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Autore: _Pulse_    10/12/2017    2 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Ciao a tutti! :D
Ebbene sì, John ha dato il via a qualcosa di più grande di lui mettendo Geneviève sotto la custodia di Molly. Sherlock e Arsène come la prenderanno? E l'appuntamento alla Royal Opera House s'ha da fare? Tutto questo si scoprirà nel capitolo che state per leggere. Quindi, bando alla ciance, vi auguro una buona lettura ;)
Grazie a tutte le belle anime che hanno recensito la scorsa settimana, chi ha letto soltanto e chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Vi adoro tutti!

Vostra,

_Pulse_



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16. Instinct


«Una cosa del genere me la sarei aspettata da Sherlock», sibilò Molly, il volto arrossato per la rabbia. «Perché mi hai coinvolto in questa storia senza nemmeno avvisarmi?».
«Stai dicendo che se te l'avessi chiesto avresti accettato?», domandò John, seduto sullo sgabello da bar dall'altra parte dell'isola della cucina, dove l'amica stava preparando il té.
Molly gli rivolse un'occhiata esasperata e il dottore annuì.
«Come immaginavo. Ascolta, Molly: non è colpa di quella ragazzina se suo padre è un ladro di fama internazionale e Sherlock ha deciso di prenderla sotto la sua ala. Ha appena perso sua madre e ha bisogno di stare tranquilla per capire che cosa fare».
«E perché non te ne occupi tu? Sei suo zio, dopotutto».
John sospirò. «Sono troppo vicino a Sherlock e onestamente...», si sporse sul bancone di marmo scuro e Molly fece lo stesso per porgergli l'orecchio. «Più lontano mi tengo da Arsène Lupin, meglio è».
«Oh, quindi se io devo averci a che fare va bene!», replicò a bassa voce, irritata.
«Avanti, Molly! Tu sei la persona perfetta! E anche l'unica, in realtà. Per Geneviève sei come la Svizzera».
Molly lo fissò a lungo, soppesando le sue parole, ma non c'era molto che potesse fare ormai: Geneviève era già nel suo salotto e nonostante sembrasse felice mentre coccolava Toby, il quale sembrava già averla presa in simpatia e le faceva le fusa, il dolore per della perdita di sua madre era palese. E né Arsène né Sherlock - soprattutto quest'ultimo - sapevano come approcciarsi a quel dolore. Quell'ingrato compito toccava a lei.
Molly sospirò, consolandosi col pensiero che in quel modo avrebbe ricambiato la gentilezza della ragazzina, senza la quale sarebbe rimasta all'oscuro della verità su Jean Daspry per chissà quanto tempo.
«E va bene, lo farò», sussurrò alla fine, prendendo tra le mani il vassoio su cui aveva posato il necessario per servire il té.
John aprì la bocca per ringraziarla, ma l'anatomopatologa lo fulminò con lo sguardo aggiungendo: «Mi devi un favore enorme, sappilo».
«Certamente. Qualsiasi cosa».
Molly annuì, appuntandosi mentalmente quelle parole, e lasciò la cucina a vista per precederlo nella zona giorno, dove aleggiava un'atmosfera carica di tensione. Sherlock e Arsène erano seduti ai lati opposti del piccolo divano, entrambi ancora avvolti nei loro lunghi cappotti e con le gambe accavallate nella stessa posizione, che si lanciavano scintille con gli occhi. Il bianco e il nero, il giorno e la notte, opposti ma complementari.
Vedendola arrivare, Geneviève si alzò in fretta dal pavimento con il suo micio tra le braccia ed incrociò il suo sguardo con un misto di timore e vergogna.
Per rompere il silenzio Molly le sorrise ed esclamò: «Vedo che avete già fatto amicizia».
Geneviève abbassò gli occhi su Toby, il quale allungò il collo per strofinare la testa sotto il suo mento. Lei non poté evitare di sorridere, solleticata dal suo pelo.
Molly versò il té nelle tazze, poi alzò lo sguardo in quello di Arsène. «Zucchero? Latte?».
«Come lo prende Sherlock», rispose il ladro, rivolgendole un sorriso sfrontato per cui Molly avrebbe voluto prenderlo a schiaffi. Si contenne però e lo servì, dimostrando così di sapere perfettamente come piaceva al detective.
«Papà», lo rimproverò la ragazzina, riuscendo persino a fargli porgere delle scuse.
«Non importa», rispose Molly, versandosi un po' di té ed appoggiandosi al bracciolo della poltrona su cui si era accomodato John. A pensarci bene non fu una buona idea, dato che era a portata di mano di Arsène, letteralmente: gli bastò allungare il braccio destro, quello fratturato, per prenderle il gomito ed attirare la sua attenzione.
«Sì che importa», la contraddisse. «Sono stato insensibile, perdonami».
Molly bevve un sorso di té per inumidirsi le labbra improvvisamente secche. I suoi occhi, il suo tocco... le avevano provocato una fitta allo stomaco che poche persone nella sua vita erano riuscite ad infliggere.
«Adesso che non devi più fingere di essere qualcun altro dovresti rimetterti il tutore», cambiò argomento, ruotando il braccio per liberarsi della sua stretta e posare con delicatezza una mano nel punto in cui, solo un'ora e mezza prima, l'aveva stretto per fargli del male. «Non guarirà mai, altrimenti».
Arsène abbozzò un sorriso. «Hai ragione».
«Dovrei averne uno nell'altra stanza, se vuoi...».
«Ti ringrazio, ma non è necessario».
Lasciò la tazza sul tavolino e si alzò, torreggiando su di lei. Avvicinò le dita al suo mento e lo sfiorò, incatenando lo sguardo al suo.
Molly arrossì violentemente, mentre il suo cuore iniziava a scalpitare nella cassa toracica. C'erano altre persone nel salotto: c'era John, c'era Geneviève... c'era Sherlock. Avrebbe dovuto scostarsi, dire ad Arsène di tenere le mani a posto, eppure non aveva il controllo di un muscolo che fosse uno.
«Grazie anche per la tua disponibilità, non lo dimenticherò», aggiunse con voce vellutata prima di prenderle la mano e sfiorarne le nocche nel secondo baciamano della serata. Quindi la liberò dall'incantesimo voltandosi con una piroetta e si diresse verso la figlia, la quale lasciò andare Toby ed allacciò le braccia al suo collo.
«Ehi, tesoro, non ci stiamo dicendo addio», scherzò, nonostante anche lui avesse ricambiato l'abbraccio con forza. «Sono certo che Molly Hooper sarà una perfetta padrona di casa, ma se per qualsiasi ragione volessi tornare al Savoy, troverai la tua camera come l'hai lasciata».
Geneviève annuì con un semplice cenno del capo ed allentò la presa.
«Anche il 221B è a tua disposizione», intervenne Sherlock, lugubre e senza nemmeno guardarla in volto.
«Grazie», rispose allora, avendo raccimolato il coraggio. «Grazie a tutti e due».
«Baffoni è già per strada, dovrebbe arrivare tra poco con i tuoi effetti personali».
Geneviève ridacchiò, forse per il soprannome usato dal ladro, il quale le diede un buffetto sulla guancia come congedo definitivo. Fece per avviarsi verso la porta e Molly si alzò per accompagnarlo, ma Arsène la fermò con un candido sorriso.
«Posso trovare la strada da solo, grazie». Si portò una mano sul petto e si prodigò in un mezzo inchino, togliendosi dalla testa un cilindro invisibile.
«Vi auguro un buon proseguimento di serata e noi due ci vediamo domani sera, Molly Hooper. Ti andrebbe di mangiare insieme un boccone, prima dello spettacolo?».
La donna impiegò qualche secondo per capire a che cosa si riferisse: il Don Giovanni alla Royal Opera House. Lei aveva invitato Jean Daspry, non pensava che Arsène Lupin avrebbe preso il suo posto. Come rispondere? Non poté fare a meno di guardare in direzione del detective, il quale si ostinava a rivolgere tutta la propria attenzione verso la libreria alla sua sinsitra.
Sospirando, Molly esibì un piccolo sorriso. «Certo, perché no? Va bene per le sei e mezza?».
«Magnifique», rispose in francese. Si risollevò e strizzò l'occhio a Geneviève, poi sparì nel piccolo ingresso e si chiuse la porta alle spalle.
«Beh, sarà il caso che vada anche io», esclamò John dopo qualche attimo di silenzio. «Ho lasciato Rosie dalla signora Hudson e sto abusando della sua gentilezza».
Il dottore recuperò il giaccone e se lo infilò, fissando interrogativo Sherlock, ancora seduto sul divano con quel suo sguardo assorto.
In imbarazzo, John si schiarì la gola. «Andiamo?».
Solo allora Sherlock si voltò, ma lo fece per inchiodare gli occhi in quelli di Molly, alla quale si rivolse dicendo: «Quindi hai deciso di uscire con lui».
C'era qualcosa nella sua espressione, qualcosa che non riuscì ad afferrare e che comunque le urtò i nervi.
«Ahm, ho bisogno del bagno», esclamò Geneviève ad un tratto, permettendo all'antomopatologa di distogliere lo sguardo dal detective.
«Prego, si trova in fondo a questo corridoio. Poi ti mostro la tua camera, okay?».
La ragazzina annuì con un piccolo sorriso sulle labbra e sparì nel corridoio. A seguito della serratura che scattava, Molly tornò a fissare Sherlock con le mani sui fianchi.
«Sbaglio o sei stato tu a suggerire che sarei dovuta andare all'appuntamento per scoprire che cosa avesse in mente?».
«Questo prima che lo smascherassi», replicò, alzandosi in piedi per avvicinarsi e guardarla negli occhi con fare quasi minaccioso, aiutato dai centimetri in più. «Inoltre, quando l'ho suggerito, non avevo idea che fossi attratta da quella specie di... brutta copia di Legolas».
«Legolas… de Il Signore degli Anelli?», intervenne John, scioccato dalla piega che quella conversazione stava prendendo.
«Lo Hobbit», lo corresse Sherlock, ignaro che fosse un personaggio di entrambe le saghe. Quindi roteò gli occhi e si giustificò: «Mi annoiavo e lo davano in TV. Ho apprezzato solo Smaug*».
«In effetti è un gran bel drago», concordò John.
«Ehi, possiamo tornare alla questione?».
Entrambi si voltarono verso Molly, stupiti dalla sua risolutezza.
«Che cosa ti importa se lo trovo attraente? Posso comunque darti una mano a trovare le informazioni che cerchi, se è questo ciò che ti preoccupa».
Sherlock strinse i denti e si limitò a sollevare le mani ai lati della testa, borbottando parole a mezza voce mentre la superava per raggiungere l'ingresso.
«Sherlock», lo richiamò la donna, intrecciando nervosamente le dita davanti al ventre.
Il consulente investigativo si voltò, lanciandole un'occhiata infastidita.
«Che cos'è che non mi stai dicendo?».
«As 33», rispose semplicemente Sherlock, lasciando i due amici stupiti e confusi.
«Che cosa significa?», domandò John ad un tratto, rompendo quel silenzio carico di tensione.
Il detective gli rivolse un sorriso compassionevole, per poi incrociare gli occhi affilati di Molly, la quale aveva persino stretto i pugni lungo i fianchi. Lei aveva capito.
«Simbolo e numero atomico dell'arsenico, un elemento chimico tossico per l'essere umano».
«Questo lo so, ma non vedo come...».
«Lo sai che in Età Vittoriana veniva usato come cosmetico, per rendere più pallida la carnagione del volto? Alcuni uomini sono morti per aver baciato donne con arsenico sulle labbra. Questo insegna che la bellezza inganna ed uccide, se non si presta la giusta dose di attenzione».
Senza aggiungere altro il detective si diresse verso la porta e dopo essere uscito se la chiuse alle spalle.
John sospirò, massaggiandosi la fronte, e quando risollevò gli occhi in quelli di Molly cercò le parole adatte per scusarsi, ma non ce ne fu bisogno.
«Non ti preoccupare, John», lo rassicurò la donna, rivolgendogli persino un sorriso. «Sherlock cerca solo di proteggerci, a modo suo».
«Già. Promettimi che starai attenta».
L'anatomopatologa annuì e lo condusse fino alla porta, alla quale si appoggiò fino a quando i due non sparirono dietro l'angolo delle scale. Il suo sguardo e quello di Sherlock si incrociarono per un'ultima volta e Molly sospirò rientrando in casa, chiedendosi cosa lo spaventasse tanto. L'aveva detto lui che Arsène non era pericoloso, in fondo. Perché quell'improvvisa smentita, giocando col suo nome per paragonarlo ad un veleno?
Decise di non pensarci più, sicura che non sarebbe mai arrivata a baciare Arsène Lupin, anche se la sola idea le faceva rizzare i peli sulle braccia.
Raccolse sul vassoio le tazze da té, trovando quella di Sherlock piena come gliel'aveva offerta, e dopo averle riposte nel lavello in cucina si ricordò della sua ospite, la quale non era ancora tornata dal bagno.
Titubante, Molly si fermò dietro la porta chiusa e bussò.
«Geneviève, va tutto bene?».
«Sì, ahm... arrivo tra un attimo».
Come promesso, dopo una manciata di secondi la ragazzina aprì la porta e le rivolse un debole sorriso, per poi deviare il suo sguardo con fare imbarazzato. L'anatomopatologa sospirò e le portò una mano sulla guancia per sollevarle il viso ed accarezzarle l'angolo dell'occhio sinistro, trovandolo arrossato e ancora accaldato nonostante avesse usato l'acqua fredda nel tentativo di cancellare i segni delle lacrime.
Geneviève si ritrasse e aprì la bocca per giustificarsi, ma Molly non gliene diede il tempo.
«Andiamo, ti mostro la tua camera», esclamò sorridendo, senza chiederle perché stesse piangendo o consolarla. La ragazzina ne fu così sorpresa che la seguì a bocca aperta.
La stanza degli ospiti era piccola ma confortevole, con un letto da una piazza e mezza, un armadio, un cassettone e una piccola panca imbottita sotto la finestra che dava sulla strada.
«Spero che possa andare bene», disse Molly, fissandola con attenzione per captare i suoi pensieri.
La ragazzina girò in tondo un paio di volte e quando si fermò di fronte a lei le regalò un sorriso con una sfumatura che fino ad allora non aveva mai visto: vera gratitudine.
«Va benissimo», le disse poi, sedendosi sul bordo del letto e lasciandosi cadere sulla schiena, a braccia aperte e coi capelli biondi sparsi intorno alla testa come un'aureola. Sembrava un vero angelo.
«Mi fa piacere. Allora mentre aspettiamo che ti portino le tue cose vado di là. Se hai bisogno di qualcosa...».
Geneviève si sollevò sui gomiti e la inchiodò sulla soglia con i suoi occhi verdi, così simili a quelli di sua madre e di conseguenza di Mary.
«Perché mi stai ospitando? Insomma... ora che sai chi è in realtà mio padre, avresti potuto rifiutare».
Molly sospirò arricciandosi le punte dei capelli, raccolti in una coda. «Se io avessi rifiutato dove saresti in questo momento?».
La ragazzina si alzò a sedere e aprì e chiuse la bocca un paio di volte, alla ricerca della risposta migliore da dare, mentre i suoi occhi tornavano a riempirsi di lacrime. La donna la raggiunse sul letto e le posò una mano sulla schiena, guardandola con espressione amorevole.
«Ascolta, Geneviève. Non riesco nemmeno ad immaginare quello che stai provando in questo momento: la tua situazione familiare è alquanto... inusuale. Se c'è una cosa di cui sono sicura, però, è che sei più forte di quello che credi. Il solo fatto che tu abbia cercato di mettermi in guardia dal tuo stesso padre me lo conferma e per questo ti ringrazio: senza di te probabilmente non avrei mai scoperto la verità, o l'avrei fatto quando ormai era troppo tardi. Se non vuoi credere che io ti sia ospitando perchè era la cosa giusta da fare, allora vedilo come il mio modo per sdebitarmi».
La figlia del ladro francese sorrise e prima che potesse dire qualcosa per ringraziarla qualcuno suonò al citofono. Ne fu in parte contenta, dato che quella situazione continuava a metterla in imbarazzo: nessuno, a parte sua madre, era mai stato tanto gentile con lei; quindi perché Molly Hooper, una donna che nemmeno la conosceva, le stava permettendo di stare a casa sua? Aveva detto che era la cosa giusta da fare... Ma giusta per chi?
«Sarà di sicuro il lacchè di mio padre», spiegò Geneviève, alzandosi in piedi.
Insieme raggiunsero l'ingresso e Molly aprì il portone del condominio, poi attesero davanti alla porta aperta che dall'ascensore uscisse proprio Grégorie, il complice più fidato di Arsène Lupin. L'uomo squadrò Molly da capo a piedi, poi senza dire una parola alzò le mani per mostrare lo zainetto e il trolley che aveva portato con sé dall'hotel.
Geneviève superò l'anatomopatologa e glieli strappò dalle mani, lanciandogli un'occhiata assassina. «Spero che tu non abbia maneggiato la mia biancheria».
Un ghigno si impossessò delle labbra dell'uomo, il quale si profuse persino in un inchino dicendo: «Sono desolato, madmoiselle, ma è stato inevitabile. Ad ogni modo le assicuro che il gentilsesso non mi interessa».
Quell'affermazione creò un certo imbarazzo, tanto che Molly si congedò dicendo che sarebbe andata in cucina. Rimasta sola Geneviève incrociò le braccia al petto e corrugò la fronte, iniziando ad unire finalmente i puntini.
«Tu non sei solo il secondo in comando della banda di mio padre, vero Grégorie?».
Nel sentire il proprio nome di battesimo, l'uomo serrò la mascella perdendo anche quella debole traccia di sorriso.
«Io sono tutto ciò che il padrone vuole che io sia».
«Stai cercando di farmi credere che non hai una tua volontà, dei desideri di cui nemmeno mio padre è a conoscenza?».
«Potrà sembrarvi strano, ma è così: devo a suo padre la mia vita e può farne ciò che desidera».
Geneviève si avvicinò e, nonostante fosse una spanna più bassa di lui, fu in grado di incatenare i loro sguardi. La distanza tra i loro volti era eccessivamente poca, ma Grégorie non si mosse né cambiò espressione.
«Allora rispondi a questa domanda: perché non gli hai detto che ho avuto dei contatti con Maurice Leblanc? Sarebbe stata la tua occasione per dimostrargli che sono una figlia disubbidiente. Forse saresti persino riuscito a convincerlo a lasciarmi in mezzo ad una strada».
Le mani di Grégorie si posarono sulle sue spalle, facendola sussultare per lo spavento. Il suo tocco però fu leggero e delicato, ben diverso da quello che si aspettava.
L'uomo l'allontanò da sé giusto di qualche centimetro e poi si chinò perché i loro sguardi fossero quasi alla stessa altezza.
«Mi dispiace averle dato l'impressione sbagliata, signorina. Tutto ciò che desidero è che il mio padrone sia felice e non posso negare l'evidenza: lei gli sta molto a cuore e se dovesse perderla ne soffrirebbe terribilmente. Per questo ho evitato di riferirgli dei suoi incontri col signor Leblanc. La devo avvisare però che, se non smetterà subito di frequentarlo...».
«Tranquillo, non succederà più», lo interruppe la ragazzina, sorridendo mestamente.
Grégorie le rivolse un'occhiata penetrante, quindi si sollevò e guardandosi intorno nel pianerottolo si accarezzò i baffi con la punta delle dita.
«Abbiamo già controllato in modo approfondito le vite dei vicini e sembra essere tutta gente perbene. Anche la zona sembra tranquilla, tuttavia sotto indicazioni di padron Lupin, Ernest ed io faremo dei turni di guardia finché sarà ospite della signorina Hooper. Le ho lasciato il mio recapito nel cellulare usa e getta che troverà nello zaino. Me lo faccia sapere, se dovesse aver bisogno di qualcosa, ma tenga presente che non obbedirò ciecamente ai suoi ordini: essere la figlia di Arsène Lupin non la rende automaticamente mia padrona, ci siamo intesi?».
Geneviève annuì e sospirò con espressione affranta, tanto da incuriosire l'uomo.
«Che cosa c'è?».
«Eri a tanto così dal piacermi, ma all'ultimo hai rovinato tutto», confessò.
Gli diede le spalle per rientrare nell'appartamento dell'anatomopatologa e prima di chiudere la porta gli fece l'occhiolino, augurandogli la buonanotte e chiamandolo col suo nome di battesimo.
Grégorie sospirò a sua volta e premette il tasto di chiamata dell'ascensore. Una volta entrato selezionò il piano terra. Quando le porte di metallo si chiusero gli mostrarono il riflesso sfocato del suo viso, dove aleggiava chiaramente un sorriso.
Quella ragazzina... per certi aspetti era tale e quale a suo padre. Che, come lui, avesse il potere di attirare la simpatia e l'affetto delle persone con cui aveva a che fare, anche delle più impensabili? Probabilmente.

***

Sherlock si tolse bruscamente il cappotto e lo lanciò sulla poltrona, quindi si passò una mano sulla bocca e camminò nervosamente avanti e indietro, da un capo all'altro del divano. John lo guardò in silenzio, aspettando pazientemente che si calmasse e gli confidasse i suoi turbamenti.
O almeno di solito era così. Dopo cinque minuti il dottore guardò l'orologio da polso e sospirò stancamente, rassegnandosi al fatto che quella sera Sherlock non avrebbe parlato.
«Io vado a casa con Rosie», esclamò. «Se puoi, non chiamarmi nel cuore della notte».
Era già nell'anticamera quando il detective ammise: «Arsène mi ha dato un biglietto per il Don Giovanni».
John tornò sui suoi passi e guardò l'amico, incredulo, mentre questi aggiungeva: «E ha detto che se mi presenterò si farà da parte».
«"Si farà da parte" in che senso?».
Sherlock gli gettò un'occhiata scocciata. «Tu cosa credi? Arsène sta cercando di sedurre Molly per farmi uscire allo scoperto e avere la prova definitiva che sono innamorato di lei».
John corrugò la fronte, trovando la soluzione fin troppo semplice. «Che succederebbe se non ti presentassi?».
«Temo che continuerebbe questa farsa per farmi un dispetto. Lupin è un gentiluomo, non sopporta gli uomini che fanno soffrire le donne e vuole farmela pagare».
«Se è davvero questo il suo intento, allora sono tentato a schierarmi dalla sua parte», esclamò John, tirandosi addosso l'ennesimo sguardo glaciale. Anche per questo si sentì costretto a doverlo rincuorare: «Sono certo che Molly non ci cascherà, specialmente ora che sa chi è».
Le spalle di Sherlock, ora rivolto verso la finestra di destra, iniziarono a tremare; solo successivamente si udì la sua risata, roca e gutturale.
«Ti sei già dimenticato quello che ti ho raccontato, John? Non importa se Arsène Lupin è un ladro: con la sua intelligenza, la sua spensieratezza, la sua empatia... e tutto ciò che lo rende Arsène Lupin, lui è in grado di conquistare chiunque. I suoi crimini passano in secondo piano, una volta che lo si è preso in simpatia». Il consulente investigativo si voltò e l'ampio sorriso che gli conferiva quell'espressione folle fece rabbrividire il dottor Watson. «Hai persino avuto modo di vederlo coi tuoi stessi occhi! Miss Nelly Underdown e la madre di Geneviève ne sono la prova! Si sono innamorate di quell'uomo ed è vero che sono riuscite ad allontanarsene, ma come ha fatto ben intendere Clotilde... dopo di lui non c'è stato più nessuno all'altezza».
Il silenzio successivo gravò su di loro con la pesantezza di una coperta bagnata e John, nonostante fosse stanco e bisognoso di tornare a casa, trovò la forza per stringere i pugni lungo i fianchi e replicare con tono fermo: «E tu non hai ancora capito di che pasta è fatta Molly Hooper. Puoi provare a spezzarla, ma lei tornerà sempre in piedi e non ti manderà nemmeno al diavolo, perché la sua gentilezza soffoca l'odio sul nascere. Gestire Arsène Lupin le sembrerà una passeggiata, dopo aver speso tutti questi anni appresso a te».
Sherlock abbassò il capo e non replicò, facendo credere a John di aver avuto l'ultima parola - un'occasione più unica che rara. Il dottore, gongolante, gli augurò la buonanotte e si avviò verso il piano inferiore per prendere la piccola Rosie e tornare a casa, ignaro invece di aver alimentato le paure del detective.
Arsène Lupin, come gli aveva fatto notare suo fratello Mycroft al termine del loro primo scontro, era tutto ciò che era lui e anche di più, grazie alla sua grande empatia. Quindi perché Molly non avrebbe dovuto preferirlo?
Sherlock si avvicinò alla scrivania ed estrasse il suo violino dalla custodia per suonare qualche nota, ma gli spartiti che si trovò davanti agli occhi, quelli della canzone scritta per l'anatomopatologa, aumentarono il senso di impotenza e di rabbia che gli stavano stritolando il cuore.
Istintivamente appallottolò gli spartiti galeotti e li gettò nel camino per guardarli bruciare tra le fiamme, metafora di ciò che sarebbe presto successo ai sentimenti che Molly aveva provato per lui prima di incontrare Arsène Lupin.  

***

«Il vostro liquore più costoso», ordinò Arsène con aria stizzita, sventolando una mano in direzione dell'espositore oltre il bancone.
Il barista annuì e sparì nel retro per tornare, un paio di minuti dopo, con una grossa ampolla di cristallo finemente lavorata ed impreziosita da pennellate d'oro.
Aveva appena preso un bicchiere all'altezza del liquido ambrato quando il ladro fece schioccare la lingua contro il palato ed esclamò: «La bottiglia».
Il ragazzo sgranò un poco gli occhi, ma non osò fiatare e prese la carta di credito che Arsène aveva tirato fuori da un piccolo portatessere d'argento. La strisciò e sbrigò con efficienza le pratiche, quindi ringraziò e si offrì di portare il tutto ad un tavolo, ma il biondo rifiutò con un semplice gesto del capo ed afferrata la pregiatissima bottiglia e il bicchiere si diresse verso la terrazza.
Aveva sperato di trovarla deserta, complice anche la neve che non aveva ancora smesso di cadere, e invece c'era un ragazzo svaccato su una sedia e con le lunghe gambe stese su un'altra, il capo coperto dal cappuccio della felpa, il volto alzato al cielo e una sigaretta accesa tra le labbra.
Arsène non lo riconobbe fino a quando questi non si accorse della sua presenza e girò un poco la testa per dare un'occhiata al pazzo che, come lui, preferiva stare al freddo piuttosto che all'interno. I loro sguardi si incrociarono e rimasero per qualche secondo in silenzio, mentre un sorriso si impadroniva delle loro labbra inconsapevoli.
«Rischi di prenderti un malanno», esordì Maurice dopo essersi tolto le cuffiette dalle orecchie e la sigaretta dalle labbra.
Arsène afferrò una sedia dal tavolo vicino e si sedette accanto a lui. «Potrei dirti la stessa cosa, amico mio».
Quindi anche lui allungò le gambe verso la sedia usata dal reporter come pouff per i piedi e rimasero così, a guardare quel cielo scuro da cui continuava a scendere la neve, smezzandosi una sigaretta.
«Ha l'aria di essere un whisky molto costoso, quello», ruppe il silenzio il ragazzo, indicando l'ampolla che il biondo aveva lasciato sul tavolino. «A cosa brindi?».
Arsène finse di non aver udito la domanda: tenendo il filtro tra le dita si riempì il bicchiere, se lo portò alle labbra e lo bevve tutto d'un fiato. Quindi ululò alla luna nascosta dal manto di nubi ed arricciò le labbra in una smorfia.
«Devo proprio togliermi questo brutto vizio», esclamò, scuotendo il capo con vigore.
Maurice si sollevò un poco sulla sedia, intrigato. «Quale?».
«Quando sono triste tendo a circondarmi delle cose più costose, come questo whisky. Il vuoto che a volte sento dentro non si può riempire con cose così frivole, ormai dovrei saperlo...».
«È successo qualcosa? Posso aiutarti?».
Arsène sorrise dolcemente e aprì la bocca per rispondere, ma ci ripensò. Posò il bicchiere sul tavolino e la sigaretta nel posacenere, poi avvicinò entrambe le mani al suo volto; Maurice lo lasciò fare, senza distogliere lo sguardo dal suo: si fidava ciecamente di lui, si era fidato sin dal primo momento in cui l'aveva incontrato alla presentazione di una raccolta di poesie e si era presentato come Jean Daspry.
Lavorava per L'Ècho de France da un paio di mesi ormai e finalmente aveva trovato un appartamento che soddisfacesse le sue esigenze: un loft nel pieno centro di Parigi, con una vista fantastica, abbordabile e senza fregature; almeno così pensava. Allora era così fiducioso e pieno di speranze che non avrebbe mai immaginato che quell'incontro avrebbe reso la sua vita ancora migliore.
Il Ladro Gentiluomo gli sfilò delicatamente gli occhiali prendendoli per le astine e li asciugò dai residui di neve sciolta con il fazzoletto bianco che portava nel taschino della giacca.
«Quando sei arrivato a Londra ti ho confessato di non poter tornare a casa senza aver prima conquistato il mio tesoro più grande. Beh, credo che questa sarà l'impresa più difficile in cui mi sia mai cimentato».
Arsène non sapeva nulla del suo incontro con Geneviève, non poteva immaginare che avesse capito esattamente di cosa stesse parlando, perciò Maurice si limitò a rispondere: «Sono certo che ci riuscirai invece».
«Io no», ammise il ladro, senza però perdere il sorriso. «Credo di aver sbagliato, amico mio. Questo tesoro non può e non deve essere conquistato. Ha bisogno di protezione e cure, ma non apparterrà mai a nessuno».
«Ho capito».
Lupin gli infilò di nuovo gli occhiali, ma anziché allontanare le mani, le posò sulle sue guance e lo guardò intensamente negli occhi.
«Davvero?», gli chiese in un sussurro, il capo leggermente piegato verso destra.
Il reporter si sentì con le spalle al muro, certo che quell'uomo incredibile avesse in qualche modo letto la verità che gli stava celando. Non riuscì a rispondere e non ce ne fu bisogno, perché Arsène lo lasciò libero alzandosi e dandogli le spalle per versarsi un altro bicchiere di quel whisky pregiato.
«Mi dispiace averti annoiato con questi discorsi, non era mia intenzione».
Maurice si alzò a sua volta e il cappuccio gli scivolò dalla testa.
«Tu non mi annoieresti mai. E puoi raccontarmi qualsiasi cosa, lo sai che non pubblicherei mai nulla senza prima avere la tua approvazione».
«Grazie», disse il Ladro Gentiluomo, rivolgendogli un sorriso mesto. Quindi, con ancora il bicchiere pieno in mano, camminò verso il parapetto ornato da piante incredibilmente belle e profumate, nonostante l'inverno fosse alle porte.
«A proposito di pubblicazioni, non ho più avuto modo di chiederti com'è andata la tua intervista a Sherlock».
«Ahm... non troppo bene, in realtà», confessò, grattandosi la nuca. «Ho buttato via un'occasione d'oro».
«È per questo che eri qui da solo al freddo?».
«No. Cioè, sì... anche».
Arsène ridacchiò e versò il contenuto del bicchiere sopra le piante, con tanta naturalezza e fluidità da sembrare quasi un'azione benevola, piuttosto che punibile.
«Sai, Maurice, sarei onorato se anche tu ti sentissi libero di dirmi tutto quello che ti passa per la testa», esclamò, tornando sui suoi passi per afferrare il collo della bottiglia.
Si diresse verso le porte scorrevoli per lasciare la terrazza e senza guardarlo concluse: «Immagino però che non solo Arsène Lupin abbia dei segreti da custodire».

***

Geneviève si strofinò gli occhi ancora gonfi di sonno e non riconoscendo la stanza in cui si trovava si tirò su seduta col cuore che le batteva forte nel petto. Le bastarono pochi secondi però per ricordare gli eventi della sera precedente e non solo ebbe piena consapevolezza di dove fosse, ma il macigno che le era pesato sulle spalle tornò a farsi sentire.
La gentilezza di Molly Hooper la metteva ancora a disagio, così come la propria incapacità di prendere una decisione. Perché lo trovava tanto difficile? Eppure la risposta sarebbe dovuta essere una soltanto: suo padre.
Sua madre aveva chiamato lui quando aveva capito di aver quasi esaurito il tempo concessole in questo mondo; a lui aveva chiesto di prendersi cura della sua bambina, eppure...
Si voltò verso il comodino ed allungando un braccio prese tra le dita la collana che proprio sua madre le aveva regalato per il suo ultimo compleanno: una semplice catenina d'oro con un cuore grande quanto un'unghia come ciondolo.
La sera precedente, quando se l'era tolta per andare a dormire, vi aveva infilato anche il diamante azzurro datole da Sherlock quando le aveva confessato che Clotilde gli aveva fatto promettere di proteggerla.
Proteggerla da chi? Da Arsène Lupin, suo padre?
«Ah, non ci sto capendo più niente», sospirò prendendosi la testa tra le mani, i gomiti puntati sulle ginocchia.
Avrebbe voluto essere una di quelle persone capaci di vedere solo bianco o nero, ma forse nemmeno in quel caso avrebbe saputo verso chi voltarsi: né Arsène né Sherlock erano solo bianco o solo nero, in loro c'era tanta luce quanta oscurità e la verità era che entrambi, a modo loro, si erano presi cura di lei quando ne aveva più bisogno.
Avrebbe voluto avere un'amica del cuore a cui poter confidare i propri tormenti e a cui chiedere consiglio, ma non era mai stata brava con i ragazzi della sua età. Sua madre le aveva sempre detto che era per via della sua straordinaria intelligenza e Geneviève aveva iniziato a reputarla come una specie di condanna, anziché un dono.
Avrebbe voluto mandare un messaggio a Maurice, ma se Baffoni l'avesse scoperto non ne sarebbe stato contento.
Se solo sua madre non si fosse mai ammalata... tutto questo non sarebbe mai accaduto e la sua vita sarebbe stata tanto più semplice, anche se incompleta.
Le lacrime tornarono a bagnarle gli occhi, ma Geneviève si rifiutò di versarle e con un gesto deciso scostò le coperte per alzarsi dal letto.
Si legò i capelli con l'elastico che portava al polso e si allacciò la catenina al collo, nascondendo i ciondoli sotto la maglia del pigiama, poi uscì dalla stanza degli ospiti e si diresse verso la parte principale dell'appartamento: una grande stanza che comprendeva il salotto con un piccolo tavolo da pranzo e la cucina a vista, divisi solo da un'isola dal bancone di marmo scuro.
Pensava di trovare un bigliettino appeso al frigorifero con cui Molly le spiegava che era andata al lavoro e che poteva fare come se fosse a casa sua, invece trovò proprio l'anatomopatologa dietro l'anta aperta.
Quando ebbe preso ciò che le serviva - un cartone di succo d'arancia - si sollevò e solo allora si rese conto della sua presenza.
Sobbalzò un poco per la sorpresa e portandosi la mano libera sul pettò esclamò ridendo: «Non ti ho sentita arrivare, scusami! Hai dormito bene? Ieri non mi è venuto in mente che quella stanza è la più fredda, perciò se hai bisogno ho anche una stufetta...».
Geneviève sollevò le mani, come a volersi proteggere da quella valanga di parole, e scosse il capo con un sorriso imbarazzato sul volto.
«La stanza è okay», rispose poi.
Molly annuì e le indicò uno degli sgabelli da bar davanti all'isola. La ragazzina si sedette e si lasciò servire una tazza di tè, poi guardò la donna che la stava ospitando senza chiedere nulla in cambio, solo perché era "la cosa giusta da fare", e realizzò che si sarebbe sempre sentita in debito nei suoi confronti.
«Ahm... Come mai non sei al lavoro?», decise di spezzare il silenzio per concentrarsi su altro e togliersi quei pensieri dalla testa.
«Mi sono data malata».
Geneviève smise di mescolare lo zucchero che aveva appena versato nel caldo liquido ambrato e sollevò il capo per incrociare i suoi occhi. Molly non sembrava affatto malata, anzi sorrideva e il suo viso sembrava più rilassato rispetto alla sera prima, quando si era ritrovata in casa non solo Arsène Lupin e sua figlia ma anche Sherlock Holmes.
«Non mi sembrava giusto lasciarti qui da sola e poi, devo essere sincera, non mi dispiace passare del tempo con delle persone vive, ogni tanto», aggiunse l'anatomopatologa, facendole l'occhiolino.
Geneviève sentì il peso sulle sue spalle aumentare e strinse i pugni sul marmo fresco, trattenendo a stento la rabbia. Avrebbe potuto chiederglielo mille volte ancora - «Perché fai tutto questo?» - ma la risposta che avrebbe ottenuto sarebbe stata sempre la stessa e non l'avrebbe capita. Tanto valeva che l'accettasse per quel che era, impegnandosi a fare tutto ciò che poteva per ripagarla almeno in parte.
Iniziò subito, rivelandole: «Non so che cosa passi esattamente nella mente di mio padre, né cosa abbia pianificato per la vostra uscita, ma ho provato a dissuaderlo dall'usarti. Lui... e anche io... noi crediamo davvero che Sherlock sia innamorato di te e temo che il motivo per cui vuole avvicinarsi a te sia per verificarlo di persona».
Molly la fissò per una manciata di secondi, poi si portò alla bocca il bicchiere di succo e dopo aver preso un sorso le rivolse un sorriso rammaricato.
«Se Sherlock è davvero innamorato di me ha uno strano modo di dimostrarlo».
«Ti sembrerà assurdo, ma credo di aver ottenuto una mezza confessione durante una partita a scacchi».
«Una partita a scacchi? Pff...».
Geneviève infilò la mano dentro il barattolo dei biscotti e ne tirò fuori uno per inzupparlo nel tè.
«Non sto scherzando... Stavamo parlando del ruolo del re e della regina e una frase che ha detto mi ha colpita molto. Ha detto che nonostante lo scopo del gioco fosse far cadere il re, lui non è nulla senza gli altri pezzi, in particolare senza la regina. La regina è la più importante, è quella che può muoversi sulla scacchiera con più libertà, e proteggerla è fondamentale. Io l'ho un po' provocato, chiedendogli per vie traverse se nella vita reale avesse una regina per cui avrebbe persino sacrificato il re, se stesso...».
«E la sua risposta?».
La sua domanda le sembrò più di cortesia che di reale interesse, visto il tono distaccato e i suoi occhi abbassati, ma la ragazzina si domandò se in realtà non avesse alzato la sua di corazza, quella dietro la quale lo stesso Sherlock l'aveva costretta a barricarsi più e più volte.
«Il suo silenzio è stato eloquente».
Allungò una mano verso di lei per toccarle il braccio, ma Molly si ritrasse con nonchalance e le diede le spalle per rimettere in frigorifero il cartone di succo.
«Sherlock ha avuto molte occasioni per ricambiare il mio amore», disse piano, con una mano posata contro l'anta del frigorifero come a volersi sostenere. «Ha sempre scelto di non farlo e io l'ho sempre accettato. Per quanto i nostri sentimenti fossero palesi, non ne abbiamo mai parlato: sapevamo che non avrebbe portato a nulla. Poi, all'incirca un mese fa...».
Geneviève, ad occhi sgranati e la tazza sospesa a mezz'aria, pendeva letteralmente dalle sue labbra. Ecco, era il momento: finalmente avrebbe scoperto l'evento che aveva scosso così tanto Sherlock e per cui suo padre era stato assunto da quella donna sgradevole che, chissà perché, era stata l'amante del detective.
Molly però si era interrotta sul più bello e non sembrava intenzionata a continuare. Il suono del citofono fu solo un ulteriore incentivo ad allontanarsi, lasciando la ragazzina con l'amaro in bocca e la certezza che se le avesse chiesto di finire non avrebbe fatto altro che convincerla a non dire più una parola.
La guardò ciabattare fino all'ingresso e chiedere chi fosse, poi aprire il portone e attendere dietro la porta chiusa, sbirciando dallo spioncino. Quando suonarono al campanello la donna tirò via il chiavistello ed aprì la porta, rivelando un innocuo fattorino con un pacco per lei. Apposta la firma per il ritiro, Molly chiuse nuovamente la porta col chiavistello e col pacco tra le mani si fermò nel bel mezzo del salotto.
«Chi lo manda?», si azzardò a domandare Geneviève, seduta di sbieco sullo sgabello.
Molly alzò il capo verso di lei come se si fosse ricordata solo in quel momento della sua presenza e con espressione confusa rispose: «Jean Daspry».
Geneviève posò la tazza di té e senza perdere altro tempo raggiunse l'anatomopatologa per toglierle il pacco dalle mani ed analizzarne ogni lato.
Quella sua espressione concentrata le ricordò terribilmente quella di Sherlock, ma Molly dovette rimangiarselo non appena la ragazzina rivelò la sua vera età, urlando con tono eccitato e gli occhi brillanti di curiosità: «Che stai aspettando, aprilo!». Poi iniziò a sbatacchiare il pacco di qua e di là per cercare di capire che cosa ci fosse all'interno.
La donna glielo levò dalle mani esclamando divertita: «Se dentro ci fosse stata una bomba a quest'ora saremmo già saltate in aria».
Geneviève incrociò le braccia al petto, imbronciandosi. «E perché mio padre avrebbe dovuto spedirti una bomba? Prima avrebbe dovuto almeno trovare una scusa per farmi allontanare!».
Si guardarono negli occhi e risero insieme, quindi posarono il pacco sul tavolino basso davanti al divano e si inginocchiarono sul tappeto per aprirlo. Vennero raggiunte anche da Toby, il quale si strusciò su di loro con la stessa curiosità.
«Quindi non ne sai davvero niente?», domandò all'ultimo momento Molly, dopo aver sollevato solo di qualche centrimetro il coperchio bianco del pacco.
Geneviève scosse il capo ed allungò il collo, impaziente di scoprire l'ultima idea di suo padre. Molly respirò profondamente e tolse del tutto il coperchio, lo lasciò sul tappeto e prese il bigliettino che trovò sopra diversi strati di carta velina nera.

Un piccolo ringraziamento per aver seguito il tuo istinto.
A.L.


Molly, con le labbra stese in un piccolo sorriso, lasciò cadere il biglietto all'interno del coperchio rovesciato e si affrettò a togliere i vari strati di carta velina per prendere tra le mani un bellissimo vestito blu notte, perfetto per una serata di gala.
Incantate, le due non riuscirono a spiccicare parola per un po'. Fu Geneviève a riprendersi per prima, notando sul fondo della scatola un secondo bigliettino.
«Ehi, ce n'è un altro», esclamò, sventolandolo di fronte al viso.
Molly, la quale si stava sommariamente provando addosso l'abito, le chiese di leggerlo ad alta voce.
«Spero che tu non ti sia offesa: il fatto che io abbia azzeccato la tua taglia non significa che ti abbia guardata con malizia. A stasera, A.L.».
Geneviève ridacchiò e il rossore sul volto di Molly la intenerì, perciò si alzò e prendendola per un braccio la costrinse a seguirla nel corridoio, poi la spinse nel bagno gridando che doveva assolutamente provarlo.
Molly avrebbe preferito rifiutare la gentilezza di Lupin, ma quel vestito era talmente bello che le sembrava un vero peccato non approfittare di quell'occasione più unica che rara.
Si spogliò e si infilò l'abito, sentendolo aderire al corpo come una seconda pelle di seta. Lupin ci sapeva davvero fare con le taglie e la qualità della stoffa era tale da farle domandare quanto gli fosse costato.
«Ecco fatto», esclamò quando aprì la porta perché Geneviève potesse guardarla.
La ragazzina la rimirò da capo a piedi con la bocca spalancata e poi sorrise, ma non disse nulla. A disagio, Molly sbottò: «Allora?».
«Allora sei bellissima».
L'anatomopatologa abbassò gli occhi, sfiorando la seta blu che le fasciava le gambe, e quando rialzò il capo annunciò con determinazione: «Non ho intenzione di accettare un regalo del genere, glielo restituirò domani».
Geneviève aprì la bocca per ribattere che suo padre non avrebbe mai ripreso un regalo, ma Molly chiuse di nuovo la porta del bagno, facendole capire chiaramente che in quanto a testardaggine sarebbe stato un duello alla pari.

***

Sherlock non aveva chiuso occhio, ciò nonostante non aveva ancora deciso la linea d'azione da adottare quella sera: utilizzare il biglietto datogli da Lupin e presentarsi alla Royal Opera House, fornendo al ladro la prova definitiva riguardo al suo interessamento per Molly Hooper, oppure gettarlo nel camino ed aspettare di vedere la sua prossima mossa? Entrambe erano rischiose e con un'infinità di variabili, tanto che Sherlock era arrivato a pensare ad una terza opzione: affrontare direttamente la donna che aveva assunto Arsène Lupin, Irene Adler. Tuttavia parlarle, dirle la verità riguardo ai suoi sentimenti e il motivo per cui non poteva più continuare quella loro relazione, non gli garantiva in alcun modo che Molly sarebbe stata al sicuro, anzi: non solo rischiava di essere presa di mira direttamente dalla donna, ma Arsène avrebbe potuto vendicarsi nel caso in cui non avesse ricevuto qualsiasi ricompensa la Adler gli avesse promesso per il lavoro.
Più pensava ad una via d'uscita, più si sentiva prigioniero di un labirinto dalle pareti mobili.
Esasperato, Sherlock si alzò dalla poltrona per recuperare il violino e scaricare un po' di tensione sulle corde. Non appena prese lo strumento tra le mani però, una quarta opzione si mostrò ai suoi occhi stanchi.
Abbassarsi a tanto l'avrebbe perseguitato per il resto della sua vita, ma doveva tentare.

***

«Padrone... Padrone, si svegli».
Arsène aprì pigramente un occhio e scorse la figura in controluce di Grégorie in piedi di fianco a lui, con un vassoio tra le mani e l'espressione apprensiva di una madre.
«È ora di alzarsi», aggiunse dolcemente e si spostò per posare il vassoio ai piedi del letto, esponendolo così alla luce del sole che entrava dalle grandi finestre da cui aveva scostato le tende.
Il ladro si coprì gli occhi con un braccio e rotolò sulla schiena, mugugnando.
«Come ha detto?», domandò Grégorie, quasi con tono divertito.
«La pagherai», bofonchiò con maggior sforzo Arsène. Quindi si puntellò sui gomiti e cercò di tirarsi su a sedere, ma ricadde tra i cuscini di piuma d'oca al primo tentativo.
«Se ieri sera non avesse bevuto quella bottiglia tutto da solo, forse ora non sarebbe in questo stato».
Il Ladro Gentiluomo gettò la testa all'indietro per scorgere sul comodino la pregiata ampolla di cristallo ormai vuota e sbuffò, iniziando a ricordare alcuni frammenti della sera precedente, tra cui la chiacchierata con Maurice.
Sollevò il capo con immensa fatica e scrutò quello che poteva definire tranquillamente il suo migliore amico mentre apriva l'armadio e sceglieva per lui gli abiti da indossare.
«Tu sapevi che Maurice era a conoscenza del motivo principale per cui sono a Londra?», gli chiese ad un tratto, improvvisamente lucido, tanto che fu in grado di cogliere il modo in cui le spalle dell'uomo si irrigidirono.
Lupin attese con pazienza la sua risposta e fu sorpreso quando ricevette un sincero: «No, padrone, non lo sapevo».
«Allora che cosa sai?».
Grégorie sospirò e si voltò per guardarlo negli occhi, il completo che aveva scelto per lui piegato con cura sul braccio sinistro.
«Sapevo che sua figlia aveva avuto dei contatti con il signor Leblanc, disubbidendo ai suoi ordini, forse per curiosità, ma non immaginavo che fosse stata tanto irresponsabile da rivelargli di essere...».
«Non lo è stata», lo interruppe con fermezza, calciando via le coperte per alzarsi e, perfettamente a suo agio nel mostrarsi con indosso solo dei boxer neri, stirarsi i muscoli delle braccia. Quello fratturato gli faceva ancora male e lo mosse con cautela, poi lo infilò nel tutore abbandonato sul pavimento.
«Credo che tu stia sottovalutando Maurice, amico mio», riprese, rivolgendo un sorriso al servitore. «Deve aver solamente unito i puntini, non era difficile. Quello che non mi spiego è perché tu non mi abbia detto di Geneviève».
«Le dirò quello che ho detto alla signorina: le avevo promesso che sarei stato più indulgente nei suoi confronti, se questo l'avesse resa felice, e ho preferito darle un avvertimento prima di riferirlo a lei, padrone. Ieri sera mi è stato detto che la signorina e Maurice Leblanc non avranno più contatti d'ora in avanti».
Arsène si avvicinò a Grégorie senza mai distogliere gli occhi dai suoi, quasi con aria minacciosa. Il servitore non osò interrompere il contatto visivo e a testa alta avrebbe affrontato qualsiasi punizione; quello che ottenne invece fu un bacio a stampo sulle labbra e una carezza sulla guancia.
«Ti ringrazio, Grégorie», gli sussurrò con dolcezza prima di tornare a sedersi sul letto, accanto al vassoio con la colazione da cui si servì una tazza di cioccolata calda. Arsène Lupin odiava il caffè.
L'uomo non rispose, si limitò a chinare un poco il capo.
Mentre si impegnava a togliere il pirottino di carta dal muffin che aveva scelto tra i vari a disposizione, Arsène chiese: «Il pacco che ho fatto preparare ieri sera per miss Hooper è stato già recapitato?».
«Sì, Ernest mi ha confermato che è giunto a destinazione».
«Bene».
«Mi ha anche riferito che Sherlock Holmes ha avuto la sua stessa idea e ha ingaggiato un senzatetto per sorvegliare l'appartamento di miss Hooper. Dovremmo sbarazzarcene?».
«No. Dopotutto quattro occhi sono meglio di due».
«E a proposito di Sherlock Holmes...».
Arsène alzò gli occhi, incuriosito dalla pausa ad effetto di Grégorie. «Sì?».
«La sta aspettando al Thames Foyer».
«Che cosa?!», strepitò, con una voce così stridula da autoprocurarsi una fitta di dolore alla testa. Lasciò la tazza sul vassoio e si alzò di scatto, gli occhi sgranati e le mani nei capelli terribilmente in disordine. «Da quant'è che aspetta?».
«All'incirca due ore».
«Che cosa?! Perché non mi hai svegliato immediatamente?».
«Aveva bisogno di riposo e non volevo...».
Arsène marciò furioso verso di lui e gli strappò di mano gli indumenti che aveva preso dall'armadio, urlando: «Smettila di giustificarti e aiutami a rendermi presentabile!».
Grégorie non aprì più bocca e dopo un profondo inchino di scuse si mise al lavoro.
Aiutò Arsène a vestirsi, abbottonandogli da dietro la camicia azzurra mentre il ladro si infilava i pantaloni del completo blu scuro e litigava con la cintura che, per la fretta, non ne voleva sapere di infilarsi nei passanti. Il servitore lo sostituì in quel compito, lasciandogli le mani libere di occuparsi dei capelli, che pettinò all'indietro e su cui spruzzò con una generosa quantità di lacca.
Grégorie poi si allontanò per recuperare la cravatta di un bel giallo brillante e un paio di Clarks a collo basso, di morbido cuoio blu e con dettagli color senape. Prima gli annodò la cravatta al collo, incrociando ogni tanto i suoi occhi arrossati per il post-sbronza che lo scrutavano, poi gli chiese di sedersi perché potesse aiutarlo con le scarpe.
Il servitore si inginocchiò davanti a lui e portò a termine quell'ultimo compito con rapidità, ma quando fece per alzarsi la mano sinistra di Arsène si posò con forza sulla sua spalla, trattenendolo. I loro sguardi si incatenarono nuovamente e il Ladro Gentiluomo si chinò verso il suo viso, aprendo il più possibile le gambe e leccandosi le labbra in modo alquanto eloquente.
«Adesso non ho tempo, ma più tardi sai già cosa dovrai fare per farti perdonare», gli disse a pochi centimetri dalla sua bocca, lussurioso.
«Sarà un piacere, padrone».
Il ladro sorrise divertito e si alzò in piedi per stuzzicare ancora un po' il controllo del compagno, dato che col cavallo dei pantaloni gli sfiorò il naso.
«Allora a dopo, Baffoni», lo salutò malizioso, sfiorandogli la mandibola con la punta delle dita.

***

«Perdona l'attesa, mon ami», esordì Arsène facendo il suo trionfale ingresso nella sala da té sgomberata dai suoi uomini per il loro incontro.
Sherlock, seduto sul divanetto che dava le spalle al gazebo in ferro, non dovette nemmeno guardarlo con attenzione per capire come avesse trascorso la nottata.
«Non hai mai retto l'alcool».
«Nemmeno tu, se non ricordo male. Allora, hai pensato alla mia proposta a quanto vedo. Hai deciso che cosa -?». Il Ladro Gentiluomo si interruppe bruscamente quando vide la custodia del violino posata contro il cuscino alla sinistra del detective. Fece un passo indietro e gli angoli delle sue labbra si arricciarono in un sorriso eccitato e anche un po' incredulo.
«Je ne crois pas», esclamò, scuotendo un poco il capo. «Sto sognando per caso?».
Sherlock serrò i denti, fissando dritto davanti a sè. Davvero non c'erano altre alternative?
«Sherlock Holmes, il consulente investigativo di fama internazionale, è venuto a patteggiare**?!», gridò il ladro, tanto estasiato che se non avesse avuto ancora i postumi della sbornia avrebbe iniziato a saltellare sul posto. Si diede invece un contegno ed allentandosi un poco il nodo alla cravatta si schiarì la gola. «Perdonami, ma questo non me lo sarei mai aspettato da te».
«Allora, lo facciamo oppure no?», sbottò il detective a denti stretti e coi pugni serrati sulle ginocchia.
«Certo, assolutamente!».
Il biondo si precipitò al pianoforte e Sherlock lo seguì col proprio violino. Seduto sullo sgabello, Arsène intrecciò le dita e respirò profondamente, guardandolo con imbarazzo.
«Perdonami se non sarò all'altezza. Se solo l'avessi saputo...!».
«Zitto e suona».
«Certo».
Troppo tardi Arsène si ricordò di non avergli detto quale brano volesse suonare, ma non ce ne fu bisogno: non appena le sue dita si posarono sui tasti e le prime note vibrarono nell'aria, Sherlock fece scivolare l'archetto sulle corde e lo seguì. Il ladro sapeva bene quanto fosse bravo il detective come musicista, solo non credeva fino a quel punto. O forse la verità era che lo conosceva talmente a fondo da sapere già quale brano avrebbe scelto per il loro duetto: l'opera 9 numero 2 di Chopin, un notturno in mi bemolle maggiore dalla melodia sognante, struggente e ricca di passione.
«Ah, non lo trovi meraviglioso?», domandò Arsène, con gli occhi lucidi di emozione. «Sto per commuovermi».
Sherlock non rispose e continuò a suonare ad occhi chiusi.
«Lo sai che questo notturno, insieme ad altri, è stato dedicato da Chopin a Marie Pleyel? Una pianista di successo, famosa in tutta l'Europa della prima metà dell'Ottocento; l'unica donna che abbia ricevuto una tale notorietà come musicista. Tra lei e Chopin non sembra esserci mai stata alcuna relazione amorosa, però, per dedicarle simili opere, doveva essere davvero straordinaria. Non lo credi anche tu, Sherlock?».
Le note del violino presero il sopravvento su quelle del pianoforte, fino a diventare per un attimo le uniche udibili, e il detective ne approfittò per rispondere: «Mi sembra di aver letto da qualche parte che fosse una donna che passava da un uomo all'altro e che, quando si fidanzò, finì per cambiare idea, portando il poveretto a pensare di ucciderla per poi suicidarsi. Donne del genere sono pericolose».
E come a voler rimarcare la potenza di quelle parole, la melodia crebbe di ritmo ed intensità, azzittendo del tutto il pianoforte di Arsène, il quale si portò le mani dietro la nuca e fissò Sherlock esibirsi in quell'assolo con occhi ammaliati.
Era così assorto che quasi si dimenticò di dover riprendere a suonare per la chiusura del brano. Fece appena in tempo e conclusero insieme, dolcemente e in perfetta armonia. Se solo avessero avuto un pubblico! Ah, Arsène poteva sentire nelle orecchie lo scrosciare degli applausi che avrebbero ottenuto.
Si prodigò lui stesso nel battere vigorosamente le mani e si alzò dallo sgabello per travolgere Sherlock in un abbraccio.
«Levati di dosso!», urlò il detective, cercando di liberarsi, ma la presa ferrea di Arsène non gli dava scampo.
All'improvviso sentì il suo fiato caldo sul lobo destro e si irrigidì ascoltando le parole che gli sussurrò, serissimo: «Eppure, pur conoscendo i rischi, hai scelto comunque di frequentare Irene Adler. Sei un po' contraddittorio, Sherlock».
Il consulente investigativo si arrese al suo abbraccio e rispose: «È proprio per questo che sono qui, Arsène. Ho commesso un errore e ho bisogno del tuo aiuto per risolverlo. Qualsiasi cosa ti abbia promesso Irene...».
«Posso fare a meno di quello che mi ha promesso», affermò il ladro, scostandosi per poterlo guardare negli occhi. Posò le mani sulle sue guance, i pollici ad accarezzargli gli zigomi affilati, e scorgendo della confusione nei suoi occhi azzurri sorrise dolcemente, spiegando: «Te l'ho detto, quella donna non mi piace, non mi è mai piaciuta e mai mi piacerà. Non ho accettato per la ricompensa, ma per curiosità. Tuttavia le devo una risposta e quale sarà dipende solo da te».
«Dettami le tue condizioni, farò tutto ciò che posso per tenere Molly al sicuro».
Sherlock deglutì guardando il sorriso di Arsène ampliarsi sempre più, fino a diventare un ghigno quasi perverso.
Non avrebbe dovuto dire quelle parole così alla leggera, ma ormai non poteva più rimangiarsele e la sicurezza di Molly era davvero la sua priorità al momento. L'avrebbe fatto anche per John, Rosie, la signora Hudson e Lestrade, certo, ma ora aveva un motivo in più per proteggere l'anatomopatologa che era sempre stata al suo fianco come un'ombra silenziosa, aiutandolo senza mai chiedere nulla in cambio e amandolo persino nei suoi giorni peggiori.
Ad un tratto però il Ladro Gentiluomo si incupì e gli diede le spalle, interessandosi ai vasi di fiori che ornavano il gazebo. Sfilò una rosa bianca dalla composizione e se la portò al naso, sussurrando con tono nostalgico: «Quello che vorrei...».
La rosa gli scivolò dalle dita e Sherlock corrugò la fronte, incapace di comprendere ciò stava passando per la mente del rivale. Di solito era così facile... Ogni sua mossa era prevedibile perché conosceva Arsène Lupin come le sue tasche. Che quello che avesse di fronte non fosse più il personaggio che si era cucito addosso?
«Quello che vorrei tu non puoi darmelo», concluse la frase con rabbia, pestando il fiore con una suola e rivolgendogli uno sguardo ardente, nonostante una lacrima gli avesse scavato un solco sulla guancia.
«Vorrei una bella reputazione, vorrei degli amici come i tuoi, vorrei una famiglia, vorrei una donna che mi ami nonostante tutti i miei difetti. Vorrei tutto ciò che tu hai e che troppo spesso dai per scontato!».
Lo raggiunse nuovamente e lo afferrò per i baveri della giacca, strattonandolo senza mai distogliere gli occhi colmi di lacrime dai suoi.
«Vorrei tutto ciò che hai tu, vorrei le uniche cose che non potrò mai rubare!».
I singhiozzi ormai si erano fatti incontrollabili e Sherlock, profondamente scosso da quell'irriconoscibile Lupin, gli portò le mani sulla schiena tremante. Il ladro fece per ritrarsi, come se fosse stato appena sfiorato da delle lingue di fuoco, ma quella volta fu Sherlock a tenerlo in una stretta di ferro a cui poco dopo cedette, abbandonando la fronte contro la sua spalla sinistra.
«Vorrei una figlia che possa vantarsi di suo padre e non finire nel mirino della polizia per questo», aggiunse in un sussurro quando il pianto cessò.
Sherlock non avrebbe mai immaginato che quell'incontro potesse prendere una piega del genere e soprattutto non avrebbe mai creduto di vedere per la seconda volta il cuore di Lupin messo a nudo, quello che segretamente gli aveva sempre invidiato e che lui aveva nascosto chissà dove per paura di nuove cicatrici.
Arsène aveva sofferto molto nella sua vita, o almeno così credeva, eppure non aveva mai smesso di mettersi in gioco. Era come se le cicatrici lo rendessero più forte, anzichè indebolirlo. Come diceva quel proverbio? "Ciò che non uccide, fortifica". Forse era davvero così, forse no. Non poteva saperlo senza prima provarci.
«È vero, io non posso darti tutto questo. Non so nemmeno come abbia fatto ad ottenere tutto quello che ho», ammise Sherlock quando decise di rompere il silenzio. «Però posso aiutarti a cambiare, se lo vuoi davvero. Abbandona la maschera di Arsène Lupin e sii chi vuoi essere. Il resto verrà da sè, suppongo».
Arsène sollevò il capo e lo guardò negli occhi. «Tu... Tu lo faresti davvero?».
Il detective annuì. «Aiutami a fermare Irene prima che faccia qualcosa di avventato e io ti aiuterò ad avere degli amici, una famiglia e tutto il resto».
«E per quanto riguarda Molly?».
Sherlock sospirò e solo in quel momento si accorse di avere Arsène ancora tra le braccia. Si scostò in modo impacciato e si passò una mano sulla nuca.
«Stare dalla parte del bene significa farsi dei nemici e io non voglio che Molly venga presa di mira per colpa mia. So che per te è difficile capirlo, ma per la sua sicurezza non posso starle accanto. Tutto quello che mi interessa è tenerla al sicuro, non importa come. Puoi farlo, Arsène?».
Il Ladro Gentiluomo ci pensò su mentre estraeva un fazzoletto da taschino giallo - in tinta con la cravatta, - si asciugava il volto e si soffiava rumorosamente il naso.
«Perdona il mio stato, non pensavo di...».
«Non importa. Allora, abbiamo un patto?».
«Sì. Prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per gestire Irene Adler e proteggere Molly Hooper».
Entrambi fecero un passo verso l'altro, ma mentre Sherlock stese la mano per sigillare l'accordo, Arsène si sporse verso il suo viso con gli occhi socchiusi.
«Che diavolo -?!», urlò il detective, coprendogli la bocca con la mano. «Che diavolo pensi di fare?!».
Arsène bofonchiò qualcosa di incomprensibile e Sherlock fu costretto a liberarlo perché potesse ripetere con innocenza: «In Francia i patti si sigillano con un bacio! Il famoso bacio alla francese! Non lo sapevi? Le lingue si intrecciano e si...».
«Piantala», lo interruppe il detective, nauseato.
Il ladro finse delusione, ma sorrise quando afferrò la sua mano e la agitò con vigore.

***

«Ma non finiresti nei guai se qualcuno del lavoro ti vedesse qui?».
Molly prese un paio di bottiglie di salsa di pomodoro e le posò nel carrello che Geneviève stava conducendo tra le corsie alimentari, rispondendole con un sorriso: «Non ho mai saltato un giorno di lavoro, nemmeno con la febbre o il raffreddore, perciò probabilmente il mio superiore sa che ho detto una bugia. Ma è okay prendersi un giorno di vacanza ogni tanto».
La ragazzina annuì con un cenno del capo, a disagio. Non ricordava quando fosse stata l'ultima volta che era andata a fare la spesa con sua mamma e trovarsi lì con Molly le sembrava surreale, specie sapendo di essere osservata da Ernest, parcheggiato fuori dal supermercato.
«Perché mi hai portata con te?», le chiese alla fine, non potendo più resistere alla curiosità. «Posso cavarmela da sola, sai».
«Ne sono sicura, ma perché non approfittare della tua presenza per farmi aiutare? Non avere l'auto è davvero un problema, oggigiorno».
La ragazzina non si fece abbindolare dal suo occhiolino ed abbandonò il carrello per incrociare le braccia al petto e fissarla con un sopracciglio inarcato.
«Davvero, dimmi la verità. Ho la sensazione che tu abbia qualcosa in mente».
Molly sospirò e trascinò verso di sè il carrello per prenderne il controllo. «Non ti si può nascondere niente, vero? Tanto vale che te lo dica subito, allora».
Geneviève l'affiancò, trepidante.
«Tuo padre ieri mi ha proposto di mangiare un boccone prima dello spettacolo, ti ricordi? Sicuramente le sue intenzioni sono quelle di andare in un ristorante, ma io ho un'idea migliore: perché non gli facciamo una sorpresa e gli cuciniamo noi la cena? Penso che ne rimarrà piacevolmente stupito».
Molly si alzò sulle punte per prendere una confezione di pasta e non avendo ancora ricevuto risposta da Geneviève si voltò per chiederle che cosa ne pensasse. La sua espressione confusa però la fece desistere e fu la stessa ragazzina a rompere il silenzio, domandandole: «Perché dovremmo fare una cosa del genere?».
«Perché è tuo padre e credo che gli farebbe piacere cenare con sua figlia, mangiare qualcosa di preparato con le sue mani, avere la possibilità di conoscerla un po' meglio...».
Molly buttò nel carrello il pacco di pasta e raggiunse la bionda per accarezzarle le guance e sorriderle con tenerezza.
«Ascolta... so che cosa stai passando. Anche mio papà non c'è più ed è un dolore che non si può cancellare, però si può alleviare stando col resto della propria famiglia. Purtroppo non posso darti consigli specifici, posso solo immaginare quanto tu sia confusa in questo momento, ma lo scopo di questa cena è proprio quello di aiutarti a capire davvero chi è tuo padre. Almeno lo spero».
Con le mani esitò sui suoi capelli dorati e glieli spostò con cura oltre le spalle, aggiungendo piano: «Gli darai una possibilità?».
Geneviève sbatté rapidamente le palpebre per spazzare via le lacrime ed annuì col capo, evitando il suo sguardo per non arrossire.
«Perfetto. Allora, io pensavo di preparare una teglia di lasagne - la ricetta di mia madre è fantastica - e poi un dolce. Tu che ne pensi?».
«Posso farlo io il dolce?».
Molly fu colpita dall'improvvisa presa di iniziativa  e rispose con entusiasmo: «Ma certo!».
 «Okay, allora vado a prendere gli ingredienti».
«Va bene, ci vediamo tra dieci minuti alle casse».
Geneviève annuì e si voltò, ma dopo appena due passi si fermò ed incrociò di nuovo il suo sguardo per dirle un semplice «Grazie», un po' rigido ed imbarazzato, ma sincero. Quindi le diede definitivamente le spalle e correndo sparì dietro l'angolo della corsia, senza accorgersi del sorriso soddisfatto dell'anatomopatologa.

***

Grégorie guardò il proprio padrone rientrare nella suite e rimase inerte, incapace di pronunciare parola, quando si accorse della sua espressione tormentata e dei suoi occhi ancora più rossi rispetto a quando era uscito per incontrare Sherlock Holmes.
Quel maledetto detective... Era sempre stato fonte di guai, ma non importava quante volte provasse ad avvertirlo: Arsène l'avrebbe sempre cercato, come un drogato la sua dose.
Il Ladro Gentiluomo si tolse la giacca e gliela fece cadere tra le braccia, in silenzio e senza incrociare il suo sguardo. Solo allora Grégorie trovò la forza per allungare una mano ed afferrare la sua prima che lo superasse del tutto.
Lupin però lo anticipò, dicendo a bassa voce: «Non adesso. Voglio rimanere solo, per favore».
Con la morte nel cuore, il servitore non poté far altro che lasciargli la mano, ottenendo in cambio un lieve sorriso di ringraziamento.
Arsène raggiunse la camera padronale, in fondo al corridoio, e si chiuse all'interno, lasciando Grégorie ad aggirarsi inquieto per il salotto, con la giacca blu ancora stretta al petto e domandandosi cosa potesse fare per migliorargli l'umore. La risposta venne dal proprio cellulare.
«Signorina Geneviève», esclamò sorpreso.
Sperava vivamente di non ricevere una sua chiamata dal cellulare prepagato che le aveva fornito, specialmente durante il turno di guardia di Ernest.
«Non ti avrei chiamato se non si trattasse di un'emergenza».
«Mi dica allora».
«Se, per ipotesi, volessi preparare la cena a mio padre... Tu lo conosci molto bene, perciò, ecco... Che piatti mi consiglieresti?».
Grégorie chiuse gli occhi e trattenne un profondo sospiro. «Sarebbe questa l'emergenza?».
«Sì, al momento è una questione di vita o di morte!».
L'uomo si passò pollice ed indice sui baffi e guardando in direzione della porta chiusa abbozzò un sorriso: sì, lo conosceva molto bene; forse, tra tutti i membri del suo entourage, era la persona che lo conosceva meglio. Sapeva che Geneviève gli era entrata nel cuore dal primo momento, se non addirittura da quando era venuto a conoscenza della sua esistenza, e che desiderava essere un buon padre per lei. Per questo, per dimostrarle la propria fiducia, aveva disinstallato le telecamere nella sua camera e aveva allentato la sorveglianza, evitando persino di rimproverarla per l'avvertimento che aveva dato a Molly Hooper. Grégorie non sapeva se quella donna c'entrasse o meno con quell'improvvisa richiesta, ma era certo che Arsène sarebbe stato più che felice se sua figlia gli avesse dimostrato di tenere a lui preparandogli la cena.
Per quanto gli costasse ammettere di non poterlo aiutare in prima persona, se Geneviève si fosse dimostrata all'altezza della situazione allora avrebbe potuto considerare l'idea di mettersi anche al suo servizio, senza riserva alcuna.
«Grégorie, hai intenzione di aiutarmi oppure no?!», berciò la ragazzina, riportandolo coi piedi per terra.
«Sì, lo farò», rispose con determinazione, uscendo dalla royal suite per parlarle in tutta privacy. «Ha da scrivere?».

***

«Non è di nostra competenza».
Sherlock trattenne un grido frustrato, arruffandosi rabbiosamente i capelli. Quindi sbatté i palmi delle mani sulla scrivania e fissò gli occhi azzurro ghiaccio in quelli dell’Ispettore di Scotland Yard.
«Lo so benissimo! Vuoi proprio farmelo dire, eh?».
Lestrade gli rivolse un sorriso smagliante mentre continuava a giocare con la penna che teneva tra le dita, schiacciando ripetutamente il pulsante di apertura e chiusura sulla sua estremità.
Il detective strinse i pugni, deviando il suo sguardo, e parlò a denti stretti: «Non ho bisogno dell'Ispettore Lestrade, ma di Greg. Ti sto chiedendo un favore da amico».
«Ci voleva tanto?», gli domandò l'uomo, alzandosi dalla sua poltrona per raggiungere un mobile portadocumenti.
Aprì uno dei cassetti con la chiave che aveva estratto dalla tasca dei pantaloni e prese una serie di cartellette legate insieme con uno spago. Quindi le gettò sulla scrivania e Sherlock corrugò un poco la fronte scorgendovi sopra il timbro rosso la cui dicitura "Top Secret" era tutta un programma.
«Li fanno ancora? È così vintage...».
«Me le ha date tuo fratello, ancor prima che Ganimard venisse portato qui per quella denuncia di aggressione».
«Tu e Mycroft? Non sapevo foste in contatto. Vi vedete spesso?».
«Ma di che diavolo stai parlando?», sbottò l'Ispettore, infastidito. Picchiò l'indice sulla pila di cartellette e spiegò: «Mi ha chiesto di informarmi su questo Arsène Lupin e di tenere gli occhi ben aperti».
«Quindi se sono io a dire che Arsène Lupin è pericoloso vengo ignorato, mentre se l'informazione arriva da Mycroft... Dio, devo davvero falsificare un paio di lauree».
Ancora una volta Lestrade ignorò il suo farneticare e concluse: «Ti aiuterò, ma non credere che lo faccia solo per te. Molly mi aveva chiesto di accompagnarla alla Royal Opera House, non mi perdonerei mai se le succedesse qualcosa per colpa del mio stupido orgoglio».
Il consulente investigativo corrugò ancora una volta la fronte, confuso da quelle parole, ma non chiese ulteriori spiegazioni. Abbassò gli occhi sul terzo biglietto, quello che gli aveva fornito Arsène in persona e che aveva posato sulla scrivania quando aveva iniziato a spiegare le sue intenzioni a Greg.
«In questo caso è meglio se troviamo qualcun altro da infiltrare», esclamò.
Lestrade lo guardò negli occhi. «E chi?».
Un solo nome capitolò sulla lingua di Sherlock, ma non ebbe il coraggio di pronunciarlo. Si limitò a sospirare, sperando che tutto andasse per il meglio.

***

Geneviève si portò l'esterno del polso sulla fronte per scostare il ciuffo che proprio non ne voleva sapere di rimanere dietro l'orecchio sinistro e sorrise soddisfatta davanti alle teglie e alle pentole con le pietanze che avevano preparato e da cui si levavano profumi più che invanti.
«Abbiamo fatto proprio un bel lavoro, non pensi?», l'anticipò Molly.
«Spero gli piaccia...», rispose Geneviève, rabbuiandosi all'improvviso.
«Ehi!». L'anatomopatologa le tirò un colpetto col gomito, costringendola a rivolgerle lo sguardo. «Certo che gli piacerà! Ed è tutto merito tuo: se non avessi saputo che è vegetariano...».
La ragazzina le rivolse un sorriso teso, senza rivelarle che senza Grégorie avrebbero fatto una pessima figura. Questo a conferma di quanto poco conoscesse suo padre.
«Oddio, ma guarda che ore sono!», gridò Geneviève, il cui sguardo era caduto per caso sull'orologio appeso al muro. «Papà sarà qui tra mezz'ora e siamo un disastro!».
Molly fece per ribattere, ma le bastò darsi un'occhiata per darle ragione: entrambe avevano bisogno di una doccia e lei avrebbe dovuto anche prepararsi per il dopo-cena.
Geneviève si tolse il grembiule sporco e come quella mattina afferrò Molly per il braccio per trascinarla nel bagno, dove ci mancò poco che la spogliasse con le sue mani tant'era la fretta.
Se la donna le avesse chiesto perché volesse così disperatamente che suo padre la trovasse bella e che insieme trascorressero una serata piacevole non avrebbe saputo rispondere, perciò fu grata del modo in cui venne cacciata fuori dal bagno.
Un'idea però le attraversò la mente e Geneviève, di nuovo in piedi davanti alla tavola apparecchiata con cura per tre persone, si portò una mano sullo sterno: da sopra la maglietta tastò i ciondoli che le ricordavano sua madre e scosse il capo, realizzando che niente e nessuno sarebbe stato in grado di riempire il vuoto che sentiva in mezzo al petto. Illudersi in quel modo l'avrebbe solo fatta soffrire.
Con quella convinzione ciabattò fino alla camera degli ospiti e si cambiò la maglia sudata. Chi l'avrebbe mai detto che cucinare quei piatti della tradizione francese avrebbe richiesto un tale impiego di energie? Eppure sua madre cucinava per lei tutti i giorni, due volte al giorno... Non sempre erano piatti che richiedevano tempi così lunghi, ma prima di allora non si era mai resa conto di quanto anche le piccole cose avessero un peso così grande, sintomo di un amore incalcolabile.
Si lasciò cadere con la schiena sul letto e chiuse gli occhi, dicendosi che avrebbe riposato solo per dieci minuti, dieci minuti soltanto...

***

Arsène sospirò profondamente e scese dalla Porsche parcheggiata proprio davanti al portone del condominio in cui si trovava l'appartamento di Molly Hooper.
Alzò il colletto del cappotto e si guardò intorno, scorgendo immediatamente lo sguardo rassicurante di Grégorie, appostato dall'altra parte della strada. Quindi raggiunse il citofono e premette il pulsante di chiamata. L'anatomopatologa rispose immediatamente, sorprendendolo, e Arsène entrò nell'androne senza curarsi di chiudere il portone.
Salì in ascensore col cuore che gli batteva regolare nel petto, nonostante quel pomeriggio avesse attraversato una crisi umorale piuttosto grave. In qualche modo ne era uscito - aveva dovuto farlo, per mantenere la promessa fatta a Sherlock - ma non poteva dire di stare bene.
Il detective gli aveva offerto in cambio il suo aiuto, ma dubitava che avrebbe avuto successo. La verità era che forse non sarebbe mai stato bene. La sua vita era sempre stata segnata, fin dalla più tenera età, dal dolore e dalla solitudine. Probabilmente era il suo destino, un crudele e spietato destino al quale nemmeno l'incredibile Arsène Lupin poteva sfuggire.
Quando le porte dell'ascensore si aprirono il Ladro Gentiluomo inspirò nuovamente e fu in quel momento che si raggelò, sentendo nell'aria un profumo che gli ricordò casa. Poi incrociò gli occhi sorridenti di Molly Hooper, appoggiata allo stipite della porta aperta, coi capelli ancora un po' umidi raccolti in uno chignon e con indosso dei semplici jeans e una felpa di una taglia più grande.
Lupin non si vergognò della propria confusione, né tentò di nasconderla.
«Che cosa sta succedendo?».
Molly allora rise anche con la bocca e spalancò la porta, facendogli segno di entrare. Il ladro non le tolse mai gli occhi di dosso mentre percorreva i pochi passi che dal pianerottolo lo condussero all'interno dell'appartamento, ma fu costretto dal profumo di cibo ancora più intenso. I ricordi della sua infanzia lo colpirono come uno schiaffo in pieno volto, mai nitidi come in quel momento.
Sgomento guardò l'anatomopatologa per ricevere una spiegazione, ma lei si limitò ad affiancarlo e ad indicare la tavola apparecchiata, sussurrando: «Sorpresa».
Il cervello di Lupin non aveva mai lavorato tanto velocemente in vita sua, eppure, sopraffatto dall'emozione, non riuscì a cogliere il punto di partenza di quella catena di eventi che l'avevano condotto fin lì. Pensava che sarebbe entrato solo per prendere Molly sottobraccio ed accompagnarla a cena, invece qualcuno aveva scombinato tutti i suoi piani.
«Non capisco», ammise.
Molly sorrise, quella volta dolcemente, e gli passò accanto per prendere la bottiglia di vino che aveva già stappato e versargli un bicchiere di rosso. Arsène lo accettò e lo bevve tutto d'un fiato, senza mai toglierle gli occhi di dosso.
«Geneviève ha appena perso sua mamma, una delle persone che amava di più al mondo, se non l'unica», esordì finalmente l'anatomopatologa. «Io so cosa significa perdere un membro della propria famiglia e so che per superarlo c'è bisogno di stabilità. Niente e nessuno potrà mai riempire il vuoto provocato dalla mancanza di quella persona, ma poter contare su qualcun altro è un grande aiuto».
Arsène aprì la bocca per parlare, ma Molly sollevò una mano e lo azzittì.
«Aspetta, fammi finire. Io non ti conosco, non so se sei davvero il ladro che Sherlock afferma tu sia, ma prima di questo sei suo padre. Sono sicura che tieni moltissimo a Geneviève e che faresti qualsiasi cosa per lei, te lo leggo negli occhi. Lei ha bisogno di te, ora più che mai. E non sarà facile, dato che vi siete appena conosciuti, ma entrambi dovete ritagliarvi degli spazi per conoscervi e legare».
Si voltò per indicare di nuovo la tavola e con un angolo della bocca sollevato in un sorriso concluse: «Per questo ho mandato a monte i tuoi piani e ho deciso che la cena si sarebbe svolta qui, anziché in un ristorante di lusso. Anche perché, non prendiamoci in giro, io non sono il tuo tipo».
Lupin abbozzò un sorriso, mentre il proprio cuore si ricopriva di ghiaccio. Molly gli ricordava moltissimo Clotilde, con la sua gentilezza e determinazione, un'anima sensibile e al contempo forte come poche altre. Lui non si meritava donne del genere e forse non le avrebbe mai meritate, ma non poteva fare a meno di innamorarsene.
«Geneviève ed io abbiamo cucinato per tutto il pomeriggio e non abbiamo parlato molto, ma posso assicurarti che vuole fare una buona impressione, perché tiene a te. Si è impegnata moltissimo, perciò ti invito a fare lo stesso».
Arsène, ormai con un iceberg in mezzo al petto, si voltò verso di lei e dopo aver posato il calice vuoto sul bordo del tavolo le prese le mani tra le sue per guardarla intensamente negli occhi.
«Non avrei mai immaginato che sarei diventato padre e scoprire di avere una figlia e di essermi perso i suoi primi quindici anni di vita mi ha fatto soffrire moltissimo. Ma voglio recuperare, lo voglio davvero. Non so se ci riuscirò, ma di certo mi impegnerò. Ti prometto che mi impegnerò al massimo per non deluderla, Molly Hooper».
La donna sorrise ed annuì, quindi sciolse l'intreccio delle loro dita e con un cenno del capo la invitò a seguirla lungo il corridoio che portava alle camere da letto. Il ladro corrugò la fronte, mal interpretando le sue intenzioni, ma non aprì bocca. Fece bene, perché la stanza davanti a cui lo portò fu quella degli ospiti, dove vide una Geneviève addormentata, sfinita ma soddisfatta - o almeno così gli piacque pensare notando il piccolo sorriso che gli arricciava gli angoli della bocca.
«Che dici, papà, la svegliamo?», gli chiese Molly.
Arsène ricambiò il suo sguardo con un sorriso intenerito. «Non sarebbe giusto iniziare senza di lei».
La donna gli diede una leggera pacca sulla spalla. «Va bene, pensaci tu».
«Cosa? No, aspetta...».
Ma Molly era già andata. Per qualche motivo incrociare gli occhi di sua figlia e ringraziarla per quello che aveva fatto per lui lo metteva in agitazione.
Lupin però aveva affrontato ben altro nella sua carriera, quindi si fece coraggio con un respiro profondo e si avvicinò al letto, dove si sedette per rimirare l'innocente bellezza di quella ragazzina nata dall'unione tra lui e Clotilde.
Se ci pensava troppo finiva sempre per non credere di aver contribuito alla creazione di qualcosa di così stupefacente. E il dolore tornava a schiacciargli il petto, rendendogli difficile la respirazione, realizzando che per quanto avesse amato Clotilde lei non l'aveva comunque ritenuto sufficiente per permettergli di starle accanto durante la gravidanza e poi quando la loro bambina era venuta al mondo.
Non l'aveva ritenuto abbastanza allora, come poteva sapere che sarebbe stato un buon padre ora? A quella domanda Clotilde aveva semplicemente risposto che lo sperava, per il bene di Geneviève, la quale presto si sarebbe trovata sola.
Senza che se ne rendesse conto una lacrima gli era rotolata sulla guancia nello stesso momento in cui allungava una mano per sfiorarle i capelli biondi.
A quella carezza la ragazzina aprì gli occhi di scatto e si tirò su seduta, guardandosi intorno spaesata. Quando incrociò i suoi occhi lucidi, Geneviève trasalì.
«Papà, cosa...?».
Arsène però le portò una mano sulla nuca e con l'altro braccio le avvolse la vita, ignorando il dolore della frattura, per stringerla forte a sé.
«Devi perdonarmi, Geneviève», le sussurrò tra i capelli.
«Per che cosa? Papà, mi stai spaventando».
Il Ladro Gentiluomo si scostò e un sorriso gli sbocciò sulle labbra. «Non era mia intenzione, tesoro. Quello che voglio dire è che mio padre mi abbandonò quand'ero piccolo, perciò non so se sarò mai all'altezza di questo compito. Quindi mi perdonerai, se sbaglierò. Dovrai correggermi, insegnarmi... perché non ho alcuna intenzione di rinunciare a te, ora che so della tua esistenza».
Adesso anche Geneviève aveva gli occhi gonfi di pianto e gli gettò di nuovo le braccia al collo. Arsène la strinse e sorrise dolcemente, sentendo quell'enorme blocco di ghiaccio che gli aveva intrappolato il cuore sciogliersi.
«È pronto in tavola!», esclamò ad un tratto Molly dalla cucina, costringendoli a separarsi per guardarsi negli occhi.
Imbarazzata, Geneviève fu la prima a distogliere lo sguardo per giocare con il diamante azzurro che aveva appeso al collo.
«Non avevo idea di quali fossero i tuoi piatti preferiti, perciò... ho chiesto aiuto a Grégorie. Non sapevo nemmeno fossi vegetariano...», confessò.
All'inizio Arsène inarcò le sopracciglia per la sorpresa, poi il suo viso si rasserenò. «Te l'avrei detto sicuramente, prima o poi. Solo le persone importanti lo sanno».
«Maurice Leblanc lo sa?».
«No, non lo sa. E a proposito di lui...».
Geneviève sobbalzò e lo guardò con gli occhi spalancati. «Mi dispiace, avrei dovuto ascoltarti. È colpa mia se ora sa chi sono, l'ho sottovalutato».
Arsène le passò una mano tra i capelli fino a posarla di nuovo sulla sua nuca ed avvicinare il viso al suo, tanto da far toccare le loro fronti.
«Avrei dovuto capire subito che impedirti qualcosa ti avrebbe solamente fatto venire ancora più voglia di farla. Sei come me in questo».
«Quindi... non sei arrabbiato?».
Arsène fece finta di pensarci, arricciando il naso, poi scosse il capo con una risata sulle labbra. «Ci si può fidare di Maurice».
Geneviève ricambiò e sospirò di sollievo. Fece anche per aggiungere qualcosa, ma Molly comparì nel rettangolo della porta aperta ed esclamò: «Avanti, si sta raffreddando tutto!».
Entrambi rizzarono la schiena e risposero: «Arriviamo!». Poi si guardarono negli occhi e senza nemmeno parlare decisero di fare una gara a chi arrivava per primo.
Molly li osservò dal corridoio, con le mani posate sui fianchi e un sorrisino soddisfatto sul volto, e poi scuotendo il capo li seguì.

***

«Non capisco perchè siamo qui. Mi avevate detto che dovevo andare a vedere un qualche spettacolo!».
«È inutile, Philip. Da qualsiasi prospettiva tu lo guardi, rimarrà sempre un pedinamento: stiamo spiando Molly».
Sherlock, seduto sui sedili posteriori, incrociò le braccia al petto e guardò severamente prima Lestrade e poi Anderson, ma non aprì bocca. Tamburellò nervosamente le dita sulla gamba e guardò di nuovo l'ora. Arsène era salito ormai da un quarto d'ora, per quale motivo si stava attardando tanto? C'era anche lui quando aveva detto a Molly che sarebbe passato a prenderla prima per poter andare a cena. Che nel frattempo i loro programmi fossero cambiati?
Selezionò il numero di John e si portò il cellulare all'orecchio, trepidante.
«Sherlock, stavo giusto per chiamarti», esclamò il dottore.
«Che cos'è successo?».
«Mi è appena arrivato un sms da parte di Molly: a quanto pare ceneranno a casa e poi, prima di andare all'opera, accompagneranno qui Geneviève».
«Capito, grazie». E senza aggiungere altro terminò la comunicazione.
Trovò gli sguardi di Lestrade e Anderson puntati addosso, in attesa di spiegazioni, ma Sherlock li ignorò, tornando a fissare le finestre dell'appartamento di Molly.
Perché stava ignorando in modo così plateale le sue raccomandazioni? Sembrava quasi lo stesse sfidando a prendere provvedimenti, a mettere una volta per tutte le carte in tavola, ma Sherlock non si sarebbe fatto abbindolare. Se l'anatomopatologa voleva giocare col fuoco, nonostante gli avvertimenti e la possibilità di scottarsi, lui non gliel'avrebbe impedito.

***

«Mon Dieu, erano anni che non mi concedevo una cena simile. Credo che potrei scoppiare», esclamò Arsène, abbandonandosi contro lo schienale della sedia e portandosi entrambe le mani sulla pancia piena.
Molly sorrise mentre avvicinava alla bocca il proprio bicchiere di vino. «Avresti potuto evitare di fare il bis di tutto».
«Ma era tutto così buono!», si difese. «La zuppa di cipolle, la ratatouille, il gratin dauphinois... erano tutti squisiti e molto simili a come li preparava mia madre».
Geneviève abbassò gli occhi, imbarazzata, quando il padre si sporse dal suo posto di capotavola per posarle un bacio sulla fronte.
«Merci beaucoup, ma chérie».
«Io aspetterei a ringraziarla, se fossi in te», si intromise Molly, facendole l'occhiolino.
La ragazzina si alzò e sotto lo sguardo scioccato del padre andò a tirare fuori dal forno spento il dessert che aveva voluto a tutti i costi preparare da sola e di cui andava estremamente fiera. Il solo profumo era qualcosa di paradisiaco.
Geneviève sistemò in mezzo al tavolo il piatto su cui aveva sistemato la torta e poi tornò in cucina per prendere tre piattini puliti, un coltello e una spatola. Passò gli ultimi a suo padre e con un lieve sorriso disse: «A te l'onore».
Arsène guardò ripetutamente la torta e poi la figlia, incredulo. «Ma questa è...».
Geneviève annuì col capo. «La Tarte Tatin che ti faceva la mia, di mamma. Quand'ero più piccola la faceva spesso anche a me, essendo il mio dolce preferito, e ogni volta mi raccontava quanto ti piacesse».
«Oh, tesoro...». Con gli occhi lucidi, Arsène si alzò ed abbracciò la figlia, la quale ricambiò affondando il volto nell'incavo tra collo e spalla.
Gli sguardi del Ladro Gentiluomo e di Molly si incrociarono per un attimo e fu lei a distoglierlo per prima, afferrando la bottiglia di vino e versando ciò che ne rimaneva nel bicchiere di Arsène e nel proprio. Poi versò della Coca-Cola in quello di Geneviève e disse: «Mi sembra l'occasione giusta per fare un brindisi».
Arsène lasciò che la figlia si scostasse, ma le tenne un braccio avvolto intorno alle spalle mentre annuiva e sollevava il proprio bicchiere.
«A Clotilde», esclamò il ladro. «E alla famiglia».
Tutti e tre fecero scontrare delicatamente i loro calici e bevvero. Quindi Lupin, armato di coltello e spatola, affettò la torta di mele rovesciata ancora tiepida e la versò nei piatti.
Alla prima forchettata Arsène ricordò quando, quindici anni prima, si era svegliato da solo nel letto che lui e Clotilde condividevano e sul tavolo della cucina aveva trovato il suo biglietto di addio, posato accanto ai resti della sera prima della sua torta preferita. Quella era stata l'ultima volta che l'aveva mangiata, tuttavia ne ricordava perfettamente il sapore e non mentì quando disse a Geneviève che la sua era buona tanto quanto quella di Clotilde, se non di più.

***

Quando finalmente il portone del palazzo si aprì, lasciando uscire Geneviève, Arsène e un'elegantissima Molly, Sherlock stava per fare qualcosa di veramente folle: piombare in quello stesso appartamento e... Il seguito non lo sapeva, dato che non aveva la minima idea di quale scena avrebbe potuto trovarsi davanti, e di conseguenza nemmeno immaginarsi la sua reazione.
Per fortuna non era dovuto arrivare a tanto, anche se iniziò a pentirsene quando vide il sorriso felice sul volto della ragazzina e gli sguardi complici di Arsène e Molly. Guardandoli aveva l'impressione che si fosse creato una sorta di legame tra loro, avvicinandoli in una maniera che Sherlock aveva già visto in passato e di cui aveva paura.
«Non sembra davvero il criminale che mi ha descritto Mycroft», esclamò Lestrade, guardando Arsène attraversare la strada, diretto verso un SUV nero.
«Che sta facendo?», domandò invece Anderson.
Sherlock si sporse tra i due sedili anteriori. «Sta prendendo accordi col suo uomo. Si spaccia per il suo maggiordomo, ma in realtà, se dovesse succedergli qualcosa, sarebbe lui a prendere il comando dell'intera organizzazione».
Geneviève salutò il padre e Molly e poi salì nel SUV, le cui luci si accesero poco prima del motore, per poi lasciare il parcheggio e dirigersi verso l'incrocio.
«Dobbiamo seguirlo?», chiese Greg.
«No, a noi interessa Lupin».
Sherlock scrisse rapidamente un sms a John per avvisarlo che Geneviève sarebbe stata lì in meno di quindici minuti, poi tornò a fissare le mosse di Arsène e Molly, i quali si erano già avvicinati alla Porsche.
Lui le aprì la portiera e le porse la mano guantata come un vero gentiluomo e lei lo ringraziò sorridendo. Quindi il ladro fece il giro dell'auto e si mise al volante.
Sherlock disse a Greg di tenere una cinquantina di metri di distanza - come se l'ispettore di Scotland Yard avesse bisogno di sapere come ci si comportava durante un pedinamento - e finalmente si diressero verso la Royal Opera House.  

«Mi sentite? Uno, due, tre, prova».
«Sì, ti sentiamo», confermò Sherlock, spostatosi sul sedile del passeggero per poter mostrare anche a Lestrade quello che riprendeva la telecamerina appuntata al fiore all'occhiello dello smoking di Anderson.
L'ex-agente della scientifica era appena entrato nel teatro con il biglietto del detective e si stava dirigendo verso il suo posto. Nonostante fossero arrivati insieme, Arsène aveva sfruttato i suoi agganci non solo per lasciare l'auto ad uno chaffeur, ma anche per saltare la fila chilometrica.
Quando Anderson raggiunse la balconata da cui avrebbe assistito allo spettacolo, Sherlock notò la perversione di Lupin e fu solo grazie alla prontezza di riflessi di Greg se non ruppe a metà il laptop che aveva sulle gambe.
«Quello sfacciato!», ringhiò irritato.
L'ispettore di Scotland Yard prestò più attenzione alle immagini ed anticipò persino Anderson riconoscendo Arsène Lupin e Molly Hooper seduti nella galleria opposta, perfettamente inquadrati dalla telecamera. Ne derivava che se Sherlock si fosse presentato non solo avrebbe assistito a ben altro spettacolo, ma sarebbe stato inevitabilmente visto dall'anatomopatologa, con chissà quali conseguenze.
Le luci si abbassarono e il silenzio calò sugli spettatori, dopodiché i fari illuminarono il palco e i primi personaggi fecero la loro comparsa.
Lestrade tolse l'audio - non era un fan dell'opera e tecnicamente, non essendo quella un'operazione autorizzata dalla polizia, stava commettendo un crimine - e si voltò verso il detective. Preferì non commentare la scelta dei posti di Lupin, ma decise di sfruttare l'occasione per cercare di capire che cosa fosse successo davvero tra lui e Molly. Qualche giorno prima infatti, riflettendo ed incastrando tutti i pezzi di informazioni che possedeva, gli era sembrato di vedere della luce in tutta quella oscurità, ma doveva esserne sicuro.
«Posso farti una domanda?».
Il consulente investigativo incrociò le braccia al petto, sulla difensiva, perciò prima che potesse dirgli che non era il momento, Greg lo anticipò: «Mi chiedevo se esiste un collegamento tra quello che è successo a Sherrinford e il tuo evitare Molly».
Sherlock non rispose, ma il modo in cui strinse gli occhi, chiari come il ghiaccio, fu di per sé una risposta.
«Che cosa te lo fa pensare?».
«La cronologia dei fatti, solo questo. Un po' poco, lo so, però... Anche il fatto che Mycroft, quando è passato a consegnarmi quei fascicoli su Lupin, mi abbia raccomandato di non parlare della faccenda ad anima viva...».
«Lui che cosa?», domandò Sherlock, irrigidendosi improvvisamente.
Lestrade lo fissò stupito. «Sì, mi ha fatto capire che non dovevo lasciarmi scappare nemmeno una parola su tua sorella, dimenticarmene addirittura».
Il consulente investigativo si accigliò ulteriormente e un ricordo gli balenò davanti agli occhi, lasciandolo come stordito: Arsène Lupin nel suo salotto, che parlava di carta da parati. Che cosa gli aveva chiesto?
«Perché non l'avete cambiata?».
Sherlock si portò le mani sulla testa, gli occhi sbarrati per via della propria cecità.
In quel momento, eccitato com'era dalla scoperta della figlia segreta del ladro, non aveva prestato attenzione all'uso delle sue parole e del loro possibile significato. E se le avesse mal interpretate? E se Arsène avesse voluto dire, in realtà: «Perché, già che c'eravate, non l'avete cambiata?».
Conosceva le sue capacità deduttive - era bravo tanto quanto lui - eppure non ci aveva neppure pensato. Invitandolo al 221B gli aveva permesso di guardarsi intorno e di raccogliere indizi preziosi.
Forse allora sapeva già del finto incidente che aveva distrutto il suo appartamento e aveva fatto lo stesso semplicissimo ragionamento di Lestrade, immaginando che quell'esplosione e il suo allontanamento da Molly fossero collegati. A quel punto aveva sfruttato la mossa di Geneviève e aveva lasciato che fosse lui stesso ad aprirgli la porta, dandogli così modo di confermare le sue teorie e cercare il pezzo mancante: ciò che collegava i due eventi.
«Sherlock, che cosa c'è?».
Il detective rialzò gli occhi in quelli dell'ispettore e si rese conto dell'altro errore grossolano che aveva commesso.
«La chiamata di Ganimard. Da quale telefono gli hai permesso di chiamarmi?».
Lestrade lo guardò come se fosse pazzo e in effetti la sua espressione poteva essere definita tale, tant'erano lo sgomento e la frustrazione che provava.
«Rispondimi, Greg!».
«Gli ho fatto usare il telefono del mio ufficio!», gridò in risposta l'uomo, senza saperne il motivo.
«Dannazione!».
Sherlock uscì dall'auto e si sbatté la portiera alle spalle, passandosi poi la mano sulla bocca. Lestrade lo imitò poco dopo e fece il giro del veicolo per poterlo guardare in volto.
«Mi vuoi spiegare che cosa ti è preso all'improvviso?».
Il consulente investigativo lo osservò a lungo, poi esclamò: «Togliti la giacca».
«Che cosa?».
«Fidati di me».
Greg si arrese e fece come gli era stato chiesto. Seguendo le istruzioni del detective la lanciò sui sedili posteriori, poi riaccese l'audio del laptop e lo impostò al massimo. Il Don Giovanni era ancora al primo atto, mentre Sherlock non si era accorto di essere stato lui stesso protagonista di una trama architettata nei minimi dettagli dal Ladro Gentiluomo, il cui scopo - scoprire il o i motivi del suo cambiamento in fatto di relazioni - non era mai cambiato.
«Io mi sono fidato, ma se mi prendo il raffreddore giuro che...».
Sherlock lo interruppe con un'occhiata tagliente e le seguenti parole: «È probabile che Arsène ti stia facendo sorvegliare».
La bocca dell'ispettore si aprì in una O di shock.
«Ricordi quando ti dissi che c'era una sua talpa a Scotland Yard?», riprese Sherlock. «Ho appena realizzato che per lui sarebbe stato molto più comodo e soprattutto più redditizio installare delle cimici. Nel tuo ufficio, sulla tua auto, forse persino nella tua giacca... Ricordi di aver mai lasciato il cellulare incustodito nelle ultime settimane?».
«No, non credo, ma...».
«Comunque sia, d'ora in avanti sarà meglio evitare di scambiarci informazioni sensibili tramite telefono o nei luoghi che frequentiamo di solito».
«Informazioni...? Ma di che stai parlando, Sherlock?!».
Lestrade era allibito e anche un po' spaventato. L'aveva visto furioso, sballato, eccitato, preoccupato, ma mai così paranoico. Non lo reputava nemmeno possibile, dato che lui riusciva a prevedere le mosse di chiunque. Che Arsène Lupin fosse un rivale formidabile ormai era assodato.
Sherlock lo guardò e lentamente i suoi occhi spiritati lo misero a fuoco. Quindi si portò di nuovo le mani tra i capelli, ma quella volta lo fece respirando profondamente per riacquistare il proprio autocontrollo. Quando tornò a guardarlo, Greg realizzò con sollievo che finalmente era tornato in sè.
«Tu sei uno dei pochi che sa la verità su Sherrinford, o almeno una parte», iniziò a spiegare. «Mycroft ha capito prima di me che Arsène avrebbe indagato e ha cercato di metterci in guardia, ma io come uno stupido mi sono fatto distrarre da...». Irene. Molly. Geneviève. «Da altro».
Dopo un momento di silenzio, Lestrade giunse finalmente alle conclusioni: «Quindi con le cimici avrebbe capito quando far ritirare la denuncia contro Ganimard e ora...».
Sherlock annuì, scuro in volto. «Ora potrebbe aver scoperto che ho una sorella».

***

In una stanza del Savoy Hotel in cui il letto non era mai stato usato, uno degli uomini della banda di Lupin si tolse le cuffie ed imprecò in francese per via di un improvviso acuto della cantante d'opera. Quindi si alzò dalla propria postazione e guardò il collega mentre questi ricontrollava la trascrizione dell'ultima conversazione tra Sherlock Holmes e l'ispettore Lestrade di Scotland Yard, la convertiva in un file criptato e la inoltrava per email al loro superiore.

Grégorie, seduto nello stesso SUV nero con cui aveva accompagnato Geneviève a casa del dottor Watson, davanti alla quale era ancora parcheggiato, in attesa, ricevette un'email sul cellulare del lavoro.
Aprì il file criptato e lesse gli ultimi risultati di quella lungimirante operazione di sorveglianza. Finalmente avevano ottenuto delle informazioni di valore, ma al tempo stesso erano stati scoperti.
Rispose all'email dando istruzioni perché interrompessero l'operazione e distruggessero a distanza le cimici, in modo da complicare ulteriormente il lavoro della scientifica, poi scrisse un sms.

Cattiva notizia: cimici bruciate.
Buona notizia: SH ha una sorella.

Arsène sentì il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni e fu tentato di ignorarlo - sarebbe stato da maleducati nei confronti degli attori e della sua accompagnatrice - ma il pensiero che potesse trattarsi di Geneviève lo spinse a sbloccarne il display e controllare.
Un sms da parte di Grégorie.
Lo aprì e lo lesse diverse volte, sentendo un sorriso allargarsi sempre di più sulle sue labbra. Alla fine fu costretto a portarsi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere, ma il modo in cui gettò indietro il capo attirò l'attenzione di Molly Hooper, la quale lo fissò prima con cipiglio perplesso e poi con preoccupazione.

Anderson intuì subito che qualcosa stava per succedere quando vide Arsène Lupin distogliere lo sguardo dallo spettacolo.
Una debole luce, ma perfettamente visibile anche da quella distanza, gli illuminò il viso e l'ex-agente della scientifica rabbrividì nello scorgere il suo sorriso. Fu ancora peggio quando lo sorprese in un attacco di riso, perciò decise di contattare Sherlock e Lestrade. Non ricevette alcuna risposta.  





Scusate, ma non ho potuto trattenermi dal citare Smaug* e Doctor Strange** (entrambi ruoli del nostro Benedict). Che burlona! xD
E ho anche fatto unpo' di fanservice con quella battutina di Sherlock su Lestrade e Mycroft. #sorrynotsorry

   
 
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