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Autore: Le VAMP    11/12/2017    0 recensioni
*19/03/2020 - Modificati quasi tutti dialoghi. Tagliate alcune scene.
"Io sono convinto, signore, che in questa casa le tragedie sarebbero nate anche se la sventurata Chloe Ardennes non fosse venuta a sconvolgerci la vita”
– Pierre d'Alembert"  
Il gatto nero narrò le pene d'una ragazzina, vittima d'amore cieco verso il suo signorino ("Ballata dell'Amore Cieco o della Vanità"), in verità già perso per quella sventurata pianista piena d'amor da offrire ("Bocca di Rosa"), e ch'egli continuò a desiderar finché l'ingordigia non rivestì di sangue e lacrime la dimora d'Alembert ("La canzone di Marinella"). Che meravigliose storie hanno da raccontare i demoni!
Così, si diede inizio al primo atto, e a seguirlo venne l'intermezzo, con ciò il racconto proseguiva!
Genere: Drammatico, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I°Atto – La ballata dell’amore cieco (o della Vanità)

“Morir contento e innamorato quando a lei nulla era restato
Non il suo amore, non il suo bene,
ma solo il sangue secco delle sue vene”

Questa storia s’apre con un omicidio a sangue freddo, andando a mostrar come l’ossession distrugga un cuore prima che uno psicopatico distrugga il corpo.

Il tempo in cui quella ragazzina andò a lavorare per loro a casa sua si raccomandarono: “sii sempre una fedele servitrice”.
Se non erano soddisfatti del suo lavoro? Avrebbe dovuto ripulire tutto da capo; se le chiedevano di gettarsi in un pozzo? Avrebbe dovuto farlo.
La sua famiglia era in carenza di danaro, e non sarebbero riusciti a tollerare complicazioni. Fu così che ebbe modo di incontrare il più buono e il più bel giovinetto che lei avesse mai potuto conoscere in vita sua.
Scoprì da sé di esser divenuta la migliore delle inservienti quando si trattava di far qualche lavoro per lui, andando a impegnarsi determinatamente perfino nei più futili degli incarichi, e quelli erano i momenti più belli perché le sue colleghe e la capo-cameriera andavano a complimentarsi per la meticolosità con cui svolgeva le sue mansioni.
Tutti si complimentavano quando faceva l’azione giusta, tranne il suo amato signorino Michel. Più i giorni passavano e più vedeva in lui crescere la scontentezza, e la sgarbatezza quando gentilmente le pregava di allontanarsi nei momenti in cui la scopriva a fissarlo incessantemente ogni mattina intento a risvegliarsi.

Charlotte si chiedeva perché il signorino sobbalzasse spesso nel vedere che lo seguiva, perché si sforzava nel parlarle ed instaurare un buon dialogo quando lei leggeva chiaramente nel suo sguardo che voleva sol fuggire lontano dai suoi occhi. Perché non desiderava che vegliasse su di lui?

Un giorno andò a dirgli: “Signorino, v–voglio migliorare le cose, p–per cui, accetto di svolgere qualsiasi incarico vogliate affidarmi pur di guadagnarmi la vostra fiducia”. La ringraziò, ma la ignorò. Non le chiese mai niente: tutto cambiò quando la signorina Ardennes gli supplicò di rifugiarsi nella loro casa; accadde a notte fonda. I due fratelli –e stranamente il signorino Michel già la conosceva– consigliarono alla ragazzina di dormire assieme alle domestiche per far sì che il padrone non si accorgesse della sua presenza, e di uscir soltanto quando egli non fosse in casa. Andarono avanti così per una settimana, forse per un mese, e di tanto in tanto ora che erano in tre e la nuova arrivata cercava di far andar tutti d’accordo capitava non solo che spesso si udivano risate che da tempo erano scomparse in quella casa –e di questo il padrone pareva contento: notava che c’era un miglior rendimento nelle performance dei figli, e forse avrebbe annullato l’accordo con Alain–, ma anche che lei, una semplice domestica, fosse invitata a quelle sessioni di gioco, arrivando a farle dimenticare quali fossero le sue mansioni e per questo, il giorno dopo, cominciasse a venir severamente rimproverata.
Certo, Charlotte si divertiva senz’altro di più ora che l’atmosfera in quella casa era cambiata, ma l’idea di esser rimproverata e spesso punita –percepiva su di sé l’odio quando questo accadeva– la gettava in sconforto e presto la costrinse a rinunciar a quegli attimi di fuga: per quanto Chloé Ardennes potesse andare a scusarsi con lei o farle trovare qualcosa della cena negata che era andata astutamente a procurarle, quella la vedeva come una serpe pronta a mordere. Tentava, ma la povera domestica andò presto a convincersi che quella lì in realtà impazziva di gioia nel cuore nel vederla in condizioni inferiori alla sua.
E mentre il sole s’alzava e calava ininterrottamente e la giovane continuava a tentare, Charlotte fu più furba e continuava a rifiutare le sue gentilezze; ma da parte del signorino ancora nessuna richiesta.

Arrivò uno di quei giorni in cui il padrone rientrò, e in quelli l’intrusa doveva allor rimaner nascosta. Accadde che Charlotte, che ormai non ne poteva più di tener una fanciulla in più, realizzò che quello era il momento adatto per mandarla via: sapeva che il padrone era strettamente legato al padre della ragazzina, e non appena l’avrebbe scoperta nella loro casa avrebbe dato una mano al suo caro amico e l’avrebbe chiamato. E probabilmente suo padre l’avrebbe punita duramente per quella fuga.
La convinse ad uscire, a presentarsi, perché in fondo “il padrone è tanto buono e conoscendo la tua situazione vedrai che ti terrà al sicuro. Non è giusto che tu che vivi in questa casa ti nasconda sempre ai suoi occhi”. I piani non funzionarono perché il signorino s’intromise, conoscendo perfettamente l’insensibile animo del proprio vecchio, e da allora guardò duramente la domestica. Si sentiva ora come ora odiata dal suo amato signorino, e questo fatto la fece cadere in un profondo oblio di disperazione.
Da quell’avvenimento il loro rapporto peggiorava a vista d’occhio, ed ella pensò che fu proprio perché sapeva del suo desiderio di veder la signorina lontana da casa che lui le pregò il primo favore: aveva scritto una falsa lettera che avrebbe tenuto impegnato il padre per qualche giorno. Quello era un dispetto che andava a farle, ma Charlotte, la fedele ed innamorata inserviente, avrebbe obbedito senza fiatare e magari di questo se ne sarebbe rese conto. E allora sarebbe stato suo.

Così non fu.
Quando il padrone tornò, adirato per ciò che era accaduto, scatenò la furia in quella casa per la sfrontatezza del figlio: prima lo rimproverò severamente, poi confermò quella decisione che in verità aveva preso da tempo. I fratelli d’Alembert non avrebbero mai più suonato insieme.
Da lì si andarono a scatenare due reazioni opposte in loro, seppur dettate da un sentimento comune come la frustrazione: il minore fece per rassegnarsi presto e seguire i voleri del padre, ma il signorino Michel…
Non si stava comportando da buon figliuolo devoto. Andava a far capricci, non capiva quali fossero le esigenze della famiglia ma; no. Charlotte in fondo ci pensava: non poteva essere colpa sua, come voleva farle credere suo fratello: era invece proprio sua la responsabilità! Non riusciva a pareggiarlo come il padrone voleva, né si esercitava abbastanza, e questo faceva rabbia al povero signorino che invece voleva solo tenere il fratello al suo fianco.
Fu una situazione che per lungo tempo neanche Chloé Ardennes riuscì a sanare, anche perché, essendo più spesso presente il padrone in casa, le stesse domestiche le consigliavano di non uscire dal loro dormitorio poiché se il padrone l’avesse scoperta probabilmente avrebbe punito severamente anche loro.
La notte in cui litigarono, tuttavia, Chloé non riuscì a starsene con le mani in mano.

Anche Charlotte era sveglia quella notte –in fondo dormivano nella stessa camera ed entrambe condividevano lo stesso piano di ascolto– e se ne accorse che la pianista era già in piedi e stava uscendo col camice da notte dalla camera dopo essersi riparata dal freddo con una sciarpa. Stranamente, da quanto la domestica andò ad aspettarsi, quando Chloé entrò nella grande sala delle prove da cui lei invece vide uscire il signorino Michel per andare a rifugiarsi nel soggiorno realizzò che la signorina non lo stava seguendo, ma si era fermata lì a discuter con l’altro gemello.

Non si interessava a quello che accadeva lì dentro, quindi non si mise ad ascoltare. Piuttosto non perse tempo a soccorrere il primogenito a cui erano state rivolte orribili parole d’odio. Quando lo vide in lacrime il suo cuore fu inondato da una tristezza infinita, ma non riuscì a far altro che ammirarlo perfino nel dolore.
Egli non considerava minimante che anche lei fosse in quella stanza, preferendo continuar a guardare il fuoco come a sperar che asciugasse le lacrime.
«Non è colpa vostra, signorino. Non avete bisogno di vostro fratello: dovete concentrarvi e vedrete che continuerete a migliorare ancora di più, ce la farete da solo», ma come non si accorgeva di lei prima, non se ne rese conto nemmeno in quel momento. Parve anzi lacrimar più forte, e gridare al mondo “basta”, senza saper nemmeno lui a chi si stesse rivolgendo; e così cadde in ginocchio di fronte al camino.
Quello fu, forse, il primo momento in cui Charlotte realizzò che non era il momento per dimostrare la sua devozione. E con saggia decisione si mise da parte, lasciando che le fiamme danzanti lo incantassero e distraessero dal suo fardello.
Andò a nascondersi dietro una porta, e attese un attimo che anche la signorina uscisse da una sala per recarsi nella camera del caminetto, quindi si nascose come un’ombra per esser testimone di quanto sarebbe accaduto.
In quel momento il ragazzino stava farfugliando qualcosa sull’odio: odiava il violino, suo padre, tutti, tutti quanti. E quando la ragazzina entrò, con un tenero sorriso a stendersi sulle labbra, non poté fare a meno di intromettersi nel discorso, mentre egli aveva preso a singhiozzare:
«Odi anche me?» così dicendo rimaneva ancora affacciata alla porta, con la gonnella del camice bianco che svolazzava lievemente per via della corrente che giocava infantilmente a entrar e uscire da ogni fessura e piccolo buco. All’inizio sobbalzò, limitandosi ad osservarla mentre questa lentamente chiudeva la porta e gli si avvicinava, chinandosi poi alla sua altezza.
«T-tu, tu…che altro ti ha detto quel-»
E non gli fece terminar il discorso che pregò, agitando le mani, di non sforzarsi a parlare: «Shh, non dire così, andrà tutto bene» e non poté far altro che sorridere. Di conseguenza, il violinista non poté far altro che riprendere a frignar e gettarsi tra le sue braccia accoglienti che lo invitavano a rifugiarsi e a far riposar il capo sul suo petto.
Di lì fu una fontana che si venne a consumar, mentre l’altra gli carezzava di continuo i capelli, intenta a rassicurarlo con quel gesto materno che solo lo si può tirar fuori quando una femmina si ritrova a trattar con un cucciolo.

«Non sapevate quello che dicevate, sono cose che capitano…vedrai che passerà tutto» e si sfilò la sciarpa dalla gola, andando a coprir quella del giovinetto in lacrime. Ed allora Chloé si pentì amaramente di quando, nelle fredde notti in cui il padre la svegliava e infastidiva, andava a sostituir quelle ruvide e schifose mani che le scorrevano sulla pelle con quelle dell’amore suo.
Ed intanto la domestica curiosa, che invece di coricarsi aveva da poco terminato di spiar, tremava visibilmente poggiata al muro come continuava a tremar la fiamma del camino, e quando da poco riemerse dal suo dolore volle veder l’ultimo atto di quella straziante scena: l’attimo in cui il signorino riemerse il capo e delle lacrime erano rimasti solo i segni attorno agli occhi rivide nel modo in cui guardava la compagna qualcosa di nuovo e che era troppo presto per esser acceso. Ciò stava a significare che il serpente lo aveva morso.  
Charlotte, che non poteva sopportare ancora di tutto quell’affetto che andava diffondendosi, se ne andò, lasciandoli finalmente soli.

Allora altri giorni passavano e il signorino si mostrava sempre più distaccato nei suoi confronti; e lei non poté far altro per rimanergli legata che non spiarlo e vegliarlo in segreto, nascosta dall’ombra. Vedeva il nero che andava a impossessarsi del suo animo, e della magnanimità che, lei sentiva, egli stava perdendo a vista d’occhio. Ogni sguardo era per quella, la sua attenzione era per quella, e non riusciva a stare un giorno separato da lei che si preoccupava di andare a chiedere alla governante come stesse. Non c’era serenità nelle sue domande, ma cupezza e una strana intenzione che gli stava nascendo dalle viscere e di cui, Charlotte sapeva, l’avrebbe portato alla condanna.
Quando se ne accorse non poté fare a meno di far diffondere il suo odio per Chloé Ardennes come una macchia d’olio: gli aveva rubato l’anima; e glielo stava portando via.

Una di quelle notti in cui lei era sveglia e la vide particolarmente cupa e preoccupata pensò bene di incuriosirsi a proposito:
«Non riuscite a dormire, signorina?»
Ed ella scosse la testa. Guardava in alto, verso il soffitto, col capo poggiato al cuscino e le mani intrecciate sul grembo.
«Se è per il signorino, sappiate che è per colpa vostra. Prima del vostro arrivo non si comportava di certo come un ossesso»
«C-cosa vorresti dire?» ed allora la serva divenne padrona e si sollevò dal proprio letto apposta per andare a rimproverarla della sua negligenza. La prese per le spalle andando a gettarle fiammate di collera tramite il suo solo sguardo e buttarle contro la cruda verità: «Siete stata voi a maledirlo!», e i suoi occhi viola divennero grandi per la paura quanto il fondo di un pozzo nero. La giovane sbiancò d’un tratto e si immobilizzò come un pezzo di ghiaccio.
Senza aggiungere altro, dopo aver passato parecchi minuti in quella posizione –tant’è vero che nel frattempo Charlotte era tornata a dormire, o finger di farlo perlomeno–, a tardo orario si alzò dal letto.
«Cloé è…è…colpevole…Cloé è colpevole» fu la prima volta che la sentì parlare di sé in terza persona, prima che si allontanasse dalla stanza.
Come un fantasma si mosse con il solito camice bianco per le camere delle cameriere, poi andò nella cucina. Da lì, guardando un punto fisso al muro come se fosse ipnotizzata, nemmeno si era accorta di una presenza nefasta che la seguiva, quindi cercò un coltello, e quando lo trovò stette per piantarselo nel cuore.

Una mano fermò la sua, cogliendola alle spalle e chiamando il suo nome: era Michel, che le gettò via il coltello e poi non poté far altro che stringerla, facendo giungere le mani sul suo grembo e tenendola a sé, consapevole che in un attimo l’avrebbe persa per sempre. La signorina tremò da quando fu arrestata al momento della lunga stretta, poggiando invece le mani sul tavolo, inerme e quasi turbata sia da quel gesto d’affetto che andava a ricevere che dalle ultime parole che udì dal suo salvatore: “Non provare mai più ad abbandonarmi in questo modo”.

Charlotte era ancora una volta lì. Per qualche strana ragione era disgustata nell’assistere a quello che le si presentava davanti: la schifava il modo in cui lui di curvarsi e aderire alla schiena della signorina, il modo in cui vedeva i loro bacini tanto accostati e da quelle mani che scivolarono sulle braccia e poi sui suoi fianchi. Quell’istante le sarebbe rimasto per sempre impresso, perché ci vedette per la prima volta non il suo buono e bel signorino che deliziava le orecchie col suo violino, ma quel famoso vecchio e infame padre da cui la fanciulla era fuggita.

In quel solo momento la domestica pensò che forse non valeva la pena rimanergli devota, perché ormai era stato dannato.

Quando Michel la lasciò stare questa cadde in ginocchio e perse la sua compostezza, prendendo a lacrimare e singhiozzare come non faceva in vita sua dai nove anni d’età, quando le fu rubata l’innocenza. Sapeva che la stava per rubare a qualcun altro, e Charlotte, sempre per la prima volta da quando Chloé si trovò a viver con loro, fu in pena per lei.

Quindi egli si avvicinò alla domestica, che sapeva esser nascosta dietro la parete, e ben attento a non farsi sentire le andò a sussurrar senza nemmeno guardarla: «Domani all’alba raggiungimi nello stanzino degli utensili, ho il mio ultimo favore da chiederti». Stette tutta la notte a pensarci, dopo che si vide costretta ad aiutare la signorina a rialzarsi e a riaccompagnarla a letto: fu un compito faticoso, poiché prima volle sfogare tutte le ultime lacrime che le restavano sul grembiule della domestica. E Charlotte non poté far nulla per quella testa che si chinava sul suo grembo a chiederle conforto, così prima le passo la mano sul capo, poi strinse due o tre ciocche di quei capelli scuri sperando nell'impeto della sua rabbia e del desiderio di vendetta di farle del male, ma quando quel corpo fragile le singhiozzò addosso e tremò, non poté far altro che accompagnarla nel pianto, e indebolire la stretta, e trasformar la sua mano crudele in dispensatrice di carezze e pietà, sapendo che avrebbero patito la stessa sorte di abbandono e morte da quel vecchio giovine a cui entrambe volevano bene.
Terminò di piangere i suoi dolori e allora, la giovane divenne un cadavere che miracolosamente respirava, e fu riportata a letto di peso.
Dunque la piccola inserviente risistemò le stanze e poi si rimise anch’ella a letto. Quella notte andò a immaginar quale potesse essere l’ultimo favore, e preferì illudersi che il favore glielo facesse a lei, andando a dire che l’avrebbe amata. 

Così non fu.
Colori rossastri e arancioni passavano attraverso le fessure delle finestre, formando fasci di luce nella camera buia del dormitorio. Charlotte si alzò, camminò lesta fino allo stanzino e aprì la porta: questo era rivestito dal nero più nero, e poggiato al muro già l’attendeva il signorino dall’aria più cupa della stessa camera, col volto illuminato dalla luce di una candela. Dalla prima volta in cui iniziò a temerlo Charlotte si rese conto che le aveva chiesto difatti l’ultimo favore che lei poteva esaudire: egli spostò l’unica fonte di luminosità verso il centro, dove erano state preparate una sedia sposata al suo cappio che pendeva dalle travi di legno.
Le domandò soltanto di avanzare e portarsi la corda al collo, per essere sicuro che non avrebbe più fatto alcun danno; ma per un buon tempo ella non fece un passo, tremante come una foglia.
Poi comprese che dopotutto a casa le avevano raccomandato: “se ti ordinano di buttarti in un pozzo, tu devi farlo; ci serve urgentemente il danaro”, e cominciò a fantasticar che magari lei si sarebbe spenta per sempre per soddisfar le volontà del buono e bel signorino, non del vecchio che bramava la ragazza la notte precedente; quindi si avvicinò alla sedia e ci salì sopra.
E mentre esitava a prendere la corda per infilarsela al collo, l’altro la guardava attendendo la morte, impaziente di vederla penzolare, con quel piccolo sorriso da folle che voleva nascere dalle sue labbra.
Charlotte continuava ad esitare, Michel continuava ad aspettare; finché non perse la calma e andò a strangolarla egli stesso. Attese ancora, assicurandosi che ogni nervo non si muovesse più, poi infilò la corda, gettò la sedia e abbandonò il cadavere al suo destino. Quell'atto peggiorò la maledizione…

In fondo, lei fu solo e semplicemente una fedele servitrice.

   
 
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