September
Sunset
Il suo padrone, ben conoscendo la sua smania di correre
fuori, gli aveva aperto lo sportello, ma da parte sua se n'era rimasto
lì. La
mano sinistra sul volante, la destra ancora sulla leva del cambio.
Il cane, dopo una veloce perlustrazione dei dintorni della
capannina, l'aveva raggiunto, abbaiando insistente finché il
padrone non si era
finalmente deciso a scendere.
Gli aveva affettuosamente messo una mano sulla testa e
l'animale, soddisfatto, l'aveva lasciato subito per fiondarsi sul
bagnasciuga.
Malgrado tutto, era riuscito a strappargli un sorriso: fin da cucciolo
era
sempre andato pazzo per quel gioco; correva dietro alle onde e cercava
di
acchiapparle senza successo, e anche adesso che era un fiero cane da
salvataggio le cose non erano cambiate.
Sua sorella gli aveva sempre detto che gli uomini migliori
sono quelli che conservano ancora il proprio lato fanciullesco dentro
di sé-
ovviamente facendo in modo che non prenda il sopravvento- e lui si era
convinto
che tale affermazione valesse anche per i cani: i migliori erano quelli
che, al
momento giusto, riuscivano a tornare cuccioli.
Akamaru alzò il muso, coperto di sabbia bagnata simile a
fango molle: lui aveva sempre avuto un grande talento in questo.
Il suo padrone lo vide infilare di nuovo il naso in quello
strato umido e molle, e quando il cane saltò su con un
guaito atroce, Kiba si
rese conto che non aveva ancora imparato. Era in grado di salvare degli
esseri
umani, adesso, e aveva la resistenza di un orso quando si trattava di
riportare
a riva un marcantonio di novanta chili... tuttavia non aveva ancora
imparato
che sotto la sabbia si nascondono i granchi, e che tali crostacei
decisamente non
gradiscono
la visita di un gigante peloso pieno di
curiosità. E dire che ne
aveva presi, di “pizzicotti” sul naso...
Kiba represse una risata, ma quello stato d'animo allegro
durò poco. A un tratto l'insensatezza di ciò che
stava facendo lo colpì come
una pietra scagliata da lontano. Perché era tornato
lì? Che diavolo credeva di
poter risolvere?
Fino all'anno prima, gli era sempre piaciuto venire al mare
nella seconda metà di settembre. L'estate era finita, la sua
ennesima stagione
da bagnino anche, e non si incontrava mai nessuno. Quegli idioti di
turisti non
l'avevano mai capito, che al mare non ci si va solo per nuotare e
prendere il
sole. Quello che bisogna fare è mettercisi di fronte e
guardarlo, guardarlo,
guardarlo finché non ci si sente piccoli e sperduti di
fronte a quell'immensa
distesa d'acqua, nella quale vivono i più grandi animali di
questa terra.
Forse era stata sua sorella ad inculcargli in testa quella
specie di “religione”. Faceva la biologa marina,
adesso, ma già quando erano
piccoli lo portava lì e gli diceva di chiudere gli occhi.
“Pensa all'acqua” gli
diceva “Ce n'è parecchia, vero? Pensa che sia
ancora di più, ancora e ancora,
allargane i confini che immagini nella tua testa. Il mare non ha
confini, siamo
noi poveri idioti che abbiamo bisogno di queste sciocchezze.”
Lui lo faceva, continuava ad aggiungere tonnellate d'acqua a
quelle che già c'erano nella sua mente, finché
non si sentiva travolgere dalle
onde che lui stesso stava immaginando. A volte gli si mozzava
addirittura il
respiro. Quando succedeva, sua sorella annuiva: “Bene, hai
capito”.
Hana aveva delle teorie tutte sue, ma gli aveva trasmesso la
sua stessa concezione del fascino. La brezza della sera iniziava a
farsi
fredda, e le maniche corte non erano più così
adatte quando tramontava il sole.
C'era un sole quasi bianco, circondato da aloni arancioni
che coloravano le nuvole e il mare di un lilla violaceo. Una volta,
alle
elementari, l'aveva detto alla sua maestra, ma lei l'aveva liquidato
con un:
“Ma che sciocchezza, Inuzuka. Il mare non è color
lilla”. Anche lei faceva
parte degli idioti, allora.
La luce era dritta davanti a lui, ma il buio si stava
facendo strada alle sue spalle. Akamaru si era fermato, in un punto che
conoscevano bene entrambi. Era passato un anno; chissà
quanta gente aveva
calpestato quel punto, ci aveva lasciato il proprio odore, forse ci
aveva
addirittura pisciato sopra. Però Akamaru lo sapeva, che era
proprio lì, e Kiba
se lo ricordava forse meglio di lui.
La luce radente del sole che si abbassava verso l'orizzonte
rendeva i dettagli ancor più grotteschi di quanto in
realtà fossero. I capelli
simili ad alghe chiare, tanto erano impregnati d'acqua, la pelle
flaccida e
quasi bluastra. Gli occhi per fortuna erano chiusi. Ecco che cosa
poteva
diventare, una bella bambina dai capelli biondi e la pelle chiara,
quando
veniva catturata dall'abbraccio mortale del
mare.
Non aveva mai creduto alle sirene, o perlomeno alla loro
leggendaria bellezza. Una pelle umana non poteva resistere a una vita
nelle
acque. Il mare l'avrebbe resa mostruosa.
Ne aveva visti di annegati, prima d'allora. Tanti, forse
troppi. Ma si era sempre trattato di gente che aveva cercato di salvare
fino
all'ultimo, tentando il massaggio cardiaco finché gli
dolevano le braccia,
provando con la respirazione bocca a bocca ancora, ancora e ancora.
Non aveva mai sperimentato l'impotenza totale, fino ad
allora. Non solo il non poter
fare niente, ma anche la
completa incapacità di riuscire a muoversi.
Malgrado l'anno prima settembre fosse stato molto caldo,
aveva sentito un gelo repentino penetrargli nelle ossa. Nemmeno Akamaru
aveva
fatto niente per tirarla più su, all'asciutto. Aveva sentito
l'odore della
morte e aspettava un ordine del suo padrone.
Kiba si era avvicinato, ma non l'aveva nemmeno toccata.
Inutile sentire il battito o cercare il respiro.
Era rimasto lì per un tempo indefinito, in sottofondo
soltanto il rumore della risacca continua ed instancabile.
Poi aveva chiamato la polizia.
In breve risultò che la bambina era scomparsa da alcuni
giorni, e la mobilitazione in corso gli aveva fatto capire che non si
trattava
di una bimbetta qualunque. Gli fu presto chiaro che era la figlia di un
noto
magnate del commercio di piante; all'inizio si era pensato ad un
rapimento, ma
la mancanza di contatti da parte dei presunti criminali aveva
decisamente
sconcertato la polizia.
Non che ora le cose fossero più limpide. Che ci faceva
lì?
Da dov'era arrivata? Riconsegnata dal mare, depositata sulla spiaggia
dai
flutti? Ma in qualche punto doveva pur esservi entrata. E da sola?
In realtà rimasero tutte domande senza risposta. Un mistero
assoluto, come se la bambina avesse fatto tutto senza l'aiuto di
nessuno. Come
se avesse cercato di tornare al mare, e questo l'avesse respinta.
Kiba aveva visto anche il padre di lei, mentre era lì a
tener compagnia ai poliziotti, con Akamaru diligentemente seduto al
proprio
fianco.
Non appena lo vide, seppe che la bambina doveva aver avuto
gli occhi azzurri. Quando la polizia gli disse che lui era il giovane
che l'aveva
trovata, l'uomo gli lanciò una breve occhiata neutra.
Probabilmente non lo vide nemmeno, e perché avrebbe dovuto?
Non era implicato in quella faccenda, non aveva alcuna colpa. Certo, le
autorità gli avevano fatto qualche domanda, ma aveva degli
alibi inattaccabili
per i giorni precedenti.
Si era ritrovato a passare di lì per caso, e non fosse stato
per Akamaru forse non l'avrebbe nemmeno vista. Non aveva giocato alcun
ruolo,
in tutta quella faccenda.
Tuttavia la sua coscienza non sembrò pensarla affatto
così.
Continuava a fargliela rivedere tutte le notti, stesa sulla
sabbia o immersa nelle acque, leggera e incorporea come una medusa. E
sempre
con gli occhi aperti.
A volte sognava quella pelle bianca, quasi viscida, tanto
nitidamente da poterne quasi sentire l'odore. Allora correva in bagno a
vomitare,
e quando ne usciva spesso sentiva Akamaru guaire nel sonno. La sognava
anche
lui?
Tali incubi continuarono a perseguitarlo, tanto che alla
fine gli fu impossibile fare finta di niente. Era andato da sua
sorella, poi da
una sua vecchia amica capace di ascoltare le persone come pochi, e a
tratti
aveva raccontato come stavano le cose. O come pensava che stessero,
perché non
ci capiva niente nemmeno lui.
Dato che l'indifferenza non aveva giovato a nulla, fece
qualche ricerca sulla bambina. Il cognome era risaputo, ma in confronto
il nome
era così breve, semplice e morbido da far pensare ad una
morbida coperta, o una
tenda leggera di quelle che si usano nelle camere dei bambini. Come se
fin da
principio non fosse destinata a crescere.
Aveva anche trovato la sua data di nascita, ed era rimasto
senza fiato per quasi due minuti, mentre un brivido ghiacciato gli
serpeggiava
lungo la schiena. L'aveva trovata il ventitrè settembre. Il
giorno in cui
avrebbe compiuto nove anni.
Akamaru si era lentamente allontanato da quel punto,
tornando a trotterellare per la spiaggia.
Un anno. Un anno esatto.
Per fortuna gli incubi erano spariti. Sua sorella l'aveva
praticamente costretto ad andare da uno psicologo- ce lo aveva
accompagnato
lei, ogni mercoledì-, e al dottore ben presto si era
chiarita ogni cosa. Non
era affatto assurdo che uno come lui, abituato ad avere quotidianamente
a che
fare con annegamenti o salvataggi, avesse avuto una simile reazione.
Qualcuno
la chiamava “goccia che fa traboccare il vaso” o
semplicemente “corto
circuito”: fatto sta che il suo sistema nervoso non aveva
retto a
quell'ulteriore colpo, e aveva reagito di conseguenza.
In effetti era dimagrito molto e si era ritrovato con
qualche capello bianco, ma ad un anno di distanza sentiva di averla
superata.
Specialmente se era riuscito a tornare lì.
Con un fischio richiamò Akamaru, che arrivò senza
farsi
pregare.
Tornando verso il pick-up alzò lo sguardo verso la bandiera
della capannina: penzolava su se stessa, immobile. L'aria era immota,
la brezza
serale si era quietata per un po'. Tuttavia quel lembo di stoffa appeso
non
aveva nulla di mesto o malinconico: pareva quasi riposare, in quel
momento di
pace. Sembrava sereno, se una bandiera può esserlo.
Kiba si guardò di nuovo intorno, e fu come se un velo gli
fosse caduto dagli occhi- un velo umido, pesante, intriso dell'odore
del sale e
delle alghe.
Era tutto tornato com'era, come doveva essere: un
dolce e romantico tramonto settembrino nell'aria non troppo fredda,
perfetto
per due innamorati- se ci fossero stati.
Nient'altro. Un luogo sereno, di nuovo.
Emise un lungo sospiro liberatorio, sentendosi più leggero
di qualche anno. Gli era venuta fame.
-
Allora,
vecchio mio, andiamo a farci una
bistecca? Ma non dirlo a Hana, se viene a sapere che ti do la carne
della
macelleria mi tira dietro un secchio di plancton.
Il cane alzò le orecchie con fare complice, e quando Kiba
gli aprì lo sportello della vettura saltò dentro
senza indugio.
Il rombo di un motore che si accendeva interruppe la quiete
della sabbia silenziosa e del mormorio delle onde, ma fu questione di
un paio
di minuti. Il pick-up si allontanò dalla spiaggia, diretto
verso la strada, e
fu presto lontano.
~ Fine
~
Si voltò verso l'orizzonte, osservando il sole. Ormai era da
tanto tempo che gli occhi chiari non le facevano più male,
anche guardandolo
direttamente.
Le venne in mente una canzone di quando era piccola, a cui
non aveva più pensato per anni. Gliela cantava la sua mamma
perché, diceva, la
sua bambina aveva i capelli biondi come un raggio di sole.
- You
are my sunshine, my only sunshine... -
la sua voce non era intonatissima, ma tanto non c'era nessuno ad
ascoltarla.
- You
make me happy... when skies are grey
– pensò che era strano, per una volta, cantarla
proprio al sole. Chissà se
qualcuno l'aveva mai fatto?
- You'll
never know, dear, how much I love you
– sbatté un po' i piedi sull'acqua, come a dare un
ritmo alla canzone. Vi era
sempre immersa, ormai non riusciva più a stare lontano da
quel liquido salato e
profumato. Si grattò una guancia col dorso della mano,
togliendo un po' di
sale.
- Oh, please don't take my
sunshine away. (*)
Traduzione:
“Tu sei il mio raggio di sole, il mio unico raggio di sole,
mi rendi felice quando i cieli sono grigi,
non saprai mai, tesoro, quanto ti amo,
oh, ti prego, non portar via il mio raggio di sole.”
Io! Lo stile! Sono
ancora su di giri… grazie mille!
Complimenti a tutte le
partecipanti (eravamo davvero in tante, stavolta), specialmente alle
prime due
classificate!
Che ve ne pare di
questa storia? Strana, vero? Avete capito cos'è diventata
Ino?