce, ma non appena udirono la domanda Mirai e Shigeru aguzzarono le orecchie, curiosi di conoscere la risposta della Hyuga in merito.

“Non devi avere fretta.” quest’ultima rispose con voce bassa, senza spostare lo sguardo. “Non avrebbe senso insegnarvi tutti i jutsu di questo mondo, se non imparate a muovervi come una vera squadra.”

“Capisco…”

“Comunque sia, è importante che voi capiate una cosa.” prese a ravvivare il fuoco con un bastoncino, la voce sempre bassa. “Non potrò insegnarvi nulla del mio stile di lotta, visto che si basa su un’abilità oculare.”

“Intende il Byakugan?”

“Esatto. Pertanto, io non sarò in grado di insegnarvi molto sotto questo punto di vista.” vide la delusione montare sui loro volti e la cosa la divertì. “Questo significa che spetterà a voi trovare il vostro stile di combattimento più adatto. Io posso aiutarvi a rinforzare le vostre basi, ma dopo toccherà a voi capire quali sono i vostri punti forti e come sfruttarli per creare uno stile tutto vostro.”

“Quindi… non ci insegnerà alcuna tecnica?” la delusione nella voce di Aimi era palpabile.

“Non ho detto questo.” ribatté la Jonin, un sorrisetto sulle labbra. “Nei prossimi giorni vedrò di cominciare a rendervi meno incapaci.”

Andarono a dormire, sdraiandosi attorno al fuoco. Il respiro di Shigeru e Aimi divenne ben presto pesante, mentre Mirai non riuscì a chiudere occhio. Continuò a rigirarsi, cercando di capire il motivo per il quale quella nuova Hanabi la mettesse a disagio. Era diversa, forse troppo. Si chiese se avesse a che fare con la loro sfuriata, o se invece ci fosse sotto qualcos’altro che non conosceva.

“Non riesci a dormire?”

La voce di lei la fece sobbalzare.

“No.” si rimise seduta, cercando di non dare a vedere il suo nervosismo.

“Dovresti farlo.” la voce della Hyuga assunse una tonalità bassa e morbida, simile alle fusa di un gatto. “Domani non ci andrò leggera con voi.”

La Genin si morse il labbro inferiore fino a spaccarselo. Sentiva il bisogno irrefrenabile di chiederglielo, di sapere il motivo dietro a quel cambiamento.

“Perché?” Hanabi volse la testa, fissandola perplessa. “Perché non ci ha rispediti in Accademia dopo… quello che le ho detto?”

Per alcuni secondi nella cascina si udì solo il rumore del fuoco. La kunoichi riportò le proprie iridi verso le fiamme, il volto scavato dai giochi di ombre e luci di queste ultime.

“Non ho mai voluto questo compito.” dichiarò con voce bassa. “Non era mia intenzione diventare un Sensei.” un sorriso amaro le si dipinse sulle labbra. “Ma non è giusto che questo mio problema ricada su di voi.”

Riportò lo sguardo sulla sua allieva, sorridendo con sicurezza stavolta.

“Una vera donna si fa sempre carico delle proprie croci.”

Mirai spalancò gli occhi, incredula. Quelle parole erano le stesse che settimane prima gli aveva detto Shikamaru. Era una coincidenza troppo assurda per ritenerla tale.

Farsi carico delle proprie croci…

Avrebbe portato nel cuore per tutta la vita quel primo insegnamento della sua Sensei.

“Grazie…” mormorò con voce talmente flebile che non credeva di poter essere udita. “Hanabi-Sensei.”

Quest’ultima chiuse gli occhi nell’udire quell’appellativo. Una strana sensazione, bollente come lava, le scese nello stomaco, stringendoglielo con forza. Era qualcosa che non aveva mai percepito prima, ma che la fece stare meravigliosamente bene dopo tanto, troppo tempo.

No…

Ore dopo, quando ormai anche il fuoco era morto, si mosse, spinta da quella sensazione irrefrenabile, una forza a cui non poteva resistere in alcun modo.

Le sue dita sfiorarono i morbidi capelli scuri della Sarutobi, ormai immersa nel proprio mondo onirico. Un tocco così leggero da sembrare solo una delicata brezza estiva, eppure intriso di quel sentimento a lei sconosciuto, di cui però ormai era vittima.

Grazie a te… Mirai.

Lo comprese solo in quell’istante, e lo accettò per quello che era: il suo destino.

Non li avrebbe mai abbandonati.

Mai.

 

 

Konohamaru Sarutobi emise uno sbadiglio, scacciando via dall’occhio destro una lacrima rappresa. Quando andava a trovare Udon e suo nonno al cimitero, ritornava a casa sempre di umore labile.

Quasi quasi vado a schiacciare un pisolino… in quei giorni non aveva nessuna missione tra le mani, e si ritrovava ad avere una montagna di tempo libero, forse addirittura troppo.

Sono diventato schiavo del lavoro.

C’era un bel sole, dopo giorni di tempo incostante, benché l’aria fosse ancora frizzante. I feroci acquazzoni primaverili erano ormai un ricordo e nel clima si poteva avvertire i primi segnali di un’estate calda. Il ninja sollevò il viso verso l’alto, godendosi la bella giornata.

Il suo ritrovato buon umore si interruppe di colpo nell’istante in cui vide Hanabi innanzi alla sua porta di casa.

Hanabi…

Contrasse le sopracciglia, la gola improvvisamente secca. Erano passate settimane da quando si erano visti per l’ultima volta, e le parole della kunoichi non avevano lasciato molte speranze che la situazione potesse risolversi.

Eppure ora lei era lì, davanti a lui, il volto contratto in un’espressione di profondo imbarazzo.

Il suo corpo proseguì a muoversi come se nulla fosse, avvicinandosi a lei meccanicamente. Più la distanza tra loro si accorciava e più i dettagli e le sfaccettature del suo viso gli entrarono nel cervello come schegge impazzite, facendogli comprendere quanto fosse ancora pazzo di lei.

“Ehi.”

La voce di lei risuonò morbida. Incerta forse, ma lontana dalla durezza del loro ultimo controllo.

“Ciao.”

Silenzio. L’ennesimo silenzio ricolmo di imbarazzo degli ultimi tempi. Konohamaru si chiese da quando il muro di casa sua fosse così interessante, mentre Hanabi si promise di andare in giro d’ora in avanti con una trombetta per evitare quegli istanti penosi.

“Ti stavo cercavo.” la sua lingua sembrò muoversi di propria volontà, permettendole di uscire da quello stallo. “Volevo… chiederti una cosa.”

Il Sarutobi le lanciò un’occhiata di sottecchi. Era nervosa, lo poteva vedere da come la sua lingua guizzava tra le labbra secche, alla ricerca di aria e di coraggio.

“Cosa?”

Silenzio. Ancora una volta quel maledetto silenzio.

“Tu…” si conficcò le unghie nei palmi delle mani, percependo la scarica di dolore come un torrente di energia, capace di farla uscire da quel penoso balbettio. “Tu… cosa intendevi l’altra volta?”

Sguardo vacuo da parte sua. L’aveva previsto. In fondo, era pur sempre un Baka colossale.

Il mio…

“In… che senso?”

Nuovo silenzio, nuovo guizzo della lingua sulle labbra secche, nuovo desiderio spasmodico di seppellirsi con una pala all’istante.

Maledizione! Non sono una ragazzina, che diavolo mi sta succedendo?!

“Quando… hai detto che io sono per te una persona cara.”

Fu seriamente tentata di prenderlo a pugni quando lo vide comprendere quel significato con spaventosa lentezza.

“Tu…” Konohamaru sembrava incapace di compiere un ragionamento. “Intendevo dire… quello che ho detto.” deglutì, radunando tutto il proprio coraggio. “Mi sei cara, Hanabi… come un tempo.”

La kunoichi non disse nulla per un istante interminabile. Poi, dalla sua bocca uscì una frase, così fioca che fece fatica a sentirla lei stessa.

“Vuoi riprovarci?”

“Come?”

Una vena si delineò sulla fronte della Hyuga. Odiava quel genere di situazioni e la dabbenaggine del Sarutobi non l’aiutava a porre fine a quella scenetta tremendamente imbarazzante.

“Ti ho chiesto se vuoi riprovarci.” ripeté con voce più forte. “Vuoi tentare… nuovamente? Intendo… noi due?”

Il colorito sul volto di Konohamaru furono, in sequenza: un pallore mortale, seguito da un verde peste per evolversi subito in un rosso infuocato.

“Tu… vorresti uscire con me?!” balbettò. “Intendi come coppia?”

Hanabi fece un profondo respiro. Ripensò a tutto ciò che aveva passato negli ultimi mesi, al malessere accumulato fino a farla diventare pazza. Forse era un rischio, Hazuba non si sarebbe fatta scrupolo ad usare persone a lei care per ferirla, ma non poteva rinnegare la sua umanità, il suo desiderio di avere una vita normale come tutti. Aveva passato anni ad osservare sua sorella combattere le piccole battaglie di una vita di coppia e non vedeva l’ora di poterlo fare anche lei.

Basta con la disperazione…

“Esatto.” riuscì a contrarre le labbra in un sorriso. Nonostante tutto, desiderava davvero riprovarci con quell’idiota di proporzioni gigantesche. “So che di solito è l’uomo ad invitare… ma che ne dici se domani sera ci andassimo a mangiare un boccone assieme?”

Lo stupore di Konohamaru lasciò spazio ben presto ad una gioia immensa.

“Sei seria?!” esclamò. “Non è… uno scherzo?”

La kunoichi lo guardò in cagnesco.

“Se non mi dai una risposta subito, giuro che ti ammazzo.”

“Ok…” si grattò la nuca, imbarazzato per la figuraccia. “Per la cena va bene… nessun problema!”

Si misero d’accordo per il posto e l’ora. Parlarono un po’ delle ultime novità, ma era palese che Hanabi desiderasse chiuderla lì. Tuttavia, dopo essersi salutati, lei esitò per un lungo istante, prima di dargli un rapido bacio all’angolo sinistro della bocca.

“A domani.” gli diede le spalle, allontanandosi rapidamente, lasciando lo shinobi semplicemente paralizzato sul posto.

Mi ha baciato… prima di andarsene mi ha baciato.

Stette immobile ancora per qualche secondo. Poi, con un ruggito di gioia, si buttò in ginocchio, sollevando la propria sciarpa al cielo.

Era felice, solo quello. Per la prima volta, la sua battaglia per non perdere un legame aveva avuto successo. Sapeva che non sarebbe stato facile ricominciare da zero con Hanabi, ma quella vittoria l’aveva reso euforico come mai prima d’ora era stato.

Prese a correre come un pazzo, verso i campi di addestramento, un sorriso gigantesco sul volto. Quando infine vide Moegi, impegnata a spiegare l’utilizzo dei vari tipi di chackra ai suoi allievi, la abbracciò di scatto, urlando come un matto, lanciandole in aria tutti i rotoli che aveva in mano e riprendendo a correre come un ossesso, lasciando l’amica semplicemente attonita.

“Sensei…”

“Ragazzi… l’avete visto bene?”

I tre Genin annuirono.

“Non imitatelo mai.” sospirò la Jonin, riprendendo in mano i propri documenti. “Mai.”

Eppure, mentre si chinava, osservò la schiena dell’amico con la coda dell’occhio, non riuscendo a trattenere un sorriso.

Era ora, Baka! Finalmente potrò riavere casa mia!

 

 

Camminava lentamente verso casa, il volto incandescente a contatto con la fresca brezza primaverile. Più ripensava alla situazione precedente, più il suo imbarazzo cresceva, facendole sperare di potersi nascondere in casa per i successivi sei anni.

Eppure non era mai stata così bene come in quell’istante.

E’ questo che provi, sorella? E’ questo… il sentimento che ti ha animato per tutti questi anni?

Non sapeva darsi una risposta. Era confusa, in balia di sensazioni contrastanti, alla disperata ricerca di un antidoto al veleno dell’odio e degli ultimi mesi.

Sono solo un’idiota.

Forse stava sbagliando ogni cosa, forse la sua era solo un’illusione, una chimera da cui si sarebbe risvegliata bruscamente da un momento all’altro.

Ma quando vedeva l’espressione determinata di Aimi, i sorrisi appena accennati di Shigeru, la gioia di vivere di Mirai, ogni cosa svaniva. C’erano solo loro, i suoi allievi, e lei, la loro Sensei.

Kakashi… entrò in casa con passo leggero, accolta da sorriso ingenuo di Kabera. Sei un bastardo...

“Come è andata oggi, Senpai?”

Hanabi sorrise, un sorriso sincero, privo di doppi sensi o di sarcasmo. Uno squarcio luminoso su un dipinto che per troppo tempo aveva vissuto nell’oscurità.

“Molto bene.” si tolse il copri-fronte, ignorando il tatuaggio scarlatto per la prima volta dopo anni. “Meravigliosamente direi!”

Era la Sensei di tre ragazzini imbranati e goffi.

Ed era la cosa più meravigliosa del mondo.

Ma ti sarò grata per sempre di questo regalo.

 

 

 

Angolo dell’Autore:

 

 

Ed ecco che anche la seconda parte di questa digressione su Mirai ed Hanabi è finita!

Lo ammetto, sono stato forse un po’ prolisso con loro, ma il fatto è che fin da quando ho deciso di usare il personaggio di Hanabi volevo creare un rapporto con Mirai, per tutta una serie di motivi che verranno fuori più avanti. Sulla Sarutobi posso dichiarare, senza alcuna esitazione, che sarà molto diversa da Asuma come carattere, come penso si possa già intuire da questi ultimi due capitoli.

E lo so, Naruto ed Hinata negli ultimi capitoli sono stati messi vergognosamente da parte. Tuttavia, posso giustificarmi con due motivi: il primo è che fin dall’inizio avevo specificato che mi piace spaziare anche su altri personaggi ed il secondo è che il prossimo capitolo sarà interamente dedicato a loro due, con in aggiunta un po’ di pepe e problemi (tanto per cambiare, eh?).

Ho anche approfittato per chiudere, per ora, la faccenda tra Konohamaru ed Hanabi. Dopotutto, succede a molte coppie di riprovarci dopo che la prima volta è andata male. A loro andrà bene? Chissà xD

Bene, ed anche stavolta ho finito. Tenterò di aggiornare prima della fine dell’anno con il capitolo numero 28, posto che questa raccolta si sta avvicinando alla fine (non vorrei sforare i 40 capitoli ma ora vedrò).

Come sempre ringrazio chiunque legga e segue questa storia, e ricordo che qualsiasi recensione (anche critiche) sono ben accette.

Un saluto!

 

Giambo

  
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