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Autore: Sinkarii Luna Nera    09/12/2017    4 recensioni
Prequel di ''Reflecting Mirrors"
Una Lusan, un Hakaishin e tutto ciò che è avvenuto prima che centinaia di milioni di anni, assieme a centinaia di milioni di situazioni complesse, portassero al presente per come lo conosciamo -nel bene e nel male.
(Ignoro il motivo per cui l'amministrazione si sia divertita a cancellare un'intro che è stata qui per anni, ma non abbia ancora cambiato il mio nick. Misteri della fede.)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Champa, Lord Bills, Nuovo personaggio, Vados, Whis
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Reflecting Mirrors'
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RMI cap6
6
 
 
 
 
 


 
 
 
 
Un colpo, l’ennesimo di una lunghissima serie.
Un grido, reso gorgogliante dal sangue che era risalito lungo la gola.
 
«Kahzameer. Thandrumeer. Adrameer. Tre cittadine di un elenco piuttosto corposo. Mi chiedo quand’è che voi di Moriameer riuscirete a capire che dovete guardare altrove, perché Ulthmeer non è alla vostra portata».
 
Il pavimento di pietra di quella stanza circolare priva di finestre era sporco di sangue, solo in parte fresco. Al centro giaceva una giovane Lusan dal pelo grigio e i lineamenti un tempo delicati, deformati
dalle bottedall’estremo dolore patito. Avrebbe chiesto pietà, se fosse riuscita ad emettere altri suoni diversi da gemiti strozzati; avrebbe lanciato uno sguardo disperatamente supplicante, se avesse avuto ancora gli occhi per poter vedere.
 
Calida abbatté un piede sulla mano della sua vittima, spappolando tendini, frantumando ossa.
Quella sventurata Lusan di Moriameer non sarebbe morta in quella stanza, come non erano morti i suoi compagni prima di lei: il Trattato tra Città imponeva a Calida di risparmiarla, ma forse sarebbe stato un destino migliore di quello che le era riservato. Cieca -strappare gli occhi era la “firma” di Calida- infinite ossa rotte, tessuti danneggiati in maniera irreparabile… un catorcio, buono solo da utilizzare come concime o mangime per certi animali.
Letteralmente. Nella città di Moriameer non andavano per il sottile con gli “inservibili”.
 
«Vi credete furbi… tu ti credi furba, ma non lo sei» continuò Calida, artigliando la gola della sua vittima per poi sollevarla senza alcuna fatica «Non quanto pensi. Tu credi che non lo sappia! Credi che non lo sappia, e dunque taci!»
 
Scagliò la ragazza, inerme come una bambola di pezza, contro la parete di fonte. Se il collo di quella povera disgraziata non si spezzò, purtroppo per lei, era perché la Ulthmeer a-ghekavary aveva fin troppa esperienza in certi campi per poter sollevare qualcuno dalle sue miserie per errore.
 
«Neppure adesso riesci a evitarlo, vero?» ringhiò, a voce bassa, passandosi sul volto una mano sporca di sangue  «Se non finisci in mezzo a qualcosa di strano, non sei contenta».
 
In quella stanza erano solo in due, ma Calida non si stava più rivolgendo alla sua vittima. Si avvicinò a una sedia di legno e si sedette al contrario, a gambe aperte, poggiando le braccia sullo schienale.

Ormai da quasi due mesi e mezzo vedeva Anise particolarmente serena, anzi, avrebbe addirittura osato dire che fosse contenta. Qualcuno che la conoscesse meno bene forse non si sarebbe accorto di nulla, ma Calida non era tra quelli che la conoscevano “meno bene”.

All’inizio non aveva dato molto peso alla cosa, limitandosi a pensare che fosse meglio così: quando tempo prima le aveva detto che temeva di andare da lei e trovarla morta, non aveva mentito.
Poi però aveva visto che il buonumore di Anise non scemava, e non le era servito molto per capire che c’era sotto qualcosa. Com’era scontato non era riuscita a ottenere nulla facendo domande sul tono di “oggi ti trovo tranquilla/allegra, è dovuto a qualcosa?”, perché se Anise non voleva dire qualcosa non lo diceva, e infatti aveva dato mostra di non capire il senso della sua domanda.
Per tale motivo, alla quarta settimana di buonumore, le aveva portato una pianta di vite in un vaso. Anise era stata contenta del regalo, prevedibilmente era subito uscita di casa a trapiantare la vite nel terreno, e Calida aveva avuto campo libero.
Quella delle perline di vetro non era la sola fissa di Anise: da quando era stata in grado di tenere una matita in mano tendeva a scrivere e disegnare molto ogni giorno, come se avesse avuto bisogno di “scaricare” i troppi pensieri da qualche parte, ed era molto precisa nel datare i propri lavori.
Calida non aveva impiegato molto a trovare il primo disegno di Lord Beerus, con accanto il relativo commento di Anise stessa, e aveva impiegato ancor meno per trovare un disegno della loro terra vista dall’alto, di una cittadina sconosciuta affacciata su una grande distesa d’acqua, e altri ancora.

 
Ecco qual era la causa del buonumore: una divinità.
Un maschio.
 
«Neppure vivere sola nella foresta, neppure quello è servito» mormorò, alzandosi dalla sedia per andare verso la sua vittima «Non vogliono lasciarti in pace. Non lo capiscono…»
 
Si chinò, sollevò la testa dell’altra lince, e la baciò delicatamente su una tempia.
 
“Non lo capiscono proprio, che tu sei mia”.
 
Dopo quell’ultimo pensiero, la spinta ad agire trascinata da pulsioni che non era in grado di frenare svanì di botto, esattamente com’era arrivata. Pur essendosi resa conto di quanto fosse stato malato quel bacio -come lo era stato tutto il resto- dato a una Lusan sconosciuta diventata per qualche minuto un “feticcio”, ritenne inutile compensarlo con nuova violenza.
 
«Credo sia abbastanza» sentenziò, uscendo dalla stanza senza degnare di un’occhiata la sua vittima. Ai due suoi uomini che avevano atteso obbedienti fuori dalla porta rivolse giusto un cenno del capo. Si era sfogata, ma non era ancora dell’umore giusto per interagire maggiormente con loro.
 
Accecata per un attimo dalla luce aranciata che entrava delle molteplici finestre che rischiaravano il corridoio, Calida desiderò tornare nelle tenebre confortevoli della stanza circolare, ma non c’era più nessuno da “trattare”. Non le era rimasto altro da fare per quel giorno: aveva sistemato le questioni burocratiche già prima di dedicarsi agli intrusi di Moriameer, quindi la sua serata sarebbe stata completamente libera.
 
Uscì nell’ampio cortile del campo d’addestramento dei suoi soldati, riempiendosi i polmoni di aria fresca mentre ascoltava i rumori di Lusan uomini e donne che si allenavano a combattere, preparandosi a uccidere i nemici che sarebbero venuti.
Il campo di addestramento era l’edificio più grande di Ulthmeer, e all’occorrenza fungeva anche da prigione. Bisognava dire che le celle occupate erano ben poche, perché la gente di Ulthmeer era troppo occupata a lavorare o ad addestrarsi per aver voglia di commettere crimini minori. Per quelli più gravi invece c’era un valido deterrente: la forca.
Se un Lusan aveva voglia di creare problemi, faceva meglio a sfogare i suoi impulsi violenti in una delle città vicine -senza farsi cogliere sul fatto, magari.

 
«Hogevor Calida».
 
«Hogevor Calida...»
 
«Hogevor Calida!»
 
I molteplici rispetti che le porsero i suoi soldati -“Hogevor” era un titolo onorifico traducibile in “capo” o “comandante” nella lingua comune- la accompagnarono fino all’uscita del campo e oltre, perché anche i civili erano tenuti a salutare l’Ulthmeer a-ghekavary nello stesso modo.
 
Erano passati solo due anni, ma i tempi in cui quel ruolo e quel titolo erano riservati a Meskal le sembravano ben lontani, e non le mancavano. Quella posizione era sua, le spettava di diritto per il semplice fatto che era sempre stata convinta di essere la persona migliore per ricoprirla. Lui era stato un capo più amato, ma lei era più rispettata e più temuta.
Era anche per quella ragione che si riteneva la persona giusta per conquistare tutte le città vicine, diventandone il capo: era quello il suo sogno, unificare sotto di sé tutte le terre conosciute. Peccato che le mancassero i mezzi, perché l’esercito che possedeva era in grado di difendere bene Ulthmeer da eventuali attacchi, ma Calida era consapevole di non poter portare con sé soldati sufficienti per conquistare un’altra città, non senza lasciare scoperta la propria -finendo col perderla, ovviamente.
 
“Se solo quella leggenda fosse vera!…”
 
In Calida albergavano tre lati: quello razionale, quello poco savio, e infine quello della sognatrice. Benché fossero sanguinosi, i suoi erano sempre sogni, e a trentaquattro anni suonati non riusciva ancora a smettere di credere a quella vecchia leggenda.
 
Si narrava che svariati millenni di anni prima, quando la magia non era ancora morta sul pianeta, proprio lì in quelle lande un Lusan dal nome sconosciuto fosse venuto -chissà come- in possesso di poteri al di là di ogni immaginazione.
Tale Lusan aveva abbandonato il proprio nome originario e adottato quello di “Rubedo”, per poi ovviamente partire alla conquista di tutto quello che lo circondava. Dando retta alla leggenda, sembrava che avesse imperversato in quelle terre per un periodo di tempo abbastanza lungo -raccogliendo anche un grande tesoro che aveva nascosto chissà dove- fino a quando i maghi di tutte le città si erano riuniti, riuscendo a fermarlo proprio nel luogo che lui aveva eletto a dimora: quello in cui adesso sorgeva il villaggio abbandonato di Vynumeer.
Si diceva che i maghi avessero “rinchiuso” Rubedo nella sua corona, che avessero nascosto suddetto monile all’interno di una cassa di metallo, e infine che avessero addirittura creato il profondo lago di Vynumeer nel quale gettarla, per essere sicuri che nessuno l’avrebbe più recuperata. Purtroppo per loro, pareva che prima della propria sconfitta Rubedo avesse lanciato due maledizioni: una che aveva privato i maghi di ogni discendenza presente e futura, e l’altra su tutte le terre che aveva conquistato, condannandone le popolazioni a una perenne discordia.
 
C’erano molti aspetti incredibili in quella vicenda, ma Calida aveva sempre sperato che quella corona esistesse davvero, ed era per tale motivo che fino a qualche anno prima si era recata spesso a Vynumeer -di nascosto, non essendo sciocca- sperando di riuscire prima o poi a raggiungere il fondo del lago, trovarla e prenderla per sé. Non si era fatta spaventare neppure dal calore delle acque di Vynumeer, iniziato un secolo e mezzo prima senza spiegazione e ragione principale della nomea di “maledetto”, perché con quel potere avrebbe potuto realizzare il proprio sogno, ma fino a quel momento non aveva mai trovato nulla… eccetto Anise.
 
La versione ufficiale era che l’avesse trovata nella foresta, ma quella non era la verità, perché Calida l’aveva trovata in riva al lago. Ai tempi aveva sedici anni, e aveva visto quella neonata lasciata a se stessa sopra un mucchietto di vestiti da adulti, alcuni di un uomo, altri di una donna. Si era avvicinata, stupita per quel ritrovamento inatteso e anche pronta a seppellire quella piccola Lusan, pensando fosse troppo silenziosa per essere ancora viva; quella neonata però aveva aperto gli occhi appena aveva percepito la sua presenza, e in quel momento Calida aveva deciso che l’avrebbe portata a casa e tenuta sempre con sé.
 
“Maschi più o meno divini permettendo” pensò.
 
Dubitava fortemente che l’Hakaishin di quell’Universo potesse volere chissà cosa da Anise, al massimo poteva esserne rimasto affascinato, forse aveva anche voglia di fare sesso con lei qualche volta, ma nulla di più. Se le cose stavano così, il buonsenso suggeriva che non ci fosse molto di che preoccuparsi: Lord Beerus si sarebbe tolto di torno, proprio come una malattia acuta benigna a risoluzione spontanea.
Tutto quel che doveva fare lei era aspettare, e tutto quel che doveva fare Anise era cercare di ottenere da lui il più possibile. Era un dio, qualche beneficio nel frequentarlo doveva pur esserci, no?
 
Avrebbe dovuto parlarne ad Anise già da un pezzo, lo sapeva, ma non lo aveva fatto. Era stata bloccata dalla sia parte di lei che di sensato aveva ben poco -del cui influsso avevano pagato il prezzo quella Lusan di Moriameer e tutti i disgraziati venuti prima di lei da un mese e mezzo a quella parte- sia da quella razionale, che le aveva suggerito “Non è il caso che affronti l’argomento ora, le cose potrebbero degenerare di nuovo, come tre anni fa”.
 
Era successo solo una volta, la sera in cui l’aveva convinta ad accettare la proposta di matrimonio, ma era stata una di troppo. Quando tempo prima Anise aveva parlato di “attenzioni più o meno strane da persone più o meno inaspettate” non era tanto a quelle di Meskal che si era riferita, ma... alle sue.
Calida non aveva intaccato l'illibatezza di Anise, ma aveva comunque messo le mani sulla sua calda intimità; l'aveva toccata, lo aveva fatto in un modo in cui fino ad allora non le era mai passato per la mente di fare
, e non perché Anise lo avesse voluto.
Non poteva permettersi di farlo ancora: non condividevano neppure una goccia di sangue, ma era stata lei a crescere Anise, quindi la mancanza di reale parentela non era un’attenuante, come il vino da loro bevuto in quell’occasione non era stato un vero alibi, perché Calida lo reggeva perfettamente.

 
La Lusan non riusciva ancora a capire cosa fosse scattato dentro di lei in quel momento, forse il desiderio di protezione si era corrotto diventando uno di possesso, o qualcosa del genere.
Anise era sempre stata “strana”, ma neppure lei era mai stata troppo normale, e se ne rendeva conto perfettamente; riteneva plausibile che la propria devianza avesse corrotto un sentimento in origine puro. La sola differenza era che la maggior parte del suo “essere strana” era accettato dalla loro società, e Calida era più brava di Anise a tenere nascosto ciò che invece non lo era.

 
“Mi prenderò ancora del tempo” concluse “Per il bene di entrambe”.
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
«Ormai mi hai portata qui svariate volte, e non mi sono ancora abituata alla bellezza di questi luoghi visti dall’alto, soprattutto al tramonto. Onestamente però mi auguro di non abituarmi mai. È bello che ogni volta sia come la prima. Spettacoli come questo contribuiscono a ricordarmi che ci sono tante cose per cui la vita è degna di essere vissuta».
 
Beerus l’aveva portata più volte su quel monte, uno dei più alti vicino alle terre dove viveva Anise. Precisamente, quello che avevano eletto come “loro” posto era una rientranza della parete rocciosa, abbastanza vicino alla cima da consentire la vista di un panorama mozzafiato.
In quell’occasione avevano portato con loro dei plaid, del cibo e delle bevande, prevedendo di trattenersi lì un po’più a lungo del solito… e al momento formavano un bozzolo di felini e lana, standosene abbracciati e avvolti da tutte le coperte.
 
«Devo preoccuparmi, se hai bisogno di qualcosa che te lo ricordi?» le chiese lui, con aria seria.
 
La ragazza scosse il capo. «No, non devi».
 
«Mi dispiacerebbe se avessi brutti pensieri. Sarebbe comprensibile se mi dicessi che ne hai avuti in passato, visto che…» non finì la frase «Adesso però le cose sono diverse, giusto?»
 
Beerus non giudicava male Anise per il suo passato, ma si era ripromesso di impedire a chiunque di farle ancora del male o imporle di fare qualcosa di cui non fosse convinta, e di fare di tutto perché fosse felice e serena come meritava. Era sempre stato piuttosto attento e delicato con lei, e da quando si erano messi insieme lo era diventato perfino di più.
 
«Lo sono, decisamente. Ascoltami, voglio essere chiara: nonostante i momenti di “umore strano” di cui ti ho parlato, non ho mai avuto il pensiero di togliermi la vita. Capisco che tu possa aver avuto qualche dubbio, avendomi vista saltare giù da un dirupo già dal nostro primo incontro, però davvero, non devi preoccuparti» sorrise, e si strinse di più a lui per coccolarlo «Non potrei stare meglio, Beerus, soprattutto quando sei qui con me».
 
Anise non era mai stata il tipo di persona che cercava molto il contatto fisico, ma stando con Beerus aveva iniziato a pensare che forse era stato dovuto alla mancanza di occasioni valide, o meglio, di persone valide.
Aveva accettato il contatto con Meskal solo perché “doveva”, ma non l’aveva mai cercato, mentre con Beerus era tutto diverso: non solo le piaceva essere accarezzata, baciata e coccolata da lui, ma aveva anche il desiderio di ricambiare.
Era qualcosa di per sé perfettamente naturale, ma a lei del tutto nuovo, le piaceva molto… e in virtù di tutto ciò credeva che anche fare l’amore con lui sarebbe stato diverso da come lo ricordava, più bello.
 
«Allora dovrò trovare il modo di stare con te più spesso, che ne dici?» sorrise il dio, soddisfatto della risposta.
 
«Non credo che tu possa fare più di quel che fai, che è già moltissimo. Per non parlare del fatto che tu hai degli allenamenti da seguire, dei doveri divini cui adempiere, e… delle funzioni lineari da capire!» gli ricordò Anise.
 
«Nooo, speravo te ne fossi dimenticata!» gemette l’Hakaishin.
 
«Suvvia, quelle schede che ti dà il tuo maestro sono fatte molto bene, dal nostro terzo incontro in poi sono riuscita a fare tutto il tuo programma di matematica, e sai bene che il mio livello di preparazione era elementare. Se ho capito io come si fanno le funzioni, a maggior ragione puoi riuscirci tu» sentenziò «Non sei certo uno sciocco! Motivo per cui torneremo a lavorarci su, una volta a casa».
 
«Vuoi davvero passare la serata a fare matematica? Sicura di non voler fare altro?» le chiese Beerus, baciandole il collo.
 
«Sì, ne sono sicura» ribatté lei, cercando invano di contenere un brivido di piacere nel sentirlo scendere più in basso. Per l’appunto: adorava e desiderava terribilmente il contatto fisico con lui, non c’erano proprio dubbi in proposito… e sapeva anche che Beerus se ne era accorto.
 
«Ne sei proprio convinta? Al cento per cento?» insistette lui, accarezzandola mentre le baciava una clavicola «Io avevo immaginato di passare la serata così come stiamo facendo ora, ma davanti al camino acceso e con le praline a portata di mano, mentre leggiamo qualcuno di quei fumetti che ti ho portato».
 
«Il programma è molto allettante» riconobbe la Lusan «E infatti intendo metterlo in pratica».
 
«Oh, allora ti ho convinta!»
 
«… dopo aver fatto matematica».
 
«Sì ma a cosa mi serve saper fare le funzioni, se il mio lavoro è distruggere pianeti?» si lamentò Beerus «Io sono obbligato a studiare e ne farei volentieri a meno, tu non sei obbligata e vuoi farlo! A volte non ti capisco».
 
«Mi sarebbe piaciuto studiare e conoscere meglio il mondo che mi circonda in tutti i suoi aspetti, ma non ho potuto, e infatti non sapevo neppure che l’oceano si chiamasse così. Capire di essere una persona ignorante non è piacevole» replicò lei «Per questo ti dico: tu che hai modo di farlo, studia».
 
Sul momento il giovane dio non seppe neppure come ribattere, perché non aveva mai considerato la questione da un simile punto di vista. Riflettendo ulteriormente, e capendo che Anise non aveva torto, si sentì perfino uno sciocco.
La strinse saldamente al proprio petto e cominciò ad accarezzarle i capelli. «Tu ti senti ignorante, io ora mi sento cretino, siamo comunque una coppia perfetta. Sai, nel mio palazzo c’è una biblioteca che mi è sempre sembrata infinita» le disse «Hai la mia parola che un giorno non troppo lontano te la mostrerò, insieme a tutto il resto. Sono sicuro che il mio pianeta ti piacerà, già solo per il fatto che il cielo di giorno è sempre rosa pallido, come molti dei tuoi abiti».
 
«Non ho ancora visto quel cielo, ma credo di adorarlo».
 
«Ci sono anche grandi prati erbosi, una foresta estesa come quella in cui vivi -se non di più!- e un lago cui mi reco piuttosto spesso. È abitato» aggiunse «Ci vive una grossa creatura con il collo lungo, che però non si lascia avvicinare. Se devo dirtela tutta, nessuno degli animali presenti ha una gran voglia di avvicinarsi a me. Credo mi temano, anche se non ho mai fatto loro nulla di male… sai che novità» fece spallucce «Chi non scapperebbe da un Dio della Distruzione?»
 
«Io».
 
«Bugia! Ti sei lanciata giù da un’altalena, pur di sfuggirmi!» le ricordò Beerus.
 
«Però non sono scappata via perché sei l’Hakaishin di questo Universo, non lo sapevo neppure» gli fece notare la lince «Io sono scappata via da un forestiero molto affascinante in cerca di frutta».
 
«Solo “molto affascinante”? Io avrei detto un “forestiero magnifico”, o “stupendo”, o “divino”!»
 
«O “divinamente imbranato”, ci sta anche questo» lo prese affettuosamente in giro lei.
 
«Ehi! Offendere una divinità è un peccato mortale che merita una punizione severissima… a meno che la colpevole trovi il modo di farsi perdonare. Hai qualche idea?»
 
«Più d’una. Alcune anche piuttosto osé!» scherzò Anise, curiosa di vedere quale sarebbe stata la reazione.
 
La luce del tramonto era passata da un bel po’di tempo da arancio a rossa, eppure non bastò a mascherare il fatto che Beerus fosse arrossito, sentendo quella frase inaspettata. «Ehm. Osé?»
 
«Dai, stavo scherzando! Però… a parte tutto, tu ci hai mai pensato? Di fare l’amore con me, intendo».
 
Se fosse stato possibile morire per il troppo arrossire, l’Universo Sette avrebbe perso il suo Hakaishin. Se aveva pensato di fare l’amore con lei? Certo! Aveva diciotto anni, e grazie alle visite al postribolo ormai conosceva i piaceri del sesso piuttosto bene.
Tuttavia, forse proprio perché nella sua esperienza il sesso era stato correlato unicamente alle signorine di quel luogo, si era fatto strada in lui il pensiero che fare l’amore con Anise prima di dare una vera ufficialità alla loro storia sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Sarebbe stato come metterla al livello di quelle lavoratrici -e lei, per Beerus, era ben diversa da loro.
Erano pensieri assurdi, derivati da una totale inesperienza a livello sentimentale, ma di fatto erano proprio quelli a frenare il suo desiderio… oltre alla storia personale di Anise, che per i suoi gusti era già stata spinta troppe volte a fare cose che non voleva davvero.
 
«Sarebbe stato difficile non pensarci!» disse dunque il dio, con un sorriso, sforzandosi di superare l’imbarazzo «Ma non pensare che sia soltanto desideroso di saltarti addosso, perché non è così. Sto bene con te quanto tu stai bene con me, e se non ne ho parlato prima è stato anche perché non volevo farti sentire “pressata” a fare alcunché».
 
«Non mi è mai passato per la mente che tu fossi interessato solo al sesso, davvero» lo rassicurò lei «Se volessi unicamente del sesso, sarebbe folle da parte tua fare i salti mortali che fai per vedermi. Poi, al di là delle ragioni logiche, il modo in cui ti comporti con me non potrebbe mai -e dico mai- farmi pensare male. Ogni volta che ti vedo ringrazio il cielo perché quella sera ero sull’altalena, e ringrazio anche la tua testardaggine nel seguirmi fino a Vynumeer».
 
Quelle parole rendevano Beerus felice come se gli avessero annunciato una torta al cioccolato di sette strati riservata soltanto a lui, anzi, di più! Se Anise riusciva a dargli tutta quella fiducia, allora lui si stava comportando nel modo giusto. Le baciò la fronte. «È bello sentirtelo dire».
 
«Aggiungo dell’altro: trovo molto dolce la delicatezza che hai nel cercare di non farmi alcun tipo di pressione, ed è vero che stiamo bene così e che io non ho alcuna fretta… ma se un giorno o una notte di queste dovessimo sentirci particolarmente “presi” l’uno dall’altra, e finissimo col fare l’amore, ne sarei felice» disse candidamente la ragazza «Quindi su questo punto puoi tranquillizzarti del tutto, d’accordo?»
 
Beerus annuì, conscio di essere arrossito di nuovo. «D’accordo… ma perché stai ridendo?»
 
«Perché trovo tenero che tu arrossisca così tanto parlando di certe cose, pur essendo più esperto di me».
 
Beerus sgranò gli occhi per la sorpresa, perché non avrebbe mai immaginato che Anise sapesse del postribolo. «Cosa?! Tu sai di… come?… ah, ma che domande! Quel ciccione di Champa ha la bocca larga come tutto il resto!»
 
«Ha confermato un’ipotesi che mi era già venuta in mente: il tuo maestro non è felice all’idea che frequenti una ragazza -in caso contrario non verresti qui di nascosto- ma tu sei un diciottenne con pulsioni da diciottenne, quindi da qualche parte doveva pur fartele sfogare, e quel luogo era perfetto,  perché non implicava la nascita di sentimenti di alcun tipo».
 
«Io però non vado più lì, te lo giuro, non ci metto più piede da quando ti ho conosciuta!» le assicurò Beerus «Sul serio!»
 
«E io ti credo, quindi puoi calmarti» disse Anise, dandogli un bacio su una guancia «Già, come hai giustificato la cosa col tuo maestro, se lo hai fatto?»
 
«Gli ho detto che in questo periodo voglio dedicarmi agli allenamenti senza distrarmi con altro, e lui essendone ben felice si è guardato bene dall'indagare ulteriormente. Comunque, tornando a Champa» fece una smorfia «Non sono felice che lui frequenti questo pianeta».
 
«Beerus, ti ho già detto che è la sua maestra a portarlo qui, quindi non potrebbe opporsi nemmeno volendo… come tu, al posto suo, non potresti opporti a Whis».
 
«Se non lo vuole attorno, e posso capirla, può lasciarlo in un gattile o metterlo a dormire per un paio di settimane! Perché mollarlo a te?! Non credo alla storia che sia Vados a volerlo portare qui, è tutto un losco complotto di Champa per poterti ronzare attorno, te lo dico io! Quel grassone infame!»
 
Negli ultimi tempi si era venuta a creare una situazione piuttosto imprevista, perché Vados aveva iniziato ad approfittare della “gentilezza” mostrata da Anise la prima volta, lasciandole Champa almeno un paio di volte ogni settimana. Aveva detto “Auguri per Whis”, ma poter passare qualche ora senza il suo allievo era una comodità cui non voleva rinunciare, specialmente avendo visto che Champa stando con Anise imparava sempre a fare qualcosina di nuovo, come quella saponetta di ottima qualità.
All’Hakaishin del sesto Universo però piaceva stare con qualcuno che non lo prendesse in giro, e Anise lo trovava gradevole, quindi per loro non c’erano problemi; ad averne qualcuno era Beerus, al quale la lince aveva parlato della questione appena aveva potuto.
 
«Guarda che è stata la sua maestra in persona a dirmi il contrario. Mi ha perfino offerto una cospicua quantità d’oro, “Perché capisco che il mio allievo possa non essere la migliore delle compagnie, ma mi farebbe proprio un piacere”» riferì Anise, imitando la voce di Vados «E lo ha detto davanti a Champa, che era alquanto a disagio. È stata una scena sgradevolissima, credimi».
 
«Vados però non aveva torto, e tu quantomeno ci hai guadagnato qualcosa» commentò il dio.
 
«Tu pensi che io abbia preso quell’oro?» gli chiese la ragazza, sollevando un sopracciglio «Nemmeno per idea. Le ho detto, ovviamente con tutta l’educazione del mondo, che sono autosufficiente al punto di non aver bisogno di comprare alcunché, e che non ho bisogno di essere pagata per passare del tempo con una persona che mi è simpatica».
 
«A me continua a sembrare incredibile che quel rompiscatole ti sia simpatico… sei troppo buona per questo Universo!» sospirò, dandole un bacio sulle labbra «Comunque, se dovesse comportarsi da idiota voglio che tu me lo dica. È tenuto a portarti rispetto».
 
«Finora l’ha sempre fatto, posso assicurartelo» disse Anise «E ho anche scoperto che ha un certo talento per lavorare il vetro. L’ultima volta ha fatto un vaso di vetro soffiato per la sua maestra, decorato con dei fiori che avevamo raccolto nel recarci a Vynumeer, ed era proprio carino. A modo suo, lui tiene a Vados… è un po’triste pensare che non sia ricambiato».
 
Beerus stava per dire l’ennesima “gentilezza” su suo fratello e il fatto che fosse praticamente impossibile tenere a uno come lui, ma infine decise di lasciar perdere. «Quando dovrebbe portarlo qui?»
 
«Domani, credo. Te lo dico fin da ora, esattamente come l’ho detto a lui: so che non andate d’accordo, ma in casa mia non si litiga» lo avvertì la Lusan «Se no potete dimenticarvi i biscotti… e tu, anche i grattini sotto il mento».
 
«Ma è lui che mi provoca!» protestò Beerus «Togliermi i biscotti, e soprattutto i grattini, sarebbe crudele!... ah, ma cosa vado dicendo? Posso riaverli facilmente» disse, con un sogghigno «Per convincerti mi basta fartene qualcuno dietro le orecchie».
 
«Credi che non sarei in grado di resistere?»
 
«Ne sono convinto!» dichiarò l’Hakaishin.
 
«Mi auguro che non litighiate, così da non dover scoprire chi di noi due ha ragione» disse la ragazza. A ciò seguì qualche istante di silenzio, dopo il quale lei tornò a rivolgersi a Beerus. «Posso farti una domanda?»
 
«Anche venti, Anise».
 
«Tu mi hai detto che Whis e Vados vi hanno presi quando avevate quattro anni, e che quindi vi hanno praticamente cresciuti loro. Sapendo questo, io a volte mi sono domandata… insomma, mi sono domandata se tu e Champa siate messi come me» disse, non riuscendo a trovare parole migliori «A livello di genitori, intendo. Ovviamente sei libero di dirmi che devo farmi gli affari miei, forse ho anche sbagliato a chiedertelo».
 
Beerus si irrigidì leggermente. Quello non rientrava tra i suoi argomenti di conversazione preferiti, ma doveva ammettere che la curiosità di Anise era legittima, soprattutto perché lei gli aveva parlato della vita che aveva condotto fino a tre anni prima. «Non hai sbagliato, e in ogni caso non ti risponderei mai così in malo modo» esordì «Le persone che mi hanno generato sono vive, o almeno lo erano fino a quattordici anni fa. Non so altro, e non vorrò mai saperlo».
 
Non aveva detto molto, ma l’aveva fatto in termini che rendevano molto chiara la sua situazione con i genitori. Anise si dispiacque di aver tirato fuori l’argomento. «Capisco».
 
«Sì. Sì, tu effettivamente potresti capire davvero quello che…» fece una pausa «Quello che c’è da capire».
 
«Parlane solo se te la senti davvero. Tu non vuoi farmi pressioni, ma neppure io voglio farne a te» disse Anise, con aria seria.
 
Beerus era combattuto: di solito rifiutava di pensare a quella breve parte della propria vita, non bella, e per fortuna conclusa da un pezzo.
Poi si disse che se era veramente conclusa, e non aveva più potere su di lui, allora doveva dimostrarlo a se stesso parlandone con la persona più indicata con cui farlo. Anise si era fidata di lui, il minimo che potesse -anzi, volesse- fare era ricambiare. «Lo so. Io però voglio raccontartelo, perché ritengo sia giusto così, e in ogni caso non ci metterò molto».
 
«Abbiamo tutto il tempo».
 
Il dio le sorrise. Era un argomento difficile, ma forse con lei tra le braccia poteva diventarlo un po’meno. «Premetto che la mia razza non è molto più avanzata della tua, e a livello di poteri è messa più o meno allo stesso modo. Ora, credo che tu abbia già intuito che per essere stato scelto come Hakaishin io debba aver dato prova di un potere formidabile. L’ho manifestato a circa quattro anni, un’età in cui non potevo proprio controllarlo. Ricordo che spesso facevo danni, motivo per cui la gente mi riteneva pericoloso, e le persone che mi hanno messo al mondo non facevano eccezione. Io ero “il mostro”» disse «Me l’hanno detto così tante volte che avevo finito col crederci. Idem Champa».
 
Lui “il mostro”, lei “la strana”; sentendo ciò, Anise iniziò a pensare che il loro incontro fosse proprio un segno del destino. Immaginando che non avesse finito rimase in silenzio, esattamente come Beerus aveva fatto con lei.
 
«Non accettavano granché la nostra presenza, ma il disastro c’è stato quando Champa ha ucciso per errore un nostro zio, che lo aveva preso a calci per aver distrutto senza volerlo la sua stalla. A quel punto la tolleranza nei nostri confronti è crollata totalmente» continuò Beerus «Non importava che fossimo bambini, eravamo solo dei mostri da eliminare. Siamo riusciti a scappare via, anche se ho dovuto uccidere varie persone per riuscire a salvare me e Champa, che in tutto questo non ha fatto che piangere e gridare di non averlo fatto apposta. Utilissimo, davvero» borbottò, mentre lo sguardo diventava assente «Ci siamo addentrati in una foresta non troppo diversa da quella in cui vivi tu, e siamo rimasti lì per un bel po’di tempo. È stata dura, soprattutto i primi tempi, anche perché Champa non mi aiutava granché: non faceva che piagnucolare di voler tornare a casa… come se l’avessimo mai avuta, una vera casa! Che idiota. Avremmo patito meno freddo e meno fame, se si fosse dato una svegliata».
 
Anise non si sarebbe mai permessa di fare commenti, come lui non ne aveva fatti quando era stata lei a raccontare, ma il pensiero “una vittima che se la prende con un’altra vittima” le attraversò la testa in molteplici momenti.
 
«Quando sono arrivati il maestro Whis e sua sorella eravamo allo stremo, per cui non avremmo potuto evitare di farci prendere neppure volendo. Ricordo che Champa mi si era avvinghiato come edera, non voleva che ci separassero. Io però ero un bambino, ed ero stanco, talmente stanco di badare a me stesso e anche a lui che mi sono addormentato appena Whis ha detto che si sarebbe occupato di me, e Vados di mio fratello. Mi sono risvegliato in quella che adesso è la mia casa, e da lì in poi ho iniziato a vivere sul serio. Ecco, ho finito».
 
La Lusan lo baciò, mentre gli accarezzava delicatamente la nuca. «Se mai qualcuno dovesse darti nuovamente del mostro, non ascoltarlo. Non lo sei, non lo sei mai stato, e neppure il tuo compito di Hakaishin ti rende tale, almeno per come la penso io».
 
«E il tuo pensiero su di me è il solo di cui mi importi».
 
Mentre la baciava, Beerus sentì che scegliendo di parlarle aveva fatto in assoluto la cosa più giusta. Ogni volta che pensava di non poter stare meglio di come stava con lei -e grazie a lei- veniva immancabilmente smentito; era una cosa incredibile, ma anche splendida.
Al suo compleanno mancavano meno di due mesi e mezzo, e se non vedeva l’ora che quel giorno arrivasse era anche perché finalmente lui e Anise sarebbero potuti uscire allo scoperto anche con Whis.
Non si conoscevano da tanto, ma era innamorato perso di lei al punto di esserne già sicuro: quella era la ragazza giusta, la persona giusta, non riusciva più a immaginare come sarebbe potuto essere vivere senza di lei, e non voleva neppure farlo. Non faticava a immaginare Anise al proprio fianco per l’eternità… e ciò non lo spaventava affatto, anzi!
Il suo maestro gli aveva detto che un Hakaishin doveva essere estremamente fortunato per trovare qualcuno, e lui, reso totalmente incapace di ragionare dall’enormità dei sentimenti che provava, era arciconvinto di aver già trovato il “qualcuno” in questione e di essere il Dio della Distruzione più fortunato che fosse mai esistito.
 
«Beerus…»
 
«Sì?»
 
«Hai vinto, le funzioni lineari le facciamo domani».
 
Appunto: ogni volta che pensava di non poter stare meglio, veniva smentito.
Presto avrebbe ufficializzato tutto con lei… molto presto.

 
 
 
 
 
 
 


Nel caso possiate avere dei dubbi su quel che è successo tra Calida e Anise: sì, purtroppo quella sera è andata proprio come dovreste aver intuito. Non potevo né volevo scendere in ulteriori dettagli, per quanto mi sarebbe stato consentito, vista la totale mancanza di parentela (anche a livello legale) tra le due.
Mi auguro di aver "recuperato" un pochino con la parte seguente!
A voi i commenti, se ne avete (:


 
 
Qui sotto, disegni ambientati nel passato:
- Baby Anise che viene sollevata dalle mani di Calida
- I piccoli Beerus e Champa una volta andati via dal loro villaggio


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