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Autore: gattina04    03/12/2017    1 recensioni
Kathleen non è una ragazza come tante: sottoposta alla pressione di una famiglia che le chiede sempre troppo, ha un passato che non riesce a lasciare andare. Lei sa cosa vuole, sa qual è il suo sogno, ma ci ha rinunciato già da tempo per l'unica persona a cui sente di essere ancora legata.
Trevor invece è schietto, deciso, con un passato fin troppo burrascoso, che vorrebbe solo dimenticare. Trevor vuole voltare pagina e per questo si ritrova in un mondo, in una scuola, dove è completamente fuori posto.
Come potrà una ragazza legata al passato trovare un punto di contatto con un ragazzo invece che farebbe di tutto pur di recidere quel legame?
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La mia storia è pubblicata anche su WATTPAD
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 2
 
Parcheggiai l’Honda nel primo posteggio libero che trovai di fronte allo stabile. Ormai quel posto mi era talmente famigliare che mi ci sarei potuta orientare anche ad occhi chiusi; avevo ripetuto ogni azione talmente tante volte da compierle ormai tutte in automatico. Sapevo, anche senza contarli, che c’erano dieci gradini che separavano la strada dalla porta di ingresso, mentre l’entrata per le barelle era situata sul retro. Sapevo che il lunedì, il mercoledì e il venerdì pomeriggio in portineria c’era Ross, mentre il martedì, il giovedì e il sabato lo sostituiva Carl; la domenica invece si alternavano a vicenda.
Conoscevo a memoria il tabellone con i piani e i reparti, sapevo dare indicazioni quasi meglio di un’infermiera. Avevo imparato che era più facile prendere l’ascensore di destra invece di quello di sinistra, anche se non ne capivo il motivo. Era sorprendente come arrivasse sempre prima dell’altro nonostante fossero identici.
Avevo anche imparato che una volta arrivata al terzo piano ci volevano solo dieci passi prima di ritrovarsi di fronte alla porta del reparto a lunga degenza, così come sapevo che una volta entrata dovevo percorrere quasi tutto il corridoio per poi svoltare a destra prima di ritrovarmi davanti al bancone dell’infermiere. Da lì dovevo proseguire per altri trenta passi per arrivare davanti alla sua porta. Era tutto così normale nella sua anormalità che avrei potuto farlo ad occhi chiusi.
«Ehi Kathleen, sei passata anche oggi?». L’infermiera che in quel momento stava sistemando varie attrezzature mediche in un carrello mi rivolse un sorriso gentile.
«Ciao Charlotte!», la salutai, contenta che per quel giorno ci fosse lei e non Lina. «Come sta la bambina? È guarita dall’influenza?».
«Sì per fortuna, anche se ora ad essersi ammalato è mio marito».
«Beh almeno tu resisti», le feci notare.
«Sì ed è un vero miracolo». Scoppiò a ridere ed io la lasciai a fare il suo lavoro, per dirigermi verso colui a cui non facevo altro che pensare.
Appena entrai nella stanza vidi subito i fiori sul comodino, segno che la mamma era stata lì. Per quanto potessimo non andare d’accordo, quello era forse l’unico fattore in comune che avevamo. Sapevo che passava da lui ogni mattina e che trascorreva là un paio d’ore, quelle stesse ore che probabilmente prima avrebbe speso a conversare con le sue amiche. Su quel punto non potevo dirle niente, era irreprensibile; non lo dava a vedere e non voleva che si sapesse, ma ero certa che una parte di lei fosse morta con lui il giorno dell’incidente, così come era morta una parte di me. D’altronde era il suo bambino ed era il mio fratellone, non sarebbe potuto essere altrimenti. Per quanto entrambe tentassimo, una parte di noi era rimasta con lui e non si era più staccata.
«Ciao Jamie, eccomi di nuovo qua». Feci un respiro profondo e spostai lo sguardo dal comodino al letto; non erano tanto i macchinari o l’attrezzatura medica a farmi impressione, quanto invece il notare quanto fosse dimagrito e smunto rispetto alla persona che conoscevo e amavo. Era solo l’ombra di quello che era un tempo.
L’avevano definito “stato vegetativo”; quando i medici ce l’avevano detto, avevo subito fatto ricerche su internet e sui libri di medicina della scuola. “Lo stato vegetativo è una condizione di possibile evoluzione del coma caratterizzata dalla ripresa della veglia, senza contenuto di coscienza e consapevolezza di sé e dell'ambiente circostante”, così recita Wikipedia. Beh un’approssimazione bella e buona dal mio punto di vista.
In medicina non erano contemplate molte possibilità di ripresa, non via via che il tempo passava; anche se si fosse risvegliato non sarebbe stato più lo stesso, non avrebbe più potuto condurre una vita normale. Era questo quello che cercava di ripetermi Queen in continuazione; lui era ancora vivo, ma era come se non lo fosse. Non sarebbe più tornato il mio Jamie, anche nell’eventualità che si fosse risvegliato; l’avevo perso per sempre anche se era esattamente lì accanto a me.
Questo lo capivo, ero consapevole che oramai non potevamo più fare nulla per lui se non aspettare. Ma il fatto che lo capissi non significava che lo accettassi. Sapevo che dal punto di vista razionale l’arrabattarsi ad andare da lui, a tenerlo legato a me, era inutile ma non riuscivo a fare altro. Lui era la persona che meglio mi capiva al mondo e non riuscivo a lasciarla andare e basta, non quando c’era ancora una minuscola scintilla di vita in lui.
Quando Queen aveva affermato che sarebbe stato meglio se James fosse morto nell’incidente, io mi ero arrabbiata così tanto che non le avevo rivolto la parola per settimane. Tuttavia capivo che aveva ragione: non era più vita per lui quella, anche se dal punto di vista medico e giuridico era esattamente il contrario.
Tuttavia una minuscola parte di me ci sperava ancora, andando contro a tutto il mio raziocinio. Avevo letto studi su persone che si erano risvegliate e che potevano in qualche modo riprendere la loro vita. Non sarebbe più stato Jamie al cento per cento, però avrei dato di tutto pur di sentire la sua voce o di vedere il suo sorriso. Probabilmente avrebbe avuto gravi deficit motori e altri gravi danni, ma sarebbe rimasto comunque il mio Jamie. Ero arrivata al punto di accontentarmi anche dell’ombra di quello che era.
Ricacciai indietro le lacrime come ero abituata a fare da più di due anni e mi diressi accanto al suo letto. Jamie aveva gli occhi aperti, a volte capitava visto che alternava i cicli di sonno veglia, ma il suo sguardo era assente. I suoi bellissimi occhi verdi erano due pozze inesistenti ormai.
Mi sedetti sul letto accanto a lui, scartando la sedia che c’era al lato e gli presi una mano.
Non sapevo se riuscisse o meno a sentirmi o se sentire la mia voce potesse in qualche modo aiutarlo o fosse solo un inutile spreco di fiato. Io però continuavo a farlo, era l’unica cosa che mi restava. «Lo so che dovrei essere a studiare a quest’ora, ma avevo voglia di vederti. Sto continuando il diario, devo leggerti cosa altro ho scritto. Ultimamente ho talmente tanti pensieri che mi frullano in testa che mi sa che finirò presto anche questo quaderno». Tirai fuori dalla borsa il mio fedele compagno, in modo tale da potergli leggere ciò che avevo buttato giù negli ultimi giorni.
«Oggi a scuola è arrivato un tipo stranissimo», aggiunsi prima di aprirlo. Non sapevo perché mi fosse venuto in mente proprio in quel momento, forse solo perché poteva essere una bella storia e a Jamie sarebbe piaciuta. «Dovresti vederlo: mette paura. È pieno di tatuaggi e piercing e ha una faccia; sembra uscito dal riformatorio. Frequenta con me biologia all’ultima ora, è il mio nuovo compagno di banco. Non ti devi preoccupare, però, farò attenzione fratellone, come sempre». Abbozzai un sorriso immaginando il suo fare protettivo; probabilmente sarebbe tornato indietro dal college solo per controllare che io fossi al sicuro da quel brutto ceffo. Jamie era sempre stato così buono, gentile ed iperprotettivo con me e anche con Queen.
Sorrisi di nuovo immaginando esattamente ciò che avrebbe detto o fatto, prima di abbandonarmi alla lettura. In quel momento purtroppo non mi restava altro: per fortuna avevo ottimi ricordi ed una fervida immaginazione.
 
«Allora, cosa si dice in giro?». Destreggiandomi col vassoio, presi posto al tavolo della mensa di fronte a Lea ed Evan, sentendo il mio stomaco borbottare.
«Dove l’hai presa quella?», mi domandò Evan indicando il mio pezzo di pizza fumante.
«Me l’ho lasciato da parte Claire, la signora della mensa. Perché?».
«Maledetta ragazza fortuna». Osservai il suo piatto dove faceva bella mostra qualcosa di indefinito. Ah già: era giovedì! Il giovedì non era mai un buon giorno se arrivavi in mensa leggermente in ritardo.
«Quello dovrebbe essere…». Lasciai la frase in sospeso, trattenendo un sorriso.
«Polpettone», borbottò lui. «Ripeto: maledetta ragazza fortunata».
«Lascialo stare Linny, o ricomincerà a lamentarsi», intervenne Lea.
Trattenni una risata e cambiai subito argomento. «Allora che novità ci sono? Lea cosa dice la tua fonte accreditata di gossip studentesco?».
«Beh dice che c’è una grossa novità, ed è proprio in coda alla mensa in questo momento».
Feci per voltarmi ma Evan mi trattenne per un braccio. «Linny, sei impazzita? Non ti voltare».
«Ma come faccio a vedere allora?», sbottai.
«Sii discreta», mi suggerì Lea, «anche se non ce ne sarebbe bisogno, penso che abbia già addosso gli occhi di tutta la scuola. Basta che ti volti leggermente verso destra».
Feci come mi aveva detto e riuscii a scorgere colui che aveva attratto l’attenzione generale. Non era difficile notarlo ed era palese che i miei amici stessero parlando di lui. Chi poteva fare tanto scalpore se non Trevor, il teppista appena comparso nella nostra scuola?
«Si chiama Trevor», dichiarai.
«E tu come fai a saperlo?». In un secondo avevo completamente attratto l’attenzione dei miei due amici. Di solito ero sempre l’ultima a sapere le cose, almeno quelle che riguardavano il gossip studentesco.
«Frequenta biologia all’ultima ora con me», spiegai addentando il mio pezzo di pizza.
«E…?». Lea mi guardò esasperata esortandomi a dire di più.
«E niente. È il mio nuovo compagno di banco, purtroppo». Scrollai le spalle e assunsi un’espressione corrucciata.
«Purtroppo?». Evan mi guardò come se avessi due teste. «Io direi grazie a Dio!».
«Stai scherzando? Ma l’hai visto?». Forse non aveva notato l’aria losca e l’espressione truce. Metteva i brividi e tutta la scuola se ne rendeva conto.
«Certo che l’ho visto, ragazza. Mi domandò se l’hai visto tu? Darei un rene per poter passare un’ora accanto a dei bicipiti del genere». Lo fissai sbigottita non riuscendo a trovare le parole giuste per replicare a quell’affermazione: certe volte i gusti del mio amico mi lasciavano molto perplessa.
«Non credo che tu possa essere il suo tipo Evan», intervenne Lea.
«Che ne sai tu? A volte sono i tipi più insoliti quelli che ti possano sorprendere. Potrei aiutarlo io a fare coming out».
«Credo proprio che il tuo gay radar sia rotto», commentai. «E comunque cosa ci trovi di tanto interessante? Mette i brividi».
Evan scosse la testa ed assunse la sua espressione saccente. «Povera innocente Linny. È proprio questo, è quell’aria da cattivo ragazzo, quel fare misterioso, sembra proprio il tipo che riuscirebbe a mandarti in paradiso e all’inferno nello stesso istante».
«Non capisco», ammisi, dando un altro morso alla pizza.
«Beh su questo Evan ha ragione», intervenne Lea. «Ha un che di tormentato e di ribelle che affascina, per non parlare del fatto che in fin dei conti resta un bel ragazzo».
«Non per me», ribattei.
«Linny, tu non fai testo», mi liquidò l’altro. Lea gli tirò una gomitata per farlo tacere, ma lui continuò imperterrito. «Tu non hai neanche mai baciato un ragazzo, o meglio non hai neanche mai voluto tentare di baciarne uno. Se solo volessi, ci sarebbero un sacco di ragazzi interessati a te; tu invece rifiuti senza neanche contemplare la possibilità. Ho più esperienza io di te, e sono un ragazzo gay in una piccola cittadina; questo è tutto dire».
Aveva ragione, ma lui sapeva anche come stavano le cose. A volte la schiettezza di Evan era difficile da sopportare. Abbassai lo sguardo e lo puntai sul mio vassoio, sentendomi improvvisamente demoralizzata. Sarebbe stata sempre così la mia vita? Io che restavo la stesa mentre tutti gli altri andavano avanti?
«Lo sai perché», mormorai con un filo di voce.
«Certo che lo sa il perché», intervenne Lea. «È solo talmente stupido da non ricordarsi di pensare prima di dare aria a quella boccaccia».
Vidi con la coda dell’occhio la mia amica tirargli un’altra gomitata per indurlo a parlare.
«Già Lea ha ragione», borbottò. «Non volevo che mi uscisse così; volevo solamente ricordarti che anche tu hai la tua vita e che vorrei che tu fossi felice. Non è detto che tu non possa esserlo senza tuo fratello».
Rialzai lentamente lo sguardo fino ad incrociare gli occhi neri del mio migliore amico. «Lo so, ma non è così semplice. Lo vorrei ma…». Non finii la frase perché entrambi sapevano come l’avrei conclusa. “Io non ci riesco”.
«Comunque», cambiò argomento l’altra con mio grande sollievo, «da quel che si dice in giro, pare che sia arrivato ieri in mattinata e per questo ha potuto seguire solo le lezioni del pomeriggio; ieri infatti a mensa non c’era, altrimenti l’avremmo notato. Pare che si sia trasferito qua da Boston: i suoi genitori sono divorziati e sembra che lui sia venuto a vivere qua col padre e con la sua nuova moglie, cioè la sua matrigna».
«E sei riuscita a scoprire tutto questo in una sola mattinata?», la guardai stupita non sapendo come diavolo facesse.
«Nell’ora di storia, a dire il vero. Karen Wilson è una rana dalla bocca larga e, per sfortuna di Trevor, frequentano entrambi matematica alla prima ora». Accennai un sorriso pensando a quella pettegola, non che la mia amica fosse da meno, ma almeno lei non se ne andava in giro a sparlare della gente.
«Durante la terza ora poi ho avuto il piacere di osservarlo con attenzione», continuò. «Come hai detto tu si chiama Trevor Simons, quindi immagino che suo padre sia Simons della ferramenta. Non sapevo che avesse avuto una prima moglie e addirittura un figlio, a quanto pare ci sarà molto da sparlare per i prossimi mesi».
«Certe volte le tue doti da stalker mi fanno paura», ammisi, ingurgitando l’ultimo pezzo di pizza e bevendo una sorsata d’acqua.
«Non è stalking è solo attenzione ai dettagli», si giustificò lei.
«Per me è stalking», commentò Evan. Purtroppo il suono della campanella interruppe la nostra conversazione. Lea si alzò controvoglia, pronta ad andare in palestra, mentre io ed Evan, che seguivamo insieme spagnolo, ci dirigemmo con molta calma verso la nostra lezione.
«Mi dispiace per prima», mi disse all’improvviso. «Certe volte dovrei stare zitto».
«Non importa». Gli rivolsi un sorriso e lo presi per mano. «So come sei fatto e so anche che in parte hai ragione».
«Come stava ieri?». Era carino che me lo chiedesse, d’altronde me lo domandava tutte le volte. Era per questo che gli volevo un mondo di bene.
«Al solito».
«È proprio uno schifo», commentò.
«Già è proprio uno schifo». Non c’era bisogno di aggiungere altro: era la pura e semplice verità e lo sapevamo entrambi.
 
Il resto delle lezioni trascorse tranquillo: passai dall’armadietto per cambiare i libri, ritrovai Lea ed Evan a lezione di inglese e poi mi diressi con tutta calma verso l’aula di biologia. Visto che l’aula di inglese era proprio nel corridoio dietro, fui una delle prime ad arrivare in classe e questo mi diede la possibilità di prendere il libro che avevo in borsa e di poter leggere per un po’. Beh il fatto che non fossi una di quelle persone che se ne sta a leggere un libro tutta sola durante la pausa pranzo, non escludeva che lo facessi negli altri ritagli di tempo. Era una sorta di mia ossessione: amavo leggere quasi quanto amavo scrivere.
Ero talmente presa dalla storia che non sentii nemmeno il rumore di alcuni passi avvicinarsi, né notai lo scostarsi della sedia accanto alla mia. Se non avevo sentito niente di tutto ciò come potevo accorgermi di due occhi fissi su di me? Ero nella mia bolla, completamente presa dalla vicenda che stavo leggendo.
«Ehm… ehm». Un colpo di tosse forzato vicino al mio orecchio, mi costrinse ad abbandonare la mia storia e a tornare alla realtà.
Quando alzai la testa mi ritrovai immediatamente catapultata in un oceano profondo. Trevor mi stava fissando ed era talmente vicino che riuscivo quasi a sentire il suo respiro sulla mia pelle. La sua espressione era seria e truce come il giorno prima, ma ciò che mi sorprese furono i suoi occhi; non avevo prestato punta attenzione al suo sguardo altrimenti mi sarei accorta prima di quelle iridi azzurre, così chiare da potercisi specchiare dentro. Erano in netto contrasto con il resto del corpo, esattamente come la sua voce.
«Ciao…», balbettai, trovandomi a corto di parole sotto quello sguardo indagatore.
«Ciao Kathleen». Qualcosa nel mio stomaco si contrasse sentendo la sua pronuncia e sentii le guance avvampare. Lui non sembrò farci caso e continuò a fissarmi con la stessa identica espressione.
«Vuoi qualcosa?», farfugliai, tirandomi inconsciamente indietro.
«Beh in realtà sì». Si spostò più avanti, rendendo vano il mio movimento e facendomi sentire ancora più a disagio. Inspirai col naso e sentii il suo odore avvolgermi completamente: aveva un buon profumo, una sorta di odore muschiato anche quello in contrasto con il suo aspetto. Tuttavia la mancanza di spazio tra noi mi fece sorvolare su quel particolare per concentrarmi sulla sua eccessiva vicinanza, i nostri corpi erano solo a qualche centimetro di distanza.
«Non è carino», sbottai senza accorgermene, dando voce ai miei pensieri.
Lui alzò un sopracciglio, quello col piercing, e mi guardò perplesso.
«Non è carino», continuai avvampando sempre di più, «invadere lo spazio personale. Le persone si sentono a disagio se invadi il loro spazio e adesso tu stai invadendo il mio, quindi mi fai sentire a disagio». Avevo parlato a macchinetta, come sempre quando qualcuno mi rendeva nervosa.
«D’accordo». Con mia grande sorpresa si tirò indietro, riprendendo il proprio posto e rendendomi di nuovo il mio spazio.
«Grazie», sussurrai, nascondendomi dietro i miei folti ricci. Certe volte i miei capelli erano anche un vantaggio, chi l’avrebbe mai detto!
«Volevo sapere se ci hai ripensato», continuò lui.
«Ripensato? A cosa?». Iniziai a giocherellare intrecciando le dita tra di loro, senza mai staccare lo sguardo da esse. Sentivo il cuore battermi forte nel petto e non sapevo bene come interpretare la cosa. Trevor mi metteva così in soggezione da farmi agitare a quel punto? In fondo non lo conoscevo neanche, sarebbe stato come parlare ad un perfetto estraneo. Di solito riuscivo a tenere una conversazione normale con chi non conoscevo, perché non potevo fare altrettanto?
«Al progetto», continuò rispondendomi. «Voglio collaborare, voglio aiutarti». Quella richiesta mi sorprese ancora di più: era probabilmente l’unico ragazzo della scuola che non volesse avere un voto alto senza dover fare nulla. Se me l’avessero offerto a me, io avrei accettato senza esitazioni.
«Perché?». La curiosità vinse la mia timidezza, tanto che mi voltai a guardarlo ritrovando quegli occhi mozzafiato. Un momento avevo appena definito i suoi occhi mozzafiato?
«Beh perché non credo che sia giusto che sia tu a fare tutto il lavoro. Io voglio fare la cosa giusta».
Carino da parte sua, decisamente insolito, ma carino. Forse il suo aspetto non diceva veramente tutto di lui.
«Senti, apprezzo l’offerta, ma non c’è davvero bisogno, okay? Ci penso io». Per fortuna l’ingresso del professore mi salvò da quella conversazione. Sapevo però che non era ancora finita: Trevor non sembrava un tipo da arrendersi facilmente.
Non capivo perché per lui fosse tanto importante: in fondo era appena arrivato, poteva benissimo ambientarsi invece di darmi il tormento per una cosa così insulsa. “Voglio fare la cosa giusta”, aveva detto. Beh non credevo che barare su un compito di biologia fosse poi così sbagliato. Quella frase sembrava significare molto di più, ma in fondo stavamo solo parlando di un insulso progetto scolastico. Chi non aveva copiato almeno una volta nella vita? A parte me, ovviamente, ma io ero un caso a parte.
Quel Trevor era davvero un mistero. Forse Evan non aveva sbagliato a definirlo misterioso, ma non ero sicura di voler essere io la ragazza costretta a far luce ai suoi scheletri nell’armadio, a tutte le ragnatele che si portava dietro. Ed oltre a questo c’era stata la reazione esagerata del mio corpo; non mi era mai capitato di sentirmi così, ma non pensavo fosse attrazione quella che provavo. Anzi tutt’altro: lui mi intimidiva.
Per fortuna, a salvarmi da un altro suo possibile attacco, intervenne proprio il prof Robbins, che al termine dell’ora, richiamò l’attenzione del mio compare.
«Signor Simons, se può trattenersi dopo la lezione, potremo fare un attimo il punto della situazione».
Salvata in extremis. Così non appena sentii il suono della campanella fui libera di sgusciare fuori dall’aula, mentre Travor fu costretto a rimanere al suo posto in balia del professore di biologia.
Visto che Queen aveva gli allenamenti con le cheerleader e che fuori faceva piuttosto freddo, decisi di rintanarmi in biblioteca a studiare, in attesa che anche lei fosse pronta a tornare a casa. D’altronde avevo anche molti compiti da fare, quindi starmene in un angolino appartato della biblioteca poteva avere i suoi vantaggi. Scrissi un breve messaggio a Queen avvisandola di farmi uno squillo quando avesse finito e mi immersi nello studio.
Studiare mi riusciva bene e non mi pesava; quando ero concentrata su qualcosa il tempo sembrava volare e così fu anche quella volta. Erano trascorse un paio d’ore quando il mio telefono vibrò, avvisandomi che mia sorella mi aspettava all’armadietto.
«Ciao Queen», la salutai quando arrivai da lei, affrettandomi a mettere tutti i libri al proprio posto. «Come è andata oggi?».
«Sono distrutta», ammise, trattenendo uno sbadiglio. «Gli allenamenti sono stati tremendi. Mi sento le gambe tutte indolenzite. Per fortuna avevo già fatto il compito di storia per domani».
«Io l’ho finito proprio adesso», ammisi. Storia era uno dei pochi corsi che frequentavamo insieme; non sapevo dire se fosse un bene o un male.
«Ti va di guidare? Ho promesso a Sean che l’avrei chiamato». Non aspettò una mia risposta e mi passò direttamente le chiavi.
Quando uscimmo nel parcheggio il cielo era già scuro e l’aria gelida di novembre ci fece rabbrividire, facendoci stringere nei cappotti. Ormai erano rimaste solo poche auto e individuammo subito la nostra, ma ciò che sicuramente non ci aspettavamo, né io né lei, fu lo scorgere un ragazzo seduto proprio sul cofano della nostra adorata Honda.
Non riuscimmo a capire subito di chi si trattasse, era troppo buio ed eravamo troppo lontane. Solo quando fummo a una decina di metri di distanza riuscimmo a scorgerne i tratti per quel tanto che bastava ad individuarne l’identità. E quando finalmente compresi chi avevamo davanti sentii il cuore in gola e un brivido risalirmi lungo la schiena. Non doveva essere un caso che avesse scelto di starsene seduto sulla mia macchina e il fatto che sapesse quale fosse era alquanto inquietante.
«Ma è chi penso che sia?», mi domandò Queen. Era ovvio che anche lei lo conoscesse, tutta la scuola aveva avuto in bocca il suo nome per tutto il giorno. «E che diavolo ci fa sulla nostra auto?».
«Trevor…», sbottai, non sapendo se essere infastidita o inquietata dalla sua presenza.
«Kathleen», fece lui scendendo dal cofano.
«È tuo amico?». Mia sorella guardò prima me e poi lui, non sapendo più cosa pensare.
«Frequentiamo biologia insieme», rispose lui prima che potessi farlo io. «E tu sei?».
«Queen, sua sorella». Avanzò graziosamente verso di lui per stringergli la mano. «Mi sa che abbiamo matematica alla stessa ora».
«Ah davvero? Non ti ho notata», la liquidò, puntando lo sguardo su di me. Vidi Queen accigliarsi; sicuramente era la prima volta che qualcuno prestava attenzione a me invece che a lei, ma di sicuro non era per i motivi che poteva immaginare.
«Cosa ci fai qua Trevor?», gli chiesi circospetta.
«Ti aspettavo, mi pare ovvio. Non abbiamo finito il nostro discorso».
«Come diavolo facevi a sapere che questa era la mia macchina?». Sottotesto: “sei uno stalker?”
«Beh ti ho visto ieri scappare di corsa e salire in auto. Non è stato difficile riconoscerla nel parcheggio».
«In realtà ci sono un sacco di Honda», gli fece notare Queen, «avresti potuto aspettare su quella sbagliata».
«Sono bravo con le macchine». Alzò le spalle e tornò a guardarmi. «Soprattutto quando ho un buon motivo per impegnarmi».
Mi sentii le guance andare a fuoco. Quella sua frase era alquanto equivoca, poteva quasi sembrare che fosse interessato a me e non solo al mio compito di biologia. Ed infatti vidi Queen assottigliare lo sguardo e studiarmi in maniera approfondita.
«Ed hai aspettato qua al freddo per più di due ore?», domandai con un filo di voce.
«Come ho detto avevo un buon motivo e il freddo non mi da fastidio». Alzò di nuovo le spalle come se fosse ovvio e come se la questione fosse ormai conclusa.
«Cosa vuoi Trevor?», borbottai di nuovo.
«Partecipare al progetto di biologia, mi pare ovvio. Con te». All’ultime due parole sentii il cuore perdere un colpo; non aveva bisogno di specificare quel particolare eppure l’aveva fatto.
«Perché per una buona volta non accetti il favore che ti sto facendo?». Era così difficile per lui o si divertiva solo a darmi il tormento?
«Perché no, non voglio».
«Dio! Sei impossibile», esplosi. Non mi era mai successo di sbottare in quel modo di fronte ad una persona che conoscevo così poco, ma Trevor, oltre ad innervosirmi, sapeva sicuramente esasperarmi.
«Beh tu sei impossibile», ribatté. «La mia è una richiesta più che lecita».
«Tu non sei normale», emisi in un sussurro. Ero talmente irritata da avere perso il controllo della mia bocca.
Trevor mi guardò per un attimo e poi sorrise, ed il suo era un sorriso vero e sincero. Era la prima volta che la sua espressione truce scompariva del tutto ed era sorprendente come potesse apparire diverso senza quella sua aria torva. «Non ho mai detto di esserlo».
«Beh Linny mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?». Queen mi guardò aspettando una spiegazione che non arrivò perché Trevor riprese come se non lei non avesse parlato.
«Senti ti conviene arrenderti, ho io il coltello dalla parte del manico. Vedrai che non sarà così male collaborare con me».
«Cosa ti fa credere di avere il coltello dalla parte del manico?». Perché tanta sicurezza?
«Beh semplice: potrei andare dal professore e dirgli che tu non mi lasci collaborare. Credi che sarà contento di saperlo?».
Mi accigliai riconoscendo che aveva ragione. «Non oseresti».
«Mettimi alla prova».
«Tutti odiano i lecchini», gli feci notare.
«Dovrei essere lusingato dal fatto che ti preoccupi del mio status sociale, ma credo che non potrei scendere molto più in basso di così al momento». In effetti aveva ragione di nuovo.
«E va bene», sbottai infine. «Puoi aiutarmi».
«Fantastico», esultò e sul suo volto si disegnò un sorrisetto sprezzante. «Per oggi è tutto quello che volevo sapere, a domani Kathleen». Si voltò per allontanarsi incrociando le mani dietro la testa.
«Tutto per uno stupido compito», proruppi. «Sei proprio strano!».
Le sue spalle si alzarono e si abbassarono, come se fosse scosso da una risata. Quasi nello stesso istante alzò una mano in cenno di saluto ed io nonostante tutto non riuscii a trattenere un sorriso.
«Cosa diavolo è successo?», mi domandò Queen qualche secondo dopo.
«Niente lascia perdere», cercai di cambiare discorso. «Saliamo in macchina piuttosto. Qua fuori si congela». Fece come le avevo detto, ma sapevo che la tempesta Queen non era certo terminata.
«Allora mi vuoi spiegare?», mi domandò non appena fui uscita dal parcheggio.
«Niente è solo per uno stupido compito che io ho già quasi finito e che lui vuole a tutti i costi fare con me».
«Gli piaci?».
«Eh cosa?». Inchiodai ad un semaforo sentendo le sue parole. «Non dire sciocchezze».
«Beh se no perché avrebbe insistito tanto?». Il suo ragionamento non faceva una piega, ma non poteva aver ragione.
«Non lo conosco neanche. Ci ho parlato si e no cinque minuti, come posso piacergli?».
«Non lo so, dimmelo tu?».
«Beh ma l’hai visto?». Cioè ero così disperata da attrarre tipi del genere?
«È fico». Per poco non inchiodai di nuovo.
«Mi stai prendendo in giro?». Ma l’aveva guardato per bene?
«Beh sì è ovvio che alla mamma prenderebbe un colpo se lo portassi a casa, e che a prima vista possa sembrare un tipo poco raccomandabile, ma la sua insistenza per una cosa così stupida è carina».
«Ti ha snobbato», mormorai senza rendermene conto.
«Già», ammise con un pizzico di disappunto. «Mi ha snobbata ed è la prima volta che succede».
«Te l’ho detto è strano e inquietante ed io non gli piaccio, è solo… strano». Beh non trovavo altre parole per descriverlo.
«Un po’ inquietante lo è in effetti». Queen scoppiò a ridere, probabilmente ricordando il modo in cui Trevor si era appostato sulla nostra macchina.
«Un po’ tanto». Sorrisi anch’io e senza volerlo sentii di nuovo le gote scaldarsi al ricordo di ciò che lui aveva fatto o detto.
«Beh ricorda Linny: non sempre inquietante è negativo».
«Non sono sicura che sia questo il caso».
«E a volte», continuò come se non mi avesse sentito, «le cose non vanno sempre come si è programmato, a volte bisogna prenderle così come vengono». Che perla di saggezza! Eppure era la pura e semplice verità ed io avrei dovuto saperlo bene. Tuttavia non ero per niente brava a metterla in pratica. Ero perfetta nell’organizzare e programmare, ma affrontare gli imprevisti era tutto un altro paio di maniche. E Trevor era sicuramente qualcosa, o meglio qualcuno, che non avevo assolutamente pianificato.
  
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