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Autore: yonoi    07/12/2017    18 recensioni
ATTENZIONE: storia in attesa di revisione
Inverno, notte. Un cielo di un bianco abbagliante, carico di neve. Ai margini di un bosco, una staccionata segna i confini di un campo. La quiete naturale di questo angolo di mondo è turbata, ad ora insolita, dall'arrivo di un camion, del tipo che si usa per trasportare gli animali al macello. Un giovane indifeso, e i suoi inseguitori. Un tratto di corda, del tipo che si usa, da queste parti, per legare le bestie. Una pietra che si dice caduta dalla Via Lattea. Una piccola foto, conservata con cura da un amante dolente. Uno strano spaventapasseri dipinto di rosso, condannato a morire nel gelo della notte. Lunghe braccia di legno che si stringono a lui, per sorreggerlo.
Ispirato a una storia vera.
Questa storia si è classificata terza al contest "2nd National Teen Slash Awards" indetto da Surlaplance, e ottava al contest "About Music" indetto da Soul_Shine, entrambi sul Forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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“Black hands raised to the sky
Silhouettes of trees with no more leaves”
(Mani nere levate al cielo
Sagome di alberi senza più foglie)
 
1. Quel corpo così leggero, che pareva fatto di freddo

Alla mattina presto, fa freddo da queste parti. A queste latitudini, per molti mesi all’anno l’alba è una striscia bianca che cresce sull’orizzonte, la terra una brina fragile. È come se la prima luce del nuovo giorno, facendosi strada dopo le ore lunghe di buio, si frantumasse spargendo schegge di gelo ovunque: nel boschetto di fronte alla mia postazione, e poi nella campagna che dietro di me si perde, una prateria bassa di piante come tranelli, arbusti come lacci che impediscono i passi.
      Un tempo, io recintavo un terreno coltivato, e il padrone mi aveva tirato su con rami raccattati nel bosco, piantati a terra da un colpo di pietra sulla testa, e trattenuti insieme con quelle corde che si usano abitualmente per legare le bestie. Sono una recinzione, ancora provvisoria malgrado gli anni trascorsi nell’attesa di diventare qualche cosa di più: il mio sogno era essere una vera staccionata, fatta di quelle assi ben piallate e odorose di segatura, che si vedono dritte e impettite davanti alle fattorie. O un muretto di cinta, di quelli che nascondono nelle crepe e in passaggi segreti le lucertole, per scaldarle col sole a picco di mezzogiorno.        
      Ora, da molti anni, il campo che continuo a delimitare fedelmente è in completo abbandono. Molto probabilmente, il vecchio proprietario è passato a miglior vita, e nessuno ha interesse a occuparsi delle coltivazioni. E la dimenticanza è divenuta ormai la nostra consuetudine: il silenzio è profondo soprattutto in inverno, nel boschetto di abeti che filtrano la luce in lunghi fasci di polvere; e nel campo alle mie spalle, una distesa incolta percorsa solo dal vento, dal silenzio impenetrabile delle nuvole in cielo.
      È sempre stato così, almeno fino alla notte di qualche giorno fa. Quanto tempo, in realtà, sia trascorso da allora, io non saprei dirlo. Sono soltanto un semplice recinto di campagna, piantato al confine di una terra di nessuno. Eppure, quella notte non potrò mai dimenticarla.
      Tutto iniziò con un camion parcheggiato sull’unico pezzo di strada che si vede da qui, là dove il bosco si dirada in uno spiazzo che i taglialegna usano per ammucchiare i tronchi in cataste ordinate, odorose di resina appiccicosa e muschio. E’ normale vedere parcheggiati in quella piazzola dei mezzi, grossi autocarri per il trasporto del legname, furgoni per gli attrezzi, a volte qualche camper di viaggiatori dispersi. Ma ciò che quella notte attirò la mia attenzione fu l’arrivo di un vecchio camion con il rimorchio, del tipo che si usa per il trasporto del bestiame. La carrozzeria ammaccata in più punti da graffi e segni di calci, era cosa abbastanza comune in queste zone, terra di allevamenti, di bestie trascinate a forza sulle rampe, bloccate sugli autocarri diretti al mattatoio. Non farsi impressionare, resistere a quegli occhi allargati dal panico, da queste parti è considerato un punto d’orgoglio.
      Quello che era strano era l’ora in cui il mezzo si era fermato in quello spiazzo: mezzanotte passata. Non si trovava certo qui per far legna, pensai tra me, neppure per una sosta, il tempo di una pisciata o di lasciarsi andare per un poco nel sonno - spesso la meta ultima è parecchio lontana, e gli animali viaggiano per notti e giorni interi, prima di arrivare a farsi ammazzare. Sul rimorchio, non c’erano né maiali né agnelli, né i vitellini teneri che a malapena sanno reggersi sulle zampe. Nessuna vittima ignara, almeno in apparenza: perché quel camion, in realtà, era arrivato qua apposta per scaricarne una.
      Di lì a poco, infatti, li vidi arrivare: due uomini più alti che spingevano innanzi a loro un ragazzo, così esile e inerme che sulle prime mi era sembrato un bambino. Strattonandolo con malgarbo, lo costringevano ad avanzare nell’intrico del sottobosco, dove era assai difficile procedere diritti per via delle radici che affioravano ovunque, della vegetazione di felci e arbusti taglienti, per l’intralcio dei tronchi spezzati dalle intemperie.
      I cespugli di rovi riempivano la mano del ragazzo di graffi, mentre cercava scampo da quei due che lo incalzavano e gli stavano addosso, tagliando come lame il fitto del bosco: e anche con le parole cercava di difendersi, di spiegare che lui non aveva fatto niente, che quegli altri, evidentemente, avevano capito male, vi prego, lasciatemi andare.
      Uscendo dal boschetto, inciampando nell’ultima sporgenza di radice, o di pietra appuntita o di chissà che altro, cadde dinanzi a me e aveva gli occhi grandi, talmente smisurati, e dentro c’era tutta la paura del mondo. Era riuscito a distanziare i suoi inseguitori, che erano rimasti impigliati più indietro. Restò per un istante in ginocchio sullo strato di aghi di pino e muschio, abbracciato a se stesso, forse nel tentativo di smettere di tremare: le nocche gli foravano la pelle delle mani, le felci con le loro dita verdi e sensibili si piegavano su di lui per proteggerlo, le bacche dagli occhi rossi lo fissavano stupite. Non aveva né guanti né una giacca pesante, pareva scappato via da un luogo riparato, poi diventato pericoloso tutto d’un tratto.
      Affondò, a un certo punto, le mani nella terra, come per radunare le ultime energie, e fu allora che gli altri due lo raggiunsero: spezzando e calpestando tutto quello c’era intorno, sbucarono a loro volta dai cespugli del sottobosco e gli furono subito addosso.
      Istintivamente, il ragazzo levò le mani sopra alla testa in un riparo inutile, e cadde sul suo volto un ciuffo di capelli, sottili come quelli dei piccoli: nell’oscurità appena rischiarata da un cielo bianco e fulgente, che prometteva neve, quei capelli chiari e disordinati parevano già lacrime.         
      Udii le sue parole, mentre cercava di rimettersi in piedi, con un tono scherzoso che tentava di alleggerire la situazione, ma che in realtà tradiva tutta la sua angoscia: - «Ragazzi, adesso basta. È durata abbastanza. Lasciatemi andare a casa».
      La sua voce tremava, si disegnava in aria simile a una parabola, una stella filante nel buio della notte, che durava un istante e ricadeva fragile. Si rivolgeva a quegli altri, che per tutta risposta lo tirarono in piedi, gettandolo di peso contro la recinzione, ossia contro di me: ed io potei soltanto limitarmi ad accogliere quel corpo così leggero che pareva fatto di freddo.
 
“Thousand daggers piercing my skin”
(Mille pugnali penetrano la mia pelle)
 
2. Simile ad una fiamma ardente, la mia angoscia
 
Quelli che lo aggredivano, io li vedevo bene: di più, li conoscevo. Pochi sanno che anch’io possiedo occhi nascosti nei nodi dei tronchi, un poco lacrimosi per l’eccesso di resina ed anche un poco miopi, perché in fin dei conti sono occhi di legno. Eppure, da vicino io ci vedo benissimo, e quei due ce li avevo praticamente di fronte. Fu facile riconoscerli: lavoravano qua vicino, uomini di fatica in una fattoria. Il ragazzo più giovane, invece, aveva l’aria forestiera e spaurita di chi non sa dove si trova: e a parte l’angoscia per essersi ficcato in chissà quale guaio, negli abiti e nei modi pareva uno della città, forse uno studente.
      Su questo studente giovane, gli altri due parevano voler scaricare tutta la loro rabbia, una rabbia di cui non capivo il motivo, per quanto mi sforzassi di tendere l’orecchio alle loro parole: ho orecchie di legno, un po’ sorde ovviamente, ma ben funzionanti quando si urla a squarciagola, e soprattutto in grado di intuire l’umore dal tono della voce. Qui i toni erano forti, eppure non era chiaro cosa avesse fatto il ragazzo. Forse ero io che non riuscivo a dare un senso alle frasi spezzate dei due inseguitori, che mentre lo accusavano di averci provato, di aver messo loro le mani addosso - di fatto, a me pareva il contrario - iniziarono a picchiarlo con una violenza tale che persino io, povera recinzione, rimasi di sasso.  
      Il giovane studente era sconvolto dalla piega che avevano preso gli eventi, forse un corteggiamento di cui si erano persi la misura e il controllo: ancora persuaso di poter riportare quei due alla ragione, o forse consapevole di non avere altra forza oltre a quella delle parole - era decisamente uno della città -  continuava a implorare di smetterla con le botte, e di lasciarlo andare. Neppure si accorgeva che più li supplicava, più quelli si esaltavano, e più lo tempestavano di calci da ogni parte e più i loro occhi si facevano grandi, colmi di un’eccitazione convulsa e senza ritorno.
      Fisicamente gracile, lo studente non era in grado di tener testa ai suoi inseguitori, che erano in due e robusti: nel tentativo disperato di cercare uno scampo, si rannicchiava contro di me, proteggendosi la testa con le due mani come se già fosse in lacrime. E io avrei tanto voluto aiutarlo a respingere quell’assalto, ma ero stata costruita con pali ben piantati, legati saldamente. Potevo solamente resistere all’impatto, e accogliere quel ragazzo percosso e terrorizzato: e non so che avrei dato per curvare intorno a lui il legno delle mie braccia, chiuderlo come un nido e impedire ai suoi aggressori di raggiungerlo, anche solo con l’urto delle loro parole.
      Uno dei due aveva con sé un tratto di corda, forse recuperata da quel camion rimorchio destinato ai trasporti di sola andata per il mattatoio: udii il ragazzo continuare a supplicare mentre i suoi aggressori gli afferravano i polsi, torcendoli all’indietro e fissandoli al legno con cui avrei voluto abbracciarlo e difenderlo.
      Il giovane studente era impietrito per la sorpresa, al punto da non riuscire a svincolarsi dalla cattura: in quel momento comprese che le sue preghiere non avrebbero portato a niente, e che non sarebbe uscito vivo da quella notte. Malgrado tutto, i suoi occhi si conservavano limpidi, colmi di una quiete profonda e inaccessibile. Li alzò un’ultima volta in faccia ai suoi aggressori, poi abbassò il capo e la voce in un sussurro: - «Ho soltanto vent’anni. Non c’è nessun motivo perché mi facciate questo, proprio nessun motivo» - e poi, abbassando ancor più la testa in segno di resa, la voce in un sospiro che forse solo io riuscii a percepire: - «Vi prego, non uccidetemi» -.
      Da quel momento in poi, si chiuse nel suo silenzio. Legato a me con corde da animale al macello, mentre io facevo del mio meglio per sorreggerlo, per provare a trasmettergli un calore che non avevo - perché sono soltanto un’umile recinzione, di rami secchi e vuoti - lasciò vagare lo sguardo verso un punto lontano, all’orizzonte oltre i suoi assalitori: verso le cime nere degli alberi del bosco, che si agitavano simili a mani in cerca di aiuto; verso quel cielo bianco, scintillante di neve che di lì a poco avrebbe iniziato a cadere, un turbine di fiocchi altrettanto silenti.        
      Lo sguardo del ragazzo continuò per un poco a vagare lontano: poi si fece più liquido e infine si sciolse in lacrime, che iniziarono a scorrere senza che lui dicesse nemmeno una parola, e senza che il suo viso tradisse alcuna emozione. I due inseguitori rimasero interdetti: si erano attesi una maggior resistenza, magari una bella scazzottata per la sopravvivenza, urla da far rizzare i peli e non solo quelli, da scaricare fiumi di adrenalina in vena. Tutto il contrario di quel pianto distante:
      - «Piange come un finocchio, neppure si ribella. E’ proprio frocio marcio» - disse uno dei due, piantando un calcio con gli scarponi pesanti contro di me, e spezzando di netto un paio dei miei paletti. Io ero quasi felice di prendermi almeno una dose di percosse al posto dello studente. Non era come proteggerlo, ma forse era la cosa che più gli andava vicino, almeno per il momento: condividere una quota dei suoi maltrattamenti, anche se io sono solo un oggetto inanimato, in teoria incapace di avvertire il dolore. Sfondandomi con l’urto pesante dello scarpone, il tizio restò impigliato tra le punte spezzate, e dovette aggrapparsi con tutte e due le mani per cavarsene fuori, cacciando una miriade di schegge dappertutto.
      Dentro di me pensai che ero proprio decrepita, se era sufficiente un calcio ben assestato per farmi volare in pezzi. Eppure, nel mio piccolo, qualcosa ero riuscita a fare ugualmente, perché il tizio di fronte adesso si teneva la gamba saltellando da una bestemmia all’altra: un bel paio di schegge, appuntite come si deve, erano penetrate in profondità, e lo stavano facendo sanguinare alla grande. Così si fa, pensai, ma si trattò di una magra soddisfazione. Perché i due tizi decisero, con logica tutta loro, di addebitare anche questo al giovane studente, e di fargliela pagare in un unico conto:
      - «Facciamola finita una volta per tutte» - quello dei due che aveva portato con sé la corda, incominciò a scalzare da terra una grossa pietra, più esattamente un pezzo di roccia splendente, ricco di striature minerali come diamanti: uno dei tanti che si trovavano piantati attorno a un macigno ricoperto di muschio e da un cappuccio di rovi, dalle lunghe radici spioventi. Con quel cappuccio in testa e i lunghi capelli, immerso nella penombra del sottobosco, il Sasso della Strega assumeva fattezze poco rassicuranti, simile al volto di un’arcigna fattucchiera. In paese si fantasticava addirittura che fosse un meteorite, caduto sulla terra col suo corteo di frammenti che recavano impresse tracce della Via Lattea. Tutto questo, ovviamente, importava ben poco al tizio della corda, che ora, con l’aiuto di quell’altro azzoppato, cercava di cavar fuori a calci dalla terra la pietra più grossa e bella, tutta striata di quarzo lucente.
      Nel frattempo, la notte continuava ad avanzare, e il cielo si era fatto più limpido e terso: mancava davvero poco alla caduta dei primi fiocchi. Immobile contro di me, avvertivo la schiena del ragazzo tremare in modo incontrollabile: aveva ormai esaurito il calore della corsa, e anche quello della paura, e sentivo le sue dita farsi sempre più gelide, bianche come quel cielo che minacciava neve. Capivo che la vita lo stava abbandonando ancor prima di giungere all’epilogo dell’intera vicenda: che ebbe luogo quando il tizio della corda, con l’ineffabile aiuto del compare azzoppato, riuscì a scalzare la pietra e la portò dinanzi al giovane studente.
      - «Vedi un po’ se ti piace» - gli disse afferrandolo forte per i capelli, e costringendolo a guardare. Intorno al ragazzo, a un tratto, si era fatto silenzio: tacque su di lui il cielo, bianco come una lacrima, cadde persino il vento che fino a quel momento se n’era andato in giro col suo gemito addolorato, come in cerca di aiuto.
      Nelle profondità dei miei rami nodosi e secchi, io trattenni il respiro. E in virtù della mia natura vegetale, intuii che anche gli alberi del bosco trattenevano il fiato: i rovi spioventi del Sasso della Strega, con le loro chiome arruffate, gli abeti centenari dalle capigliature che dondolavano solenni, non avevano mai visto nulla di simile, ed erano agghiacciati fin sotto gli aghi.
      Il tizio della corda levò la grossa pietra striata di cristalli, ed io la vidi splendere di una bellezza struggente, sotto a quel cielo simile a un mare lunare. La sollevò in alto e poi la calò dritta sulla testa del ragazzo, sfracellandogli il cranio. Udii distintamente il rumore di qualcosa che andava in pezzi - e non posso descriverlo, né paragonarlo a nessun’altra cosa al mondo.
      D’un tratto avvertii un senso di calore, simile a una colata di lava incandescente: ed era la mia angoscia come una fiamma ardente, ed era un fiotto di sangue che schizzava ovunque, sui miei occhi di legno aperti all’aria immobile, in fondo alle mie orecchie riempite fino all’orlo da quel fragore di schianto, e poi ancora sugli abiti, sul giubbotto e sul volto del tizio della corda.
      Percepivo distintamente la sua eccitazione mentre levava ancora quella pietra ridotta a un viluppo di sangue, capelli appiccicati e cristalli spezzati, e di nuovo colpiva la testa del ragazzo, con più forza e in preda a una frenesia incontrollabile:
      - «È bollente! Senti quant’è bollente!» - si riferiva al sangue, che con tutta la pressione della sua forza giovane continuava a uscire come un pianto a dirotto. Ne aveva piene le mani e le sentiva calde, e questo creava uno strano contrasto col nitore pungente di quella notte. L’altro tizio, che ancora si teneva la gamba dolorante - anch’essa nera di sangue - era piegato in due dai conati di vomito, sopraffatto da quell’odore dolciastro e nauseante che si spandeva ovunque.
      Dopo il primo colpo, inferto tra capo e collo come si usa per ammazzare i vitelli, il ragazzo aveva perso subito conoscenza. Non disse una parola, non gli sfuggì un lamento. Unica reazione, forse involontaria, erano quelle lacrime che continuavano a uscire, e che erano senza fine: come se provenissero da un pozzo senza fondo, da una riserva illimitata dell’anima.
      Il tizio della gamba - e adesso, anche del vomito - si levò dalla melma che aveva appena depositato sotto a un albero, e guardò in faccia l’altro come se avesse appena visto un fantasma:
      - «Cazzo fai, con tutto quel sangue… ce l’hai dappertutto, fallo andar via, fallo andar via!» - non riuscivo a capire se era ubriaco oppure terrorizzato, o entrambe le cose. In realtà, in quel momento, tra i due era il più lucido: il tizio delle corde manco se n’era accorto, ma davvero aveva sangue sulle mani e sul volto, e la sciarpa gli grondava letteralmente dal collo. L’unica differenza rispetto allo studente erano i lunghi solchi tracciati dalle lacrime: sul volto chino del giovane, che ormai restava in piedi solo perché legato strettamente ai miei paletti, quei solchi erano candidi, parevano aver scavato la carne in profondità, lavandola fino all’osso.
      Guardandosi le mani, il tizio delle corde si ridestò come da un sogno: per un attimo pensai che volesse pulirsi strofinandole sui vestiti del ragazzo, ma in realtà intendeva semplicemente frugarlo. Me ne accorsi quando lo vidi cavare fuori dalle tasche dell’altro un portafogli e un mazzo di chiavi:
      - «Ci rivedremo, bello!» disse rivolto al corpo ormai immobile, tanto che aveva smesso persino di sanguinare «torneremo a trovarti, e ci divertiremo». Gli scompigliò i capelli, le poche ciocche chiare rimaste intatte dal trauma. Un cenno di saluto, un altro all’indirizzo del compagno che ancora indugiava sotto gli alberi, per far segno che era giunto il momento di andarsene.
      Con la stessa rapidità con cui erano venuti, spezzando e calpestando, di nuovo, tutto quello che trovavano in mezzo, si dileguarono in direzione del camion. Li udii mettere in moto, strisciare in curva per la fretta di allontanarsi, grattando con le ruote il fango della sterrata.
 
“Blood becomes ice
Flesh becomes rock”
(Il sangue si trasforma in ghiaccio
La carne si fa roccia)
 
3. Uno della città
 
In breve tornò il silenzio, simile a una ragnatela tessuta con pazienza: come un filo invisibile tra gli alberi del bosco, dal Sasso della Strega alle felci coi loro polpastrelli sensibili, ai mirtilli bassi e ispidi. Le felci, più aeree, impiegarono un po’ a rimettersi in equilibrio: dondolarono a lungo per scrollarsi di dosso l’energia in eccesso, lentamente ripresero la loro immobilità quieta.
      Sopra di noi, il cielo era di un bianco abbagliante. I primi fiocchi iniziarono a volteggiare un po’ incerti, senza sapere bene dove andare a parare. Si posavano sopra al corpo del ragazzo, lo sfioravano appena per poi arrossire e fondersi nel tepore del sangue: e io intuivo tutto il loro imbarazzo, perché soltanto quando gli erano proprio addosso, si rendevano conto che quel fagotto imbrattato era un corpo umano. 
      Lo stesso stupore colse, il mattino seguente, il tizio in bicicletta che arrivò traballando, lungo un viottolo che, dalle colline di fronte, scende a rotta di collo sulla via principale. Nelle ultime ore, la neve era caduta senza interruzioni, e i primi fiocchi avevano ceduto presto il passo a larghe falde compatte. All’alba, il bosco tentava di scrollarsi i grossi cumuli che piegavano i rami, lasciandoli cadere con tonfi sordi e soffici. L’aria intorno era tersa e non si udiva alcun rumore, se non a tratti lo schiocco di qualche arbusto spezzato.  
      Coperta anch’io da un bordo di neve alto e dritto, come di fiocchi impilati uno sull’altro, continuavo a cullare il mio giovane amico, senza neanche sapere se era ancora vivo: sulle ciglia s’era formato un arabesco di gelo, e il suo volto era interamente coperto dal sangue, eccetto il punto in cui era stato lavato dalle lacrime. Bisognava davvero guardare da vicino per riuscire a capire se era un essere umano, o uno di quei fantocci che si legano a un palo nei campi dopo la semina, per scacciare gli uccelli. E fu proprio per questo che il tizio in bicicletta, quando si trovò a ruzzolare dal viottolo, cadendo con la bici, la faccia e tutto il resto in un mucchio di neve insanguinata ai miei piedi, per non attimo non riuscì a credere ai propri occhi.
      All’inizio era rimasto sbigottito, trovandosi con la faccia piena di sangue senza riuscire a capire da dove proveniva: gli pareva non essersi fatto niente di grave, a parte la neve che era scivolata dal collo della giacca fino giù nella schiena. C’era da rabbrividire, e non aveva ancora visto niente. A quel punto si era accorto di quello che, a prima vista, gli era sembrato un bizzarro spaventapasseri pitturato di rosso: che strana cosa, dovette pensare il tizio, facendosi più vicino. Lo vidi avvicinarsi al volto dello studente, poi concedersi un solo attimo per sbiancare e non saper che fare: restò un istante come sospeso in un sogno, fissando quelle ciglia immobili e rese splendide dai cristalli di ghiaccio, su cui iniziava a posarsi un raggio di sole tenue.
      Quando il tizio riuscì a realizzare l’intera faccenda, arretrò continuando a farsi sempre più pallido. Cercò di liberarsi del sangue sulla faccia, per poi scoprire che ce l’aveva dappertutto: sul giubbotto, bagnato non solo dalla neve, e tra i capelli che incominciò a ravviarsi con mani stirate dall’ansia; sulle scarpe pesanti, che erano sprofondate in uno strato fresco, facendo emergere impronte di fango scarlatto. In preda a un vero e proprio delirio di ribrezzo, il tizio della bici continuò a strofinarsi per un tempo infinito la faccia allucinata con la manica della giacca, senza neppure accorgersi che anche quella era completamente imbrattata: e a ravviarsi i capelli, a calciare via il sangue attaccato alle scarpe, affondando nei cumuli di neve ancora intatti. Aveva l’impressione che più provava a scrollarsi di dosso quel sangue, più quello s’incollava, come un grido d’aiuto.
      Finalmente, a fatica, si destò dal suo incubo: rimase ancora a lungo con le mani sul volto, prima di ritrovare il coraggio di guardare. Poi raccattò la bici, e partì a rotta di collo sulla sterrata.
      In meno di mezz’ora, arrivarono i soccorsi: a lungo si affaccendarono attorno al ragazzo, cercando di tagliare i nodi sigillati dal sangue e dal ghiaccio. In un tempo ancor più breve, la sterrata e il boschetto si riempirono di gente: abitanti del posto subito transennati a debita distanza, poliziotti indaffarati a parlare con la centrale, altri tizi in divisa che gridavano a quelli accalcati sulle transenne di levarsi dai piedi, perché non c’era proprio niente da vedere.
      Quelli dell’ambulanza riuscirono, alla fine, a liberare il giovane e a caricarlo su una lettiga, sotto a tante coperte e a uno strato metallico che, molto probabilmente, serviva a riscaldarlo: lasciarono scoperto il volto dalle lunghe ciglia di ghiaccio, e soltanto osservando questo particolare, compresi che doveva essere ancora vivo.
      Sdrucciolando sul ghiaccio partirono l’ambulanza, i poliziotti e infine i curiosi alla spicciolata. Io restai con le corde tagliate e penzolanti, simili a mani impotenti, e con un nastro giallo che mi girava attorno: un avviso nel cellophane, già fradicio, diceva “immobile soggetto a sequestro giudiziario”. Immagino si riferisse al campo dietro di me, che non c’entrava niente.
      Come sempre d’inverno, mi ritrovai a perdere la nozione del tempo. All’imbrunire il cielo ardeva come un incendio, più tardi nella notte ricominciò a nevicare, e stavolta era una bufera piena di rabbia: il vento si aggirava nel bosco come un tormento, i fiocchi scaraventati contro i tronchi degli alberi ricadevano come un pianto dirotto.
      Crollarono altri pali della mia recinzione, non più in grado di reggersi dopo i calci violenti con cui avevo diviso col giovane studente lo strazio di quella notte. Sommersa dalla neve, avvertivo la nostalgia di quel tepore che a lungo avevo cullato tra le mie braccia. Erano braccia di legno, le mie, semplici pali secchi: eppure, per una notte, avevano preso vita e calore di mani vere. 
      Nei giorni che seguirono, gruppetti di curiosi vennero a visitarmi, tenendosi a distanza per il timore di essere coinvolti in chissà che cosa. All’ennesima visita, non potei evitare un moto d’insofferenza, e dalla mia bocca di legno - ne ho una bella grande, come dimostra il fatto che sono qui a raccontare - sfuggì un sospiro di noia: me lo rimangiai subito, quando notai un uomo ritto davanti a me, immobile di fronte alla mia recinzione. Fu come se, all’improvviso, un ordine di attenti fosse stato impartito al bosco alle sue spalle, che in quel momento non muoveva un solo ramo, un solo ago imprigionato dai cristalli di ghiaccio. Era come se da quell’uomo, che negli abiti e nei modi pareva chiaramente uno della città, si sprigionasse tutt’intorno un’atmosfera carica di silenzio, e quel tipo di solitudine profonda che è propria di chi ha perduto una persona amata.
      Fu il suo aspetto curato, assieme all’estremo dolore del suo sguardo, a ricordarmi improvvisamente lo studente, le sue pupille dilatate dallo sgomento. Quando si avvicinò, vidi che questi era un uomo più adulto, anche se col ragazzo di quella notte di sangue pareva avere qualche cosa in comune: forse una traccia di tenerezza nascosta nei tratti regolari, un po’ severi del volto. Credimi se ti dico che mi guardò negli occhi - le mie palpebre erano appesantite dalla neve, ma gli occhi erano ben aperti, te lo posso garantire. Si chinò su di me, sfiorò i miei paletti come se cercasse a tentoni qualcosa: su una traccia di sangue, ormai annerita e irriconoscibile da chiunque, fermò una carezza, e le lacrime cominciarono a scendere sul suo viso sempre assorto. Io tentai di ritrarmi: dopo tutto, ero un immobile sottoposto a sequestro, il che comprendeva, immagino, il divieto di essere sfiorata da mani estranee. Ma non potei sottrarmi al tocco di quelle dita che mi esploravano tutta, come per ripercorrere i fatti di quella notte.
      A un certo punto, l’uomo cavò dal portafoglio una piccola foto, in cui riconobbi il volto dello studente. La fissò al recinto, proprio là dove batte il mio cuore di legno e, dove, in quella notte, un altro cuore aveva palpitato sempre più lentamente. L’uomo rimase a lungo a fissare la foto, e io accolsi il suo dolore e le lacrime, come già avevo accolto il pianto congelato sulle ciglia del ragazzo. Capii che l’uomo aveva amato lo studente e che ancora lo amava in maniera disperata: lo avvertivo dal tremore delle sue mani mentre mi accarezzava, come se stesse scivolando sul corpo del giovane addormentato, piano per non svegliarlo. 
      Infine, si lasciò andare completamente: pianse stringendomi forte, e aggrappandosi a me come se io fossi lui. Con il viso nascosto nelle mani e contro ai miei pali, l’uomo della città piangeva, e come era già accaduto col giovane studente, avrei voluto abbracciarlo, consolarlo per quanto mi era possibile. Fu allora, e chissà come, che cominciai a parlare. Non erano, le mie, vere e proprie parole, ma semplici cigolii e lamenti del legno. Tentavo di rispondere alle domande di lui, spezzate, che cadevano ai miei piedi com’erano già cadute, in quella notte, le percosse. Ascoltavo la voce di quell’uomo, profonda e armoniosa, simile a un canto triste:
      - «Avevamo litigato, quel giorno. Maledizione a me che ero il più vecchio e avrei dovuto capire, avere più pazienza, restare ad ascoltare. E soprattutto, non lasciarlo andare via. È mia la colpa di tutto». Io avrei voluto dirgli che questo non era vero, perché ci sono cose che accadono nostro malgrado: e che le nostre colpe sono minimi incidenti, nel corso spesso inarrestabile degli eventi.
      - «Lui era qui, solo… non ero accanto a lui, per difenderlo. Non potrò mai perdonarmelo. Mai più, finché vivo». Sappi che ho avuto cura di lui fino all’ultimo. Vedi questi paletti spezzati sotto la neve? Ho cercato di proteggerlo, proprio come avresti fatto tu.
      Cessarono, infine, le lacrime. Non ne trovò altre da versare quell’uomo, che a vederlo da vicino aveva occhi che parevano di carne viva, tanto era il pianto che dovevano avere fatto. Mi diede un’ultima carezza, così lieve che quasi non me ne accorsi: era il tocco che si riserva a qualcuno che è immerso nel sonno, che dev’essere dolce, se non si vuole destarlo.
      L’uomo si levò in piedi, si riordinò gli abiti e il volto, scrollando via la neve. Si allontanò, voltandosi verso di me più volte. Ed io, prendendo in prestito il sussurro del vento, lo inseguii per ricordargli che avrei continuato ad attenderlo, tutte le volte che la malinconia e il rimpianto l’avessero sospinto verso il ricordo del suo amato. 
      Avrei custodito, nel tempo, l’immagine del ragazzo che l’uomo della città mi aveva affidato. E mentre promettevo a me stessa di averne cura, acchiappai al volo un altro filo di brezza, per muovere appena un poco quella piccola foto: un leggero fruscio arricciò gli angoli, già spiegazzati da chi l’aveva custodita sul proprio cuore. E fu come se il giovane studente salutasse, per un brevissimo istante.
 
Citazioni dal testo di “Winter”, Dargaard, dall’album “The rise and fall”
https://www.youtube.com/watch?v=th2gmBBGnoQ
 
Dedicato agli amici che, con la bellezza delle loro opere, la fedeltà con cui seguono i miei scritti  e il dono della loro amicizia, riscaldano il mio cuore: Old Fashioned, Saelde_und_Ehre, Morgengabe, e la dolce Fiore di Girasole.
 
  
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