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Autore: lestylinson    08/12/2017    0 recensioni
La vita di Louis cambia radicalmente quando Harry, il suo migliore amico, lascia Doncaster e si trasferisce a Los Angeles per inseguire il suo sogno.
Una scelta sbagliata ed impulsiva rovinerà tutto ciò che di bello avevano costruito insieme, gettando Louis nel baratro dello sconforto.
Ma il ritorno di Harry, improvviso e inaspettato, sconvolge Louis, rimettendo in discussione le convinzioni su cui aveva basato la sua vita negli ultimi quattro anni.
Tra rabbia e vecchi rancori, delusioni e ferite ancora aperte, riusciranno tuttavia a ritrovarsi.
A quel punto Louis capirà che Harry è indispensabile per la proprio felicità, ma ammetterlo risulterà difficile e metterà ancora una volta a dura prova il loro rapporto.
A complicare tutto: sentimenti inesplorati e inesplicabili, e un matrimonio imminente.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Louis
 
 
Facevo avanti e indietro nel corridoio di casa come un pazzo.
Arrivavo davanti al portone, mi fermavo per un attimo, e poi tornavo indietro verso la cucina, e così via per più di mezz'ora.
Ad un certo punto però mi arrestai.
Dentro, un senso di inquietudine che non riuscivo a placare.
Cominciai a far vagare attorno lo sguardo, e fu quando vidi il mio riflesso osservarmi da uno specchio appeso lungo la parete del corridoio che capii.
Mi soffermai ad osservarlo.
Avevo l’aspetto di qualcuno a cui fosse stata appena stravolta l’esistenza.
Gli occhi infossati, circondati da due macchie nere che riflesse nelle iridi ingrigivano lo sguardo.
Le palpebre gonfie, pregne di lacrime che ogni giorno cercavo di trattenere.
Le labbra violacee, colorate solo da piccoli sprazzi di sangue causati dagli incisivi che non smettevano mai di torturarle.
Il viso svilito, magro e smunto, dal colore spento che non si addiceva ad un uomo vivo.
Quindi questa era l’immagine che restituivo di me alla gente?
Era questo il Louis che quella mattina si era presentato a casa di Harry?
Feci un passo verso lo specchio, sporgendo il viso per osservarmi meglio, mentre istintivamente avvicinavo le dita alla mia faccia.
Incredulo, ecco come mi sentivo.
Quando ero diventato così?
È questo, dunque, quello che provoca la paura?
Mi aveva cambiato la faccia? Mi aveva spinto a dire per anni ciò che non pensavo?
Mi aveva strappato dal cuore il coraggio, la forza, la speranza che sempre mi erano appartenuti?
Mi aveva fatto perdere la strada per poi farmi ritrovare indifferenza, freddo, apparenza?
Che fine aveva fatto l’amore che un tempo avevo dentro?
Mi sembrò di vedere i miei occhi diventare neri, adombrati dall’oscurità che sentivo mi avvolgesse ogni giorno, e mi allontanai di scatto, spaventato.
Afferrai in un gesto nervoso il mio giubbotto di jeans e aprii la porta di casa sgusciando via fra le strade di quel paese che ormai conoscevo a memoria.
Non appena fui fuori respirai a pieni polmoni, provando a regolarizzare il respiro.
Cominciai a camminare con passo concitato e senza neanche accorgermene, alcuni minuti e sigarette dopo, mi ritrovai davanti al pub dove Niall si stava esibendo.
Ero rimasto chiuso a casa per ore a tormentarmi su cosa fare, e alla fine mi era bastato mettere un piede fuori per correre da lui? Da Harry?
Mi ero precipitato da lui, senza neanche accorgermene.
E potevo raccontarmi tutte le stronzate che volevo, ma sapevo che il prurito che mi sentivo addosso non era altro che il corrodente bisogno di vederlo.
Quella mattina lo avevo lasciato mentre piangeva, e non potevo che sentirmi di merda.
Io non ero quella persona, non avrei mai voluto fare intenzionalmente male ad Harry, mai.
Eppure ultimamente sembrava essere l’unica cosa che riuscissi a fare.
Ogni volta che ci incontravamo non facevamo altro che aumentare la distanza che già ci separava da tempo, gridandoci addosso senza realmente ascoltarci.
Sembrava impossibile ormai ritrovarci, perché per farlo bisognava mettere tutto in gioco e rischiare, e fino a quel momento nessuno dei due si era dimostrato disposto a farlo.
Dove si era rotto quel filo che ci aveva uniti talmente stretti da farci soffrire poi così intensamente il distacco?
Era davvero irreparabile quello strappo che ci aveva lacerato l’anima?
Se mi avessero detto che a fine serata avrei avuto le risposte ad alcune delle domande che mi stavano fottendo la testa, avrei riso, scettico.
Decisi di entrare, ma non appena mi trovai dentro al pub, rimasi senza fiato.
Mai, aprendo quella porta, mi sarei aspettato di vedere Harry, solo, al centro di quel piccolo palco.
Le mani grandi e morbide che sfioravano i tasti come fossero delicati petali di rosa, i capelli lunghi legati in un codino - che se chiudevo gli occhi potevo sentire l'odore di orchidea e vaniglia che emanavano - e la voce roca, rotta da qualcosa simile a un dolore troppo intenso per lui da sopportare.
Sembrava lo stesso dolore che lo aveva fatto scoppiare in lacrime quella stessa mattina.
Risi amaramente. Il solito Harry troppo buono per questo mondo e troppo sensibile per sopportarne le brutture.
Fu inevitabile pensare che se solo avesse provato un po’ del mio dolore, forse sarebbe rimasto schiacciato dal suo peso.
Il ghigno che mi deformava le labbra sparì quando lo vidi sollevare le palpebre e puntare lo sguardo dritto verso di me, senza un attimo di esitazione.
Come se sapesse che ero lì a guardarlo.
Come se mi avesse sentito arrivare e avesse ascoltato i miei pensieri, che lo avevano condotto a me.
Un po’ morii sotto a quello sguardo, soprattutto quando cominciai ad ascoltare le parole di quella canzone che pronunciava con voce tremolante.
 
‘And I know, you’re gonna be away a while
But I’ve got no plans at all to leave
And would you take away my hopes and dreams?
Just stay with me’
 
Probabilmente, se ci fosse stato più silenzio in quella stanza, avrei potuto sentire perfettamente il tonfo del mio cuore e il rumore delle mie budella mentre gli si stringevano attorno talmente forte da azzerarne i battiti.
 
‘All my senses come to life
While I’m stumbling home as drunk as I
Have ever been and I’ll never leave again
Cause you are the only one
And all my friends have gone to find
Another place to let their hearts collide
Just promise me, you’ll never leave again
Cause you are the only one’
 
Volevo scappare. Spingere tutti e andare via.
Mi guardai attorno e mi resi conto di essere ancora sulla soglia del pub, davanti e dietro di me nessuno.
Sarei potuto andarmene immediatamente, nessuno me lo avrebbe impedito, eppure non lo feci.
Una forza più grande mi tratteneva lì dentro, e non era di certo la gravità.
Pian piano sentivo entrarmi nelle vene quelle parole, una dopo l'altra, piccoli spilli pungenti che mi avvelenavano il sangue e non mi facevano respirare.
Pezzi sventurati della mia anima corrosa venivano via man mano che lui emetteva un suono, prendeva fiato, pronunciava alcune lettere con un accento che non gli era mai appartenuto.
 
 
‘Take my hand and my
Heart and soul, I will
Only have these eyes for you’
 
E me le diceva in faccia quelle parole, me le faceva entrare dentro senza mai distogliere lo sguardo.
Ché se con le parole di quella canzone mi stava dicendo tanto, con i suoi occhi immensamente verdi mi stava dicendo di più.
E io non sapevo come sentirmi.
Ero stordito.
Attorno a me era tutto fin troppo fermo e asfissiante.
Le sue pupille luccicanti rendevano l'aria pesante, difficile da mandare giù oltre all'esofago per farla arrivare ai polmoni.
 
‘And you know, everything changes but
We’ll be strangers if, we see this through
You could stay within these walls and bleed
But just stay with me’
 
E poi la sentii.
La rabbia cieca.
Saliva dalla punta delle dita e arrivava alla testa, tirava così forte da tramortire il cervello.
Aveva una gran bella faccia tosta lo stronzo.
Lui se n’era andato, mi aveva dimenticato, si era fatto un’altra vita con altri amici e aveva anche il coraggio di dire a me di non fuggire?
Mi stava realmente confessando che io fossi l'unico?
Ma con che coraggio?
Faceva la vittima quando a mandare tutto a puttane era stato proprio lui.
Cazzo lo odiavo, sarei salito sul palco e gli avrei rovesciato addosso la tastiera su cui stava suonando.
Strinsi i pugni contro i fianchi così forte che sentii le unghie mangiucchiate martoriarmi i palmi delle mani, e lo guardai anch’io.
Avevo tante di quelle emozioni dentro che non volevo immaginare nemmeno l’espressione del mio viso.
Distolsi lo sguardo solo quando percepii la mia guancia inumidirsi, ma era troppo tardi.
Lui mi vide, e nonostante tutti lo stessero applaudendo, non si era mosse di un millimetro.
Era concentrato su di me, sulla mia reazione da cui dipese immediatamente la sua: non appena una lacrima mi rotolò sul volto lo vidi incurvare di riflesso le spalle e sospirare sconfitto.
Solo quando chiuse gli occhi per un attimo fuggevole, scappai da lì dentro.
Fanculo tutto.
Fanculo lui.
Fanculo io.
Mi riversai sulla strada come un pazzo, respirando a pieni polmoni l’aria gelida della notte, riappropriandomi dell’ossigeno che mi era venuto a mancare per minuti che mi parvero infiniti.
A quel punto il bisogno di fumare si fece impellente, il tabacco sedativo per l’agitazione.
Feci la guerra con l'accendino e quando finalmente la sigaretta prese fuoco, tirai talmente forte che per un attimo mi girò la testa.
Le mani mi tremavano per la rabbia e la frustrazione, tanto che arrivai a sferrare un calcio al muro per scaricare la tensione.
 Stavo per tirarne un altro quando sentii la porta cigolare alle mie spalle.
“Louis.”
Mi bloccai col piede a mezz'aria.
Non mi stupii per niente quando scorsi Harry dietro di me, la camicetta di seta arrotolata ai gomiti, troppo leggera per il freddo di marzo.
“Dovresti entrare, o prenderai freddo.”
“Come se a te interessa qualcosa se prendo freddo.”
Sbuffai una risata, anche se avrei voluto sferrargli un pugno perché non capiva un cazzo.
Non aveva mai capito un cazzo.
Ma forse la colpa era mia.
O forse era sua.
Probabilmente era troppo tardi per provare anche solo a capire.
“No, infatti. Voglio solo che te ne vai.”
“Perché fai sempre così?” gridò, la solita vena del collo che sporgeva.
Ma se lui gridava allora io avrei gridato più di lui.
“Così come?” chiesi, impertinente.
“Mi respingi! Tu respingi le persone, ma così non dai la possibilità di spiegare, di parlare! È frustrante, cazzo!”
“Oh, ed è per questo che hai tirato su questo teatrino e hai cantato quella canzone? Per spiegare?” Sbuffai una risata viscida che mi fece quasi schifo, mi fece sentire infimo e cattivo.
“Se ci tieni davvero così tanto a chiarire le cose, perché non lo hai fatto un mese fa, quando sei arrivato? Perché non mi hai chiamato quando ti sei reso conto di aver sbagliato? Perché hai lasciato passare tutto questo tempo?”
“Stai scherzando? E cosa credi che abbia fatto sei mesi fa, quando ti ho chiamato per settimane da Los Angeles e tu non ti sei degnato nemmeno di ascoltare i messaggi che ti ho lasciato in segreteria?”
Mi ammutolii immediatamente.
La spavalderia e l’arroganza che avevo usato fino a poco prima, svanite.
Adesso solo confusione e paura.
Il cuore a martellare nel petto in un’ansia crescente.
“Di che diavolo stai parlando?”
“Ho chiamato a casa vostra, Louis, diverse volte. Per te, per parlarti. Probabilmente avrei capito se non avessi voluto rispondermi, non lo avrei accettato facilmente, ma lo avrei capito. Però speravo almeno ti interessasse sapere cosa avevo da dirti. Ma evidentemente mi sbagliavo. Quindi se vuoi, incolpami pure, ma non puoi biasimarmi se una volta arrivato a Doncaster non ho avuto il coraggio di chiamarti. La paura di sentire il telefono suonare a vuoto, di nuovo, mi ha bloccato da ogni tentativo. E puoi accusarmi di non averci provato abbastanza, di non essere venuto da te, ma voglio ricordarti che sei stato tu quello che ha cambiato numero di cellulare per non farsi più rintracciare da me.
E sono umano anch’io Louis, anche io ho le mie paure, anche io commetto errori, e tu non hai alcun diritto di rinfacciarmi di averti abbandonato senza prima sapere perché l’ho fatto!”
Mi sentii svuotato di tutto. Mente e cuore totalmente sgombri.
I miei castelli di sabbia distrutti, le mie convinzioni crollate.
E non ci fu nemmeno bisogno di una tempesta, fu sufficiente il più debole dei venti.
“Io non capisco… Nessuno in casa mi ha mai detto nulla riguardo ai tuoi messaggi in segreteria.”
Mi guardò rassegnato, un sorriso amaro a deformargli la faccia.
Anni di silenzi e verità nascoste lottavano sulle sue labbra per uscire.
“Ma l’ho fatto, anche se troppo tardi, l’ho fatto. Forse questo non ti farà cambiare idea su di me, né farà sembrare i miei sbagli meno gravi, ma dovevi saperlo. Non posso sopportare l’idea che tu creda io non ti abbia mai più pensato, perché non è così.”
Venni travolto totalmente da quella sua confessione, incapace di emettere un fiato, di formulare un pensiero, timoroso di poter dire qualcosa di sbagliato e rovinare la perfezione delle sue parole frenetiche.
“Perché?”
Stordito com’ero, fu l’unica cosa che fui di in grado di dire.
“Cosa?”
“Perché mi hai chiamato?”
Una domanda stupida, figlia di un’urgenza di sapere che non mi aveva mai lasciato in tutti quegli anni.
“Ero logorato dai sensi di colpa, mi ero reso conto di aver fatto una cazzata. E mi mancavi Louis, mi manchi tutt’ora. È così difficile per te crederlo?”
Venimmo interrotti dal cigolio della porta, da cui sbucò il proprietario del locale.
“Harry, ecco dove ti eri cacciato! Vieni dentro, abbiamo bisogno di te.”
Non si curò di me, forse nemmeno mi vide, semplicemente lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro, via da me.
Harry mi rivolse uno sguardo colpevole, poi venne inghiottito dalla folla del pub.
E prima che i singhiozzi che sentivo strozzarmi la gola scoppiassero in un pianto disperato, mi allontanai da lì e cominciai a camminare.
Verso dove ancora non lo sapevo.
Avevo solo bisogno di cercare un posto in cui piangere e schiarirmi le idee.
Sperai che il buio e il silenzio mi sarebbero stati d’aiuto.
Quella notte non rientrai a casa, vagai per il paese, fumando sigarette e paure.
Il cervello mi esplodeva di domande.
Di risposte, neanche una.
Alla fine aveva avuto ragione Liam: le convinzioni che mi ero fatto negli ultimi anni non avevano neppure cominciato a vacillare che io ero già crollato.
Erano bastate poche parole. E quella era solo una piccola parte di tutta la storia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Harry
 
Il locale aveva chiuso da più di mezz’ora e Niall era già andato via insieme agli altri.
Io invece ero rimasto in giro, vagando indisturbato per il paese.
Era quasi l’alba, ma non avevo ancora voglia di tornare a casa.
La testa mi frullava troppo, piena di immagini di quella sera, di parole gridate e occhi inondati di lacrime.
Non potevo ignorare quel senso di inadeguatezza che mi seguiva come un’ombra sin dal primo giorno in cui avevo rimesso piede a Doncaster, e che quella sera mi aveva soffocato.
La gente mi adulava, mi sorrideva, ma vedevo quanto ogni gesto fosse velato di ipocrisia e falsità.
Non erano felici di vedere me, il ragazzo riccioluto che era cresciuto in quel paese insieme a loro, no. Loro lusingavano l’Harry radiofonico, quello con una carriera ben affermata in America che gli permetteva di vivere una vita agiata, e questo mi aveva talmente fatto schifo da farmi desiderare di scappare immediatamente da quel posto.
Ma non potevo, così avevo deciso di mostrarmi cordiale ed educato, cercando di raccontare qualcosa, di dire qualcuna delle mie pessime battute, ma a nessuno, fuorché i miei amici, interessavano le mie barzellette.
La cosa che più mi rendeva irrequieto, era sapere che fuori da quella porta, su un marciapiede freddo e bagnato, avessi lasciato Louis solo, in preda a lacrime, confusione e sensi di colpa.
Ero circondato da centinaia di persone, eppure io riuscivo solo a notare l’unica assenza in quella stanza.
Mi sembrava di avere attorno solo nemici, che nascondevano dietro falsi sorrisi il disprezzo che provavano per me.
Come se mi stessero accusando per qualcosa che non avevo commesso nei loro confronti, ma per cui dovevo comunque essere punito.
E in quei giorni, percorrendo le vie di Doncaster dove ero cresciuto e stavo ritrovando i miei passi, mi sentii schiacciato da tutti i miei errori.
I passanti mi vedevano ma non osavano guardarmi negli occhi, era come se non mi riconoscessero o avessero paura di me, e nei loro sguardi mi sembrava di poter scorgere lo stesso rancore che aveva ingrigito gli occhi di Louis.
Forse era solo suggestione, forse nessuno mi guardava realmente con disprezzo, ma gli unici occhi da cui non avrei mai voluto essere guardato in quel modo erano gli stessi di cui mi importava davvero, e non potevo fare altro che vederli ovunque, nello sguardo del panettiere sotto casa, dei bambini usciti da scuola, del guardiano del parco.
I suoi occhi mi perseguitavano, erano ovunque guardassi, a ricordarmi il mio unico grande sbaglio.
Perché fargli credere di non avere più bisogno di lui era stato uno sbaglio.
Ma lo stesso forse non potevo dire della mia decisione di andare in America.
Cosa c’era di sbagliato nel perseguire un sogno?
Volere un futuro all’altezza dei miei sogni mi rendeva una brutta persona?
Volevo solo vivere con spensieratezza, divertirmi, imparare a correre, a volare.
E per tutto questo avevo dovuto pagare un prezzo. Tutt’ora lo stavo pagando.
Con l’indifferenza, la rabbia, l’odio e il rancore di Louis.
E ultimamente continuavo a chiedermi se ne fosse veramente valsa la pena.
Nel profondo, dentro di me, avevo sempre saputo che sarebbe stato inevitabile scontrarmi con la durezza delle sue parole e l’avventatezza dei suoi gesti.
E nonostante mi facesse male, andava bene così, dovevo prendere tutto ciò che mi arrivava e sopportarlo senza batter ciglio.
Era la mia giusta punizione, il modo migliore per espiare le mie colpe.
Per guadagnare punti devi pagare e sacrificare l’anima mi disse Nick una volta.
Ed era quello che mi stava accadendo, stavo incassando ogni colpo, cercando di non cadere ogni qual volta un tiro si rivelava particolarmente forte.
Ad un certo punto, senza riuscire a trattenermi, aiutato dalla stanchezza e dai sensi di colpa, mi ritrovai a piangere, sfinito e sfatto, sul marciapiede di fronte casa Tomlinson.
Ero seduto lì, ad osservare la vecchia stanzetta di Louis, da quelle che mi parvero ore.
Quanto avevamo condiviso dentro quelle quattro mura, quante confessioni, pianti, risate, dolori e gioie.
Adesso invece era tutto diverso, ogni cosa era cambiata per colpa mia.
Nel silenzio dell’alba mi sembrava di sentire l’eco dei nostri schiamazzi risuonare dentro quella casa.
Sorrisi allora, un sorriso amaro, perché da quei momenti sembrava fossero passati migliaia di anni, e invece ne erano trascorsi appena quattro.
Chiusi gli occhi, respirando piano, cercando di calmare il pianto che mi stava allagando i polmoni.
Fu inevitabile pensare a quella frase, all’urgenza mischiata alla paura con cui Louis l’aveva pronunciata.
Perché mi hai chiamato?
Perché nulla era come credeva, e lui doveva saperlo.
 
 
 
 
 
 
Los Angeles, sei mesi prima.
 
Il sole batteva forte sul suolo californiano, un’afa asfissiante soffocava l’aria che circolava nelle ampie strade di Los Angeles. Ero tornato in città da più di una settimana e già mi mancava tremendamente il mare cristallino di St. Barts dove io mia sorella e mia madre avevamo trascorso le vacanze estive.
Erano stati solo dieci giorni, troppo brevi per potersi riposare veramente, ma sufficienti per sopperire alla mancanza che sentivamo dilatarsi a causa della distanza.
Al rientro mi ero sentito particolarmente fragile, svuotato, disorientato.
Non seppi dire quanto influì sul mio stato d’animo ciò che mia madre mi aveva raccontato prima di ripartire, ma decisi che avrei dovuto fare qualcosa.
E ci avevo provato, per dieci giorni di seguito.
Ma fino ad ora non era andata esattamente come avevo sperato.
Quello sarebbe stato l’ultimo giorno in cui lo avrei fatto, dopodiché avrei aspettato.
Se fosse stato destino, prima o poi, avrebbe richiamato.
Mi avvicinai al solito telefono pubblico da dove avevo chiamato nei giorni precedenti, e cominciai ad infilare uno ad uno i gettoni.
Il rumore che facevano man mano che cadevano dentro, somigliava incredibilmente a quello del mio cuore che scalpitava per la paura.
Anche questa volta però, il telefono squillò a vuoto.
Decisi allora di lasciare un messaggio.
L’ultimo.
Lasciai andare definitivamente quel briciolo di speranza a cui mi ero testardamente aggrappato.
“Louis, sono io. Harry. Chiamo da un telefono pubblico della California. Stupidamente ho pensato che se non avessi visto il mio numero sullo schermo del telefono avresti risposto. Evidentemente mi sbagliavo.
Ho chiamato anche nei giorni scorsi, ma sembra non ci sia mai nessuno a casa. Lo so che può sembrare assurdo, che è passato troppo tempo dall’ultima volta, che ci sono migliaia di chilometri a dividerci, ma volevo sapere come stai.
Gli ultimi giorni sono stati difficili, e ho bisogno di spiegare, ma anche di sapere.
Ti capita mai di pensare al passato? A quando eravamo giovani e felici, prima che il mondo ci cadesse addosso? Prima che io rovinassi tutto? Quei momenti mi sembrano appartenere ad un passato così remoto che a stento ricordo come ci si sentiva, come fosse bello non avere nulla di cui pentirsi, nulla per cui soffrire.
Non senti mai il bisogno di lasciarti tutto alle spalle, errori, rimorsi, rimpianti, e ricominciare da capo? Perché io sì, ogni giorno, e questa cosa mi sta opprimendo.
Oggi ho saputo che fra qualche mese mi trasferiranno a Londra per lavoro, e io non ho fatto altro che pensare se ti andrebbe di vederci, se venissi a Doncaster.”
Feci una pausa, spaventato da quello che avevo appena detto, insicuro su cosa avrei dovuto dire dopo.
Parlavo senza riflettere, buttavo fuori i pensieri e le emozioni come venivano, non riuscivo a curare le parole con cui li esprimevo.
“Mi dispiace per tutto Louis, per averti spezzato il cuore, per non essere stato abbastanza forte, per averti detto quelle cose. Vuoi sapere qual è l’ironia di tutto questo? Che nemmeno le pensavo.
Sì, è vero, dovevo andare avanti, dovevo guardare al futuro, ma mai avrei dovuto dirti che non volevo più sentirti, perché non era vero, non lo è mai stato. La verità è che sono stato un codardo, perché avevo paura di quanto forte fosse il nostro legame, non sapevo nemmeno come definire quella cosa che mi teneva così stretto a te.
E quando ho capito cosa fosse, era già troppo tardi.
Non c’è giorno in cui non sto male se penso a ciò che ti ho fatto, non avrei dovuto decidere anche per te. Avrei dovuto parlartene, avremmo dovuto trovare una soluzione insieme. Se lo avessimo fatto forse ora le cose sarebbero diverse.
So di aver sbagliato, ed è per questo che continuo a chiamare da giorni, per chiederti di perdonarmi.
Ma tu non hai ascoltato nessuno dei miei messaggi, probabilmente hai deciso di andare avanti, di cancellarmi dalla tua vita, ne hai tutto il diritto d’altronde.  Io però dovevo chiamarti, dovevo in qualche modo dirti che mi dispiace, anche se per te sarà tardi, anche se non vuoi più sapere nulla di me e le mie scuse ti sembreranno ridicole.
Almeno potrò dire di averci provato.”
Presi un respiro profondo, provando a ricacciare indietro i singhiozzi che mi stavano dimezzando l’aria nei polmoni. Ma il pensiero che stessi per dirgli addio, di nuovo, che mi stessi rassegnando al fatto di averlo perso, mi fece crollare, e a quel punto trattenere le lacrime fu impossibile.
“Sai, forse dovrei andare avanti anche io, questa volta davvero, ed aspettare che il tempo guarisca tutte le ferite, anche se, ad essere sincero, negli ultimi anni non mi sembra di essere guarito granché.
Ricorda che ti ho sempre voluto bene.
E te ne vorrò per sempre.”
Feci per attaccare il telefono ma sentii che ci fosse un’ultima cosa che avrei dovuto dire, che Louis avrebbe dovuto sapere: tra di noi, finché avremmo avuto ancora forza e fiato per correrci incontro, non sarebbe mai stato un addio.
“Ah, se dovessi ascoltare questo messaggio, richiamami. Per favore.
Non è mai finita per me Louis. Non finirà mai.”
Chiusi la chiamata ed uscii da quella cabina che era diventata la mia prigione, il contenitore di tutti i miei rimpianti.
Mi allontanai, consapevole che Louis non avrebbe richiamato.
Ma andava bene lo stesso.
Forse non era ancora arrivato il nostro momento.
 
 
 
Louis
 
 
“Ernie, posa subito quelle forbici! E tu Doris, smettila di impiastricciarti la faccia con i colori!”
“Dio, Lou. Sembri una casalinga disperata. Rilassati.”
“Se invece di smaltarti le unghie mi aiutassi, forse non sembrerei una casalinga disperata, non credi?”
“Ho la febbre e lo smalto è ancora fresco, quindi…”
Lottie mi rivolse un sorriso impertinente mentre alzava le spalle con noncuranza.
Le feci il dito medio, poi presi una salviettina imbevuta dalla mensola accanto al frigo e cominciai a strofinare il viso di Doris che somigliava molto alla tavolozza di qualche pittore francese.
Sentii squillare il mio cellulare in lontananza e con gli occhi scandagliai la casa per capire da dove arrivasse il suono.
Il caos regnava sovrano. Sembrava fosse esplosa una cazzo di guerra mondiale lì dentro.
Cominciai a girovagare per il salotto fino a quando non trovai il mio telefono sotto una coltre di cuscini e coperte con cui avevo costruito il fortino per Ernie e Doris poco prima.
“Pronto?”
La mia voce risultò più disperata di quanto pensassi.
“Amore, tutto ok?”
“Mmh… Vediamo… Ho un’adolescente con la febbre a 38 in piena crisi amorosa sul divano, due piccoli diavoletti che hanno messo a soqquadro la casa, tra cui uno gioca con armi da distruzione di massa, tipo forbici, e l'altra ha ben pensato di colorare ogni superficie di questo soggiorno. E come se non bastasse devo portarli con me al campo fra…” controllai l'ora sul display e mi resi conto di essere in clamoroso ritardo - come al solito, “adesso. Cazzo, sono in ritardo!”
“Lou, dimmi che quando tornerò a casa sarà tutto come l'ho lasciato una settimana fa!”
“El, mi spiace ma non posso fare promesse. Ernieeee, Doriiiss mettete sciarpa, capello e giubbotto. E non voglio sentire storie, siamo già in ritardo!”
I miei fratellini mi guardarono con il broncio per un secondo, poi presero le loro cose e fecero come avevo chiesto. Mi dispiaceva essere dispotico e asfissiante, ma era l'unico modo per farmi ascoltare.
“Tu come stai? Tutto bene lì?”
“Non potrebbe andare meglio! Dio Lou, Tokyo è meravigliosa, dovremmo venirci in viaggio di nozze!”
“In mezzo a cinesi che mangiano pesce crudo e merda varia? No grazie!”
“Giapponesi, Lou. Sono Giapponesi.”
 “È lo stesso! Adesso scusami ma devo proprio andare, appena finisci il meeting mandami un messaggio, lo leggerò dopo gli allenamenti. Salutami i cinesi!”
Chiusi la chiamata senza aspettare risposta, come facevo sempre e con chiunque.
“Folletti, forza! Il fratellone vi porta a divertirvi!”
I miei fratellini mi guardarono con occhi adoranti, e con dei sorrisi meravigliosi sul volto sfrecciarono subito fuori casa.
“Lots, lo so che stai male, ma ti prego sistema un po’ questo casino.”
“Lo sai che dovrai pagarmi?”
“Fanculo, nemmeno per sogno!”
Sentii la sua risata cristallina da dietro la porta mentre con passo svelto raggiungevo i gemelli.
 
 
 
“Lou, in braccio, in braccio!”
Stavamo tornando dal campetto dopo due ore estenuanti di allenamento.
I gemelli avevano giocato tutto il pomeriggio e adesso ciondolavano per le strade con gli occhi socchiusi.
Alla mia destra Ernie mi tirava il cappotto reclamando la mia attenzione, a sinistra Doris si ciucciava il pollice silenziosamente.
“Ernie, gli ometti di due anni come te non si fanno prendere in braccio.”
Mi guardò con smarrimento per un attimo, poi riprese a piagnucolare.
“Ma io sono ‘tanco!”
“E va bene, va bene! Ma solo per questa volta, siamo intesi?”
Scosse la testa con vigore e poi mi saltò addosso, accoccolandosi sulla mia spalla.
Arrivammo a casa nel giro di pochi minuti, aprii la porta e trovai tutte le mie sorelle sedute attorno al tavolo intente a parlare.
“Che ci fate tutte qui?! Sia chiaro, sono stanco morto e non ho intenzione di ospitare uno sleepover in casa mia!”
La mia ilarità si spense nell'istante esatto in cui vidi le loro facce.
“Che sta succedendo?” chiesi allarmato.
Phoebe e Daisy piangevano abbracciate, Fizzy aveva l'aria rassegnata, Lottie era su tutte le furie.
“Si può sapere dove cazzo tieni il telefono?”
“Lots, niente parolacce davanti ai bambini.”
“Fanculo!”
Mi diede una spallata e si diresse al piano di sopra senza aggiungere altro.
Le gemelle mi vennero incontro e mi abbracciarono forte, svegliando Ernest che si era addormentato in braccio a me. Fizzy lo prese e lo portò in salotto insieme a Doris, lasciandomi in cucina con le altre.
“Lou, l-la mam-ma…”
Phoebe non riusciva a smettere di piangere, i singhiozzi sempre più frequenti che scuotevano le sue piccole spalle, Daisy con gli occhi sgranati pieni di lacrime mi implorava con lo sguardo di aiutarle.
“Shh, tranquille. Ci sono io adesso, ok?”
Presi ad accarezzare le loro trecce aspettando che si calmassero, mentre io cominciavo ad agitarmi. Cercai di cacciare via la frustrazione che sentivo strisciarmi addosso mentre cominciavo ad immaginare gli scenari più tragici.
Sospirai forte, poi mi inginocchiai e me le strinsi addosso.
“Adesso mi dite cosa è successo?”
Le gemelle si strofinarono gli occhi contemporaneamente, poi si guardarono e Daisy fece un cenno a Phoebe di parlare.
Due parole sussurrate che spiegavano tutto.
“Codice rosa.”
O quasi.
Codice rosa.
“Cazzo…”
“Che fine ha fatto la regola del niente parolacce davanti ai bambini?”
“Non eri andata di sopra tu?”
Mi girai appena per guardarla, ma quando i suoi incrociarono i miei scoppiò a piangere, lasciando andare le lacrime che ero sicuro avesse trattenuto per tutto quel tempo.
“Me ne occupo io, voi nel frattempo aspettatemi qui. State tranquille, qualsiasi cosa sia, si risolverà.”
Abbracciai Phoebe e Daisy, andai incontro a Lottie, strizzandole appena le spalle per rassicurarla, e uscii da quella stanza. Ad aspettarmi davanti alla porta c’era Fizzy, sguardo basso e denti che mangiucchiavano unghie.
“Lou, lei…”
“Quanto grave?”
“È chiusa a casa da più di un’ora, non apre nemmeno alle gemelle.”
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
“D’accordo” annuii. “Torno presto, promesso.”
Le diedi un bacio sulla fronte e poi mi riversai sulla strada, correndo come un folle verso casa di mia madre.
Cercai di non pensare a quello che avrei potuto trovare una volta arrivato da lei, a quello che sarei riuscito a fare per farla stare meglio, a come avrei potuto rendere serene le mie sorelle.
Più correvo più sentivo le gambe pesanti, rese di piombo dalla paura di non farcela.
Il senso di colpa cominciava ad avvelenarmi le viscere. Se avessi sentito le chiamate di Lottie e fossi intervenuto subito, adesso le mie sorelle non starebbero piangendo in preda al panico nel salotto di casa mia.
Ancora una volta, era tutta colpa mia.
Il tragitto verso casa di Johanna non mi era mai sembrato così lungo.
Quando arrivai salii di corsa i tre gradini del porticato e cominciai a bussare con violenza alla porta.
“Mamma, sono io, Lou. Apri la porta!”
Silenzio.
Altri due colpi.
“Per favore!”
Ancora silenzio.
Mi spostai verso la finestra, misi le mani a coppa sul vetro per guardare dentro ma l'unica cosa che riuscii a scorgere fu la luce fioca della cucina che illuminava timidamente il divano del soggiorno, su di esso mia madre.
Era distesa con un braccio penzoloni, il viso sereno, il respiro lento. Sembrava stesse dormendo serenamente.
Ripresi a battere le nocche sul vetro freddo nella speranza di attirare la sua attenzione, ma niente sembrava ridestarla.
A quel punto ebbi la certezza che mia madre avesse perso i sensi.
Riuscii a percepire chiaramente il momento in cui il panico cominciò a farsi strada dentro di me, ma la sua espansione venne interrotta da una voce.
“Louis?” mi sentii chiamare.
Harry.
“Che succede?”
Dovetti trattenermi dall'urlare. Ero sempre circondato da drammi, ma gestirne due di questa portata contemporaneamente era impossibile anche per me.
Non ero pronto ad affrontarlo, specialmente dopo quello che mia aveva detto la sera precedente, lasciandomi senza parole.
Con quella confessione aveva rimescolato le carte della mia vita e io non avevo ancora la lucidità per metterle in ordine da solo.
Mi passai una mano sulla fronte scoprendo che nonostante la temperatura glaciale di marzo, si era imperlata di sudore.
Sentivo il cuore rimbombare nelle orecchie.
Le mani avevano cominciato a tremare impercettibilmente.
I contorni di tutto ciò che osservavo diventavano via via più sfocati.
Stavo per avere uno dei miei sporadici attacchi di panico.
Vidi Harry guardarmi con aria interrogativa ma cercai di ignorare il suo sguardo, consapevole che mi avrebbe smosso dentro un terremoto di emozioni che al momento avrebbero solo peggiorato la situazione.
Perciò presi un profondo respiro e cercai di riacquisire il controllo della situazione, non potevo permettermi di essere debole, la mia famiglia contava su di me.
“Non è un buon momento Harry, per favore.”
Fu quasi una supplica, se di lasciarmi in pace e rimandare ad un’altra volta la conversazione o di aiutarmi, però, non lo capii neanch'io.
Cominciai a girare la maniglia, in un tentativo di forzare la serratura, e con l’altra mano provai a spingere la porta.
Dopo qualche tentativo però niente sembrava essersi mosso di un millimetro.
E nonostante quella ad essere chiusa dentro casa fosse mia madre, in quel preciso istante, senza avere idea di cosa fare, mi sentii in trappola, senza alcuna via di uscita.
Per questo in un moto di sconforto poggiai la fronte sulla porta, già sfinito, strizzando gli occhi per impedire alle lacrime di uscire.
La mia mano, ancora posata arrendevole sulla maniglia, venne subito stretta timidamente da un’altra, calda, rassicurante, accogliente.
“Louis ti prego…”
Spalancai di scatto gli occhi.
Spostai lentamente lo sguardo dalle nostre mani verso il suo viso, trovandolo contratto in un’espressione che esprimeva quasi frustrazione, indecisione.
Percepivo il suo respiro sulla mia fronte, e solo allora mi accorsi di quanto mi fosse vicino.
Il suo petto attaccato alla mia schiena, i battiti del suo cuore a riverberare tra le indentature della mia spina dorsale.
Ogni suo battito era un mio respiro che mancava, una mia parola che non trovava voce.
Chiusi gli occhi e per una frazione di secondo scomparve mia madre priva di coscienza sul divano, scomparvero le lacrime delle mie sorelle, scomparvi persino io.
Forse mi ero rifugiato in un luogo dove ero libero di farmi accarezzare di nuovo l’anima da lui senza che il mio orgoglio mi obbligasse a fuggire.
Riaprire gli occhi fu come svegliarsi bruscamente da un sogno.
Nella mia vita, nel mondo reale, non esisteva un posto dove smettevo di essere Louis-l'eroe e cominciavo ad essere il Louis di Harry, quello felice e spensierato.
Per motivi a me incomprensibili, non mi era concesso.
“Lascia che ti aiuti.”
Aveva gli occhi spalancati, lucidi, e colmi di una sincerità che mi disarmò.
Mi stava quasi implorando.
“Dovresti smettere di dirlo, o finirò col crederci.”
“Devi crederci, perché è la verità.”
E senza nemmeno accorgermene, mentre lo guardavo dritto negli occhi, gli strinsi anch'io la mano e annuii piano.
Finalmente, forse, gli stavo concedendo la fiducia che tanto desiderava gli dessi.
Il sorriso che ricevetti in cambio fu più luminoso di qualsiasi stella cadente avessimo mai visto insieme, e quello solo mi convinse ad affidarmi a lui.
Non sapevo per quanto sarebbe durata, ma in quel momento sentii che dovevo lasciarmi scivolare quella corazza che avevo indossato per ripararmi da lui e lasciare che mi aiutasse.
“Mia madre… Lei è chiusa dentro e io devo entrare in qualche modo.”
Sembrava sul punto di chiedermi perché, ma non gliene diedi il tempo.
“Storia lunga.”
La troncai così. Non volevo che provasse pietà per me.
“Credo dovremmo provare con la porta sul retro, sarà più facile forzarla.”
Lo seguii nel giardino sul retro e prima che potessi avvicinarmi alla porta lui mi disse di farmi indietro; l’attimo dopo lo vidi sfondare la porta con una sola spallata.
Il suo sguardo imbarazzato, quasi a scusarsi per aver combinato un disastro, e il mio sorriso aperto, perché in quell'istante gli ero immensamente grato, entrarono in collisione, generando scintille di fuoco nell'aria.
Scostò la porta per farmi entrare, rimanendo da parte sulla soglia.
Un ultimo sguardo, poi mi fiondai dentro casa.
 
 
 
Harry
 
 
Non appena aprii la porta corse subito verso Johanna, inerme sul divano, e si chinò su di lei per controllare se respirasse ancora.
La scosse ripetutamente, alternando una litania di “svegliati” e “per favore”, in preda alla disperazione.
Io stavo nel fondo della stanza, spettatore ignaro di uno spettacolo confuso, senza sapere esattamente cosa fare, come agire.
Sapevo solo di dover aiutare Louis in qualche modo, qualsiasi modo, e cominciai chiamando un'ambulanza, camminando nervosamente per la stanza in attesa che qualcuno rispondesse.
Mi fermai sul posto, però, quando sentii Louis imprecare in un sussurro poco più che percettibile.
Un lieve tremito a scuoterlo, lo sguardo perso, bagnato da un accenno di lacrime, stava fissando un flaconcino di plastica vuoto, stretto tra le sue dita.
Finalmente sentii una voce dall'altro capo del telefono e quando parlai, riferendo le poche informazioni che sapevo - nome, cognome e residenza del paziente da soccorrere – Louis sembrò accorgersi che io fossi ancora lì con lui. Cercai di ignorare il suo sguardo colmo di stupore, rassegnazione e smarrimento, e gli rivolsi un'occhiata di cui lui capì subito i sottintesi.
Infatti: “ha ingerito sette antidepressivi, forse otto. Probabilmente tutti insieme.”
L'aria sembrò asciugarsi improvvisamente nella stanza.
O forse furono solo i nostri polmoni a prosciugarsi di tutto l'ossigeno dopo quell'affermazione.
Ancora una volta i miei occhi dovettero far trasparire le domande a cui non avevo il coraggio di dare voce, perché con un fugace sguardo Louis mi fece capire che quello non fosse il momento per spiegare tutto ciò che aveva portato a quello a cui stavo assistendo, qualsiasi cosa fosse.
Annuii, forse a lui, forse a me stesso.
Perché dopotutto, e nonostante tutto, eravamo ancora in grado di comunicare con gli occhi, di costruire intere conversazioni usando solo un battito di ciglia e uno sguardo, senza alcun bisogno di parole. Tra di noi quelle non erano mai servite a molto.
E forse era per questo che ci eravamo persi: avevamo creduto di poter riempire certi vuoti con le parole, e invece li avevamo solo ingigantiti rendendoli incolmabili.
Se solo ci fossimo ascoltati a vicenda i silenzi non saremmo arrivati al punto in cui ci trovavamo in quel momento.
La donna dall'altro lato del telefono mi avvisò che in meno di mezz'ora sarebbe arrivata l'ambulanza.
“Saranno qui fra mezz'ora” riferii a Louis in un soffio, staccando la chiamata.
Lui non mi rivolse nemmeno uno sguardo, fissava dritto un punto imprecisato del divano senza battere ciglio, come se non mi avesse sentito.
Mi sentivo un idiota, inutile, incapace di aiutarlo.
Ma soprattutto, mai nella mia vita trascorsa con lui, mi ero sentito così fuori luogo e a disagio.
Perché avrei voluto abbracciarlo, consolarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene.
Ma se pensavo a tutte le volte in cui mi aveva respinto e guardato con disprezzo mi bloccavo, rimanevo fermo in quell'angolo di cucina, con la paura che non volesse avere nulla a che fare con me.
Lo vedevo lì accucciato accanto a sua madre e io volevo solo gridargli di chiedermi aiuto, di lasciarmi essere la sua ancora. Stava cercando di tenere tutti i pezzi uniti, ma io mi accorgevo di come in realtà si stesse lacerando dal modo in cui si torturava il pollice sfregandovi sopra l'indice, da come la mano chiusa a pugno fosse talmente contratta che la nocca del dito medio sporgeva di più rispetto alle altre. Ma soprattutto, lo notavo da come cercava in qualsiasi modo di escludermi da tutto quello, da come evitava di posare lo sguardo su di me a meno che non fosse strettamente necessario.
E vedevo il dolore squarciarlo, come un enorme lama affilata che lo dilaniava perfettamente in due, vedevo le notti prive di sonno attraverso le sue palpebre scure, quasi nere, sentivo il suo cuore tremare ogni volta che mi parlava, ma non conoscevo la storia che si celava dietro a tutto questo.
E davvero, avrei voluto potergli dire di essere il suo rimedio, di volerlo essere, ma poi ricordavo le parole che pochi giorni prima mi aveva detto a casa mia e capivo che per lui sarei sempre stato colui che lo aveva distrutto, non colui che lo avrebbe curato. Non mi sentivo degno di essere il suo rimedio.
E come si fa pace con se stessi dopo una consapevolezza del genere? Come avrei fatto a fargli capire che mai, in nessuno universo, sarebbe esistito un Harry Styles che ferisce intenzionalmente il suo Louis Tomlinson? Come avrei potuto farlo ritornare tra le mie braccia facendo sparire l'odio dai suoi occhi e l'insicurezza dai suoi gesti?
Poi ebbi quasi una illuminazione.
Avrebbe potuto funzionare oppure rivelarsi un disastro, ma valeva la pena tentare.
"Louis, potremmo provare una cosa. L'ho già fatto una volta a Los Angeles, forse potrebbe funzionare.”
La frase mi uscì con più insicurezza di quanto volessi.
“Cos'è? Ti sei specializzato in medicina lì in America?”
Di nuovo il disprezzo. Di nuovo l'odio.
Maschere e volti a confondersi ancora.
“Non fare così, per favore. Sto solo cercando di risolvere la situazione, di darti una mano.”
Mi attaccava con l’aggressività per nascondere la paura, lo sapevo, ma non potevo evitare di rimanerci male, di percepire l'intenzione che avesse di ferirmi.
Per questo il mio tono di voce risultò spento e scoraggiato.
Da quando ero arrivato a Doncaster qualsiasi cosa facessi o dicessi, con lui, mi sentivo sempre sbagliato.
Eppure, con una sola frase, mi fece ricredere, rimise tutto in discussione.
Inaspettatamente, si aprì con me, e mi confidò qualcosa che dentro di me, osservandolo per tutto quel mese, avevo già intuito.
“Lo so, mi dispiace per averlo detto” ammise, sconfitto. “È solo che ho paura e non so che fare. Ma non posso fallire Harry, le mie sorelle contano su di me, capisci?”
Certo che lo capivo, ecco perché non lo avrei lasciato da solo e lo avrei tirato fuori da quel casino, a costo di rimanerci impantanato io stesso.
“E allora dammi la possibilità di farti fidare di me, almeno questa volta” lo supplicai.
“Mi fido.”
Lo disse così, tutto d'un fiato, senza esitazione, penetrandomi con lo sguardo.
Inaspettato.
Quel giorno capii che per me Louis era e sarebbe sempre stato inaspettato.
Come inaspettate erano la fiducia e la speranza che gli vidi negli occhi.
“Aiutami a portarla in bagno allora.”
Quando riuscimmo a condurla in bagno avevo le gambe che tremavano e lo stomaco attorcigliato dall'ansia.
“E adesso?” mi chiese.
Preferii non rispondergli, piuttosto misi due dita sotto il getto dell'acqua, sollevai il viso di Jay e le indussi il vomito. Contai fino a tre prima che Louis mi urlasse contro.
“Ma che cazzo fai? Sei impazzito?”
Prevedibile.
“Te l'ho già detto. Mi è capitata una cosa simile una volta a Los Angeles, ed ha funzionato.”
Mi guardò con l'orrore negli occhi.
“Hai tentato anche tu il suicidio?”
Lo disse senza fiato, come se anche solo immaginare una cosa del genere lo distruggesse.
Sentii crescere un brivido sotto quello sguardo, si insinuò alla base della schiena e si disperse in tutto il corpo.
Mi concentrai su Johanna, spostandole i capelli dal volto mentre continuava a rimettere, senza però dare cenni di ripresa.
“Non io, un ragazzo che conosco.”
Tagliai corto, non avevo voglia di riportare alla luce quell'episodio, soprattutto non con Louis.
Poggiai una mano sulla guancia di Jay, avvertendo con sollievo che fosse ancora calda.
Subito dopo, due colpi di tosse sferzarono l'aria sospesa tra di noi.
Johanna aveva riacquistato coscienza.
Sarebbe stata bene.
Louis sarebbe stato bene.
Ce l'avevo fatta.
Sospirai, sollevato, e solo in quel momento mi resi conto di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo.
Louis mi guardò con una gratitudine negli occhi che fece nascere delle lacrime nei miei.
Quello sguardo era tutto ciò avevo aspettato per quattro anni, da quando l’ultima volta lo avevo visto incupirsi dalla delusione tramite lo schermo del mio PC.
“Vi lascio soli” sussurrai, poi mi allontanai, lasciando a madre e figlio il loro spazio.
Jay piangeva sulla spalla di Louis mentre lui le accarezzava i capelli e stringeva le labbra tra i denti per trattenere un pianto che, ero sicuro, non avrebbe lasciato andare fino a quando non sarebbe rimasto da solo.
L'intimità di quella scena, e il dolore che trasmetteva, mi costrinsero ad uscire, ma prima che chiudessi la porta sentii Louis rompere i singhiozzi di sua madre.
"Perché lo hai fatto? Noi non siamo abbastanza per tenerti in vita? Non siamo abbastanza per te, mamma?"
Non c'era rabbia nella sua voce, solo l'arrendevolezza di chi è esausto.
“Certo Boo, certo. Siete tutto per me” rispose flebile Johanna.
“E allora perché lo hai fatto?” chiese di nuovo Louis, le lacrime che tratteneva a rendere più acuta la sua voce.
“Perché ultimamente l’unica cosa che faccio è deluderti, e non voglio più essere un peso per te.”
Attraversai di fretta il corridoio dopo quella frase, era troppo anche per me.
Mi concessi di piangere un po', lontano dagli occhi di Louis e da tutto quello che si portavano dentro.
Mi concessi di essere debole per un minuto, prima che sentissi le serene dell'ambulanza farsi sempre più vicine.
Cos'era successo al mio Louis?
 
 
 
 
Quando arrivò l'ambulanza fu tutto caotico e veloce.
I medici, le domande, Johanna sfinita sulla barella, Louis improvvisamente rigido e silenzioso.
E poi ancora Fizzy, Lottie e le gemelle che arrivarono, impaurite, incredule, e due piccoli bambini che non avevo mai visto ma che non ebbi fatica a capire che fossero un'ulteriore aggiunta alla famiglia Tomlinson.
E di nuovo, in Louis rividi lo stesso atteggiamento che mi aveva colpito quando avevo lo avevo seguito all'asilo: lui non era solo un fratello, era un padre, un amico, il pilastro di quella famiglia.
Lo si vedeva da come le sue sorelle gli gravitavano attorno, dal modo in cui i più piccoli gli salirono in braccio non appena lo videro. E Louis era estremamente forte e coraggioso, perché stava rassicurando tutti, ma lo conoscevo e sapevo che in realtà, l'unico ad aver davvero bisogno di sentirsi dire che tutto sarebbe andato bene, era proprio lui.
E se avessi potuto, gli avrei donato i miei occhi per osservare da fuori quella scena, per far sì che si rendesse conto di quanto tutto di lui fosse ammirevole, di quanto brillasse quando attorno aveva le persone che più amava al mondo, e di quanta forza era in grado di tirare fuori solo per loro, solo grazie a loro.
"Papo, dov'è mamma?"
"Doris, amore, quante volte ti ho detto di non chiamarmi papà?"
"Dov'è mamma?"
"Torna subito, promesso. Ora però andiamo a dormire, mh?"
La piccola Doris annuì piano prima di sporgersi per dare un piccolo e dolce bacio sulle labbra di Louis.
Il cuore mi si riempì di tenerezza e di così tante emozioni che non riuscii a trattenere un singhiozzo che attirò l'attenzione su di me, rimasto in fondo alla stanza.
"Harry?!"
Non feci in tempo a distinguere di chi, delle le quattro sorelle Tomlinson, fosse la voce, che subito me le ritrovai tutte addosso in un groviglio di braccia che stringevano e mani che mi toccavano quasi come se non fossi reale.
"Dio, Harry ci sei mancato così tanto!"
"Anche voi Lots. Non sai quanto."
Inutile dire che, dopo questo, tutti i miei sforzi di trattenere le lacrime furono vani.
Fu un momento quasi catartico, tra le braccia di quelle che io avevo sempre considerato le mie sorelline, sentii le mie colpe scivolare giù dal corpo e alleggerirmi l'anima.
E andava bene così, non importava se Louis avesse continuato ad odiarmi.
Si era lasciato andare, anche se per poco, e si era fidato di me.
Quello sarebbe stato abbastanza.
Me lo sarei fatto bastare.
Eppure, non appena sollevai lo sguardo, ritrovai gli occhi di Louis fissi su di me.
Sul viso quel bagliore che gli riverberava attorno e si posava sulla curva del suo sorriso.
In quel momento giuro che tutto si arrestò e allo stesso tempo cominciò a scorrere più velocemente. Fu lì, in quel preciso istante, che capii che Louis sarebbe ritornato da me.
Che saremmo ritornati nostri, non sapevo ancora come e precisamente quando.
Ma ero che lo avremmo fatto in un modo tutto nostro, come sempre.
 
 
 
“Sarà meglio che vada adesso. Avete bisogno di restare in famiglia.”
Eravamo nel piccolo giardino di casa Tomlinson, l'uno di fronte all'altro.
Imbarazzo e indecisione ad aleggiare tra di noi, nelle mani dentro le tasche e nei piedi che scacciavano ciottoli.
“Lo so che quello che hai visto stasera può sembrarti assurdo -ed effettivamente lo è- ma adesso la mia vita è questa, e so anche che probabilmente meriteresti delle spiegazioni riguardo a tutto quello che è appena successo, ma è troppo complicato e…”
“Non mi devi nessuna spiegazione” lo interruppi, “credo di aver perso il diritto di sapere certe cose molto tempo fa” ammisi, con più dolore e amarezza di quanto immaginassi.
“Harry, io…”
“Lou?”
La testa biondo platino di Lottie sbucò dalla porta d'ingresso timidamente, con in braccio la piccola Doris che piangeva.
Vidi Louis sospirare piano prima ancora che sua sorella parlasse.
“Mi dispiace interrompervi, ma i gemelli hanno fame, dovresti tornare dentro a darmi una mano, sono totalmente fuori controllo.”
Louis annuì piano, un velo di tristezza a posarsi sulle sue palpebre.
“Arrivo” l'avvisò, e lei con uno sguardo di scuse si ritirò.
“Devo andare, il dovere mi chiama.” Puntò verso casa con il pollice, per metà coperto dalla manica della sua felpa, e non poté evitare di farsi sfuggire un altro sospiro angosciato.
Avrei voluto chiedergli talmente tante cose quella sera, ma semplicemente non era il momento adatto. Perciò mi limitai ad annuire, comprensivo.
“Buona notte Louis.”
Stavo già per voltare strada quando “Harry?”
“Sì?”
“Grazie.”
“A presto Lou.”
Il sorriso che mi rivolse prima di rientrare a casa fu talmente luminoso che la luna piena di quella notte impallidì di fronte a tutta la sua lucentezza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note personali:
Buona sera ragazze!
Dopo settimane di studio intenso, finalmente sono riuscita a pubblicare.
Questo capitolo rappresenta la svolta nel rapporto tra Harry e Louis, e spero siate curiose di scoprire cosa succederà tra loro nel prossimo.
La tregua è molto vicina.
Ci sono molti aspetti di questo capitolo che ho adorato scrivere, come quelli che riguardano il rapporto di Louis con le sue sorelle, e la confessione di Harry (a proposito: ve l'aspettavate?)
Mi auguro che queste pagine vi siano piaciute, e che in tal caso vogliate farmi sapere cosa vi ha più colpiti o emozionati, se le cose che più ho preferito scrivere sono le stesse che avete apprezzato voi, oppure se qualcosa non vi ha particolarmente convinte.
Spero di leggere i vostri commenti, davvero.
Vi abbraccio.
A presto,
Letizia.
Ps: la canzone cantata da Harry è One di Ed Sheeran. Se non la conoscete, ascoltatela (magari anche rileggendo quel pezzo della storia) perché è veramente meravigliosa e perfetta per questi Larry.
   
 
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