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Autore: hotaru    24/06/2009    7 recensioni
"Non aveva mai creduto alle sirene, o perlomeno alla loro leggendaria bellezza. Una pelle umana non poteva resistere a una vita nelle acque. Il mare l'avrebbe resa mostruosa."
Terza classificata alla 4° edizione del contest "Alternative Universe" indetto da DarkRose86 e vincitrice del premio per la trattazione dell'immagine e per lo stile
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ino Yamanaka, Kiba Inuzuka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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September Sunset

September Sunset

Immaginate la storia ambientata qui.

 

September Sunset


Quando il pick-up giallo si fermò sulla spiaggia, il primo a saltarne fuori fu il cane, un molosso color panna che si sarebbe pensato riempire l'intera cabina del guidatore.
Il suo padrone, ben conoscendo la sua smania di correre fuori, gli aveva aperto lo sportello, ma da parte sua se n'era rimasto lì. La mano sinistra sul volante, la destra ancora sulla leva del cambio.
Il cane, dopo una veloce perlustrazione dei dintorni della capannina, l'aveva raggiunto, abbaiando insistente finché il padrone non si era finalmente deciso a scendere.
Gli aveva affettuosamente messo una mano sulla testa e l'animale, soddisfatto, l'aveva lasciato subito per fiondarsi sul bagnasciuga. Malgrado tutto, era riuscito a strappargli un sorriso: fin da cucciolo era sempre andato pazzo per quel gioco; correva dietro alle onde e cercava di acchiapparle senza successo, e anche adesso che era un fiero cane da salvataggio le cose non erano cambiate.
Sua sorella gli aveva sempre detto che gli uomini migliori sono quelli che conservano ancora il proprio lato fanciullesco dentro di sé- ovviamente facendo in modo che non prenda il sopravvento- e lui si era convinto che tale affermazione valesse anche per i cani: i migliori erano quelli che, al momento giusto, riuscivano a tornare cuccioli.
Akamaru alzò il muso, coperto di sabbia bagnata simile a fango molle: lui aveva sempre avuto un grande talento in questo.
Il suo padrone lo vide infilare di nuovo il naso in quello strato umido e molle, e quando il cane saltò su con un guaito atroce, Kiba si rese conto che non aveva ancora imparato. Era in grado di salvare degli esseri umani, adesso, e aveva la resistenza di un orso quando si trattava di riportare a riva un marcantonio di novanta chili... tuttavia non aveva ancora imparato che sotto la sabbia si nascondono i granchi, e che tali crostacei decisamente non gradiscono la visita di un gigante peloso pieno di curiosità. E dire che ne aveva presi, di “pizzicotti” sul naso...
Kiba represse una risata, ma quello stato d'animo allegro durò poco. A un tratto l'insensatezza di ciò che stava facendo lo colpì come una pietra scagliata da lontano. Perché era tornato lì? Che diavolo credeva di poter risolvere?
Fino all'anno prima, gli era sempre piaciuto venire al mare nella seconda metà di settembre. L'estate era finita, la sua ennesima stagione da bagnino anche, e non si incontrava mai nessuno. Quegli idioti di turisti non l'avevano mai capito, che al mare non ci si va solo per nuotare e prendere il sole. Quello che bisogna fare è mettercisi di fronte e guardarlo, guardarlo, guardarlo finché non ci si sente piccoli e sperduti di fronte a quell'immensa distesa d'acqua, nella quale vivono i più grandi animali di questa terra.
Forse era stata sua sorella ad inculcargli in testa quella specie di “religione”. Faceva la biologa marina, adesso, ma già quando erano piccoli lo portava lì e gli diceva di chiudere gli occhi. “Pensa all'acqua” gli diceva “Ce n'è parecchia, vero? Pensa che sia ancora di più, ancora e ancora, allargane i confini che immagini nella tua testa. Il mare non ha confini, siamo noi poveri idioti che abbiamo bisogno di queste sciocchezze.”
Lui lo faceva, continuava ad aggiungere tonnellate d'acqua a quelle che già c'erano nella sua mente, finché non si sentiva travolgere dalle onde che lui stesso stava immaginando. A volte gli si mozzava addirittura il respiro. Quando succedeva, sua sorella annuiva: “Bene, hai capito”.
Hana aveva delle teorie tutte sue, ma gli aveva trasmesso la sua stessa concezione del fascino. La brezza della sera iniziava a farsi fredda, e le maniche corte non erano più così adatte quando tramontava il sole.
C'era un sole quasi bianco, circondato da aloni arancioni che coloravano le nuvole e il mare di un lilla violaceo. Una volta, alle elementari, l'aveva detto alla sua maestra, ma lei l'aveva liquidato con un: “Ma che sciocchezza, Inuzuka. Il mare non è color lilla”. Anche lei faceva parte degli idioti, allora.
La luce era dritta davanti a lui, ma il buio si stava facendo strada alle sue spalle. Akamaru si era fermato, in un punto che conoscevano bene entrambi. Era passato un anno; chissà quanta gente aveva calpestato quel punto, ci aveva lasciato il proprio odore, forse ci aveva addirittura pisciato sopra. Però Akamaru lo sapeva, che era proprio lì, e Kiba se lo ricordava forse meglio di lui.

 
La luce radente del sole che si abbassava verso l'orizzonte rendeva i dettagli ancor più grotteschi di quanto in realtà fossero. I capelli simili ad alghe chiare, tanto erano impregnati d'acqua, la pelle flaccida e quasi bluastra. Gli occhi per fortuna erano chiusi. Ecco che cosa poteva diventare, una bella bambina dai capelli biondi e la pelle chiara, quando veniva catturata dall'abbraccio mortale del  mare.
Non aveva mai creduto alle sirene, o perlomeno alla loro leggendaria bellezza. Una pelle umana non poteva resistere a una vita nelle acque. Il mare l'avrebbe resa mostruosa.
Ne aveva visti di annegati, prima d'allora. Tanti, forse troppi. Ma si era sempre trattato di gente che aveva cercato di salvare fino all'ultimo, tentando il massaggio cardiaco finché gli dolevano le braccia, provando con la respirazione bocca a bocca ancora, ancora e ancora.  
Non aveva mai sperimentato l'impotenza totale, fino ad allora. Non solo il non poter fare niente, ma anche la completa incapacità di riuscire a muoversi.
Malgrado l'anno prima settembre fosse stato molto caldo, aveva sentito un gelo repentino penetrargli nelle ossa. Nemmeno Akamaru aveva fatto niente per tirarla più su, all'asciutto. Aveva sentito l'odore della morte e aspettava un ordine del suo padrone.
Kiba si era avvicinato, ma non l'aveva nemmeno toccata. Inutile sentire il battito o cercare il respiro. 
Era rimasto lì per un tempo indefinito, in sottofondo soltanto il rumore della risacca continua ed instancabile.
Poi aveva chiamato la polizia.

 
Aveva dovuto rimanere per un po', anche se in effetti non poteva essere di nessun aiuto. Lui l'aveva semplicemente trovata, tutto qui. Non c'erano altre tracce.
In breve risultò che la bambina era scomparsa da alcuni giorni, e la mobilitazione in corso gli aveva fatto capire che non si trattava di una bimbetta qualunque. Gli fu presto chiaro che era la figlia di un noto magnate del commercio di piante; all'inizio si era pensato ad un rapimento, ma la mancanza di contatti da parte dei presunti criminali aveva decisamente sconcertato la polizia.
Non che ora le cose fossero più limpide. Che ci faceva lì? Da dov'era arrivata? Riconsegnata dal mare, depositata sulla spiaggia dai flutti? Ma in qualche punto doveva pur esservi entrata. E da sola?
In realtà rimasero tutte domande senza risposta. Un mistero assoluto, come se la bambina avesse fatto tutto senza l'aiuto di nessuno. Come se avesse cercato di tornare al mare, e questo l'avesse respinta.
Kiba aveva visto anche il padre di lei, mentre era lì a tener compagnia ai poliziotti, con Akamaru diligentemente seduto al proprio fianco.
Non appena lo vide, seppe che la bambina doveva aver avuto gli occhi azzurri. Quando la polizia gli disse che lui era il giovane che l'aveva trovata, l'uomo gli lanciò una breve occhiata neutra.
Probabilmente non lo vide nemmeno, e perché avrebbe dovuto? Non era implicato in quella faccenda, non aveva alcuna colpa. Certo, le autorità gli avevano fatto qualche domanda, ma aveva degli alibi inattaccabili per i giorni precedenti.
Si era ritrovato a passare di lì per caso, e non fosse stato per Akamaru forse non l'avrebbe nemmeno vista. Non aveva giocato alcun ruolo, in tutta quella faccenda.

 
Tuttavia la sua coscienza non sembrò pensarla affatto così.
Continuava a fargliela rivedere tutte le notti, stesa sulla sabbia o immersa nelle acque, leggera e incorporea come una medusa. E sempre con gli occhi aperti.
A volte sognava quella pelle bianca, quasi viscida, tanto nitidamente da poterne quasi sentire l'odore. Allora correva in bagno a vomitare, e quando ne usciva spesso sentiva Akamaru guaire nel sonno. La sognava anche lui? 

 
Tali incubi continuarono a perseguitarlo, tanto che alla fine gli fu impossibile fare finta di niente. Era andato da sua sorella, poi da una sua vecchia amica capace di ascoltare le persone come pochi, e a tratti aveva raccontato come stavano le cose. O come pensava che stessero, perché non ci capiva niente nemmeno lui.
Dato che l'indifferenza non aveva giovato a nulla, fece qualche ricerca sulla bambina. Il cognome era risaputo, ma in confronto il nome era così breve, semplice e morbido da far pensare ad una morbida coperta, o una tenda leggera di quelle che si usano nelle camere dei bambini. Come se fin da principio non fosse destinata a crescere.
Aveva anche trovato la sua data di nascita, ed era rimasto senza fiato per quasi due minuti, mentre un brivido ghiacciato gli serpeggiava lungo la schiena. L'aveva trovata il ventitrè settembre. Il giorno in cui avrebbe compiuto nove anni.

 
Akamaru si era lentamente allontanato da quel punto, tornando a trotterellare per la spiaggia.
Un anno. Un anno esatto.  
Per fortuna gli incubi erano spariti. Sua sorella l'aveva praticamente costretto ad andare da uno psicologo- ce lo aveva accompagnato lei, ogni mercoledì-, e al dottore ben presto si era chiarita ogni cosa. Non era affatto assurdo che uno come lui, abituato ad avere quotidianamente a che fare con annegamenti o salvataggi, avesse avuto una simile reazione. Qualcuno la chiamava “goccia che fa traboccare il vaso” o semplicemente “corto circuito”: fatto sta che il suo sistema nervoso non aveva retto a quell'ulteriore colpo, e aveva reagito di conseguenza.
In effetti era dimagrito molto e si era ritrovato con qualche capello bianco, ma ad un anno di distanza sentiva di averla superata. Specialmente se era riuscito a tornare lì.
Con un fischio richiamò Akamaru, che arrivò senza farsi pregare.
Tornando verso il pick-up alzò lo sguardo verso la bandiera della capannina: penzolava su se stessa, immobile. L'aria era immota, la brezza serale si era quietata per un po'. Tuttavia quel lembo di stoffa appeso non aveva nulla di mesto o malinconico: pareva quasi riposare, in quel momento di pace. Sembrava sereno, se una bandiera può esserlo.
Kiba si guardò di nuovo intorno, e fu come se un velo gli fosse caduto dagli occhi- un velo umido, pesante, intriso dell'odore del sale e delle alghe.
Era tutto tornato com'era, come doveva essere: un dolce e romantico tramonto settembrino nell'aria non troppo fredda, perfetto per due innamorati- se ci fossero stati.
Nient'altro. Un luogo sereno, di nuovo.
Emise un lungo sospiro liberatorio, sentendosi più leggero di qualche anno. Gli era venuta fame.
-         Allora, vecchio mio, andiamo a farci una bistecca? Ma non dirlo a Hana, se viene a sapere che ti do la carne della macelleria mi tira dietro un secchio di plancton.
Il cane alzò le orecchie con fare complice, e quando Kiba gli aprì lo sportello della vettura saltò dentro senza indugio.
Il rombo di un motore che si accendeva interruppe la quiete della sabbia silenziosa e del mormorio delle onde, ma fu questione di un paio di minuti. Il pick-up si allontanò dalla spiaggia, diretto verso la strada, e fu presto lontano.

 

~ Fine ~

 

 Avanzava a piccoli passi sul bagnasciuga, soffermandosi ogni volta che l'onda si ritirava portandole via la sabbia da sotto i piedi. Rideva piano, quando accadeva: le sembrava di cadere, ma allo stesso tempo le faceva anche il solletico.
Si voltò verso l'orizzonte, osservando il sole. Ormai era da tanto tempo che gli occhi chiari non le facevano più male, anche guardandolo direttamente.
Le venne in mente una canzone di quando era piccola, a cui non aveva più pensato per anni. Gliela cantava la sua mamma perché, diceva, la sua bambina aveva i capelli biondi come un raggio di sole.
-         You are my sunshine, my only sunshine... - la sua voce non era intonatissima, ma tanto non c'era nessuno ad ascoltarla.
-         You make me happy... when skies are grey – pensò che era strano, per una volta, cantarla proprio al sole. Chissà se qualcuno l'aveva mai fatto?
-         You'll never know, dear, how much I love you – sbatté un po' i piedi sull'acqua, come a dare un ritmo alla canzone. Vi era sempre immersa, ormai non riusciva più a stare lontano da quel liquido salato e profumato. Si grattò una guancia col dorso della mano, togliendo un po' di sale.
-         Oh, please don't take my sunshine away. (*)

 

 
(*) Famosissima canzone ormai dichiarata una delle canzoni di stato della Louisiana (USA).
Traduzione:
“Tu sei il mio raggio di sole, il mio unico raggio di sole,
mi rendi felice quando i cieli sono grigi,
non saprai mai, tesoro, quanto ti amo,
oh, ti prego, non portar via il mio raggio di sole.”

 

 
Non riesco ancora a crederci. Terza alla 4° edizione dell’ “Alternative Universe” indetto da DarkRose86, con due premi: quello per la Trattazione dell’Immagine e quello per lo Stile!
Io! Lo stile! Sono ancora su di giri… grazie mille!
Complimenti a tutte le partecipanti (eravamo davvero in tante, stavolta), specialmente alle prime due classificate!
Che ve ne pare di questa storia? Strana, vero? Avete capito cos'è diventata Ino?

   
 
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