The
Biggest Challenge
Croci
parte
seconda
Mirai pestò i piedi nel
tentativo di riscaldarsi, percependo
lo stomaco brontolare dalla fame. Era l’alba e banchi
limacciosi di nebbia si
alzavano dal terreno, riempiendo l’aria di fredda
umidità. Al suo fianco,
ingobbiti per il freddo, c’erano Aimi e Shigeru, entrambi
cupi a causa del
freddo e del digiuno forzato.
Il tempo passò lentamente,
mentre i primi raggi di sole si
aprivano faticosamente la strada attraverso la nebbia. Mirai
iniziò a sfregarsi
le braccia nervosamente, le mani gelide nonostante indossasse i guanti
regalategli da Kiba, incapace di rimanere ferma. Le parole di Shikamaru
la sera
prima l’avevano irritata oltre ogni misura. Era come se il
suo padrino vedesse
in lei una bambina immatura, ignorando tutti i progressi compiuti negli
ultimi
tempi. Un qualcosa che non riusciva a tollerare minimamente. Shikamaru
era
stato una figura fondamentale per lei, fin da quando era nata. Ogni
ricordo
bello che possedeva era in qualche modo collegato allo shinobi.
Sentirsi
rimproverare come una mocciosa viziata da lui le aveva acceso un fuoco
dentro,
qualcosa di acido, cattivo, bruciante. Un miscuglio di sensazioni che
le
donavano il desiderio impellente di fare a pezzi qualsiasi cosa le si
parasse
di fronte.
Rivolse un’occhiata ai suoi
compagni, reprimendo a stento un
moto di stizza. Poteva anche accettare il fatto che accusare gli altri
dei
propri fallimenti fosse sbagliato, ma le rimaneva ancora poco chiaro
come
avrebbe fatto a collaborare con quei due.
Non mi
importa niente
di loro. Se voglio raggiungere il mio obbiettivo dovrò dare
il massimo. Non mi
farò fermare da quell’arrogante di Aimi.
La comparsa della figura di Hanabi
interruppe i suoi
pensieri bellicosi. Quest’ultima indossava gli stessi vestiti
del giorno prima,
con l’aggiunta di una sacca da ninja legata alla vita. Un
dettaglio che fece
capire ai tre Genin come quel giorno avrebbero visto la loro Sensei in
azione.
“Probabilmente vi starete
domandando in cosa consisterà
questo test.” esordì senza preamboli la kunoichi.
“La risposta è semplice:
un’esercitazione sul campo.”
I tre ragazzini inclinarono la testa,
perplessi da quella
definizione. Sorridendo, Hanabi estrasse dalla tasca due campanelli
d’argento,
accrescendo la loro confusione.
“Fino ad ora, vuoi avete
lavorato soprattutto sulla teoria.”
la Jonin prese a scuotere i campanelli, diffondendo un rumore argentino
nell’aria. “In Accademia avete sempre appreso ogni
cosa in un ambiente
protetto, dove sbagliare era considerata una cosa accettabile.
Tuttavia, ora
non siamo più in Accademia, anche se entro la fine di questa
giornata, uno di
voi ci tornerà.”
Quelle parole ebbero
l’effetto di abbassare ulteriormente la
temperatura nella zona circostante. L’aria divenne carica di
tensione, mentre
una goccia di sudore freddo prese a scendere lungo la schiena dei tre
novelli
ninja.
Cosa
significa?! E’
uno scherzo?!
“Vedete questi campanelli?
Avete tempo fino a mezzogiorno
per provare a sfilarmeli dalla cintura. Potete usare il terreno
circostante
come preferite, ed ogni strategia sarà ritenuta valida. Chi
ci riuscirà potrà
mangiare, oltre ad avere il permesso di rimanere. Se invece fallirete,
verrete
rispediti subito in Accademia, e dovrete ripetere l’ultimo
anno.”
In quell’istante Aimi
parlò, dando voce all’atroce dubbio
che stava prendendo vita dentro ognuno di loro.
“Ma… i
campanelli sono solo due. Questo significa che…”
Gli occhi di Hanabi brillarono di
crudele divertimento.
“Che uno di voi,
indipendentemente da come andranno oggi le
cose, sarà costretto a tornare in Accademia.” la
sua voce risuonò velenosamente
dolce, cadendo però con la violenza di un tsunami sopra le
teste dei ragazzini.
“Domande?”
Mirai deglutì, il volto
ricoperto da una patina di sudore.
Aveva il cervello completamente vuoto, mentre le parole appena
pronunciate da
Hanabi le rimbombavano dentro, lasciandola svuotata dalla paura.
Potrei
tornare in
Accademia?
Era un pensiero intollerabile.
Avrebbe significato fallire,
essere un fallimento, incapace di rendere realtà i propri
sogni. Ma
soprattutto, avrebbe visto Aimi avere successo dove lei non ci era
riuscita e
questo le era impossibile da accettare.
Non
importa… non
fallirò!
Strinse i pugni fino a conficcarsi le
unghie nei palmi,
contraendo ogni muscolo che possedeva. Non avrebbe mai perso, non
arrivata a
quel punto.
“Molto bene…
potete cominciare!”
Circa un’ora e mezza dopo,
Hanabi poteva tranquillamente
ammettere di essere profondamente delusa da ciò che aveva
appena visto. Certo,
esisteva del potenziale, ma l’idea di doverlo tirare fuori da
quei tre lattanti
era sfibrante.
Da quello che aveva osservato, ognuno
dei tre giovani Genin
era profondamente diverso come carattere e punti di forza. Shigeru
possedeva
una capacità di leggere il territorio circostante
incredibile, così come la sua
capacità di sfruttare l’abilità innata
del suo clan era notevole in rapporto
alla sua età. Per due volte Hanabi era stata sul punto di
cadere in una
trappola preparata con cura maniacale da parte del giovane Aburame, e
la cosa
l’aveva colpita. Tuttavia, in entrambi i casi, Shigeru era
apparso troppo
prudente, preferendo rimanere nascosto piuttosto che osare un assalto
una volta
che la Hyuga l’aveva scoperto. Questo limitava di gran lunga
le sue abilità, ma
era un difetto che si poteva limare con discreta facilità.
Con Aimi le cose erano diverse. La
Yogonuchi aveva tentato
un paio di volte un assalto, fruttando le condizioni ambientali a lei
favorevoli, quali un banco di nebbia particolarmente fitto. Hanabi
però non
aveva riscontrato alcuna difficoltà a prevedere il metodo
d’attacco di
quest’ultima, troppo scolastico e banale. Era sicuramente una
ragazza che
sapeva usare il cervello, oltre che possedere una padronanza del chakra
molto
superiore a quella di un novello Genin, ma era ancora troppo ancorata
agli
schemi che l’Accademia le aveva inculcato in testa. Lavorarci
sopra non sarebbe
stato per niente facile.
Mirai invece era una testa calda,
irruente e rumorosa. I
suoi assalti non erano solo banali, ma anche stupidi e privi di
qualsiasi
tattica alle spalle. Tuttavia, per quanto fosse irritante, Hanabi non
aveva
potuto fare a meno di notare quanto la mocciosa fosse portata per il
corpo a
corpo, con quale facilità modificava il proprio stile di
lotta in una frazione
di secondo. La sua non era improvvisazione e neanche fortuna.
L’unica parola
per definire il sangue caldo della Sarutobi era talento. Era una
combattente
nata, che si faceva guidare dal proprio istinto in battaglia.
Sfortunatamente,
quello era anche il suo punto debole.
“Rumorosa, priva di
inventiva, banale e prevedibile.”
osservò la Hyuga, subito dopo averle regalato un occhio
nero. “Dire che sei un
disastro sarebbe estremamente riduttivo.”
Mirai si rialzò subito,
ferita nell’orgoglio. Non era mai
stata brava ad aspettare il momento giusto per un assalto, dato che la
sua
pazienza si esauriva quasi subito. Da quel punto di vista, aveva preso
molto da
Temari.
Ora basta!
Hanabi spalancò gli occhi
quando vide qualcosa che non
poteva essere vero: un Genin che formava i segni per una tecnica di
livello
superiore.
Come
può essere?! La
Katon superiore è roba da Jonin!
“Katon: Drago di
Fuoco!” una gigantesca fiammata rossa uscì
dalle labbra di Mirai, investendo Hanabi e l’intera radura
circostante per
circa una trentina di secondi. Quando il fumo si dissolse, Mirai rimase
sorpresa nel vedere l’area completamente deserta.
“Niente male,
pivella.” la Sarutobi si voltò di scatto,
osservando Hanabi a testa in giù sul ramo di un albero poco
distante. “Sei
riuscita a prendermi alla sprovvista, ti faccio i miei
complimenti.”
Subito dopo, la kunoichi scomparve,
ricomparendo dopo un
istante di fronte alla ragazzina, tirandole un tremendo calcio al mento.
“Ma se non sfrutti
l’istante dove abbasso la guardia, la tua
tecnica diventa solo uno spreco di energie.” il colpo
spedì a parecchi metri di
distanza la Genin, lasciandola intontita al suolo.
Subito dopo, il corpo di Mirai
svanì, lasciando al suo posto
un ciocco di legno annerito.
Si
è sostituita…
prevedibile, ma è un buon diversivo.
Nell’ora successiva, Hanabi
riuscì ad individuare ognuno dei
membri del team, costringendoli a rapide fughe. Tuttavia, con il
passare dei
minuti, la Hyuga divenne sempre più nervosa: era palese che
quell’esercitazione
non stesse sortendo i frutti sperati. Decise di porvi fine prima di
mezzogiorno, ormai stufa di gironzolare per il boschetto del campo di
addestramento.
Dovrò
usare le maniere
forti per farmi capire da questi mocciosi.
Il primo a cadere fu Shigeru. Le sue
copie di insetti erano
ingegnose, ma la kunoichi era troppo esperta per lasciarsi ingannare.
Finse di
cadere preda di uno dei suoi sciami, solamente per sostituirsi e
colpire alla
nuca con un colpo secco il giovane Aburame, lasciandolo stordito.
E
uno…
Aimi fu meno dura da sconfiggere. La
ragazza tentò invano di
moltiplicarsi per darsi alla fuga, ma Hanabi la intercettò,
colpendola con un
violento pugno allo stomaco.
E
due…
Rimaneva solo Mirai, la quale dopo il
fallimento della
tecnica di fuoco si era tenuta in disparte, cercando di pensare ad
un’idea per
rubare uno dei campanelli.
E’
velocissima e per
quanto arrogante non abbassa mai la guardia… il
suo stomaco brontolò per il
digiuno forzato, mettendole difficoltà a riordinare i propri
pensieri. E quegli occhi sono
inquietanti… pare che
veda ogni cosa.
Per quanto odiasse ammetterlo, Mirai
non sapeva cosa fare.
La tecnica di prima l’aveva privata di quasi tutto il chakra,
lasciandola in
debito di ossigeno. Uno sfogo di rabbia che aveva pagato caro. Poteva
reggere
soltanto un altro attacco, e pertanto non poteva assolutamente fallire.
“Deve avere un punto
debole…” borbottò a bassa voce,
passandosi una mano tra i capelli.
“Certo che ce
l’ho.” esordì una voce alle sue spalle.
“Sono
allergica alle pivelle incapaci.”
Mirai reagì allontanandosi
di scatto, iniziando a formare i
segni, seguendo il proprio istinto, ma Hanabi non aveva voglia di
perdere altro
tempo. Con un movimento inumano, la kunoichi si portò alle
spalle della
Sarutobi, la quale fu troppo lenta nel voltarsi.
“Buh!” la Hyuga
la spedì lontano tramite un tremendo
montante. La Genin precipitò ad alta velocità al
suolo, schiantandosi
violentemente con il tronco di un albero distante, dove rimase a
boccheggiare
senz’aria.
Hanabi si sistemò i
capelli con un gesto meccanico,
sbuffando per la noia.
“Fine
dell’esercitazione.”
Una secchiata di acqua gelata fece
rinvenire di colpo Mirai,
la quale tossì violentemente. Si sentiva il corpo bloccato
ed indolenzito,
oltre ad avere un mal di testa atroce. Provò a muoversi, ma
si accorse di
essere fissata ad un tronco tramite delle corde.
Cosa
è successo? tentò
di divincolarsi, ma non ottenne alcun risultato di sorta. Ai suoi lati,
su due
tronchi simili, Shigeru ed Aimi erano nella sua stessa identica
situazione.
“Ben svegliati.”
Hanabi si trovava di fronte a loro, le
braccia incrociate, mentre il caldo sole primaverile aveva preso ad
illuminare
la radura. “Avete dormito proprio bene, pivelli.”
“Cosa significa tutto
questo?!” borbottò Aimi, tentando di
divincolarsi con scarso successo. “Se i miei lo venissero a
sapere…”
“Terranno la bocca chiusa,
visto che decido io come si
svolgono gli allenamenti, mocciosa!” la redarguì
la Hyuga. “Vi ho legati perché
avete tutti fallito miseramente la prova. Se avessi un minimo di
buonsenso vi
rispedirei in Accademia con un calcio così forte che non
potreste sedervi sulle
vostre chiappe per un anno intero.”
“Era un test
impossibile!” si difese Mirai, senza smettere
di lottare contro i nodi che la bloccavano. “Lei è
un Jonin esperto, mentre noi
siamo soltanto dei Genin!”
“Credi che questa scusa sia
sufficiente per spiegare il
vostro fallimento?” replicò Hanabi. “Se
durante una missione incontraste un
ninja più abile di voi vi arrendereste subito?! Mettereste
in pericolo il
vostro villaggio solo perché avete la spina dorsale di una
lumaca? E’ questo il
tuo Nindo, pivella?!”
Le parole sferzanti della kunoichi
chiusero la bocca alla
Sarutobi. Questi sentiva che, sotto il tono acido e sarcastico della
sua
insegnante, c’era del vero. La stessa verità
racchiusa nelle parole del suo
padrino.
Quando si
fallisce non
esistono scuse…
“Non avete fallito
perché non avete afferrato i campanelli.
Ad essere sincera, sarei rimasta stupita del contrario.”
proseguì Hanabi. “Vi
siete mai soffermati su come potermi affrontare? Avete mai riflettuto
sul fatto
che singolarmente non avete mai avuto una vera possibilità
di battermi?” Aimi
corrugò le sopracciglia, mentre Shigeru proseguì
nel suo silenzio stoico.
Tuttavia, era palese come anche lui fosse a disagio nel sentire quelle
parole.
“Il motivo per cui dovrei
farvi tornare subito in Accademia
è solo questo: siete degli individualisti. Ed un ninja che
ragiona solo per sé
non andrà da nessuna parte. Ora siete una squadra,
maledizione! E questo
significa che dovete iniziare a comportarvi come tale, che si tratti di
rubare
un campanello o di sacrificarsi per i propri compagni, dovete ragionare
sempre
come team, come se faceste tutti parte di qualcosa di più
importante.” Hanabi
scosse la testa, emettendo un sospiro. Nonostante si aspettasse un
simile
risultato, era delusa dalla mancanza di collaborazione tra i tre.
“Ecco... questo era il vero
test: scoprire il lavoro di
squadra!” concluse con tono stanco. Li slegò,
rimanendo soddisfatta nel vederli
pensierosi: era segno che le sue parole erano entrate nelle loro
piccole testoline.
“Domani vi voglio qui
all’alba.” proseguì, lanciandoli
addosso due cestini del pranzo. “Inizieremo con gli
allenamenti, ma se non
vedrò dello spirito di gruppo entro tre giorni, giuro sui
miei antenati che vi
riporterò tra i banchi a litigarvi i dolcetti, è
chiaro?!”
“Sissignore.” fu
la laconica risposta dei tre.
“Ora prendete quei cestini
e sparite dalla mia vista!”
Mirai, Shigeru e Aimi obbedirono
senza fiatare, tutti
tenendo la testa bassa. Sapevano di aver fallito. Mirai non provava
solamente
delusione ma anche rabbia. L’idea di essere stata definita
una debole priva di
volontà l’aveva ferita nel profondo, molto
più di quanto desiderasse ammettere.
Si era sempre considerata una buona studentessa, abile ed in gamba. Ma
nel giro
di qualche ora sia il suo padrino che la sua Sensei l’avevano
definita una
debole, priva della forza per andare avanti. Era qualcosa che non
riusciva ad
accettare, per quanto capisse che c’era del vero in quelle
parole.
Giunsero in silenzio ad una panchina,
ognuno immerso nei
propri pensieri. Mirai si sedette con uno sbuffo, infuriata con il
mondo. Era
così arrabbiata che non batté ciglio quando Aimi
le si sedette affianco.
I loro stomaci ruppero il silenzio,
brontolando all’unisono.
Nel corso delle ultime ore la fame era aumentata in modo esponenziale.
Tre paia di occhi fissarono famelici
i due cestini che
Hanabi aveva loro lanciato. Era palese che qualcuno sarebbe dovuto
rimanere a
bocca asciutta alla fine.
“Mangiate voi!”
sbottò Mirai, incrociando le braccia con
fare stoico. “Questa storia mi ha fatto passare la
fame.”
Era una bugia, ma i rimproveri subiti
nelle ultime ore
l’avevano ferita, donandogli il desiderio di mostrare al
mondo che non era una
debole, anche se ciò significava restare a digiuno.
Aimi non replicò alla
compagna. Si limitò ad aprire uno dei
cestini, afferrare un onigiri con le bacchette e portarlo davanti alla
bocca
della Sarutobi.
“Mangia.”
“Cosa?!”
“Hai sentito, stupida.
Mangia e piantala di fare la dura.”
borbottò la Yogonuchi a disagio. Era chiaro che fare un
favore alla sua
acerrima nemica le stava costando moltissimo.
“Non ho bisogno della tua
carità!” rispose Mirai digrignando
i denti. “Posso restare benissimo senza mangiare fino a
stasera.”
“Senti Mirai, tu non mi
piaci ed io non piaccio a te.” dichiarò
con tono minaccioso Aimi. “Ma ora siamo nella stessa squadra.
Questo non
significa che ho smesso di detestarti, ma se voglio raggiungere il mio
obbiettivo mi serve collaborare con te. Quindi mangia, altrimenti ti
ficco il
cibo in gola con la forza.”
Per un istante Mirai fu tentata di
rifiutare, ma quando vide
Shigeru accettare l’onigiri di Aimi, aprendo anche il secondo
cestino, decise
di deporre le armi, iniziando a mangiare assieme ai due compagni.
“Questo non cambia un bel
niente, mettitelo in testa.”
sibilò la figlia di Asuma, assaporando il cibo come se non
mangiasse da una
settimana.
“Lo so meglio di
te!” replicò l’altra.
A pochi metri di distanza, nascosta
dietro un albero, Hanabi
osservò la scena a braccia conserte, sbuffando.
“Finalmente
l’hanno capito.” borbottò,
incamminandosi verso
casa. “Stupidi mocciosi!”
Dieci minuti dopo, Hanabi giunse
innanzi al portone del
condominio dove abitava. La Jonin era di discreto umore dopo quello che
aveva
osservato nel parco. Nonostante tutto, quella mattina non era stata
sprecata,
dato che quei tre mocciosi avevano capito finalmente cosa significasse
collaborare. Il prossimo passo sarebbe stato farli diventare una vera
squadra,
che capisse l’importanza del lavoro di gruppo.
I suoi pensieri tuttavia, sviarono
subito dai suoi studenti
quando vide una figura a lei familiare vicino al portone.
Konohamaru.
Saru...
Era sorpresa. Ormai erano passati
più di due mesi da quando
si erano lasciati e da allora non aveva più avuto sue
notizie. Da un certo
punto di vista le era andato bene: quella era una ferita ancora fresca
e
rivederlo rischiava soltanto di farla sanguinare nuovamente. Era per
questo
motivo che non aveva dato a nessuno, tolto suo padre e sua sorella, il
suo
nuovo indirizzo, in modo da evitare di rivedere il suo ex fidanzato.
Eppure, nonostante i suoi sforzi,
Konohamaru era lì, che
l’attendeva, sul viso un’espressione di nervosismo,
quasi fosse a disagio in
quel posto. Disagio che, nel suo caso, era moltiplicato
all’inverosimile, fino
a farlo diventare puro terrore.
Ora cosa
vuole…
Si avvicinò, irrigidendo
ogni muscolo, per evitare di
darsela a gambe. Dopo quello che si erano detti l’ultima
volta, le era
difficile anche solo pensare di rivolgergli la parola.
Lui la vide. Sobbalzò,
quasi anche lui fosse tentato di
fuggire da quel confronto. Hanabi si chiese cosa diavolo fosse venuto a
fare,
visto che entrambi sembravano terrorizzati all’idea di
parlarsi.
“Ciao.” fu il
Sarutobi a rompere per primo il silenzio,
osservandola nel tentativo di capire cosa le passasse per la testa.
“Come hai fatto a scoprire
dove abito?” fu la domanda secca
della kunoichi, sempre più irritata e spaventata da
quell’incontro.
Konohamaru fece un sorriso amaro. Era
preparato ad una
simile accoglienza.
“Desideravo
vederti… così ho chiesto in giro.”
“Un desiderio che non
condivido.” sbottò la ragazza. Il
Sarutobi fece un sospiro, cercando le parole giuste.
“Non desideravo darti
fastidio. Solo che… ho saputo che hai
lasciato gli Anbu e quindi…”
“Come fai a
saperlo?” lo interruppe subito, la mente che
acquistava freddezza, mista ad un atroce sospetto. Qualcosa di
così assurdo che
si diede dell’imbecille ad averlo solo pensato. Il fatto che
gli occhi del
Sarutobi cercassero di evitarla tuttavia non faceva che rafforzarlo.
“L’ho saputo
dall’Hokage.” fu la risposta di lui, ma il tono
appariva falso alle sue orecchie. Conosceva bene Konohamaru e sapeva
quando
mentiva.
“E perché
l’Hokage avrebbe dovuto dirti una cosa così
riservata?”
Scese un silenzio teso per alcuni
secondi. Una goccia di sudore
scese dalla fronte di Konohamaru, il quale rimase in silenzio fino a
quando non
cadde sul selciato.
“Perché sono
stato io… a suggerirgli di affidarti una
squadra di Genin.”
Niente. Non sentì
assolutamente nulla. Non percepì rabbia,
dolore, sorpresa… la sua mente rimase calma e fredda come
una lastra di
ghiaccio, il cuore che pompava tranquillamente il sangue.
Ne ebbe paura.
Il colpo arrivò
improvviso, secco. Un montante tremendo al
mento, che lasciò stordito il Jonin. Questi
barcollò all’indietro, portandosi
una mano sulla zona lesa, gli occhi fissi sul volto gelido della sua ex.
“Prima di ammazzarti vorrei
sapere una cosa.” esordì Hanabi,
il tono tranquillo. Pareva quasi stesse discutendo in maniera
disinteressata.
“Quale ragione ti ha spinto a rovinarmi
l’esistenza?”
Il Sarutobi sollevò il
volto, gli occhi scuri che si
specchiavano in quelli perlacei della donna. Dentro di lui provava
soltanto
amarezza nell’osservare quel viso ricolmo di risentimento nei
suoi confronti.
“Perché volevo
aiutarti.”
“Nessuno ti ha chiesto
nulla!” ringhiò la Hyuga con tono
furioso. La rabbia stava montando ora, incagliandosi nello stomaco. “Non avevi nessun diritto di
intrometterti nella mia vita!”
Lei gli rise in faccia.
“Persona a te
cara?!” il suo bel viso si contrasse in una
smorfia di pura collera. “Soltanto perché siamo
stati assieme per qualche tempo
non significa che io ti debba qualcosa, così come tu non
devi nulla a me.
Finiscila con quest’ossessione, Konohamaru. Sei soltanto
patetico.”
Entrò nel condominio,
superandolo con una spallata, furiosa
con il mondo intero per ciò che aveva appena udito.
Ignorò le domande di
Kabera, chiudendosi in camera. Sentiva la rabbia bollirle nello stomaco
come
magma incandescente. Era furiosa per ciò che Konohamaru le
aveva fatto, forse
troppo dal momento che rimase spaventata nello scoprire che, sotto la
rabbia,
covava un altro sentimento, più profondo, ma
sufficientemente blando da poter
essere sommerso e dimenticato dal suo orgoglio.
Non aveva
alcun diritto!
Maledetto stupido!
Nello stesso istante, in strada,
Konohamaru Sarutobi si
riscosse lentamente, distogliendo lo sguardo dalla porta che la Hyuga
gli aveva
sbattuto in faccia.
Non mi
importa di
apparire patetico…
Perché c’era una
crepa nella corazza di rabbia e di
disprezzo di Hanabi Hyuga, qualcosa che non aveva mai visto prima in
lei e che
gli fece comprendere, nonostante tutto, di aver fatto la scelta giusta.
Con il
carattere che
si ritrova… quando mai ha avuto gli occhi lucidi in quel
modo?
Annui, emettendo un sospiro. La sua
parte l’aveva fatta,
proprio come gli aveva ordinato Moegi. Adesso doveva attendere, sia che
la cosa
funzionasse sia che Hanabi proseguisse a vivere lontano da lui.
Stupida
orgogliosa.
Nelle tre settimane successive, il
tempo scorse fin troppo
rapidamente per Mirai, trasformandola più di quanto volesse
ammettere.
Hanabi era diventata semplicemente il
loro incubo. Ogni
giorno, indipendentemente dal tempo, costringeva i tre Genin a sedute
di corsa,
esercizi fisici, ginnastica e palestra. Non contenta, dopo una breve
pausa per
il pranzo, la Hyuga li sottoponeva a lunghe esercitazioni, obbligandoli
a
collaborare per affrontarla in uno combattimento, lasciandoli liberi di
tornare
a casa solo verso ora di cena.
“Voi mi
odierete.” dichiarava sempre la kunoichi quando li
vedeva sul punto di crollare. “Arriverete al punto di
odiarmi, ma la cosa non
mi interessa. Sputate sangue, urlate dalla rabbia, imprecate,
desiderate pure
la mia morte… ma non osate mollare o vi rispedisco subito in
Accademia,
chiaro?”
La tentazione era forte, molto forte.
Ogni giorno diventava
sempre più difficile per Mirai trovare la motivazione per
scendere dal letto.
Si rendeva conto che non era quella la vita che si era aspettata dopo
il
diploma. Hanabi era dura, fredda e sempre piena di rabbia e
risentimento nei
loro confronti. Non faceva compiere loro alcun tipo di missione,
limitandosi a
sfinirli per inculcare loro il lavoro di squadra e la fatica.
Potrei
sempre tornare
in Accademia, rifare l’ultimo anno e ripartire con una
squadra nuova ed un
Sensei migliore…
Era il suo primo pensiero la mattina,
quando cercava di
trovare la forza di scendere dal letto. Invariabilmente lo scacciava,
ma si
accorse che ogni volta ci voleva maggiore forza mentale per farlo.
Capì infine che
lo scopo ultimo di Hanabi non era quello di insegnare loro qualcosa, ma
solo
quello di spezzarli dentro.
Eppure,
non si
arrese. Le parole di Shikamaru bruciavano come fuoco nella sua mente, e
si
accorse che non sarebbe mai riuscita ad accettare l’idea di
fallire, non dopo
che il suo padrino le aveva dato della vigliacca.
Che spezzi
pure il mio
fisico… continuerò a lottare con la mente.
In quei giorni, seppur controvoglia,
iniziò ad entrare in
confidenza con Aimi e Shigeru. Si accorse che l’Aburame, per
quanto silenzioso
e sgarbato, pareva comprenderla molto bene. Ogni volta che i suoi
muscoli la
tradivano per la stanchezza, lui era lì, ad aiutarla,
sorreggendola se
necessario. Non diceva una parola, ma la Sarutobi iniziò a
chiedersi se non
fosse stata frettolosa nel definirlo uno strambo fissato con gli
insetti.
Aimi invece l’aveva
colpita. Aveva sempre pensato a lei come
ad un’arrogante egocentrica, incapace di passare dalle parole
ai fatti. Eppure,
nonostante Hanabi la torchiasse e la umiliasse continuamente, urlandole
contro
ogni insulto possibile, la Yogonuchi non protestò mai,
proseguendo imperterrita
nei propri esercizi. Sembrava semplicemente non accusare la fatica, e
più
Hanabi si impegnava per farla cedere, più
quest’ultima appariva inscalfibile
nella propria volontà.
Come fa ad
avere tutta
quell’energia?
Era un quesito che attanagliava
spesso la mente di Mirai,
incapace di dargli una risposta. Tuttavia, se con Shigeru era stato
relativamente facile ricredersi, la sola idea di cambiare giudizio su
Aimi
Yogonuchi la faceva inorridire.
Eppure, poco alla volta, fu proprio
l’esempio della rivale a
spronarla ogni giorno, a trovare le energie per non arrendersi. Senza
accorgersene, la Sarutobi e la Yogonuchi avevano iniziato a fissarsi
non più
con disprezzo, ma con riluttante rispetto. Entrambe comprendevano che i
motivi
d’attrito tra loro erano nient’altro che futili
bambinate innanzi a ciò a cui
li stava sottoponendo Hanabi. Se volevano sopravvivere, erano costrette
a
sostenersi a vicenda.
Era quando scendeva la sera
però che l’astio tra di loro
diventava più sfumato, quasi impercettibile. La stanchezza
le rendeva più
vulnerabili, più disposte a vedere la rivale come a qualcuno
con cui
condividere un legame. Un legame forgiato da sudore e sangue, qualcosa
per cui
valeva la pena provare a superare il disprezzo che le divideva. Sarebbe
bastata
una parola, un segno, per far crollare definitivamente anni di
inimicizia.
Ma nessuna lo fece.
Kabera inclinò la testa
verso destra, le iridi celesti fisse
verso la parete di fronte a sé, un’espressione di
irritante beatitudine sui
tratti infantili del viso. Era difficile capire cosa passasse per la
mente
della giovane Anbu, quale astruso pensiero stesse focalizzando la sua
concentrazione.
L’ingresso irruento di
Hanabi in casa la riscosse dal suo
torpore. Annuì scioccamente un paio di volte, osservando con
blando interesse
la sua coinquilina aprire il frigorifero, afferrare una bottiglia di
birra e
correre a sdraiarsi scompostamente sul divano dove prese a bere lunghe
sorsate
della bevanda.
Lentamente, come se la cosa non
risvegliasse in lei che un
blando interesse, Kabera si alzò, avvicinandosi con passo
indolente alla Hyuga,
osservandola sbottonarsi i pantaloni con un sospiro di sollievo.
“Buonasera,
Senpai.” mormorò dolcemente la ragazza.
“Come è
andata la sua giornata?”
La risposta di Hanabi fu un assai
poco signorile rutto.
Normalmente, la Jonin si guardava bene dal comportarsi in quella
maniera, ma
Kabera la conosceva da troppo tempo per non capire che c’era
qualcosa che non
andava.
“Qual è il
problema, Senpai?” domandò con tono sognante,
sedendosi a gambe incrociate sul pavimento. “I vostri allievi
sono dispettosi?”
“I miei
allievi…” esclamò sarcasticamente la
Hyuga. “Sono
tre maledetti marmocchi che dopo venti giorni non hanno ancora capito
cosa
diavolo significa collaborare. Perfino un Baka come Naruto avrebbe
afferrato il
concetto dopo tutto questo tempo!”
“Capisco. Immagino che
questo vi renda triste.”
Hanabi ingollò un nuovo
sorso di birra, lanciando
un’occhiata all’amica assai distante dal concetto
comune di tristezza.
“Sono solo degli
incapaci!” sbottò infine. “Dovrei
rispedirli a calci in Accademia. In questo modo questa ridicola storia
dell’insegnamento avrebbe fine e potrei tornare negli Anbu
con te.”
“Eppure non lo
fate.” replicò dolcemente l’Anbu.
“Perché?”
Non rispose. Non aveva una risposta
ben precisa da dare. Da
quando aveva parlato con Konohamaru una sola idea le aveva preso
possesso del
suo cervello: tornare negli Anbu, il suo posto, la sua vera casa. Aveva
stilato
un programma di allenamento disumano per i suoi allievi con il chiaro
intento
di farli mollare, ma finora li aveva visti sopportare le peggiori
angherie del
suo repertorio senza battere ciglio. Era rimasta sorpresa da tanta
determinazione, ma questo non faceva che frustrare le sue speranze di
tornare
ad impugnare la Shinobigatana, lasciandola sempre più cupa e
di malumore.
Sentì lo sguardo di Kabera
su di sé e la cosa la irritò. Con
un gesto improvviso si alzò, scaraventando la bottiglia
contro il muro, gli
occhi contratti nel Byakugan.
“Piantala di fissarmi! Non
ho nessun motivo per spiegarti le
mie decisioni, è chiaro?!”
La sua voce risuonò
furiosa nel salotto, seguita subito da
un silenzio carico di tensione. Kabera sembrò stupita da
tanto astio nei suoi
confronti, ma le sue successive parole furono pronunciate con tono
dolce e
gentile.
“Avete ragione…
vi chiedo scusa.” si alzò, dirigendosi verso
camera sua. “Ma dovreste stare attenta. Non vi fa bene stare
così male.”
Digrignò i denti,
osservando la coinquilina andarsene con
passo lento. Fu solo quando sentì la porta in fondo al
corridoio chiudersi con
uno scatto che la sua ira esplose.
“Non
c’è niente che non va in me, hai capito?!
NIENTE!”
Non udì nessuna risposta.
Non che la desiderasse. Tutto
quello che voleva era lasciarsi alle spalle quella storia ridicola, ma
non
vedeva nessuna via d’uscita. Era in trappola, costretta ad un
ruolo per il
quale non si sentiva assolutamente tagliata.
Io sono
un’omicida a
sangue freddo, un’assassina, non una stramaledetta balia per
dei marmocchi!
Questo non è il mio posto!
Chiuse gli occhi, disattivando la
propria abilità oculare,
la mente bombardata dalle parole di Konohamaru, poche frasi che la
perseguitavano da settimane, facendola sentire furiosa con il mondo
intero.
Maledetto
bastardo…
Voleva una maschera, una lama, una
persona da uccidere nel
buio, una vita passata da omicidio ad omicidio, qualcosa che la
rendesse morta
dentro, che le donasse la capacità di piantare un coltello
nella gola di
Hazuba, permettendole di adempiere al proprio dovere di Anbu e di
Hyuga. Invece
tutto quello che aveva erano tre marmocchi, un ex fidanzato cocciuto ed
una
coinquilina fastidiosamente perspicace, che la metteva maledettamente
in
difficoltà nell’accettare i propri sentimenti.
Cosa ci
faccio qui?
Non dormì quella notte.
Trascorse le ore che la separavano
dall’alba bevendo ogni bevanda alcolica che trovò
in casa, riempiendo
successivamente di vomito il lavabo in cucina. Quando decise di
strisciare in
doccia era già in ritardo per l’allenamento del
mattino, facendola uscire di
casa, poco dopo, in uno stato di profonda ira, furiosa con il mondo
intero.
Oggi giuro
che mi
libererò di loro.
Sogghignò, il volto magro
e sciupato deturpato dalla rabbia.
Una collera pronta a riversarsi contro tre inesperti Genin.
Stamattina
mi diverto…
Quella mattina Mirai fece fatica a
trattenersi dallo
sbottare. Hanabi era più irritante e sadica del solito e,
come al solito, stava
prendendo di mira Aimi, insultandola in tutte le maniere possibili.
“E tu saresti la figlia di
un ricco proprietario terriero?”
ringhiò la Hyuga, osservandola fare piegamenti sotto
l’ennesimo acquazzone
d’aprile. “Come ti senti ora a mangiare fango? Come
ci si sente ad essere una
nullità, principessina?!” le sue parole si persero
sotto il rombo dei tuoni,
mentre la Yogonuchi proseguiva imperterrita nel proprio esercizio,
lasciando la
Sarutobi sempre più arrabbiata e perplessa.
Perché non reagiva? Cosa c’era che
la bloccava? Possibile che avesse paura di Hanabi Hyuga?
“Non rispondi? Del resto
non mi sorprende.” la Jonin le
voltò le spalle, un sorrisetto maligno sulle labbra.
“Sei solo una fallita.”
Fu un istante, un attimo
così veloce che Mirai non fu certa
di averlo veramente visto. Il corpo di Aimi ebbe un fremito, quasi si
stesse
trattenendo. Era difficile capire la sua espressione sotto la patina di
fango,
ma la Sarutobi udì distinto il rumore di un singhiozzo
trattenuto a stento.
Fu troppo per lei.
Digrignò i denti,
affondando le dita nella melma sotto di
sé, il corpo pieno di rabbia. Non sapeva neanche lei il
perché di quella
reazione. Aveva sognato per anni di vedere la sua rivale umiliata, ma
ora che era
successo sotto i suoi occhi provava solo un cieco desiderio di farla
pagare ad
Hanabi per le sue parole sprezzanti.
Ha passato
il segno…
Si alzò di scatto, lo
sguardo puntato contro la Hyuga, la
quale socchiuse gli occhi, un sogghigno ad incorniciarle il volto.
“Non ti ho detto di
fermarti, Sarutobi.”
Mirai rimase immobile, le iridi color
ossidiana fisse in
quelle pallide della sua Sensei. Per un istante si chiese se fosse
giusto
quello che voleva fare, ma i singhiozzi di Aimi le rimbombavano ancora
in
testa, scaldandole il sangue.
Con un gesto deciso
afferrò il proprio copri-fronte, scaraventandolo
a terra.
“Non intendo più
darle ascolto!” esclamò. “Non
rimarrò qui a
farmi umiliare da lei!”
“Allora tornatene in
Accademia.” fu la secca replica della
Jonin. “Vai a frignare tra i banchi. Evidentemente,
è quello il tuo posto.”
“Sempre meglio che obbedire
ai comandi di una vigliacca!”
Il sorriso svanì dalle
labbra di Hanabi, le unghie che
penetravano lentamente nella carne dei palmi, gli occhi stretti in uno
sguardo
glaciale. Aimi e Shigeru si alzarono, fissando sbalorditi il
comportamento
della loro compagna.
“Cosa hai
detto?!” sibilò la Hyuga, avvicinandosi lentamente
verso la Genin. “Cosa sarei io… piccola mocciosa
sputasentenze?!”
“Lo sa
benissimo!” Mirai sentì le viscere contrarsi per
la
paura, ma non indietreggiò, resa ebbra dalla rabbia che le
circolava in corpo. “Noi
siamo qui per imparare, per diventare qualcuno su cui
la nostra gente possa contare un giorno. E lei cosa ha fatto?
Nient’altro che
offenderci ed umiliarci, sfogando su di noi i problemi della sua vita
privata!”
“Zitta.”
schiaffeggiò la ragazzina, scottata da quelle
parole. “Cosa sai tu di me, mocciosa? Chi ti credi di essere
per venire qui a
farmi la predica? Sei solo una stupida bamboccia che ha sempre vissuto
nella bambagia.”
Con uno scatto, Mirai si
rialzò, sorprendendo tutti.
Successivamente, afferrò per il bavero la sua insegnante,
sfogando tutta la
frustrazione accumulatasi nelle ultime settimane.
“E’ lei che non
sa niente di me! Non ha la minima idea di
tutti i sacrifici che ho fatto per arrivare a questo punto, di quanta
fatica ho
impiegato per provare a raggiungere il mio sogno! E adesso lei arriva
qui, dal
nulla, a dirmi che sono solo una stupida bambina buona a nulla?! Cosa sa di noi tre per giudicarci
così?! Per buttarci
addosso le sue croci?! Niente, lei non sa niente! Proprio come quello
che può
insegnarci!”
Lasciò di scatto la presa,
quasi si fosse scottata, il fiato
corto per tutto ciò che aveva urlato. Si sentiva leggera,
quasi capace di
volare. Finalmente aveva detto tutto ciò che pensava di
Hanabi Hyuga, ed era
una percezione magnifica.
Hanabi sembrò recuperare
il proprio autocontrollo. Per un
lunghissimo minuto rimase immobile, l’espressione sul volto
glaciale. Tuttavia,
quando parlò, la sua voce apparve tremendamente fragile.
“L’allenamento
per oggi è finito.”
Non disse altro. Diede loro le
spalle, incamminandosi verso
casa, la schiena dritta. I suoi occhi però, apparivano
sperduti, quasi
spaventati.
Mirai recuperò lentamente
il fiato, sentendosi sfinita, la
pelle che bruciava dove era stata colpita. Fece per raccogliere il
proprio
copri-fronte quando Aimi la precedette, consegnandoglielo con
un’espressione
strana sul volto: un misto tra sorpresa e gratitudine.
“Grazie.”
La figlioccia di Shikamaru non disse
nulla, accettandolo con
un gesto secco. Ora che la rabbia stava svanendo, si accorse
dell’enormità del
suo gesto. Non solo si era condannata ad un inglorioso ritorno tra i
banchi
dell’Accademia, ma aveva costretto Shigeru ed Aimi allo
stesso destino.
“Non dovresti
ringraziarmi.” esordì, i capelli pregni
d’acqua appiccicati sulla fronte. “Per causa mia
tornerete in Accademia anche
voi.”
Sul volto della Yogonuchi si dipinse
una smorfia di
insofferenza al pensiero, ma non aprì bocca.
“Hai scelto di fare
ciò che pensi sia giusto.” mormorò
Shigeru. “Questo non è mai un male,
Mirai.”
Le iridi scure della Sarutobi si
soffermarono sui volti dei
suoi compagni. Ci vide stanchezza, delusione, forse dolore, ma entrambi
non
tentarono minimamente di accusarla di quella situazione, nonostante ne
avessero
il diritto. Erano una squadra, e come tale avrebbero vissuto
quell’insuccesso
assieme, condividendone la vergogna.
Grazie…
Sentiva la pioggia battere sul vetro,
ma non la vedeva. Ogni
cosa attorno a lei era scura, immersa in un silenzio rotto solo da quel
ticchettare monotono. Ogni tanto, un lampo illuminava a giorno
l’ambiente,
facendolo sprofondare subito dopo nell’oscurità.
“Non
avevi nessun
diritto di intrometterti nella mia vita!”
“Invece
sì!... Stavi
male, te lo si leggeva chiaramente in faccia. Non potevo lasciarti
sprofondare
senza tentare nulla, non è nel mio carattere abbandonare una
persona a me cara
al suo destino.”
Digrignò i denti,
conficcandosi le unghie nel tatuaggio
sulla spalla. Percepiva una sordida collera bruciarle nello stomaco,
rivolta
indistintamente contro tutti. Odiava tutti, compresa se stessa.
Il mio
destino…
“Gli
Anbu sono tutto
per me, non potete buttarmi fuori!”
“Ho
deciso di
farlo perché ritengo che il tuo compito
all’interno dell’ordine sia concluso.
Rimanerci ancora non sarebbe di alcun beneficio per nessuno, neanche
per te.”
Qual era il suo compito? Il suo
destino? Perché non riusciva
a comprenderlo? Com’era possibile che chiunque fosse riuscito
a trovare il suo
posto nel mondo, mentre lei era ancora lì, a brancolare
nell’oscurità?
La collera prese a gorgogliare nel
suo stomaco,
inacidendosi, otturandole la gola. Scavò nella pelle della
spalla, facendola
sanguinare. Un odore, quello del sangue, che conosceva fin troppo bene.
Non sono
altro che
un’assassina… il mio posto non è tra le
persone normali.
“Cosa
sa di noi tre
per giudicarci così?! Per buttarci addosso le sue croci?!
Niente, lei non sa
niente! Proprio come quello che può insegnarci!”
Si Incastrò la testa tra
le ginocchia, sentendosi confusa.
Era stanca. Stufa di tutta quella sofferenza. Fin da quando era una
bambina
aveva dovuto convivere con il dolore, specialmente quello di sua
sorella. Aveva
creduto che fuggire, nascondersi dietro una maschera, dietro una
sciocca ambizione
di diventare più forte, potesse salvarla da quel dolore, da
tutta quella
sofferenza umana che la schiacciava. Un modo per staccarsi da quel nome
che
aveva cominciato ad odiare con tutta se stessa: Hanabi Hyuga,
l’erede del
potente clan Hyuga.
Ma si era sbagliata.
Il dolore non aveva smesso di
perseguitarla, di schiacciarla
sotto il suo atroce peso. Sua sorella aveva ancora bisogno del suo
aiuto, così
come il suo clan ed il suo villaggio. Non era cambiato niente da prima
e allo
stesso tempo era cambiato tutto, sotto i colpi di una guerra civile,
capace di
sommergendola sotto una montagna di cadaveri, i suoi morti, uccisi per
una
patria che mai come in quell’istante sentiva di detestare.
Digrignò i denti con tanta
forza da farli scricchiolare, le
unghie incastrate tra i palmi delle mani. Era stanca, tremendamente
stanca di
quella vita, ma allo stesso tempo si sentiva inadatta a qualsiasi
alternativa.
Era giunta ad odiare ed amare quella vita, proprio come amava ed odiava
se
stessa. La speranza di salvezza, di redenzione, che il Sesto Hokage le
aveva
concesso non era altro che una futile illusione, che si sarebbe
infranta
presto.
Quando sono
diventata
così? Rialzò la testa di scatto, le
iridi color lavanda perse nell’oscurità
della sua stanza. Quando ho perso ogni
speranza per il futuro?
Forse era stato alla fine della
guerra civile. Vedere con
mano la vera essenza del dolore era stata un’esperienza
terribile, che
inconsciamente l’aveva cambiata nel profondo, facendola a
poco a poco
allontanare da ogni affetto che si era costruita nel tempo, salvando
solo sua
sorella e quell’idiota di suo marito. Neanche Konohamaru era
stato risparmiato
da quella fuga ossessiva da ogni cosa, convinta che annullarsi per il
proprio
dovere fosse l’unico modo per smettere di soffrire.
E poi era arrivato Kakashi e quel suo
maledetto incarico. Un
lavoro che aveva odiato, osteggiato e detestato fin dal primo
istante… almeno
fino a quando una ragazzina infuriata non le aveva sbattuto in faccia
frasi che
scottavano troppo per liquidarle come farneticazioni infantili.
Fece un sospiro, chiudendo gli occhi,
desiderando
ardentemente che qualcosa, un segno, l’aiutasse a capire.
Comprendere cosa
dovesse fare della sua vita. Per la prima volta, Hanabi non sapeva cosa
fare.
“Noi
siamo qui per
imparare, per diventare qualcuno su cui la nostra gente possa contare
un
giorno. E lei cosa ha fatto? Nient’altro che offenderci ed
umiliarci, sfogando
su di noi i problemi della sua vita privata!”
Non chiuse occhio quella notte.
Rimase tutto il tempo seduta
sul letto, lo sguardo perso nel vuoto, in testa solo le parole urlatele
contro
da una ragazzina arrabbiata.
I miei
allievi…
La mattina dopo, Mirai giunse al
campo d’addestramento con
la sensazione che fosse l’ultima volta. Ci aveva pensato a
lungo durante la
notte, ed era giunta alla conclusione che fosse giusto così.
Era palese che
Hanabi Hyuga non avesse alcuna intenzione di insegnare loro
alcunché.
Speriamo
solo che
mamma non si arrabbi troppo. Non aveva avuto il coraggio di
dire nulla al genitore,
temendo una lavata di capo. Kurenai non era un genitore abituato ad
alzare la
voce, ma possedeva un’autorità innata, capace di
averla spesso vinta anche con
una testarda come sua figlia.
Sopraggiunsero Aimi e Shigeru,
entrambi con un’espressione cupa
in volto. Ciò che la colpì più di
tutto furono gli occhi della Yogonuchi: due
pallidi pozzi chiari, ricolmi di qualcosa di molto simile alla
disperazione.
Era evidente che per lei ciò che stava per accadere sarebbe
stata un’onta
difficilmente dimenticabile.
La mattina avanzò,
lasciando i tre Genin sempre più
perplessi. Ad eccezione del loro primo incontro, Hanabi non aveva mai
fatto
tardi ad un allenamento.
“Forse è andata
in Accademia dal preside, chiedendogli di
riprenderci.” ipotizzò all’improvviso
Shigeru, dando voce alle preoccupazioni
delle due ragazze.
“Forse…”
la voce di Aimi era così bassa che fecero fatica ad
udirla. “Forse anche noi dovremmo andare… in
Accademia.”
Mirai non aprì bocca.
Vedeva la realtà davanti a lei,
tremendamente chiara: aveva fallito. Nonostante tutto quello che si era
ripromesso in merito a quella sfida, alla fine aveva ceduto alla sua
irruenza,
perdendo tutto. C’erano molte attenuanti, ma il solo pensarci
la disgustò. Il
suo padrino era stato ben chiaro su quel concetto, e non aveva alcuna
intenzione di perderlo.
Infine, quando ormai si stavano
decidendo a dirigersi verso
l’Accademia, Hanabi comparve con passo lento, il volto
inespressivo, gli occhi
gelidi. Sembrava quasi avesse dimenticato la sceneggiata del giorno
prima.
Una volta arrivata innanzi ai propri
allievi, la kunoichi li
guardò a lungo, mettendoli a disagio. Si soffermò
in particolare su Mirai, la
quale non riuscì a reggere quello sguardo freddo, sentendosi
ancora in colpa
per le azioni compiute il giorno precedente.
Un vento freddo si sollevò
improvvisamente, facendoli
rabbrividire. Nonostante quella mattina splendesse il sole,
l’aria era ancora
fredda, risentendo della pioggia caduta durante la notte.
“Seguitemi.”
Un comando secco, come al solito.
Tuttavia, il tono di voce
lasciò i tre compagni perplessi. Non c’era
più alcuna traccia di arroganza o di
cattiveria nella voce della kunoichi, quanto più una grande
stanchezza.
“Vi ho detto di
seguirmi.”
Scelsero di obbedirle, sempre
più confusi quando la videro
imboccare la direzione opposta rispetto all’Accademia. Mirai
non riusciva a
formulare una sola ipotesi riguardo ciò che stava accadendo,
incapace di
comprendere perché non avesse ancora stracciato i loro
diplomi di fronte a
loro.
Non sembra
neanche
lei… rimuginò, osservandone la
camminata. A prima vista appariva rapida e
sicura come sempre, ma la Sarutobi notò un tremito
impercettibile nelle spalle
della Jonin, quasi fosse sconvolta da sensazioni contrastanti.
Forse ha
qualche
rimorso per il suo comportamento. Non ci credeva molto, ma
avrebbe spiegato
in parte il comportamento anomalo della Hyuga.
Improvvisamente, Hanabi si
fermò innanzi ad un piccolo
negozio. I Genin si limitarono a notare che fosse uno studio
fotografico quando
la Hyuga li spinse rudemente dentro.
“Venite.”
“Cosa ci facciamo
qui?” borbottò Aimi, squadrando con
un’occhiata guardinga la Jonin, la quale però
rimase impassibile.
“Lo vedrai.”
Quello che avvenne nei successivi
dieci minuti fu qualcosa
di così assurdo che Mirai non l’avrebbe mai
dimenticato.
Una foto. Hanabi Hyuga li aveva
portati a fare una foto
tutti assieme.
Era un gesto così assurdo
che per un istante la ragazza fu
convinta di stare ancora dormendo, immersa in un bizzarro sogno.
Percepì la mano di Hanabi
sulla sua spalla. Un tocco
delicato, niente a che vedere con l’arroganza e il sadismo
messi in mostra
nelle ultime settimane. La scrutò con la coda
dell’occhio, notando come
sembrasse calma, priva di quella tensione che le aveva incarognito il
volto nei
giorni precedenti.
“Di solito nelle foto si
guarda l’obbiettivo e si sorride,
mocciosa.” osservò la Jonin senza spostare lo
sguardo. Colta in fragrante,
Mirai non poté far altro che riportare gli occhi innanzi a
sé, ancora troppo
confusa dagli ultimi avvenimenti per riordinare il miscuglio di
sensazioni che
le si agitava nel petto.
Forse fu quello il motivo per cui non
riuscì più di tanto a
sorridere innanzi all’obbiettivo. La sua figura lievemente
sorridente si
stagliava alla desta di Hanabi. In mezzo, con un immenso sorriso di
sollievo
sulle labbra, c’era Aimi, mentre alla sinistra della Hyuga,
con le mani in
tasca, c’era Shigeru, apparentemente indifferente a
ciò che stavano facendo.
E proprio dietro di loro, con un
sorriso furbo sulle labbra,
c’era Hanabi Hyuga, apparentemente di nuovo in pace con se
stessa.
La mocciosa
ha
ragione… non devo scaricare su di loro i miei
problemi… era giunta alla
conclusione che, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, non era giusto
prendersela
con quei tre Genin. Nonostante fosse un compito che non amasse, per ora
non
poteva fare altro che compierlo, in attesa di vedere cosa il futuro le
riservasse di preciso.
Forse dovrei
iniziare
a fare come Saru: non pensare.
Il pensiero del suo ex le
procurò una fitta. Non era stata
giusta con Konohamaru, infischiandosene dei suoi sentimenti e
preoccupandosi
soltanto di essere un buon Anbu. Lo stesso compito che ora si trovava
tra le
mani era un gesto, per quanto non desiderato, del suo affetto nei suoi
confronti.
Sono stata
troppo
dura.
Chiuse gli occhi, un istante dopo il
flash, sentendosi
incredibilmente più leggera nell’averlo ammesso.
Era incredibile quanto fosse
difficile ammettere per lei le sue colpe. Eppure, la sensazione di
benessere
che le riempì lo sterno, all’altezza dello
stomaco, era magnifica, qualcosa che
non assaporava da troppo tempo ormai.
Riaprì gli occhi,
rivolgendo un sorriso sincero ai suoi
allievi.
Forse non era troppo tardi per
ricominciare.
Subito dopo la foto di gruppo, Hanabi
riportò i suoi allievi
al campo di addestramento. Qui li squadrò uno ad uno,
cercando di capire cosa
stessero provando in quegli istanti. Lesse sollievo e riconoscenza sul
viso
delicato di Aimi, indifferenza su quella glaciale di Shigeru e profonda
confusione in quello magro di Mirai.
In un certo senso, le loro reazioni
erano lo specchio del
loro carattere.
Fece un profondo respiro. Ora toccava
a lei rimediare alla
sua stupidità.
“Ieri
c’è stato… un comportamento
disdicevole.” esordì con
voce atona. “Ho riflettuto a lungo su ciò che
è successo, e sono giunta alla
conclusione che la colpa è stata solo mia.”
notò gli occhi della Sarutobi
diventare grandi come piattini da tè e la cosa la
divertì. “Pertanto, se voi
siete d’accordo, direi di modificare i nostri programmi
quotidiani d’ora in
avanti, in modo che tali comportamenti non si ripetano
più.”
Tirò fuori un rotolo,
motivo del suo ritardo quella mattina.
Se si concentrava, poteva ancora vedere il sorriso nascosto dalla
maschera di
quello stronzo di Kakashi, quando gli aveva chiesto una missione per la
sua
squadra.
“Se nelle prossime ore
riuscirete a completare tutti gli
esercizi dell’allenamento, questo pomeriggio inizieremo la
nostra prima
missione come Team.” non ricevette alcuna risposta,
sentendosi incredibilmente
stupida, ma ormai non poteva più tornare indietro.
“Siamo d’accordo?”
Per alcuni secondi non si
udì alcun suono. Poi, con un
movimento secco del volto, Shigeru annuì. Subito seguito a
ruota da Aimi e da
una finalmente sorridente Mirai.
Sul volto della Jonin comparve un
sorriso.
“Allora cominciate subito a
fare un centinaio di piegamenti!
Al lavoro!”
E questa volta ottenne una risposta
inequivocabile.
“Sì,
Sensei!”
Nei tre giorni successivi, le cose
mutarono rapidamente.
Hanabi prese le redini della squadra.
La mattina li sfiniva
ancora con allenamenti durissimi, ma nel pomeriggio li portava sempre a
compiere qualche missione di livello D. Anche il suo atteggiamento nei
confronti degli allievi mutò: era ancora molto severa e
brusca, ma aveva smesso
di trattarli male, cercando di essere più comprensibile, in
modo da guadagnarsi
la loro fiducia. Non era facile, specie per una come lei dal carattere
più
adatto al battibecco che al dialogo, ma era convita che, se si
impegnava al
massimo, sarebbe riuscita a guadagnarsi il loro rispetto.
“Sensei?” la voce
di Aimi ruppe il silenzio attorno a loro,
richiamando l’attenzione di tutti. “Posso farle una
domanda?”
Si trovavano fuori dai confini del
Villaggio. Gli ultimi
acquazzoni avevano danneggiato molte fattorie nelle zone circostanti, e
la loro
ultima missione consisteva nel riparare il tetto di una di queste. A
causa
dell’ora tarda in cui finirono il lavoro, Hanabi aveva deciso
di farli dormire
nel fienile, piuttosto che rischiare di portare a spasso tre dodicenni
nel
cuore della notte.
“Dimmi.” la
kunoichi non distolse gli occhi dal fuoco, le
gambe strette al petto. Pareva una gatta che si rilassava dopo una
lunga
giornata.
“Mi chiedevo…
quando ci insegnerà qualche nuova tecnica?” la
Yogonuchi parlò con una punta di timore nella voce, ma non
appena udirono la
domanda Mirai e Shigeru aguzzarono le orecchie, curiosi di conoscere la
risposta della Hyuga in merito.
“Non devi avere
fretta.” quest’ultima rispose con voce
bassa, senza spostare lo sguardo. “Non avrebbe senso
insegnarvi tutti i jutsu
di questo mondo, se non imparate a muovervi come una vera
squadra.”
“Capisco…”
“Comunque sia, è
importante che voi capiate una cosa.” prese
a ravvivare il fuoco con un bastoncino, la voce sempre bassa.
“Non potrò
insegnarvi nulla del mio stile di lotta, visto che si basa su
un’abilità
oculare.”
“Intende il
Byakugan?”
“Esatto. Pertanto, io non
sarò in grado di insegnarvi molto
sotto questo punto di vista.” vide la delusione montare sui
loro volti e la
cosa la divertì. “Questo significa che
spetterà a voi trovare il vostro stile
di combattimento più adatto. Io posso aiutarvi a rinforzare
le vostre basi, ma
dopo toccherà a voi capire quali sono i vostri punti forti e
come sfruttarli
per creare uno stile tutto vostro.”
“Quindi… non ci
insegnerà alcuna tecnica?” la delusione
nella voce di Aimi era palpabile.
“Non ho detto
questo.” ribatté la Jonin, un sorrisetto sulle
labbra. “Nei prossimi giorni vedrò di cominciare a
rendervi meno incapaci.”
Andarono a dormire, sdraiandosi
attorno al fuoco. Il respiro
di Shigeru e Aimi divenne ben presto pesante, mentre Mirai non
riuscì a
chiudere occhio. Continuò a rigirarsi, cercando di capire il
motivo per il
quale quella nuova Hanabi la mettesse a disagio. Era diversa, forse
troppo. Si
chiese se avesse a che fare con la loro sfuriata, o se invece ci fosse
sotto
qualcos’altro che non conosceva.
“Non riesci a
dormire?”
La voce di lei la fece sobbalzare.
“No.” si rimise
seduta, cercando di non dare a vedere il suo
nervosismo.
“Dovresti farlo.”
la voce della Hyuga assunse una tonalità
bassa e morbida, simile alle fusa di un gatto. “Domani non ci
andrò leggera con
voi.”
La Genin si morse il labbro inferiore
fino a spaccarselo.
Sentiva il bisogno irrefrenabile di chiederglielo, di sapere il motivo
dietro a
quel cambiamento.
“Perché?”
Hanabi volse la testa, fissandola perplessa.
“Perché non ci ha rispediti in Accademia
dopo… quello che le ho detto?”
Per alcuni secondi nella cascina si
udì solo il rumore del
fuoco. La kunoichi riportò le proprie iridi verso le fiamme,
il volto scavato
dai giochi di ombre e luci di queste ultime.
“Non ho mai voluto questo
compito.” dichiarò con voce bassa.
“Non era mia intenzione diventare un Sensei.” un
sorriso amaro le si dipinse
sulle labbra. “Ma non è giusto che questo mio
problema ricada su di voi.”
Riportò lo sguardo sulla
sua allieva, sorridendo con
sicurezza stavolta.
“Una vera donna si fa
sempre carico delle proprie croci.”
Mirai spalancò gli occhi,
incredula. Quelle parole erano le
stesse che settimane prima gli aveva detto Shikamaru. Era una
coincidenza
troppo assurda per ritenerla tale.
Farsi carico
delle
proprie croci…
Avrebbe portato nel cuore per tutta
la vita quel primo
insegnamento della sua Sensei.
“Grazie…”
mormorò con voce talmente flebile che non credeva
di poter essere udita. “Hanabi-Sensei.”
Quest’ultima chiuse gli
occhi nell’udire quell’appellativo.
Una strana sensazione, bollente come lava, le scese nello stomaco,
stringendoglielo
con forza. Era qualcosa che non aveva mai percepito prima, ma che la
fece stare
meravigliosamente bene dopo tanto, troppo tempo.
No…
Ore dopo, quando ormai anche il fuoco
era morto, si mosse,
spinta da quella sensazione irrefrenabile, una forza a cui non poteva
resistere
in alcun modo.
Le sue dita sfiorarono i morbidi
capelli scuri della
Sarutobi, ormai immersa nel proprio mondo onirico. Un tocco
così leggero da
sembrare solo una delicata brezza estiva, eppure intriso di quel
sentimento a
lei sconosciuto, di cui però ormai era vittima.
Grazie a
te… Mirai.
Lo comprese solo in
quell’istante, e lo accettò per quello
che era: il suo destino.
Non li avrebbe mai abbandonati.
Mai.
Konohamaru Sarutobi emise uno
sbadiglio, scacciando via
dall’occhio destro una lacrima rappresa. Quando andava a
trovare Udon e suo
nonno al cimitero, ritornava a casa sempre di umore labile.
Quasi quasi
vado a
schiacciare un pisolino… in quei giorni non aveva
nessuna missione tra le
mani, e si ritrovava ad avere una montagna di tempo libero, forse
addirittura
troppo.
Sono
diventato schiavo
del lavoro.
C’era un bel sole, dopo
giorni di tempo incostante, benché l’aria
fosse ancora frizzante. I feroci acquazzoni primaverili erano ormai un
ricordo
e nel clima si poteva avvertire i primi segnali di un’estate
calda. Il ninja
sollevò il viso verso l’alto, godendosi la bella
giornata.
Il suo ritrovato buon umore si
interruppe di colpo
nell’istante in cui vide Hanabi innanzi alla sua porta di
casa.
Hanabi…
Contrasse le sopracciglia, la gola
improvvisamente secca.
Erano passate settimane da quando si erano visti per l’ultima
volta, e le
parole della kunoichi non avevano lasciato molte speranze che la
situazione
potesse risolversi.
Eppure ora lei era lì,
davanti a lui, il volto contratto in
un’espressione di profondo imbarazzo.
Il suo corpo proseguì a
muoversi come se nulla fosse,
avvicinandosi a lei meccanicamente. Più la distanza tra loro
si accorciava e
più i dettagli e le sfaccettature del suo viso gli entrarono
nel cervello come
schegge impazzite, facendogli comprendere quanto fosse ancora pazzo di
lei.
“Ehi.”
La voce di lei risuonò
morbida. Incerta forse, ma lontana
dalla durezza del loro ultimo controllo.
“Ciao.”
Silenzio. L’ennesimo
silenzio ricolmo di imbarazzo degli
ultimi tempi. Konohamaru si chiese da quando il muro di casa sua fosse
così
interessante, mentre Hanabi si promise di andare in giro
d’ora in avanti con
una trombetta per evitare quegli istanti penosi.
“Ti stavo
cercavo.” la sua lingua sembrò muoversi di propria
volontà, permettendole di uscire da quello stallo.
“Volevo… chiederti una
cosa.”
Il Sarutobi le lanciò
un’occhiata di sottecchi. Era nervosa,
lo poteva vedere da come la sua lingua guizzava tra le labbra secche,
alla
ricerca di aria e di coraggio.
“Cosa?”
Silenzio. Ancora una volta quel
maledetto silenzio.
“Tu…”
si conficcò le unghie nei palmi delle mani, percependo
la scarica di dolore come un torrente di energia, capace di farla
uscire da
quel penoso balbettio. “Tu… cosa intendevi
l’altra volta?”
Sguardo vacuo da parte sua.
L’aveva previsto. In fondo, era
pur sempre un Baka colossale.
Il
mio…
“In… che
senso?”
Nuovo silenzio, nuovo guizzo della
lingua sulle labbra
secche, nuovo desiderio spasmodico di seppellirsi con una pala
all’istante.
Maledizione!
Non sono
una ragazzina, che diavolo mi sta succedendo?!
“Quando… hai
detto che io sono per te una persona cara.”
Fu seriamente tentata di prenderlo a
pugni quando lo vide
comprendere quel significato con spaventosa lentezza.
“Tu…”
Konohamaru sembrava incapace di compiere un
ragionamento. “Intendevo dire… quello che ho
detto.” deglutì, radunando tutto
il proprio coraggio. “Mi sei cara, Hanabi… come un
tempo.”
La kunoichi non disse nulla per un
istante interminabile.
Poi, dalla sua bocca uscì una frase, così fioca
che fece fatica a sentirla lei
stessa.
“Vuoi riprovarci?”
“Come?”
Una vena si delineò sulla
fronte della Hyuga. Odiava quel
genere di situazioni e la dabbenaggine del Sarutobi non
l’aiutava a porre fine
a quella scenetta tremendamente imbarazzante.
“Ti ho chiesto se vuoi
riprovarci.” ripeté con voce più forte.
“Vuoi tentare… nuovamente? Intendo… noi
due?”
Il colorito sul volto di Konohamaru
furono, in sequenza: un
pallore mortale, seguito da un verde peste per evolversi subito in un
rosso
infuocato.
“Tu… vorresti
uscire con me?!” balbettò. “Intendi come
coppia?”
Hanabi fece un profondo respiro.
Ripensò a tutto ciò che
aveva passato negli ultimi mesi, al malessere accumulato fino a farla
diventare
pazza. Forse era un rischio, Hazuba non si sarebbe fatta scrupolo ad
usare
persone a lei care per ferirla, ma non poteva rinnegare la sua
umanità, il suo
desiderio di avere una vita normale come tutti. Aveva passato anni ad
osservare
sua sorella combattere le piccole battaglie di una vita di coppia e non
vedeva
l’ora di poterlo fare anche lei.
Basta con la
disperazione…
“Esatto.”
riuscì a contrarre le labbra in un sorriso.
Nonostante tutto, desiderava davvero riprovarci con
quell’idiota di proporzioni
gigantesche. “So che di solito è l’uomo
ad invitare… ma che ne dici se domani
sera ci andassimo a mangiare un boccone assieme?”
Lo stupore di Konohamaru
lasciò spazio ben presto ad una
gioia immensa.
“Sei seria?!”
esclamò. “Non è… uno
scherzo?”
La kunoichi lo guardò in
cagnesco.
“Se non mi dai una risposta
subito, giuro che ti ammazzo.”
“Ok…”
si grattò la nuca, imbarazzato per la figuraccia.
“Per
la cena va bene… nessun problema!”
Si misero d’accordo per il
posto e l’ora. Parlarono un po’
delle ultime novità, ma era palese che Hanabi desiderasse
chiuderla lì.
Tuttavia, dopo essersi salutati, lei esitò per un lungo
istante, prima di
dargli un rapido bacio all’angolo sinistro della bocca.
“A domani.” gli
diede le spalle, allontanandosi rapidamente,
lasciando lo shinobi semplicemente paralizzato sul posto.
Mi ha
baciato… prima
di andarsene mi ha baciato.
Stette immobile ancora per qualche
secondo. Poi, con un
ruggito di gioia, si buttò in ginocchio, sollevando la
propria sciarpa al
cielo.
Era felice, solo quello. Per la prima
volta, la sua
battaglia per non perdere un legame aveva avuto successo. Sapeva che
non
sarebbe stato facile ricominciare da zero con Hanabi, ma quella
vittoria l’aveva
reso euforico come mai prima d’ora era stato.
Prese a correre come un pazzo, verso
i campi di
addestramento, un sorriso gigantesco sul volto. Quando infine vide
Moegi,
impegnata a spiegare l’utilizzo dei vari tipi di chackra ai
suoi allievi, la
abbracciò di scatto, urlando come un matto, lanciandole in
aria tutti i rotoli
che aveva in mano e riprendendo a correre come un ossesso, lasciando
l’amica
semplicemente attonita.
“Sensei…”
“Ragazzi…
l’avete visto bene?”
I tre Genin annuirono.
“Non imitatelo
mai.” sospirò la Jonin, riprendendo in mano i
propri documenti. “Mai.”
Eppure, mentre si chinava,
osservò la schiena dell’amico con
la coda dell’occhio, non riuscendo a trattenere un sorriso.
Era ora,
Baka!
Finalmente potrò riavere casa mia!
Camminava lentamente verso casa, il
volto incandescente a
contatto con la fresca brezza primaverile. Più ripensava
alla situazione precedente,
più il suo imbarazzo cresceva, facendole sperare di potersi
nascondere in casa
per i successivi sei anni.
Eppure non era mai stata
così bene come in quell’istante.
E’
questo che provi,
sorella? E’ questo… il sentimento che ti ha
animato per tutti questi anni?
Non sapeva darsi una risposta. Era
confusa, in balia di
sensazioni contrastanti, alla disperata ricerca di un antidoto al
veleno dell’odio
e degli ultimi mesi.
Sono solo
un’idiota.
Forse stava sbagliando ogni cosa,
forse la sua era solo un’illusione,
una chimera da cui si sarebbe risvegliata bruscamente da un momento
all’altro.
Ma quando vedeva
l’espressione determinata di Aimi, i
sorrisi appena accennati di Shigeru, la gioia di vivere di Mirai, ogni
cosa
svaniva. C’erano solo loro, i suoi allievi, e lei, la loro
Sensei.
Kakashi…
entrò in
casa con passo leggero, accolta da sorriso ingenuo di Kabera. Sei un bastardo...
“Come è andata
oggi, Senpai?”
Hanabi sorrise, un sorriso sincero,
privo di doppi sensi o
di sarcasmo. Uno squarcio luminoso su un dipinto che per troppo tempo
aveva
vissuto nell’oscurità.
“Molto bene.” si
tolse il copri-fronte, ignorando il
tatuaggio scarlatto per la prima volta dopo anni.
“Meravigliosamente direi!”
Era la Sensei di tre ragazzini
imbranati e goffi.
Ed era la cosa più
meravigliosa del mondo.
Ma ti
sarò grata per
sempre di questo regalo.
Angolo
dell’Autore:
Ed ecco che anche la seconda parte di
questa digressione su
Mirai ed Hanabi è finita!
Lo ammetto, sono stato forse un
po’ prolisso con loro, ma il
fatto è che fin da quando ho deciso di usare il personaggio
di Hanabi volevo
creare un rapporto con Mirai, per tutta una serie di motivi che
verranno fuori
più avanti. Sulla Sarutobi posso dichiarare, senza alcuna
esitazione, che sarà
molto diversa da Asuma come carattere, come penso si possa
già intuire da
questi ultimi due capitoli.
E lo so, Naruto ed Hinata negli
ultimi capitoli sono stati
messi vergognosamente da parte. Tuttavia, posso giustificarmi con due
motivi:
il primo è che fin dall’inizio avevo specificato
che mi piace spaziare anche su
altri personaggi ed il secondo è che il prossimo capitolo
sarà interamente
dedicato a loro due, con in aggiunta un po’ di pepe e
problemi (tanto per
cambiare, eh?).
Ho anche approfittato per chiudere,
per ora, la faccenda tra
Konohamaru ed Hanabi. Dopotutto, succede a molte coppie di riprovarci
dopo che
la prima volta è andata male. A loro andrà bene?
Chissà xD
Bene, ed anche stavolta ho finito.
Tenterò di aggiornare
prima della fine dell’anno con il capitolo numero 28, posto
che questa raccolta
si sta avvicinando alla fine (non vorrei sforare i 40 capitoli ma ora
vedrò).
Come sempre ringrazio chiunque legga
e segue questa storia,
e ricordo che qualsiasi recensione (anche critiche) sono ben accette.
Un saluto!
Giambo