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Autore: DarkkkAngellll    05/12/2017    0 recensioni
Solo chi ha pianto fino a finire le lacrime sa cosa si prova a fissare il vuoto e non poter esplodere.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Scolastico
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Mi svegliai in una stanza buia, dove l'unica parte chiara proveniva dalla finestra, una finestra chiusa.

La mia stanza da letto.

Avevo appena fatto un incubo, un incubo ormai sempre più frequente.

Il pomeriggio in cui Brandon venne da me e mi violentò.
Da questa finestra filtrava la luce, una luce strana, non era una luce del giorno, dell'alba, o della notte, era una luce diversa.

Mi alzai e poggiai i piedi nudi sul pavimento freddo e cominciai a camminare.

Arrivai allo specchio, il mio peggior nemico, il mio più temuto compagno; ma non mi guardai, non mi guardai in faccia, mi guardai i piedi e il pigiama.

Non volevo guardarmi in faccia.

Ero strana.

Non mi riconoscevo più. Non sapevo più chi ero.

Non ero l'allegra bimba con le treccine che giocava felice con le sue bambole. Felice e spensierata.

La mia mano sfiorò il pigiama, toccò i capelli e li portai dietro l'orecchio.

Mi vidi.

Vidi la mia faccia, quello che era rimasto della mia faccia.

Vidi la mia bocca, rossa, non piccola, non grande. Era aperta, semiaperta.

Vidi le mie guance, bianche, pallide, pallidissime, come il latte.

Vidi i miei occhi verdi, ormai un verde quasi spento.

I miei erano occhi strani. Non avevano più un'espressione. Non traspariva più niente da quegli occhi.

Misi la mia mano sullo specchio, proprio davanti al mio cuore, al posto del mio cuore, sullo specchio. Non sentii niente.

Niente.

Era questo quello che io provavo.

Niente.

Raccontare, sfogarsi, pretendere comprensione, pretendere aiuto dalle persone.

Ci tentavo continuamente ma sprecavo solo tempo, parole e fiato.

Non servì a nulla.

Le persone non servono a nulla, pensai.

La colpa è tutta delle persone.

Le persone sono cattive; fanno solo del male e basta.

Basta.

Più di una volta fui sul punto di abbandonare tutto, davvero.

Ci provai, tante volte.

Ormai era quasi diventato il mio pensiero fisso.

Io avevo i capelli mossi castano scuro che sembravano quasi neri; erano ancora intrisi del profumo che misi quella mattina per andare a scuola.

Un profumo dolce, proprio come lo ero io, dolce, anche se potevo sembrare l'opposto.

La mia dolcezza, però, non la vedeva nessuno. La mia dolcezza era una di quelle cose che non si possono 'leggere', la mia dolcezza si poteva captare solo col cuore.

Ci sono cose che si riescono a captare senza l'ausilio degli occhi, ovviamente non tutti riescono, non a tutti è mai capitato o passato per la mente di dover leggere, capire ed interpretare qualcosa che non fosse scritto nero su bianco.

È molto più semplice avere un foglio con stampato chiaramente ciò che bisogna capire, è più facile così; ma non tutte le cose sono facili, a volte non tutti i problemi si riescono a risolvere prendendo la strada più facile, altre volte, addirittura, la strada più facile è quella che porta in errore.

La strada più facile è subdola.

Io non prendevo mai la strada più facile, forse non sapevo neanche della sua esistenza.

Io ero fatta di complessi. Ansie e complessi.

L'ansia era diventata la mia migliore amica.

Io preferivo le mattine invernali, quelle buie, fredde, a volte col cielo coperto di nebbia, una nebbia fitta.

Preferivo le mattine invernali perché io l'inverno, ormai, lo aveva dentro, come il freddo, il cielo coperto di nebbia e il buio.

Dentro di me c'era tanto.

Tanto vuoto.

Vuoto pieno.

Dentro di me c'era il mare, l'oceano mare.

Ma anche il mare finisce, anche il mare ha una fine. Come una partita a scacchi, può durare giorni, settimane, mesi, ma prima o poi finisce e non sempre c'è un vincitore.

Ecco, io non vincevo mai.

E poi ci sono i perdenti nati, quelli che dentro di se covano sempre il disastro, ecco, io mi ritenevo un disastro, una perdente.

Come uno scacchista professionista che, improvvisamente, senza una ragione plausibile, si ritrova a perdere tutte le partite; io perdeva le mie, quelle con me stessa, con gli altri, con la scuola, con la lametta.

Sì, perché non eccellevo mai, in nulla, non ero mai stata brava, in nulla; in particolare, non ero mai stata brava a vivere.

Mi ricordai che una mattina come le altre, dovevo prepararmi per andare a scuola, dovevo vestirmi, dovevo pettinarmi, dovevo lavarmi, dovevo truccarmi; ma dovevo anche coprirmi.

Non mettendomi una maglietta o un maglione più pesante, neppure mettendomi più di una maglietta.

No.

Il freddo che avevo dentro non lo poteva coprire.

Non lo doveva coprire.

Dovevo coprire i miei polsi. Avevo bisogno dei cerotti. Non poteva far vedere.

Ero un'autolesionista.

Andavo a scuola e a scuola studiavo, svolgevo i compiti ma non parlavo con nessuno.

Nessuno.

Molte volte venivo fissata; molte volte vedevo qualcuno che, guardandomi, muoveva le labbra, le muoveva, le muoveva e intanto rideva, rideva. Ma queste persone non erano mai sole, erano sempre insieme ad altre persone che ridevano anche loro.

Non riuscivo a capirne il motivo all'inizio.

Cercavo di non darci troppo peso e sorridevo senza un motivo preciso.

Ero arrivata al punto da non vivere più, ma a sopravvivere.

La mia non era la vita di una normalissima adolescente.

Per questo motivo io, spesso, prendevo la lametta, mettevo la punta sul polso e cominciavo a premere, schiacciare forte sulla pelle, finché non usciva sangue; allora tiravo la lametta, fino a formare una riga. Lo facevo tante volte. Tante.

Da piccola mi avevano detto che gli errori andavano cancellati con una riga dritta.

E io lo feci, cominciai a cancellarmi, cominciai a distruggermi.

Il mio polso conosceva la lametta. Era sempre quella. Usavo sempre la stessa lametta.

Non m'importava del giudizio degli altri, di quello che pensavano gli altri, di come si comportavano gli altri quando gli passavo a fianco.

Questo è quello che avrei voluto: fregarmene di tutto e di tutti, ma era proprio questo che mi uccideva, ogni giorno.

Non potevo, non potevo fare finta di nulla.

Non ci riuscivo.

Non riuscivo a non pensarci.

E me ne rendevo sempre più conto, appena varcavo la soglia della mia camera da letto, la mia tana, il mio rifugio, luogo di pace, ma anche luogo di guerra; la guerra che avevo con la società, con i miei compagni, con me stessa, con la mia pelle, con il mio corpo; una guerra senza fine.

Io ero forte. Lo ero, eccome se lo ero, semplicemente non me n'ero mai resa conto. Forse perché ormai non mi rendevo conto più di niente; se non delle solite cose. Quelle per le quali stavo male.

Ma ormai la mia 'vita' era piena di sofferenze, di dolori, mascherati dal solito sorriso, finto.

Era evidente che voleva uccidere quella gente, con cui abitualmente fingevo nel mostrarmi sorridente.

Io ero poesia, loro analfabeti.

Io ero le gocce di pioggia sui vetri delle auto, loro i tergicristalli.

Io ero il rumore delle onde, loro le voci dei bagnanti.

Io ero fuoco, loro acqua.

Volevo mettere fine a tutto questo.

E un giorno ci provai.

E ci sarei anche riuscita se non fosse stato per una persona che me lo impedì.

Una persona che mai mi sarei aspettata potesse fregargli qualcosa di me.

Alessia❤

   
 
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