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Autore: Melanto    07/12/2017    9 recensioni
Nel bene e nel male, la vita è imprevedibile.
Capita che un minuto prima scherzi con gli amici e un minuto dopo ti ritrovi nell'incubo che non vorresti vivere; tanto vicino e tanto casuale da non credere che potrebbe capitare proprio a te.
Ma questa è una di quelle coincidenze universali che Mamoru si troverà davanti nel momento in cui la sua vita si fermerà per sempre in un convenience store.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Kumiko Sugimoto/Susie Spencer, Mamoru Izawa/Paul Diamond
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Sonnet - Capitolo II

- II: Come corpo morto cade -

«Vuoi toglierti da dosso, testa di cazzo? Adesso ce ne andiamo.»

Tate cercò di scrollarsi le insistenze di J che era entrato in pieno panico. Anche lui sapeva che non c’era più tempo e bisognava velocizzare, ma non voleva rinunciare a quel bottino e spostarsi da qualche altra parte, aspettare. Sarebbero passati giorni.

Girandosi, i suoi occhi incontrarono, oltre i calciatori che gli stavano davanti, la figura del ragazzino che stava armeggiando dietro la cassa e non prendere i soldi. L’istinto del ladro messo alle strette lo fece reagire in maniera superiore al normale, l’adrenalina dell’essere fottuto dalle sirene in arrivo ci mise il suo. Tempo per parlare non ce n’era più.

«Che cazzo credi di fare, piccolo bastardo?»

Tese il braccio lasciato più molle per la discussione con J, si era fatto distrarre come un tordo ma ora era padrone di sé, ed era elettrico.

«No, aspetti!»

Nello stesso istante in cui sparò, il portiere Yuzo Morisaki si spostò sulla linea di tiro, le mani spalancate mosse in avanti nel tentativo di fermarlo.

Troppo tardi.

Tate vide il suo corpo compiere un brusco passo indietro per la sorpresa dello sparo, fino a urtare contro il bancone e lì stare, immobile. Sul viso aveva un’espressione indecifrabile di incredulità; silenzio dalle labbra aperte e poi due respiri strozzati, l’espressione virò in dolore e consapevolezza. Yuzo non abbassò lo sguardo sull’addome, dove il proiettile calibro .45 era entrato, ma iniziò a scivolare di lato. La mano aperta si aggrappò alla prima cosa utile, e fu la spalla di Izawa, anche lui ghiacciato sul posto dal suono dello sparo.

 

Per Mamoru il tempo si dilatò.

Come neve, quando cadeva d’inverno, vista da dietro i vetri contro la luce di un lampione era velocissima, simile alla pioggia, ma nel momento in cui ci stavi sotto, e la guardavi scendere da una prospettiva differente allora sembrava così lenta e delicata, tanto da poterne seguire un singolo fiocco e pensare di poter arrivare a toccarlo senza perderlo in mezzo agli altri.

Il rumore dello sparo ebbe quell’effetto, dilatazione dell’infinito spazio temporale. La sua testa girava a rallentatore e nel colpo d’occhio, la coda catturò il movimento di Yuzo.

Bisognava mantenere la calma per uscirne tutti, bisognava mantenere la calma. Qualcuno aveva perso la propria, non sapeva dove né quando, ma la conseguenza, ora, si era aggrappata alla sua spalla, un peso che lo trascinava verso il basso, di forza.

Mamoru guardò Yuzo che cadeva a terra, spalle al bancone, senza riuscire a fermarsi, e ne divenne il sostegno, l’impatto attutito con la terra. Si dimenticò di pistole puntate, si dimenticò di rapine, lo afferrò stretto con entrambe le braccia e si ritrovò sul pavimento assieme a lui, nella realtà velocizzata del fiocco di neve che si mischiava agli altri.

«Oddio… che cazzo hai fatto?»

La voce di J era quasi un sussurro, i suoi occhi spalancati erano sul portiere della S-Pulse, e sulla macchia di sangue che andava allargandosi dall’addome.

Nella bocca di Izawa una cantilena di ‘no’ usciva fuori come grani di rosario.

«Porcammerda», ringhiò Tate. «Si è messo di mezzo, cazzo! Io volevo sparare a quel moccioso rottinculo!» che adesso rimaneva pietrificato contro il muro di fondo, dietro al bancone.

Le sirene della polizia riempirono la strada, sembravano provenire da ogni direzione. La via di fuga si stava chiudendo e bisognava decidere, alla svelta.

«Barricaci dentro» ordinò T a J.

«Che cosa?!»

«Sposta quei cazzo di scaffali contro le vetrine, forza! Non dobbiamo farci prendere!»

«Hai appena sparato a un ragazzo, T, ma te ne rendi conto?»

Tate lo afferrò per il bavero della giacca, strattonandolo malamente; la canna della pistola a contatto con la guancia era ancora calda.

«Se non muovi il culo ne faccio fuori anche un altro, vuoi essere tu? Datti una mossa.»

Si girò a guardare gli altri rimasti fermi come statue di sale: il ragazzino alla cassa terrorizzato e immobile, il vecchio dalla faccia sconvolta, la ragazza che aveva le mani al viso e piangeva, e poi i due calciatori, a terra, l’uno nelle braccia dell’altro.

Peccato, il portiere gli era davvero simpatico.

 

«No, no, no, no…»

Mamoru non faceva che ripeterlo come un disco incantato. Un braccio avvolgeva il petto di Yuzo, da spalla a spalla, l’altro passava sotto l’ascella.

«…Mamoru…»

«Sono qua, ok? Sono qua, non mi muovo.» Respirava veloce come invece Yuzo non riusciva a fare: l’aria ridotta a una sequenza veloce di rantoli. «Vedrai, andrà tutto bene. Sta arrivando la polizia, sta arrivando…»

Fuori le sirene erano forti, squarciavano l’aria in vagiti di speranza, mentre dentro al negozio lo stridere del ferro degli scaffali che venivano trascinati, l’infrangersi di barattoli di vetro che cadevano per i movimenti troppo bruschi, scatole di latta e plastica erano il fracasso di un temporale. Pioveva di tutto e sembrava che quel locale fosse vittima di un bombardamento.

«Ma tu devi tenere duro, d’accordo? Me lo devi promettere, Yuzo!  Me lo devi promettere.»

Mamoru guardò Kumi, ancora in piedi, bocca e naso nascosti nelle mani. Piangeva e tremava come un foglia d’autunno, ma in quel momento come mai aveva bisogno di lei.

«Kumi, mi serve il tuo aiuto.»

La ragazza scosse il capo, nel panico come tutti.

«Sì, invece. Guardami. Guardami, Kumi! Devi controllare la ferita. Sei l’unica persona che può farlo, ho bisogno di te. Adesso.»

Kumi aveva il respiro spezzato dalla paura e dallo shock di quello che stava accadendo, ma prese un paio boccate profonde, umettando le labbra secche su cui sentiva il sapore salato delle lacrime.

«Chi cazzo ti ha detto di muoverti, ragazzina?»

Tate la fermò non appena fece un passo.

«Studia per diventare infermiera, lascia che gli dia un’occhiata! Ti prego! Ti assicuro che non farà scherzi, lo giuro!»

Supplicare era una cosa che Mamoru Izawa non aveva mai fatto nella vita, ma in quel momento gli uscì come la più naturale del mondo, perché non c’era né tempo né orgoglio da buttare via.

«Mi spiace, ma-»

«Faglielo fare, T!» J si fermò a gambe larghe ed espressione furente.

«Che cazzo fai? Ti ho detto che devi-»

«Fagli aiutare quel ragazzo, porca puttana. Questo non sarebbe dovuto succedere! Niente di tutto questo sarebbe dovuto succedere!»

«D’accordo, come ti pare!» Tate guardò Kumi e poi fece un cenno col capo, concedendole di muoversi.

Kumi si inginocchiò accanto a Yuzo, prendendogli il polso e trovandolo accelerato: sul viso aveva un’espressione sofferente e il respiro irregolare. Si passò il dorso della mano sulle guance per togliere le lacrime, poi cercò in Mamoru un po’ di sicurezza ma il giovane era terrorizzato come non l’aveva visto mai.

«Devo vedere se c’è il foro d’uscita» spiegò Kumi, guardando Yuzo negli occhi affinché capisse ogni passaggio. Dal foro d’entrata il sangue si allargava veloce e non le piacque.

Il portiere annuì debolmente e il fatto che fosse presente e vigile per Kumi fu un buon segno. Gli aprì la giacca e infilò la mano sotto al fianco, spostandola poi piano piano verso l’alto e verso il basso, quando la tirò via non c’era sangue.

«Il proiettile è dentro» decretò, osservando Mamoru e liberandosi del proprio giubbino imbottito. «Aiutami a farlo sdraiare.»

Il terzino non se lo fece ripetere. Cercando di fare più piano possibile per non peggiorare le cose e non fargli del male, aiutò il corpo di Yuzo a scivolare verso il basso. Kumi gli passò la propria giacca appallottolata e Mamoru gliela mise sotto la testa, prima di fargliela poggiare sulle gambe. Ora poteva finalmente vedere il suo viso e gli occhi: era pallido e le iridi nocciola riflettevano sofferenza per la ferita e paura, quest’ultima era anche nelle proprie di iridi, ma adesso avrebbe dovuto essere forte per tutti e due; e coraggioso, anche se quella parte era sempre uscita meglio a Yuzo, che di coraggio era un maestro.

Non seppe dove trovò la forza, ma gli sorrise, passandogli una mano sul viso.

«Non mi hai ancora promesso che terrai duro, portiere.»

Gli parve che la paura di Yuzo si stemperasse appena, negli occhi dal colore caldo che conosceva da una vita.

«…promesso.»

 

La volante dell’agente Kitakami correva a sirene spiegate per le strade di Nankatsu, seguita da un’altra a poca distanza. Avevano ricevuto l’avviso alla centrale di una rapina in corso in un konbini; l’allarme scattato era uno di quelli automatici. Anche se a volte capitava che fossero solo dei guasti o falsi allarmi, il loro compito era di andare a verificare e di farlo nel minor tempo possibile.

– Centrale a V-22.

«Qui V-22.»

– Siete voi quelli che stanno andando al konbini, vero?

«Sì, che è successo?», sbuffò l’agente. «Non dirmi che è un altro falso allarme? Sarebbe il terzo questa settimana.»

Mi piacerebbe che lo fosse, ma abbiamo ricevuto segnalazione di rumori d’arma da fuoco.

«Davvero?»

– Qualcuno ha sentito sparare.

Kitakami e il collega al volante si scambiarono un’occhiata veloce.

«Saremo lì in pochi minuti, fate arrivare un’ambulanza. Chiudo.»

«Rapina finita male?» domandò l’agente Nozuki.

«Parrebbe.»

«La solita fortuna» ammiccò il collega, ma quando giunsero sul posto la barricata che si trovarono ad affrontare elevò tutto a un livello peggiore del previsto.

«Ma che diavolo…»

Kitakami scese, rimanendo al sicuro dietro la portiera. Guardò i poliziotti della volante gemella e questi si strinsero nelle spalle: le vetrine del konbini erano coperte da scaffali ammassati alla rinfusa, ed era difficile guardare dentro già per la presenza di cartonati con le offerte del giorno.

Lì attorno si era raccolta qualche persona di passaggio e qualcun’altra scesa dalle case vicine; alle finestre si erano accese più luci di quante avrebbero dovuto essercene a quell’ora.

«Si sono chiusi dentro!» esclamò un signore al lato della strada, con un cane al guinzaglio.

 Kitakami fece cenno a Nozuki di stare pronto e non perdere di vista quello che accadeva. Lui si diresse di corsa verso il probabile testimone.

«Sa che è successo?»

«Certo che lo so, ero sceso per Mochi, doveva fare i bisogni. Ci sono dei ragazzi lì dentro, assieme al vecchio Miura e al giovane Ichikawa, il commesso.»

«In quanti, saprebbe dirlo con precisione?»

«Due ragazzi e una ragazza.»

«E i rapinatori?»

«Sono in due. Li ho visti entrare alla chetichella.» Poi si strinse nelle spalle con aria preoccupata. «Hanno sparato. È successo il finimondo, hanno sbattuto gli scaffali in quel modo appena hanno sentito che stavate arrivando.»

«Va bene, grazie. Mi raccomando state a distanza di sicurezza.» Kitakami si fece sentire anche dagli altri curiosi. «State tutti a distanza di sicurezza, chiaro? Non avvicinatevi.» Raggiunse la propria volante e parlò all’altra da sopra al tettuccio. «Hiroi, transenna. Qui nessuno deve entrare o uscire. Tamaki, prendi la volante e vedi di bloccare l’uscita sul retro, se ne hanno una.»

«Siamo nella merda?» chiese Nozuki, preoccupato.

«Ci puoi giurare.» L’agente mise mano alla radio che aveva sulla spalla. «Qui V-22 siamo sul posto, abbiamo degli ostaggi nel negozio. Ripeto, i rapinatori si sono barricati dentro al konbini con degli ostaggi.»

Prese fiato, scrutò negli scorci della vetrata e gli parve che degli occhi guardassero verso di lui, per poi sparire all’interno del locale.

«Hanno sparato. È probabile che qualcuno sia ferito. Mandateci rinforzi.»

Sarebbe stata una lunga nottata.

 

Kumi aprì la felpa di Yuzo, sollevò la t-shirt. Il foro d’entrata era scuro sui bordi, dove i segni di bruciatura erano meno evidenti che non sugli abiti. Il sangue fluiva con troppa continuità.

Lei era solo agli inizi della scuola, e quel genere di traumi non erano ancora stati affrontati. Ne aveva letto, però, cercando di portarsi un po’ avanti, seguendo anche i consigli di Yayoi. Sapeva quindi che una ferita come quella aveva bisogno di essere subito operata, per ridurre l’emorragia interna ed estrarre il proiettile. E lei, al momento, non poteva fare nessuna delle due cose, ma poteva solo cercare di tamponare e rallentare il sanguinamento con i mezzi a disposizione. Di colpo, si rese conto di non essere preparata: ritrovarsi con una vita che avrebbe potuto sfuggirle tra le mani un filo di sangue alla volta. Era stata così sciocca da illudersi che la sua esistenza sarebbe stata la semplicità di fare qualche iniezione o mettere punti e cerotti a dei bambini con ginocchia sbucciate. Non aveva mai visto il quadro tanto in grande e complicato, concitato. Doloroso. I suoi diciannove anni, di colpo, le sembrarono così pochi per prendere decisioni tanto importanti come la direzione del proprio futuro.

«Mi serve… mi servono garze. Tante. E ghiaccio. Mi serve del ghiaccio!» disse prima di togliersi la sciarpa dal collo e premerla con forza sulla ferita di Yuzo.

Una smorfia di dolore deformò i tratti del portiere, strappandogli un lamento. Il giovane si tese, sollevando appena la schiena; Mamoru lo trattenne con un braccio.

«Non ti devi muovere,» gli sussurrò, passandogli una mano sulla fronte. «Lo so che fa male, lo so.»

«Scusa, Yuzo-kun…» Kumi tirò su col naso. «Mamoru, tieni premuto sulla ferita. Io devo cercare delle garze o qualunque altra cosa.»

Izawa annuì, sporgendosi in avanti, la mano che trovava quelle di Kumi per darle il cambio; non appena le dita della ragazza vennero ritratte, lui le sostituì, premendo forte. Un altro gemito di Yuzo lo raggiunse, ma si sforzò di esserne sordo.

Tate, di nuovo, la fermò con voce perentoria non appena si alzò in piedi.

«E adesso dove cazzo credi di andare?»

«Mi serve del ghiaccio, qualcosa per la ferita…»

«Sì, certo. Proprio col cazzo. Torna a metterti seduta, forza. E voi due», disse indicando Miura e Ichikawa, «venite qui davanti. Così posso vedervi e sperare che non facciate altre stronzate.»

Il proprietario e il ragazzino obbedirono in fretta, mani alzate. Si accovacciarono accanto a Izawa; Miura preoccupato per il giovane Morisaki, mentre Ichikawa rannicchiato su sé stesso, con le ginocchia strette al petto e gli occhi spalancati.

«Per favore!» implorò Kumi, per una volta dimentica della minaccia dell’arma da fuoco che il rapinatore agitava come fosse un giocattolo. «Se non prendo del ghiaccio sanguinerà ancora di più!»

«Sai il cazzo che me ne frega, dolcezza? Arrangiati con quello che hai e sta’ zitta. O sparo anche a te.»

«Tu non spari proprio a nessuno, T.» A sorpresa J si intromise, strattonando l’altro per una spalla. «Questa cosa era una merda fin dall’inizio e adesso la finiamo qua! Che cazzo vuoi fare? Stare barricato qui dentro? Fino a quando? Fuori ci sono già due volanti e sento il rumore delle ambulanze. Quanto cazzo di tempo credi che passerà prima che ne arrivino altre?»

Tate gli si fece contro, petto contro petto, lo spinse indietro con fare rissoso.

«Ma guarda qui che cazzo di supereroe abbiamo. Adesso vuoi fare il filosofo moralista dei miei coglioni? Staremo qui dentro fino a che lo decido io.» Poi si rivolse a Miura. «Ehi, vecchio! Quante uscite ha questo posto di merda?»

«Due. Quella principale,» rispose l’uomo, indicando l’ingresso da cui erano entrati, «e una sul retro.»

«E pensi che non abbiano già bloccato anche quella? Siamo circondati, Tate! Cristo, arrivaci! Siamo fottuti!»

«Nessuno è fottuto!»

«Pensala come ti pare, ma aiuterò quella ragazzina.»

J gli volse le spalle facendo cenno a Kumi di andare insieme a cercare ciò di cui aveva bisogno. Il rumore del nuovo proiettile che veniva caricato in canna lo costrinse a fermarsi.

«Allora non hai proprio capito un cazzo, Jin,» sibilò Tate. «Qui comando io e decido io chi fa cosa e come. E se non ti sta bene, puoi sederti a terra assieme agli altri.»

Jin si volse, le labbra piegate verso il basso. Con gesti lenti si tolse il cappello da baseball rivelando un taglio corto, dove rimanevano ricordi di una tintura verde.

«Io non voglio finire impiccato,» spiegò con calma. «E se questo ragazzo muore, ti posso assicurare che ci finiamo tutti e due. Sei pronto per la forca, stronzo?»

Kumi spostò lo sguardo dall’uno all’altro e si rese conto che quell’argomento fu l’unico a fare presa sul rapinatore di nome Tate. Gli vide spostare più volte gli occhi dall’altro di nome Jin, a Yuzo che restava a terra a dissanguarsi.

L’amor proprio vinse.

«Tienilo in vita, muovi il culo.»

 

Quando l’Ispettore Capo Ryota Himura arrivò sul luogo dove era in corso la rapina la prima impressione che ne ebbe fu che avessero acceso le luci di Natale in anticipo.

Sulla strada principale c’erano almeno quattro volanti e due ambulanze con i lampeggianti avviati. Anche la sua auto scura ne aveva uno solitario, di quelli magnetici, che aggiungeva un tocco di blu al bianco e rosso che già riempiva l’aria. La folla di curiosi gli fece arricciare le labbra in una smorfia di disappunto, ma più di tutto fu la presenza di un paio di furgoncini della televisione con giornalisti che erano già impegnati a fare la diretta.

«Chi diavolo se l’è fatto scappare con la stampa?» masticò assieme allo stuzzicadenti che rimestava all’angolo della bocca. Lo tolse, buttandolo nel posacenere.

Era seccato.

Seccato da quei due coglioni barricati nel konbini, seccato dalla gente che doveva per forza vedere con i propri occhi cosa stesse accadendo e seccato dai falchi mediatici che aspettavano di calare sulla preda. La serata gli si preannunciava già di merda. Scese dalla vettura sbattendone la portiera come avesse voluto tirarsela dietro e urlò ai poliziotti messi in schieramento attorno alle transenne di aumentare il perimetro e far togliere di mezzo il pubblico, ché quello non era un Teatro No né tantomeno un cinema all’aperto.

«Chi mi fa il riassunto?» chiese a voce alta, avviandosi nel mezzo dello spiegamento, mani nelle tasche del cappotto e testa infossata nel colletto alzato.

Si guardò un po’ intorno fino a individuare dei civili raggruppati accanto a una delle ambulanze: una poliziotta parlava con loro fitto fitto e rassicurava una delle donne del gruppo che era in lacrime. Quelli che presumibilmente erano i mariti delle signore avevano le reazioni più disparate: uno con i capelli lunghi si massaggiava la fronte preda all’apparenza di una forte emicrania, un altro dalla fisicità solida e i capelli corti gesticolava animatamente parlando con un altro agente, indicava il konbini e poi loro che erano raggruppati all’esterno; era arrabbiato si vedeva lontano un miglio. Il terzo, più bassino degli altri, era con le signore e la poliziotta e annuiva adagio alle parole di quest’ultima. E infine, stretti come cigni, un’ultima coppia davvero giovane restava un passo più indietro, guardando verso il convenience store.

Ryota sospirò, spostando lo sguardo sull’agente che lo stava raggiungendo.

«Ispettore Capo. Sono l’agente Kitakami della Volante-22, noi e quelli della 23 siamo stati i primi ad arrivare.»

«È sotto controllo anche il retro?»

«Sì, signore. Ci sono tre pattuglie che sorvegliano l’uscita posteriore, non possono scappare.»

Ryota annuì, poi indicò il gruppo di civili accanto all’ambulanza.

«I genitori dei ragazzi?»

«Esatto.»

«Quindi siete riusciti a identificarli.»

«Sì… e non porto buone notizie.»

Lui alzò gli occhi al cielo. «Peggio di così. Chi sono?»

Kitakami armeggiò con i cellulare e poi gli mostrò una foto.

«Izawa Mamoru dei Marinos di Yokohama e Morisaki Yuzo della S-Pulse di Shimizu-ku, entrambe squadre di J1.»

Ryota prese lo smartphone dalle mani dell’agente. Riconobbe subito i volti sorridenti dei due ragazzi presenti nello scatto, li aveva visti varie volte ai notiziari sportivi.

«La Generazione D’oro,» esalò passandosi una mano sulla bocca e poi sul mento.

«Con loro nel konbini pare che ci sia anche la ragazza della fotografia, si frequenta con Izawa, ma sono tutti e tre amici dai tempi della scuola.»

«Che casino.» Ryota restituì il cellulare e guardò verso le transenne dove era assiepata la stampa. «E lo hanno saputo anche quegli sciacalli, immagino.»

«Sì, signore.»

«Hurrà» ironizzò. «Scommetto che la notizia ha già fatto il giro del paese.»

E non fece nemmeno in tempo ad affermarlo che sentì del trambusto provenire da dietro la folla, gente che sgomitava, che chiedeva di passare, di venire avanti e le persone, semplicemente, a un certo punto fecero largo.

«E adesso che c’è’?» sospirò l’Ispettore Capo avvicinandosi presso la transenna dove due ragazzi e una ragazza stavano discutendo animatamente con un poliziotto che non voleva lasciarli passare.

«Ci sono i miei amici, lì dentro, ha capito? I miei amici! Erano con me fino a nemmeno un’ora fa!»

Stava dicendo un giovane dai capelli cortissimi, gesticolando senza sosta.

«La prego ci faccia passare, dobbiamo sapere se stanno bene! Guardi, controlli se non mi crede: sono Ishizaki Ryo, del Jubilo Iwata

Estrasse addirittura il portafoglio per mostrare il documento di identità.

«Potresti anche essere l’Imperatore in persona, non puoi entrare, ragazzo.»

Il poliziotto che cercava di arginare l’irruenza del giovane guardò l’Ispettore Capo come fosse un angelo sceso dal cielo.

«È lei che comanda? Ci deve fare passare.»

«Hai sentito che ho detto?»

«L’ho sentito, ma non me ne frega niente. Io devo passare, con o senza il suo permesso! Perché quelli sono i miei amici e devo sapere che stanno bene, anche a costo di farmi arrestare, ok?»

«Ryo, calmati…» tentò la ragazza al suo fianco, ma lui si divincolò agitando le braccia come un indemoniato.

«No, che non mi calmo!»

«I-Ishizaki-kun?» chiamò debolmente una voce di donna più distante, ferma accanto all’ambulanza.

«È la signora Izawa» riconobbe Hanji Urabe, dopo aver dato un colpetto sulla spalla di Ryo.

Quest’ultimo si volse, alzò il braccio.

«Stiamo arrivando, Izawa-san!» e senza calcolare né il poliziotto né tantomeno l’Ispettore Capo riuscì a eludere la presa di entrambi e si infilò sotto le transenne.

«Ma che! Ma che diavolo!»

Ryota non fu in grado di riagguantarlo tanto che gli sgusciò veloce dalle mani, seguito a ruota dagli altri due. Imprecò stringendo i pugni.

«Che devo fare, signore?» chiese il poliziotto, ma non sembrava tanto propenso a farli allontanare. E, sotto sotto, non lo era neppure lui. Agitò una mano.

«Lascia perdere.»

A passo di carica, suo malgrado, raggiunse il gruppo dei genitori.

«Ishizaki-kun!» esclamò di nuovo la madre di Izawa, allungando le mani verso il giovane che le prese subito, stringendole con forza. «Ci sei anche tu, Urabe-kun.»

Yukari, invece, corse ad abbracciare la madre di Kumi che nel vederla era scoppiata di nuovo in lacrime.

«Siamo venuti appena abbiamo saputo» disse Hanji, in tono preoccupato. «Che diavolo è successo?»

«Ah! A saperlo!» scattò il signor Morisaki, accendendo l’ennesima sigaretta con fare nervoso. «Qua nessuno dice niente! Che cosa dobbiamo fare per sapere se i nostri figli stanno bene? Una richiesta in carta bollata? Devo parlare direttamente io con quei criminali? Ditemelo, almeno!»

Aspirò in maniera profonda, quasi avesse voluto tirare via tutta la sigaretta in una sola boccata. Il fumo scivolò dal naso, facendolo sembrare un oni. A nulla valsero i tentativi di sua moglie di provare a calmarlo. L’uomo si allontanò con un gesto spazientito per fermarsi qualche passo più in là.

Hisoka Izawa lo osservò dare le spalle al gruppo e non se la sentì di biasimarne il comportamento forte e iracondo; non quando in gioco c’erano le vite dei loro ragazzi. Si passò una mano tra i folti capelli in cui il nero originario cercava di tenere testa all’avanzare dell’argento dovuto all’età.

«Purtroppo, ora come ora, non possiamo fare altro che aspettare…»

«Sono d’accordo con lei.» Ryota si annunciò così, con tono fermo e deciso, doveva far capire di avere la situazione sotto controllo, anche se era appena arrivato. «Sono l’Ispettore Capo Himura, mi occupo io del caso.»

«Era anche ora che qualcuno di voi si facesse vedere!» inveì Akio Morisaki.

«Comprendo la vostra preoccupazione, ma faremo di tutto per tirare fuori i ragazzi sani e salvi.»

Una donna gli poggiò delicatamente la mano sul braccio, lo guardava con occhi grandi e disperati, ma tratteneva una compostezza invidiabile: l’aria di chi avrebbe voluto piangere, ma si rendeva conto che non sarebbe servito a nulla, e allora piangeva in silenzio da qualche parte dentro di sé.

«La prego, sono tutto il nostro mondo.»

Ryota si sentì ancora più responsabile sotto quegli occhi così supplichevoli che si rabbonì senza nemmeno rendersene conto, mise da parte l’atteggiamento da poliziotto integerrimo per vestirne uno più umano e fallace.

«Lo capisco… signora?»

«Morisaki Yumeko.»

Ryota guardò tutti i genitori lì raccolti e anche i ragazzi che erano arrivati di corsa, ignorando ogni remora o regola. Non poteva non vedere cosa fossero in realtà in quel momento, quanto rimanessero in apprensione su un filo di seta sottile e teso. Non erano persone qualsiasi accorse per aumentare il numero di curiosi, loro erano parte di quel dolore che attraversava l’aria, di quell’attesa che non faceva trovare pace a nessuno. E non meritavano di rimanere in un limbo di incertezze.

Si accomiatò con un gesto del capo, raggiungendo di nuovo Kitakami. Sul viso la maschera dell’irreprensibilità era tornata a dominare le sue emozioni.

«Abbiamo il numero del konbini?»

«Sì, Ispettore Capo.»

«Bene,» annuì, allungando la mano. «Allora è il momento di fare una telefonata.»

 

 “Eyes open wide

Looking at the heavens with a tear in my eye.”

 

Sonnet – The Verve

  

 

Note Finali:

E la banalità del male, che colpisce in maniera molto semplice e casuale. Quella che ferisce di più.

Inizio a pensare che se non ci metto un’arma da fuoco quando devo fare del male a Yuzo non sono felice. °° povera gioia.

Allora le carte di ‘Sonnet’ sono tutte sulla tavola, il quadro è completo e i personaggi ci sono tutti, adesso manca solo di capire come finirà questo concerto di volanti, rapinatori e sangue.


Come avrete potuto notare, i nomi che ho scelto di usare per i genitori di Yuzo e Mamoru non sono quelli cui alcuni di voi si saranno abituati (Baiko e Taikan per i rispettivi papà, e Haruko e Mae per le mamme), la scelta è presto detta: il problema è nel padre di Yuzo XD (che novità, la colpa è sempre nei padri di Yuzo!).

Potrà sembrare che questo Akio Morisaki sia per certi versi simile al Baiko de ‘Il lungo sonno della Lucciola’: si presentano entrambi come caratteri forti, molto dominanti. Ma mentre Baiko è un personaggio dinamico, Akio (che mantiene un’assonanza nel nome, manca solo la B e il resto è in anagramma :D), invece, è proprio così. Lui non cambia, lui È così. E questo sarà fondamentale per il sequel.

Per me è stato ovvio dargli un nome diverso, perché QUESTO padre non era Baiko. E avendo cambiato lui, ho deciso di cambiarli tutti XD (anche perché Baiko e Taikan si muovono assieme, come Mimì e Cocò XD sono un duo che se vuole sa essere micidiale XD).

Quindi, eccoli qui i nuovi genitori: Akio e Yumeko da una parte, Hisoka e Rina dall’altra. :D

 

Ah!
Volete sapere come è andata poi con il NaNoWriMo2017, la challenge da cui è partito tutto?

Ho vinto già a metà mese, raggiungendo più di 50mila parole :D Adesso sono quasi a 90mila e il sequel va avaaaaanti, avaaaaaaaanti. Tante cose da dire, una miliardata di pg, ma era una storia che ha aspettato anni per essere raccontata e, quando sarà, spero potrà piacere a voi come a me sta piacendo scriverla :3 (e mi sta facendo disperare XD)
Va beh, ma per ‘Malerba’ ci sarà tempo per parlarne, nel frattempo ‘Sonnet’ vi terrà compagnia fino alla fine del 2017 :D in tutto sono 6 capitoli definitivi (prologo ed epilogo compresi).

UNA STORIA BREEEEEEVEEEEE!
E QUANDO VI RICAPITA?! XD

 

   
 
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