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Autore: crazy lion    11/12/2017    4 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao a tutte, ragazze!
Eccomi finalmente con un nuovo capitolo, anche stavolta molto lungo. In questi ultimi la storia è rimasta piuttosto stagnante, nel senso che sono successe tante cose, ma in poco tempo e sono stati capitoli davvero tanto introspettivi. Non è un male, ma vi prometto che dal prossimo ci sarà un salto temporale, anche se non subito. Insomma, la storia è ancora molto lunga, e anche se tanti capitoli sono già scritti e devo solo rivederli e correggerli, di cose ne devono ancora capitare, quindi ho bisogno che passi un po' di tempo, altrimenti qui non andiamo davvero più avanti. Il prossimo capitolo è, in parte, già
 scritto, perché sarà un'incorporazione di due molto corti che avevo scritto in passato ma che, trattando lo stesso tema possono tranquillamente andare insieme, più un po' di cose che devo ancora aggiungere. Comunque, come tempistiche, vi ricordo che in questo capitolo siamo quasi a inizio ottobre, non so il giorno preciso di settembre in cui si ambienta XD ma non importa, ottobre è davvero vicinissimo.
 
Alcune precisazioni importanti prima di lasciarvi a questo mega-capitolo, fatto di flashback lunghi e momenti abbastanza forti emotivamente parlando.
1. Tra i vari nomi che mi avete suggerito per il gattino, ne ho scelto uno che mi attirava più degli altri. Grazie intanto a tutte e tre le amiche che me li hanno consigliati, ovvero MaryS5, Ciuffettina e _FallingToPieces_. La decisione non è stata facile, lo ammetto, e ci ho pensato davvero tanto, ma alla fine ho scelto Danny, suggeritomi da _FallingToPieces_; grazie tesoro!!! Anche gli altri erano molto belli, comunque. :)
2. Tutto ciò che scriverò sullo stress post-traumatico l'ho imparato leggendo articoli su articoli di psicologia e psichiatria in inglese e in italiano, alcuni dei quali non sono stati così semplici non tanto per la lingua in cui erano scritti, quanto per le cose che venivano raccontate. Quel disturbo mentale può essere davvero terribile. Ad un certo punto un medico dirà che è molto difficile diagnosticarlo nei bambini ed è vero, perché in effetti studi veri e propri sul PTSD nei piccoli pazienti non ci sono.
3. Ultima cosa: quando scrivo che Mackenzie ricorda che il suo papà biologico la aiutava a fare la doccia e che si lavava con lei per farle capire come poi riuscirci da sola, mi sto riferendo solamente a questo, ad una doccia. Non pensate cose strane o orribili, perché A, il padre di Mackenzie non le avrebbe mai fatto del male, non era di certo un pedofilo; B, il regolamento vieta di parlare di pedofilia e incesto genitori/figli, quindi non ho mai trattato tali temi; e C, soprattutto, di certo non lo farei scrivendo due righe e con leggerezza. Questa cosa della doccia assieme al padre è una cosa che ha fatto anche mio papà con me e poi con mio fratello, per dire. Scusate se mi sono dilungata, ma ci tenevo a metterlo in chiaro per evitare possibili fraintendimenti.
Al solito buona lettura e ci risentiamo il mese prossimo, o prima, se riesco.
 
 
 
 
 
 
TRA PRESENTE E PASSATO
 
A Mackenzie sarebbe piaciuto dare al gattino un nome dolce e allo stesso tempo simpatico e allegro, uno di quelli che fanno spuntare immediatamente un bel sorriso. Propose Sun, ma Hope disse subito di no, mentre i genitori risposero che a loro andava bene.
Desideravo chiamarlo così perché sono sicura che porterà felicità nella nostra vita spiegò la bambina.
Demi rifletté su quanto aveva detto. Non aveva scritto:
porterà più felicità
e questo allarmò un po' la mamma. Significava che Mackenzie non era felice? Beh, visto tutto quello che stava passando Demi era consapevole del fatto che di certo non poteva esserlo completamente, ma fino a quel momento non aveva capito quanto Mackenzie fosse infelice.
"Amore, c'è qualcosa di cui ci vuoi parlare?" le chiese. "Insomma, praticamente hai appena detto che non sei felice."
Aveva cercato di parlare con calma e dolcezza, per farle capire che qualsiasi cosa avesse risposto lei non si sarebbe arrabbiata, né rattristata.
No, io sto bene, mamma.
Demi si aspettava quella risposta, così proseguì:
"In certi momenti della vita va bene non essere felici. Voglio dire, è normale. Tutti siamo stati tristi, chi più, chi meno, non è una cosa di cui vergognarsi."
"La mamma ha ragione, tesoro" disse allora Andrew. "Se hai qualche problema, oltre agli incubi e alle tue paure, o se questi ti creano altri disturbi, puoi dircelo. Noi ti aiuteremo."
Mackenzie ci pensò per un momento. Non stava male solo per quello, ma anche perché quasi tutti i compagni di classe sembravano volerla isolare. Quella mattina aveva vissuto piuttosto bene la cosa, era vero ed Elizabeth la aiutava molto in questo - grazie a Dio c'era lei! -, ma al contempo la bambina credeva che non sarebbe finita lì e che, anzi, le cose non avrebbero fatto altro che peggiorare sempre più. Forse era lei che stava esagerando. Da quando i suoi genitori erano morti si era resa conto di essere diventata una bambina molto pessimista e negativa, con una bassissima stima di se stessa, e a volte non capiva nemmeno come riuscisse a fare quei pensieri vista la sua giovanissima età. Tuttavia, molto spesso non ci pensava affatto. Semplicemente, sapeva di essere così e cercava di accettarlo, ma non ci riusciva mai. Non voleva dire ai suoi genitori che era inquieta a causa della situazione in classe. Magari, invece, le cose sarebbero migliorate. Che ne poteva sapere? Quello era stato solo il secondo giorno!
Non ho altri problemi, davvero mentì. Sono solo molto stanca visto tutto quello che mi sta accadendo e sono agitata per gli esami che dovrò fare in ospedale, ma sono anche contenta perché ora abbiamo questo gattino.
"Ce lo diresti se qualcosa non andasse, vero?" le domandò ancora il papà.
Certo! rispose lei con un luminoso sorriso.
I genitori tirarono un sospiro di sollievo. Era solo un brutto periodo, ma sicuramente Catherine avrebbe aiutato Mac a stare meglio; e poi quella bambina era una combattente, era sempre stata molto forte, e pian piano ce l'avrebbe fatta anche con il loro aiuto.
Che ne dite di Danny? propose Mac riferendosi al gattino.
"Sì, Danny, bello!" esclamò Hope battendo le mani.
Il gattino, che stava camminando per la stanza mentre Batman, che si era alzato, lo seguiva e ogni tanto lo annusava, si avvicinò alle bambine e cominciò a fare le fusa.
"Sembra che gli piaccia questo nome" osservò Demi, così anche i genitori lo approvarono. "Tesoro, so che vorresti restare ancora qui, ma dobbiamo proprio andare in ospedale, ora."
No, mamma, ti prego, ancora cinque minuti. la supplicò.
"No piccola, ho paura che ci sia troppa gente se aspetteremo  ancora."
Solo tre minuti, allora.
"Torneremo il prima possibile, te l'assicuro. I dottori dovranno farti alcuni esami e poi verremo a casa. Forza, andiamo."
Mackenzie sospirò, rassegnata, lei e Demi salutarono Andrew, Hope e gli animali, la ragazza prese gli esami che i medici avevano fatto a Mac tempo addietro e poi entrambe
uscirono.
"Odio il traffico di questa città" si lamentò Demi.
Erano incolonnate e ferme da circa diversi minuti.
Mackenzie non scrisse niente. Rimaneva immobile e guardava fuori dal finestrino, pensando che la sua ansia cominciava ad arrivare a picchi davvero alti. Il cuore le batteva fortissimo e si stava sforzando di respirare regolarmente per non far preoccupare la mamma, ma non era facile.
Signore, fa' che tutto questo finisca presto! pregò.
 
 
 
"Con cosa vuoi giocare?" chiese Andrew a Hope.
Il gatto e il cane continuavano a studiarsi gironzolando per la casa, annusandosi a vicenda e a volte Danny provava ad attaccare Batman tirando fuori gli artigli. Il cagnolino, allora, scappava via spaventato. Andrew aveva detto a Hope di lasciare stare entrambi per un po', asserendo che avevano bisogno di fare conoscenza. Lei e il papà iniziarono a giocare con le costruzioni, ma ben presto la bambina si stancò. Costruiva qualcosa, per esempio una torre, e poi la buttava subito giù.
"Fuori" disse.
"Vuoi andare fuori?" Andrew stava per dirle di no, che avrebbero dovuto rimanere a casa a controllare che il cane non facesse qualcosa al gattino, ma poi pensò di accontentarla. Avvertì Demi con un messaggio domandandole il permesso e lei acconsentì, chiedendogli però di portare Danny e tutto ciò di cui il micio aveva bisogno nel bagno, in modo che stesse al sicuro. Batman era un cane molto buono, ma non si poteva mai sapere, e poi il gattino era piccolo. "Meglio essere sicuri" convenne l'uomo parlando fra sé.
Fece quanto gli era stato detto e rassicurò Danny, che iniziava già a lanciare qualche piccolo miagolio di protesta, dicendogli che sarebbero tornati presto.
"Dove vuoi andare?" chiese poi a Hope, prendendola in braccio.
"Al parco!" trillò.
"E parco sia" rispose e le sorrise. Le infilò un giubbotto leggero, visto che in California in quel periodo il clima era mite, e stava per andare a prendere il passeggino, ma la bambina gli disse che preferiva camminare. "Okay principessina, andiamo."
 
 
 
Demi aveva appena spiegato ad un'infermiera come mai era venuta lì con la bambina.
"Aspettate in sala d'attesa, vi chiameremo noi" le rispose questa.
Ovviamente la stanza nella quale si accomodarono era gremita di gente, così come i corridoi. C'era chi parlava a bassa voce, chi invece la alzava, stanco di aspettare, e le infermiere cercavano di riportare un po' di ordine facendo capire a tutti che non era il caso di comportarsi così, visto che si trovavano in un luogo in cui c'erano anche altre persone che non stavano bene.
Mamma, quanto dovremo stare qui? chiese Mackenzie.
"Non lo so, Mac. Poco tempo, speriamo, ma vista tutta la gente che c'è credo che ci metteremo un bel po'."
Ho paura! continuò la bambina, cercando di impedire alle lacrime di uscire. Ho tanta paura!
"Di cosa?"
Mackenzie non riuscì a rispondere. Avrebbe voluto ma, come era accaduto dalla psicologa, rimase con la penna a mezz'aria e lo sguardo fisso su un medico che stava passando in quel momento. Non appena sparì, la bambina abbassò gli occhi e fu allora che ricordò.
 
 
L'ambulanza procedeva velocemente, a sirene spiegate, verso l'ospedale più vicino.
"Mamma… mamma!" esclamò Mackenzie, sdraiata su un lettino, mentre delle persone intorno a lei continuavano a dire numeri a raffica e a parlare di bruciature, medicinali e cose che lei non comprendeva. Dov'erano i suoi genitori? Li aveva visti mentre venivano portati fuori in un sacco da un medico, ma non erano morti, giusto? No, sicuramente no! Forse quel sacco era qualcosa di particolare, magari avevano freddo e quell'oggetto dentro cui erano serviva per riscaldarli. Perché non erano lì con lei, in quell'ambulanza? Una dottoressa aveva cercato di portarla via prima che gli altri medici uscissero con quel sacco, ma la bambina, incurante del dolore che sentiva a causa delle bruciature, era saltata giù dalla barella sulla quale poco prima era stata fatta sdraiare e aveva visto tutto, mentre la donna le diceva di fermarsi, di tornare da lei; poi l'aveva presa in braccio nonostante la piccola continuasse a dimenarsi, ed ora si trovava lì, su quell'ambulanza.
"Sono ustioni di terzo grado. Di solito quelle da sigaretta sono di secondo, ma possono anche essere più gravi e, guardandole, direi che in questo caso purtroppo è così" stava dicendo una donna agli altri. Mackenzie non riusciva a capire se fossero tutti infermieri o se ci fossero anche dei dottori, ma non le importava. Le ferite non le facevano più così male, adesso. "Normalmente si potrebbero curare a casa, ma visto quel che è successo e dato che secondo me sono profonde, è meglio portarle in ospedale."
Stavolta la signora aveva sussurrato, così piano che Mac aveva fatto fatica a sentirla. Probabilmente nessuno voleva che lei udisse tutto ciò, ma ci era riuscita comunque.
"Non tornerò più a casa?" chiese con un filo di voce.
I quattro adulti che stavano attorno a lei le lanciarono sguardi pieni di compassione e tenerezza, poi cercarono di sorriderle, ma la bambina si accorse che si trattava di sorrisi forzati.
"No, tesoro" le disse un uomo così alto che alla piccola sembrava un gigante.
Le aveva parlato con dolcezza, però, quindi se era davvero un gigante, doveva essere buono.
"Dov'è Hope?" domandò ancora, mentre una lacrima le rigava il viso.
"È qui accanto a te, guarda" continuò il signore.
Mackenzie voltò lo sguardo e vide che accanto a lei c'era una piccola culla. Hope si dimenava e si lamentava, poi improvvisamente scoppiò a piangere. Mac avrebbe voluto calmarla, ma le parole non le uscivano. Avrebbe voluto chiedere dov'erano la mamma e il papà, se stavano bene, e se lei e Hope sarebbero morte… perché sì, temeva che per loro le cose non sarebbero andate a finire bene. Si sforzò più e più volte. Quelle domande erano come dei macigni sul petto dei quali avrebbe voluto liberarsi, ma ogni suo tentativo fu vano. Era come se non avesse più voce! Apriva e chiudeva la bocca, ma non produceva alcun suono. Iniziò ad agitarsi, mentre la donna di prima le avvolgeva qualcosa in torno al braccio e quell'oggetto, qualsiasi cosa fosse, iniziò a stringere sempre più.
"Ferma, piccola" le disse. "Non ti voglio fare del male… Okay, la pressione e i battiti cardiaci sono normali, ma è comunque molto agitata."
Mackenzie alzò una mano e si toccò la guancia destra. Era bollente, e la ferita era molto lunga. Dio, ora aveva ricominciato a farle davvero tanto male!
"Mackenzie, non toccare" le disse un dottore appena vide ciò che stava facendo. "Siamo quasi arrivati, sapete piccoline?"
"Sì, e vedrete che presto starete meglio" continuò la dottoressa che aveva parlato all'inizio, accarezzando le testoline di Mackenzie e Hope per calmarle. "Siete delle bambine molto coraggiose!"
Erano tutti tanto dolci con loro, ma Mackenzie non si sentiva rincuorata, né al sicuro, anzi. Aveva paura di non rivedere più i suoi genitori, anche se era sicura che non sarebbe stato così, e che quel dolore non sarebbe più passato. Una volta suo papà, che aveva sempre fumato fin da giovane - anche se non lo faceva spesso e mai in casa-, si era scottato un polso con una sigaretta che era rimasta accesa, ma il male gli era passato subito. Aveva messo la mano sotto l'acqua fredda e dopo era stato meglio. Perché, allora, per lei e Hope non era così? La bimba più piccola continuava a strillare, e secondo dopo secondo Mackenzie si sentiva stringere sempre più il cuore in una morsa di dolore. Se solo avesse potuto prendere la sofferenza della sorellina su di sé! Lei era così piccola,  non era giusto che soffrisse tanto! Mackenzie invece era più grande, era sicura che sarebbe riuscita a sopportare anche quel dolore.
Quando l'uomo cattivo aveva fatto loro del male, ci era andato giù pesante, accendendo una sigaretta e premendola sui loro visini più volte, con sempre maggiore forza e ridendo. Quando il fuoco si spegneva, lui lo riaccendeva e tutto ricominciava daccapo. Mackenzie non sapeva per quanto quelle torture fossero continuate, forse qualche minuto. L'unica cosa della quale era consapevole, era che aveva temuto che quell'inferno sarebbe durato per l'eternità.
 
 
Mentre ricordava tutto ciò, si domandò se era quello il dolore che provava chi andava veramente all'inferno, perché quella maledetta notte, ora lo sospettava, doveva aver provato qualcosa di simile. Non riuscì a tornare alla realtà, però, quindi si immerse di nuovo nel passato.
 
 
La risata di quell'uomo era stata malvagia, si disse mentre era sull'ambulanza. Era stata crudele come quelle dei cattivi che vivono nelle favole. Gli era piaciuto sentirle gridare e piangere, spingendo le sigarette avanti e indietro sui loro volti. Si era divertito come se stesse guardando uno spettacolo comico alla televisione, Mackenzie era sicura di questo. La sua sofferenza e quella della sorellina era stata sempre più intensa, finché per fortuna aveva smesso, poi erano arrivati i vicini e in seguito tutto era accaduto molto velocemente.
"Eccoci!" esclamò un medico, mentre l'ambulanza si fermava.
Mackenzie chiuse gli occhi per un momento e sentì che il lettino sul quale era adagiata iniziava a muoversi, e quello della sorella anche. Di quanto successe la settimana seguente, non ricordava un granché. Aveva solo dei flash, ma nulla a cui potesse dare un senso logico.
 
 
"Mac?"
La bambina alzò gli occhi e guardò Demi. Fu allora che si rese di nuovo conto del luogo in cui si trovava e, come era accaduto giorni prima, l'impatto con la realtà fu tale da farle girare la testa.
Mi hai chiamata più volte anche ora, vero? le chiese.
"Sì. Hai ricordato qualcosa?" Demi aveva imparato a riconoscere quei momenti di assenza della figlia come possibili flashback. Il suo sguardo perso, il fatto che non le rispondesse, erano tutti segnali molto evidenti di ciò che, molto probabilmente, le stava accadendo. "Parlami, piccola."
La bambina avrebbe tanto desiderato farlo, davvero, ma non ci riuscì. Abbracciò la mamma, lasciando che il foglio e la penna che stringeva cadessero per terra e scoppiò in singhiozzi, tremando.
Mentre lei piangeva e la mamma la stringeva al cuore cercando di tranquillizzarla, il cielo stava rapidamente cambiando colore.
 
 
 
"Su, giù! Su, giù!" esclamava Andrew mentre spingeva Hope sull'altalena.
Erano lì da circa dieci minuti e la bambina si stava divertendo moltissimo. Alzava le piccole braccia in alto, ridendo a crepapelle, quando l'altalena andava su, e le riportava lungo i fianchi nel momento in cui si abbassava. Andrew non poteva far altro che sorridere sentendo i gridolini di gioia della figlia.
C'erano parecchi bambini quel giorno, alcuni con i nonni, altri con i genitori. Il parco giochi era rallegrato dalle risa e le urla dei piccoli. Un bambino salì e scese dallo scivolo varie volte, lasciandosi andare per quella piccola discesa a gran velocità. Andrew pensò che anche a lui piaceva comportarsi in maniera un po' spericolata da piccolo, mentre Carlie era sempre stata più tranquilla.
"Ha una bambina bellissima!" esclamò una donna anziana che gli si avvicinò.
Spingeva una carrozzina. L'uomo non poté vedere il bambino o la bambina perché la cappotta era abbassata: probabilmente stava dormendo.
"La ringrazio" le rispose.
Lei gli sorrise. Era piuttosto bassa, con gli occhi azzurri e indossava una maglia e una gonna lunga fino ai piedi. Andrew ricordò che sua nonna portava spesso le gonne, dato che ai suoi tempi era stata abituata a vestirsi così.
"Io sono venuta a portare il mionipotino a fare due passi. Sa, ha sei mesi e finché mia figlia è al lavoro glielo tengo io."
"Sono sicuro che è una brava nonna!" commentò Andrew.
Quella donna aveva voglia di chiacchierare e a lui non dispiaceva affatto.
"Beh, ho quattro figli e otto nipoti, quindi direi che di bambini me ne intendo abbastanza" gli disse sorridendo. "Lei, invece, ha solo la piccola?"
"Non è figlia mia, non secondo la legge almeno. È della mia compagna. Ha adottato due bambine tempo fa. La più grande ha cinque anni. Io e questa ragazza siamo stati amici fin dall'infanzia e ci siamo fidanzati quest'anno."
"Capisco. Beh, ha fatto qualcosa di davvero bello nel voler adottare."
"Già."
Andrew si domandò come sarebbe stato avere dei nipotini. Chissà, forse un giorno Mackenzie e Hope sarebbero diventate mamme e lui e Demi avrebbero viziato i loro bimbi, come del resto fanno tutti i nonni del mondo.
"Aspetta, aspetta," si disse dopo un po', "stai correndo troppo. Intanto goditi le tue figlie!"
Hope continuava a farsi dondolare. Ascoltava la conversazione capendo molte parole, ma non guardava né la donna, né il bambino. Era talmente felice che non faceva molto caso al resto. Insomma, aveva un cane, un gattino ed ora si trovava al parco, tra l'altro su una giostra che le piaceva moltissimo.
Iniziò ad alzarsi un forte vento che, in breve tempo, oscurò il sole. Il cielo cominciò ad annuvolarsi.
"È meglio che rientri" disse la donna. "È stato bello conoscervi."
"Anche per noi, arrivederci" rispose Andrew. "Hope, saluta."
"Ciao!" esclamò la piccola.
"È meglio se torniamo a casa anche noi, tesoro" aggiunse poi il padre.
"No!"
"Hope…"
Una fortissima folata di vento sorprese Andrew, che si dimenticò quel che avrebbe voluto dire. Tutti gli adulti, nonostante i lamenti dei bambini, cominciarono a prenderli in braccio o per mano e ad andare via il più in fretta possibile. Grossi nuvoloni neri carichi di pioggia oscuravano il cielo e parevano sempre di più. Il vento era quasi freddo, la temperatura era cambiata rispetto a poco prima e nessuno avrebbe mai sospettato che il tempo potesse mutare così velocemente. Poche volte nella sua vita Andrew aveva assistito a quelle che lui chiamava "bufere d'acqua", nonostante sapesse benissimo che quello non era il termine corretto. L'uomo fece scendere Hope dall'altalena, e stava per prenderla in braccio quando si udì il forte rombo di un tuono e la piccola, spaventata, corse via.
"Hope, fermati!" esclamò Andrew.
Il parco era chiuso da un cancello, quindi non c'era il pericolo che andasse in strada, ma l'uomo era comunque preoccupatissimo. Non la vedeva più nei paraggi, eppure non poteva essere lontana! Era ancora piccola, in fondo, non poteva essere sparita!
 
 
 
Hope si era nascosta dietro uno dei pochi alberi del parco giochi. Quel rumore così forte le aveva fatto male alle orecchie ed ora, accovacciata dietro quella pianta, tremava con gli occhietti pieni di lacrime. Non avrebbe saputo dire quello che provava. Stava imparando così tante parole, ma non era facile ricordarle tutte! La mamma le aveva detto che quando il cielo è nuvoloso e si sentono quei rumori forti significa che sta per piovere e quelle specie di colpi si chiamano… non ricordava più quel nome. Era una parola piuttosto semplice e anche bella, eppure adesso non le veniva in mente. Si sforzò. Se ce l'aveva fatta a dire "uccellino", pensò, sarebbe riuscita a farlo anche con la parola che stava tentando di ricordare. Si concentrò mettendosi la testina fra le mani.
"Tuoni!" esclamò dopo un po'.
Vide una forte luce e poi sentì un altro tuono, stavolta più forte, sembrava fosse proprio sopra di lei! Le avrebbe fatto del male? Iniziò a piangere di nuovo, decisa a non uscire da quel nascondiglio. Se il tuono l'avesse trovata, chissà cosa le avrebbe fatto! Avrebbe voluto che papà la prendesse in braccio, ma aveva troppa paura per andare a cercarlo.
 
 
 
Tutti erano ormai usciti dal parco giochi, chi più lentamente, chi correndo via a gambe levate. Era passato qualche minuto da quando aveva perso Hope e Andrew non si dava pace. Se le fosse successo qualcosa, si disse, non se lo sarebbe mai perdonato. L'aveva portata fuori e ne aveva lui la responsabilità. Non avrebbe dovuto perderla di vista per nessun motivo al mondo. Era un perfetto idiota! Si sentiva malissimo, tremendamente in colpa e il suo cuore iniziò a battere all'impazzata. Le sue gote bruciavano come tizzoni ardenti, probabilmente arrossate a causa dell'agitazione e di un pianto che, lo sapeva, sarebbe scoppiato a momenti se non avesse ritrovato sua figlia.
"Hope, so che hai tanta paura, ma ti prego, vieni fuori o almeno dimmi dove sei" continuò Andrew, guardandosi intorno con sguardo apprensivo. Fu allora che sentì un pianto. Seguì quel suono finché, dopo poco, trovò la sua piccola dietro un albero. "Tesoro" disse, con dolcezza, sollevandola e stringendosela al petto.
"Papà!" esclamò la bambina, singhiozzando.
"Shhh, va tutto bene, non c'è niente di cui aver paura. Ci sono qui io, adesso."
"Papà, il tuono è cattivo? Fa male ai bambini?" Andrew sorrise. Hope era troppo piccola per capire che si trattava solo di un rumore causato da una scarica elettrica, non di qualcosa di materiale o di un essere vivente. "No, i tuoni non fanno male a nessuno, piccola."
"D-davvero?"
"Davvero! Ora andiamo a casa e ci riposiamo un po', eh?"
"Gattino" disse lei sorridendo appena.
Andrew fu felicissimo che fosse finalmente riuscita a farlo. Il respiro della bambina si stava calmando e aveva quasi smesso di piangere.
"Sì, giocheremo con il gattino e con Batman, va bene?"
"Sì."
Il vento iniziò a soffiare più forte, facendo svolazzare di qua e di là le foglie secche che producevano un fruscio che ad Andrew era sempre piaciuto. Ricordava che anche Demi lo aveva adorato fin da bambina. Era un suono rilassante.
"Ti piace il rumore delle foglie? Cadono dagli alberi perché è autunno e il vento le porta in giro."
"Bello!" commentò Hope, appoggiandogli la testina su una spalla.
Evidentemente era molto stanca così, mentre usciva dal parco e si incamminava verso casa, Andrew decise di cantarle una ninnananna. Non ne conosceva molte, anzi, e non sapeva se avrebbe cantato bene visto che aveva un tono piuttosto grave e quella canzoncina ne richiedeva uno acuto, ma era l'unica che ricordava bene e si disse che ci avrebbe provato, tanto Hope non avrebbe sicuramente fatto caso alle sue probabili stonature.
"Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are!
Up above the world so high,
Like a diamond in the sky.
Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are!
 
When the blazing sun is gone,
When he nothing shines upon,
Then you show your little light,
Twinkle, twinkle, all the night.
Twinkle, twinkle, little star,
How I wonder what you are!
[…]"
 
 
 
A Hope quella canzone piaceva moltissimo! Anche la mamma gliela cantava ogni tanto. Era una ninnananna che la faceva sempre addormentare e il papà, anche se aveva cantato in un modo diverso rispetto alla mamma, era riuscito a farla sentire meglio. Sì, aveva sonno, pensò chiudendo gli occhietti.
 
 
 
"Sogni d'oro, piccola" sussurrò Andrew.
La canzoncina e la sua camminata lenta avevano fatto addormentare Hope in pochissimo tempo. Era bello sentire il suo respiro calmo e regolare e guardare il suo visino rilassato. Tutta la paura di poco prima era scomparsa, sia da lui che da lei. Per fortuna non era successo niente di brutto. L'uomo aprì il cancello e la porta di casa, poi cercò di chiudere quest'ultima il più piano possibile per non svegliare Hope. La portò subito di sopra e la mise nel suo lettino coprendola bene. Le spostò una ciocca di capelli che le ricadeva sulla fronte pensando che avrebbe potuto darle fastidio, poi le diede un bacio, chiuse le imposte e la lasciò dormire tranquilla. Fuori imperversava una vera e propria bufera d'acqua, così l'uomo dovette chiudere ogni imposta della casa per evitare che si bagnassero i vetri.
"Speriamo che tutta questa pioggia non faccia danni."
Molti anni prima, quando Demi andava al liceo, c'era stata un'alluvione lì a Los Angeles. Parecchie case si erano allagate e tante persone erano state evacuate. Andrew e Demetria, le cui abitazioni non avevano, fortunatamente, subito alcun danno, nonostante la paura per quei tre giorni di pioggia forte e continua, si erano dati da fare, andando con una squadra di volontari a dare una mano alle persone che ne avevano bisogno e regalando loro cibo, vestiti, e facendo tutto il possibile per loro. Erano stati giorni difficili per tutti, quelli, pieni di paura di nuove alluvioni, di altri allagamenti. Eppure, pensò Andrew, è proprio vero che le difficoltà avvicinano le persone, e insieme si è più forti. Lui, Demi e i loro genitori avevano fatto tutto quel che era stato in loro potere per aiutare i più bisognosi, e anche Carlie non era stata da meno. Nei momenti in cui lei, o Demi, o Andrew si lasciavano prendere dalla paura o dallo sconforto, gli altri due erano sempre lì a supportarli. Forse, si disse l'uomo, era stato il periodo nel quale Demi e Carlie avevano parlato di più, oltre a quello in cui i loro genitori erano morti e la ragazza li aveva aiutati tantissimo. Carlie sarebbe stata una brava zia per Mackenzie e Hope, e felice per la relazione tra lui e Demi.
"Mi manchi, sorellina" sussurrò. "In certi momenti non faccio che ripeterlo, e potrò sembrare noioso o pesante, ma è la verità. Non posso non dirlo. Demi mi ha insegnato che è giusto tirar fuori le proprie emozioni e io lo sto facendo."
Andrew stava per scendere ad aprire al gatto. Non l'aveva sentito miagolare entrando, quindi immaginò che stesse dormendo, e aveva visto che Batman riposava tranquillo nella cuccia. Tuttavia, desiderava andare a controllare la situazione, visto che sapeva benissimo che i cani hanno paura del temporale, e che era così anche per alcuni gatti. Il fragore di un tuono lo fece sobbalzare. Fu un rombo così forte che fece tremare gli spessi vetri delle finestre, mentre fuori il vento ululava. Un altro rumore si aggiunse allo scrosciare incessante della pioggia. Era un suono più minaccioso e terribile.
"Cazzo" disse Andrew.
Stava grandinando, ne era sicuro. Sapeva cosa doveva fare. Corse in cucina e prese alcuni rametti d'ulivo che Demi teneva sempre in un vaso. Gli era stato insegnato che, se si brucia quella pianta durante le tempeste, il demonio si allontanerà e con esso la grandine. Lui ci credeva, come lo faceva Demi. Tuttavia, non avendo né un accendino né un fiammifero, aprì la porta e appoggiò i rametti davanti alla soglia. Il vento li avrebbe sicuramente portati via, ma sperava che almeno sarebbero serviti a qualcosa. I chicchi di grandine erano grossi come biglie. Pensò di portare la macchina in garage, visto che conosceva la combinazione per aprire il portone, ma la tempesta era troppo forte. Se un pezzo di ghiaccio l'avesse colpito in testa, cosa molto probabile, gli avrebbe fatto un gran male. Un finestrino della sua auto si era già rotto, lo vedeva, e sicuramente il mezzo aveva ammaccature dappertutto.
Avrebbe dovuto farlo sistemare, se non addirittura cambiarlo, si disse affranto, rientrando in casa.
"Avrei dovuto portarla dentro pri…" Non riuscì a finire la frase perché sentì un miagolio e corse ad aprire al gattino, che uscì dalla stanzetta tutto spaventato e tremante. "Ciao, Danny!" esclamò, prendendolo in braccio e accarezzandolo. "Stai tranquillo, va tutto bene."
Continuò a coccolarlo mentre si sedeva sul divano e il gatto gli si appallottolò in grembo iniziando a fare le fusa. Mentre grattava il micetto dietro le orecchie, Andrew pregò che Demi e Mackenzie stessero bene. Non voleva pensare subito che fosse accaduto loro qualcosa, ma era consapevole del fatto che, finché non fossero tornate a casa, non si sarebbe sentito tranquillo.
 
 
 
Appena aveva cominciato a piovere Demi aveva detto a Mackenzie di rimanere ferma lì ed era andata a portare l'auto nel parcheggio sotterraneo dell'ospedale. Molte altre persone avevano fatto lo stesso. La grandine era arrivata poco dopo, sorprendendo tutti. Era inusuale che un fenomeno come quello accadesse a inizio autunno. "Signore, fa' che Andrew e Hope stiano bene!" esclamò mentre tornava indietro.
Era preoccupata. Stava per chiamare il fidanzato, quando le squillò il cellulare.
"Amore, come state? Vi è successo qualcosa? Siete a casa o ancora fuori? Ti sei fatto male? Hope come si sente?" chiese, parlando a macchinetta.
"Calma, Demi, calma" la rassicurò il suo ragazzo. "Siamo tornati a casa prima che grandinasse. Hope si è addormentata mentre rientravamo. Si era spaventata a causa di un tuono, finché eravamo ancora al parco, e per un po' l'avevo persa di vista."
"Cosa?" chiese la ragazza alzando la voce.
Non sapeva se essere più preoccupata per la situazione o arrabbiata con Andrew. Come aveva potuto perdere la loro bambina? Eppure, una parte di lei le diceva che tutto era andato bene, e che non avrebbe dovuto arrabbiarsi con lui.
"L'ho ritrovata dopo poco, Demi. Mi dispiace veramente tanto, non sai quant'ero preoccupato! In ogni caso il parco era recintato, e si era nascosta dietro un albero, ho fatto in fretta a capire dov'era" rispose lui, con voce roca.
Si capiva che si sentiva in colpa e che si era angosciato molto.
"Okay, non mi va di discutere. Non hai sicuramente fatto apposta e… insomma… l'importante è che stiate bene."
"Sì, va tutto bene. Lei dorme nel suo lettino come un angioletto, e io sono qui con Danny e Batman, ma ho lasciato la porta aperta così posso sentire Hope."
"Grazie a Dio!" esclamò traendo un sospiro di sollievo, mentre si risedeva accanto a Mackenzie.
Per un attimo aveva temuto il peggio.
"La mia macchina si sta ammaccando parecchio, comunque. Non credevo grandinasse e non ho fatto in tempo a metterla dentro. Non so quanto mi verrà a costare ripararla, forse dovrò prenderne un'altra, non so."
"Mi dispiace!"
Certo, per loro i soldi non erano un problema, ma un'auto non è solo qualcosa di materiale, che serve per spostarsi. Diventa molto di più: un luogo in cui ci sono dei ricordi, nel quale sono racchiusi momenti belli e brutti e tantissime emozioni.
"Mackenzie Lovato" chiamò una voce. Demi notò che un'infermiera stava sorridendo mentre Mac alzava la mano. "Venite con me" disse, così la ragazza salutò Andrew e chiuse la chiamata.
 
 
 
Mackenzie non aveva voluto raccontare a Demi quel che aveva ricordato. Aveva continuato a piangere per un po', mentre la mamma cercava di convincerla a dire qualcosa. La bambina si era sentita protetta fra le sue braccia, come accadeva sempre, ma era stata grata, in un certo senso, alla grandine, che era riuscita a distrarre Demi da quella situazione anche se, conoscendola ormai bene, la bimba sapeva che in seguito la madre avrebbe voluto riparlare con lei dell'accaduto, e magari in presenza del papà. Al momento Mac si sentiva un po' più tranquilla e non voleva pensare a quel che avrebbe detto ai genitori in seguito. Quando entrò nello studio del dottore in cui l'infermiera le condusse, si sedette vicino alla mamma e notò che davanti a lei si trovava un grande specchio. Guardò la sua immagine riflessa e vide un viso dall'espressione grave, scossa e sulle cui guance si potevano notare chiaramente le ultime tracce lasciate dalle lacrime.
"Ti chiami Mackenzie, giusto?" le chiese il medico dopo aver salutato lei e la mamma.
Era un uomo di mezza età. Mac non lo guardò molto in viso, ma si sentì un po' meglio quando il dottore le sorrise. Forse aveva capito che era agitata.
Fece cenno di sì.
"Stai tranquilla, non ti farò male. Voglio solo aiutarti, okay?"
Annuì di nuovo.
"Signorina Lovato, cosa succede a sua figlia?" domandò poi guardandola.
Lei glielo spiegò, raccontandogli tutta la storia di Mackenzie, i sintomi che aveva, quel che la psicologa le aveva detto.
"Quindi ci ha mandate qui perché sosteneva che Mackenzie dovrebbe fare dei controlli. In questo modo lei potrà sapere se il suo problema è fisico o psicologico e trattarlo di conseguenza" concluse.
Mackenzie aveva ascoltato la mamma parlare e si era resa conto di aver fatto fatica a respirare. Era inevitabile: sentir parlare dei suoi genitori e della loro morte le faceva un male terribile, anche se la mamma, per fortuna, non era scesa nei particolari, probabilmente per non farla stare peggio. La bambina guardò fuori dalla finestra per calmarsi. Vedere le gocce di pioggia che scendevano la fece sentire subito meglio. Respirava più facilmente e l'ansia stava cominciando a scemare. Per fortuna, notò con sollievo, la grandine era cessata ed ora una pioggia torrenziale si abbatteva sulla città.
"Mackenzie, ora ti misuro la pressione" le disse l'infermiera. "Solleva le maniche della felpa e della maglia. Hai già visto questa a casa?" le chiese, mostrandole una piccola pompa con attaccato una specie di bracciale.
"È molto simile alla macchinetta che abbiamo noi, Mac" le spiegò Demi.
La bambina aveva già notato delle somiglianze e si disse che era uguale a quella che aveva visto in ambulanza la notte dell'omicidio dei suoi. Inspirò ed espirò per tranquillizzarsi, poi lasciò fare all'infermiera il suo lavoro. Sentì che il bracciale le stringeva sempre di più il braccio. Provò la forte tentazione di muoverlo, ma non lo fece.
"È ottima!" esclamò la donna.
"Bene" rispose il dottore avvicinandosi. "Adesso ti dovrai togliere la felpa, la maglia e la canottiera. Devo attaccarti delle cose sul petto per farti un esame al cuore. Si chiamano elettrodi. Te li mostro, se vuoi" continuò e fece cenno all'infermiera di prenderli. Mackenzie vide dei fili con attaccati dei piccoli pezzi di plastica (erano sicuramente gli elettrodi) e poi la donna le mostrò anche una bustina di quelli che parevano cerotti.
Farà male? chiese.
"No, tranquilla" la rassicurò l'infermiera. "Non ci vorrà molto, promesso."
La donna si avvicinò al lettino per aspettare la piccola. Voleva aiutarla a sdraiarsi visto che il letto era piuttosto alto. Il medico, intanto, stava scrivendo qualcosa al computer, probabilmente informazioni su di lei, pensò Mackenzie, su quello che la mamma gli aveva raccontato. La piccina, però, rimaneva immobile sulla sedia. Teneva le mani strette al tavolo e guardava la mamma. Aveva paura, maledizione! Perché il medico non se ne rendeva conto? Inoltre lui era un uomo, e lei avrebbe dovuto togliersi i vestiti, e anche se sapeva che non sarebbe rimasta completamente nuda, la cosa la metteva in imbarazzo. Ricordava che lei e suo padre avevano fatto la doccia insieme, a volte. Lui le aveva insegnato come lavarsi da sola, e per riuscirci al meglio si era lavato spesso insieme a lei. In quei momenti non si era sentita mai in imbarazzo, ma solo perché si trattava di suo padre. In quel caso, invece, avrebbe dovuto spogliarsi davanti ad uno sconosciuto.
"Forse si sente in imbarazzo" disse Demi guardando il dottore.
Mackenzie gliene fu grata: se le fosse stato chiesto come si sentiva, ne era sicura, non sarebbe riuscita a scrivere una parola. L'uomo ci mise qualche secondo, ma poi capì e disse:
"Mackenzie, sta' tranquilla. Ora io mi giro e guardo il muro, così" e si voltò, puntando gli occhi sulla parete di fronte a sé. "Ecco, visto? Ora ti puoi spogliare in tranquillità. Quando sei pronta Mary, l'infermiera, me lo dirà così verrò a farti i controlli necessari."
Mackenzie sospirò di sollievo. Il medico percepì che si stava rilassando e ne fu felice. Non avrebbe mai voluto farla sentire a disagio.
La bambina fece come le era stato detto e Mary la aiutò a sdraiarsi sul lettino.
"È pronta, dottore" disse poi.
Poco dopo, Mackenzie sentiva che le venivano attaccati quegli elettrodi. Tiravano un po' la pelle, davano fastidio. Iniziavano anche a farle prurito, se proprio doveva essere sincera, ma non voleva lamentarsi, così decise  di resistere e stare ferma, come le era stato raccomandato di fare. Chiuse gli occhi. Non voleva vedere cosa stava succedendo. Era già abbastanza agitata e non voleva esserlo ancora di più.
"Trattieni il respiro e lascialo andare solo quando te lo dico io" le sussurrò Mary con dolcezza. La bambina udiva un bip-bip lì vicino. Immaginò che ci fosse una macchina che misurava i suoi battiti cardiaci, o qualcosa del genere. "Respira, ora."
Rilasciò il fiato pian piano, domandandosi quanto tempo ci sarebbe voluto.
"Adesso fai dei respiri lunghi e profondi" le disse il medico. Ubbidì, ma non fu facile perché, vista tutta la sua ansia, le veniva molto più semplice respirare velocemente e con affanno.  "Sono troppo veloci, piccola. Riusciresti a rallentarli un po'?"
Okay, forse contando ci riuscirò pensò. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci…
Continuò così per un po', finché le venne detto che l'esame era finito. Il medico tornò al computer mentre lei si rivestiva, e cominciò a scrivere molto velocemente.
"Sei stata veramente brava, Mackenzie" le disse Mary.
Lei la ringraziò e le sorrise.
"È tutto a posto, signorina Lovato. Il cuore non ha nulla" la rassicurò il medico. Mackenzie si sentì sollevata. Non aveva mai pensato che tutta la sua agitazione e gli altri sintomi che aveva derivassero da un problema cardiaco, ma sapere che il suo cuore era sano la faceva sentire meglio. La mamma, di fianco a lei, tirò un sospiro di sollievo. "A livello cardiaco non sembra esserci niente che non va, e questa è sicuramente una buona notizia. Ora farò a Mackenzie alcune domande."
È un'interrogazione? chiese la piccola e subito dopo si diede dell'idiota.
Era dal medico, non a scuola! Che cavolo andava a pensare?
I tre adulti sorrisero teneramente e Demi pensò che Mac aveva appena posto una domanda innocente, un fare tipico dei bambini.
"No, Mackenzie, non ti voglio interrogare" le rispose l'uomo. "Devo semplicemente capire come ti senti. Ti va di rispondere?"
Sì.
Nei minuti che seguirono la piccina fu letteralmente sommersa di domande. Il medico volle sapere quanto spesso aveva gli incubi, cosa sognava (e rispondere, per lei, fu difficilissimo), con cosa giocava a casa, se faceva ripetutamente gli stessi giochi, se a scuola riusciva a concentrarsi, se si era fatta degli amici, se le piaceva stare con altri bambini, se i flashback che aveva venivano più volte al giorno, se si presentavano all'improvviso o se invece nascevano da un pensiero, da qualcosa che la bambina stava facendo in quel determinato momento. Fu allora che Mackenzie capì che avrebbe dovuto raccontare tutto, se voleva che il medico la aiutasse.
Negli ultimi giorni ho ricordato delle cose e la psicologa lo sa scrisse.
 
 
 
Demi guardò Mackenzie rimanendo a bocca aperta. Perché sua figlia non le aveva detto una cosa tanto importante?
Non ci arrivi da sola, razza di idiota? pensò. Non te ne ha parlato perché tu le hai fatto del male; e anche se ora la situazione non è più così tesa, lei soffre ancora per quello che ti ha sentito dire. Dovresti imparare a controllare meglio le tue emozioni e a tenere chiusa quella cazzo di bocca, ogni tanto.
Quei pensieri la fecero tremare leggermente. Sperò che nessuno avesse notato i lievi movimenti del suo corpo e che dal proprio viso non trasparisse nulla. Erano passati anni da quando si era detta per l'ultima volta cose talmente brutte. Sperava che non l'avrebbe fatto mai più. Non avrebbe voluto farsi sopraffare dalle emozioni, né lasciare che il passato le facesse ancora del male. Sapeva che sarebbe stato giusto concentrarsi su Mackenzie e sulle domande che il medico le stava ponendo, e poi leggere le risposte che lei dava dopo che lui le aveva viste. La bambina le passava il foglio e Demi, nonostante si sforzasse con tutta se stessa di non pensare ad altro se non al presente, dava loro uno sguardo distratto, e si sentiva in colpa per questo. Stava sbagliando tutto, lo sapeva, ma i ricordi in quel momento la assalivano come dei mostri orribili, dagli artigli lunghi e affilati. Non voleva, non poteva farsi trascinare in un mondo fatto di ricordi e di dolore, almeno non in quel momento. Guardò Mackenzie e si disse che, forse, avrebbe avuto tempo più tardi per ricordare.
"Cos'hai ricordato esattamente, Mackenzie?" le chiese il medico, serio.
Che prima di morire mia mamma mi ha chiesto di metterle un cuscino dietro la testa e io ho parlato. Ho detto:
"Va bene."
L'ho raccontato alla psicologa. Prima, invece, mentre ero qui in ospedale, mi è venuto in mente che poco dopo mia mamma e mio papà sono morti, ma io non credevo fosse così, insomma ho pensato che… che stessero solo dormendo, ecco. I medici mi hanno portata fuori, ma io sono scappata perché volevo tornare dalla mamma e dal papà, poi però una dottoressa mi ha messa sull'ambulanza. Ah, sì, prima… prima che arrivassero i medici l'uomo cattivo ha fatto del male a me e a Hope con una sigaretta, lei piangeva e io mi sentivo malissimo, anche in ambulanza. I dottori dicevano un sacco di termini che non capivo e avevo paura. Questo è tutto  quel che ricordo.
Demi era felice: sua figlia aveva fatto grandi passi in avanti! La abbracciò con calore.
"Tesoro, hai ricordato un bel po' di cose, sei stata bravissima!" esclamò, dicendosi che forse le cose sarebbero davvero andate meglio da allora in poi, che magari Mac sarebbe tornata a parlare molto presto. Se aveva ricordato significava che la sua memoria si era, almeno in parte, sbloccata. Era un ottimo segno!
"La mamma ha ragione, sei stata davvero brava e anche coraggiosa a volerci raccontare tutto" convenne il dottore, cosa che confermò anche l'infermiera, che poi le diede un cioccolatino dicendo:
"Lo do sempre a tutti i bambini che venogno qui, perché siete tutti molto bravi."
Mac accettò volentieri quel piccolo dolcetto e la ringraziò.
Il medico si rivolse poi a Demi dicendo:
"Dai sintomi che lei mi ha descritto e da quello che Mackenzie mi ha detto, credo che sua figlia soffra di PTSD. Come sicuramente la psicologa le avrà spiegato io non posso fare un'analisi esatta, non ho le competenze per riuscirci, ma se vuole essere ancora più sicura potrei far parlare Mackenzie con uno psichiatra."
"Uno… psichiatra?"
Demi non era prevenuta, sapeva che dallo psichiatra non vanno solo le persone con problemi gravi, o quelli che alcuni definiscono "matti", eppure il pensiero che Mackenzie avrebbe parlato con uno di quegli esperti le metteva addosso una certa agitazione.
"Il mio è solo un consiglio, signorina."
La salute di sua figlia era importantissima per Demi, quindi domandò:
"Lei pensa che questo medico potrebbe darci qualche informazione in più?"
"Beh, lui è sicuramente più esperto di me e di uno psicologo per quanto riguarda certi disturbi, con tutto il dovuto rispetto per la psicologa di Mackenzie ovviamente. Non sto dicendo che lei non sia brava, anzi, ma solo che forse, dato che non è facile diagnosticare il disturbo post-traumatico da stress nei bambini, un consulto psichiatrico sarebbe opportuno."
Demi ci pensò un momento e si disse che, alla fine, Mac avrebbe solo dovuto rispondere ad alcune domande, e che sicuramente uno psichiatra sapeva come parlare ai bambini, quindi non costava nulla.
"D'accordo" acconsentì.
Il colloquio che Mac ebbe con lo psichiatra non fu molto differente da quello che aveva avuto con il medico e, alla fine, l'uomo confermò la diagnosi di PTSD.
 
 
 
Cos'è il PTSD? chiese Mackenzie.
Tutti ne parlavano ma nessuno sembrava volerglielo spiegare, come se dessero per scontato che una bambina di sei anni conoscesse quella sigla. Lei non ne aveva mai sentito parlare. Era forse una malattia grave? Al solo pensiero il suo cuore iniziò a battere allimpazzata. No, no, no! Non voleva stare male, né dover rimanere in ospedale a lungo, né morire. Il pensiero della morte la terrorizzava perché, quando ci pensava, ricordava che aveva visto andarsene i suoi, e si domandava quanto  avessero sofferto nei loro ultimi istanti di vita, quanto fosse stato faticoso esalare gli ultimi respiri. Immaginava così la morte, come qualcosa di terribile, spaventoso e che provocava sofferenze atroci.
"Mackenzie, tranquilla" la rassicurò lo psichiatra, mentre la mamma continuava a tenerle la mano. Quel medico era molto più giovane del precedente, aveva un sorriso dolcissimo che non aveva mai smesso di mostrarle mentre parlava, e questo aveva rassicurato moltissimo la bambina. Le aveva detto di chiamarsi Carlos e aveva un bell'accento spagnolo che rendeva la sua voce ancora più calda e dolce. "Il PTSD viene anche chiamato disturbo post-traumatico da stress. Sono tante parole e possono far paura, lo immagino, soprattutto ad un bambino, ma in pratica si tratta di una malattia…"
Una malattia?
Lanciò il foglio sul tavolo quasi con veemenza, poi guardò la mamma con occhi pieni di terrore. Iniziò ad agitarsi sulla sedia sentendo sempre più caldo.
"Sì, Mac, ma nel tuo caso non è così grave. Certo, i disturbi che hai sono tanti, ma una cosa molto bella è che, per esempio, tu riesci a scrivere e quindi a comunicare con gli altri bambini, mentre molte persone che hanno questo problema fanno tanta fatica ad interagire con gli altri. Ce ne sono alcune che, addirittura, non provano più emozioni." Lo psichiatra sapeva benissimo che probabilmente quelle parole non avrebbero tranquillizzato la piccola, e che quando si sta male ci si concentra, molto spesso, solo sul proprio dolore, quindi continuò: "Dicevo, è un disturbo che provoca ansia, incubi, agitazione, insonnia e ricordi delle cose brutte che sono successe, si evitano i posti che possono ricordare il trauma subito, non si vuole parlare di ciò che è accaduto, quindi tutti i sintomi che hai tu. Si può curare."
Come?
Avrebbe potuto guarire, allora! La fiamma della speranza si riaccese nel cuore di Mackenzie, che fino a poco prima era stata talmente paralizzata dalla paura che aveva creduto di non poter stare mai più meglio.
"Con la psicoterapia, cioè quel che fai tu quando vai dalla psicologa. Pian piano vedrai che riuscirai a parlare di più di quel che ti è capitato e anche a ricordare."
Quanto tempo ci vorrà?
"Non te lo so dire, piccola, ma tu sei una bambina coraggiosa e sono sicuro che ce la farai. Inoltre non devi dimenticare che non sei sola, ci sono la mamma e il papà ad aiutarti."
Mackenzie sorrise, ma si trattò di un sorriso falso, che fece solo perché Demi fosse contenta e si sentisse più tranquilla. Dal canto suo, Mac non provava nulla di tutto ciò. Non era solo spaventata, si sentiva anche in colpa e sbagliata. Non solo non era riuscita a salvare i suoi genitori da quel mostro, ma ora era anche malata. Basta, non voleva più pensare a niente, almeno per quel giorno.
Posso andare a casa adesso? Sono molto stanca! scrisse.
"Certo che puoi" le disse lo psichiatra. "Dammi solo il tempo di scrivere un po' di cose."
Diede a Demi un foglio da portare alla psicologa in cui le spiegò che aveva scritto la diagnosi da lui fatta. Inoltre la ragazza avrebbe anche dovuto portare i risultati dell'elettrocardiogramma che aveva ricevuto dal medico. Le due ringraziarono molto lo psichiatra, lo salutarono e uscirono.
Ho voglia di vedere Danny scrisse Mac quando furono in macchina.
"Anch'io" rispose Demi. "Ora andiamo a casa. Amore, se vuoi parlare di quello che lo psichiatra ti ha appena detto, con me puoi farlo. Capisco che ti faccia paura, qu9indi se vuoi possiamo affrontare insieme questa cosa."
Sì, ma non adesso mamma. Ho solo voglia di riposarmi.
"Lo comprendo. È stato un pomeriggio stressante."
 
 
 
"Mac, ti spiace se ci fermiamo al supermercato?" chiese Demi. "Se sei troppo stanca posso portarti a casa e andarci da sola."
No tranquilla, andiamo pure.
Fecero una spesa veloce e poi uscirono. Stavano per risalire in macchina quando sentirono una voce alle loro spalle.
"Demi, sei proprio tu?"
Si voltarono e Demetria riconobbe immediatamente chi aveva appena parlato. Era Denise, una sua compagna delle medie. Non era cambiata, si disse la ragazza osservandola: portava sempre vestiti firmati e scarpe con i tacchi altissimi, e aveva stampato sulla faccia un sorriso strafottente che a Demi aveva sempre dato un gran fastidio, soprattutto dopo quello che era successo tra loro due quando avevano entrambe dodici anni.
"Direi di sì. Ciao, Denise" la salutò, sforzandosi di sorridere ma avendo l'impressione di aver fatto una smorfia.
"Come stai?"
Demi strinse forte la mano di Mackenzie e la bambina la guardò preoccupata: sicuramente aveva capito che qualcosa non andava.
Demi non avrebbe voluto essere scortese e sapeva benissimo che una persona cambia nel corso della propria vita. Ne era convintissima, e sperava che i suoi compagni delle elementari e delle medie fossero migliorati caratterialmente e non si comportassero più come degli stronzi insensibili.
"Ti importa davvero?" domandò comunque, glaciale.
Denise si fece improvvisamente seria. Si avvicinò ancora di più a Demi e sussurrò:
"Cara, sono passati degli Anni. Non pensi che dovremmo…"
"Ferma!" la zittì, perentoria. "Non chiamarmi "cara" aggiunse poi, aspra.
"Mi dispiace" si scusò la donna, non sapendo probabilmente che dire, né capendo dove la sua ex compagna volesse arrivare.
"Ascolta"  proseguì poi Demetria, più dolcemente, "è passato tanto tempo, è vero, ma certe ferite restano. Magari si rimarginano, si cicatrizzano, ma questo non significa che ogni tanto il dolore non si senta ancora. Quello che tu e gli altri compagni mi avete fatto è stato terribile, per me. Mi avete portata all'esasperazione, praticamente costringendomi a fare una scelta. Ero davanti ad un bivio e credimi, nessuno al mondo dovrebbe mai trovarsi in quella situazione."
"Ti sei ritirata da scuola per colpa nostra?" chiese l'altra.
Sembrava sorpresa, ma Demi sapeva che stava solo fingendo. Lo vedeva da quel sorriso che aveva sempre odiato.
"E per quale altro motivo avrei dovuto farlo, secondo te? Voi, con le vostre azioni e le parole che mi avete rivolto, mi avete praticamente costretta a scegliere tra continuare a vivere in quell'inferno, oppure… beh, lo sai" concluse, avendo l'accortezza di interrompersi perché Mackenzie era lì. Doveva aggiungere qualcosa, però, altrimenti, lo sapeva, più tardi si sarebbe sentita male. "Quindi, Denise, mi dispiace dovertelo dire, ma anche se, come spero, tu sia cambiata e migliorata nel corso del tempo, come ho fatto io e come fanno tutti o quasi, non sono felice di vederti. Scusa se mi sono scaldata così tanto, ma non vedevo uno di voi da anni e non ero preparata alle emozioni che tutto ciò mi avrebbe fatto provare. Addio" concluse, allontanandosi con la sua bambina, mentre Denise rimase lì, immobile e attonita.
Una volta in macchina Demi disse a Mackenzie di non spaventarsi e di chiudere le orecchie, poi tirò un pugno al volante.
"Vai a farti fottere, troia del cazzo!" esclamò.
 
 
 
Mamma, chi era quella donna? Mackenzie aveva percepito il nervosismo della madre e aveva anche sentito il pugno e le parolacce, nonostante si fosse chiusa le orecchie. Ora la guardava preoccupata.
"Era una mia ex compagna delle medie, tesoro" le spiegò, "ma credo che tu l'avessi capito dalla nostra conversazione."
Sì, ma perché le hai detto quelle cose? Non era tua amica?
"Mia amica? No, non lo è mai stata."
Perché sei così arrabbiata con lei? Mi è sembrata una persona dolce!
"Oh, Mackenzie!" esclamò Demi accarezzandola. "Forse lo sarà ora, spero almeno, ma una volta era… sì, era cattiva. Mi dispiace dirlo, ma è così. Sai, ci sono dei bambini che fanno del male ad altri per una ragione sconosciuta. Insomma, alcuni lo fanno perché hanno problemi familiari e sfogano la rabbia sugli altri, o perché non stanno bene dentro."
Non dovrebbero comportarsi così. È sbagliato!
Mackenzie era stupita. Davvero alcuni bimbi si comportavano in quel modo? Se avevano problemi personali non erano assolutamente giustificati, non avevano il diritto di ferire gli altri, fisicamente o psicologicamente. Era per questo che i suoi compagni di classe non la facevano sedere al loro tavolo? L'avevano presa di mira? Per un momento pensò di raccontare tutto alla mamma. Se anche lei era stata trattata male da quella ragazza, avrebbe potuto capirla e aiutarla. Facendo ciò, Mackenzie era sicura che si sarebbe sentita molto meglio. Sì, era la cosa giusta… o forse no? No, decisamente non lo era. In fondo a lei non era successo nulla di grave, mentre la mamma sembrava aver subito cose molto brutte e pesanti a scuola. Quel che stava capitando a lei era una sciocchezza in confronto e non aveva senso far agitare Demi per nulla.
"Hai ragione, Mackenzie. Purtroppo, però, il bullismo è abbastanza frequente nelle scuole. Ah, amore, guardami" aggiunse, ancora più seria. Mackenzie la fissò più intensamente. "Promettimi che verrai da me se ti succederà qualcosa, se qualcuno ti offenderà o ti farà del male. Non voglio che ti accada quello che è capitato a me, okay piccola?"
Lei annuì. Fino a quel momento era stata ferita, sì, ma solo un po' e di certo non fisicamente. Quello non era bullismo, giusto? No, probabilmente. Era la prima volta che sentiva quella parola, e visto ciò che la mamma le aveva raccontato, ora ne comprendeva il significato. Aveva un suono brutto era spaventosa, e Mackenzie la associava a qualcosa di molto grave, di certo non paragonabile a quello che accadeva a lei.
"Voglio sentirtelo dire, Mac. È importante!" la pregò Demi.
Lo prometto, mamma. È stato per questo che ti sei tagliata?
Si sentiva pronta a saperlo e a parlarne, ora.
Demi trasse un profondo respiro. La bambina capiva che non doveva essere facile per lei parlare di tutto ciò, e aspettò pazientemente che la mamma si riprendesse. Demetria rimase immobile per qualche minuto. Fissava il vuoto. Chissà se stava ricordando qualcosa, come aveva fatto lei quel pomeriggio.
 
 
Demi arrivava a scuola sempre mezzora prima del suono della campanella. Le piaceva starsene in cortile, sotto un albero o anche sul prato, con le cuffie nelle orecchie, da sola, in attesa che arrivassero i suoi compagni e che cominciassero a prenderla in giro, come facevano sempre. Ormai ci era abituata… No, non era vero. Se lo diceva semplicemente per sentirsi meglio, per un po', prima di provare ogni volta un dolore lancinante.
"Non voglio pensarci adesso" disse ad alta voce, così da farlo capire anche a quella parte del suo cervello che, di solito, non le dava retta e continuava a soffrire anche nei pochi momenti nei quali avrebbe potuto non farlo.
Si sedette sull'erba, che per fortuna era asciutta, e prese il suo mp3 dallo zaino. Schiacciò Riproduzione casuale e poi iniziò a cantare.
"I walk a lonely road
The only one that I have ever known
Don't know where it goes
But it's only me, and I walk alone
 
I walk this empty street
On the boulevard of broken dreams
Where the city sleeps
 
And I'm the only one, and I walk alone
I walk alone, I walk alone
I walk alone and I walk a
My shadow's the only one that walks beside me
My shallow heart's the only thing that's beating
Sometimes I wish someone out there will find me
Till then I walk alone
Ah ah ah ah ah
Ah ah ah ah ah
 
I'm walking down the line
That divides me somewhere in my mind
On the border line of the edge
And where I walk alone
Read between the lines
What's fucked up and every thing's all right
Check my vital signs to know I'm still alive
[…]"
Aveva solo quella canzone dei Green Day, non seguiva quel gruppo, ma aveva ascoltato spesso "Boulevard Of Broken Dreams" alla radio. Era una di quelle che venivano definite "new hit" perché era uscita da poco. Era così bello stare sull'erba morbida, sentire il vento fra i capelli e ascoltare la musica. Il resto del mondo, e soprattutto quella parte brutta, che le faceva male e a volte la spingeva a pensare che la vita non aveva più senso, restava fuori. Lì, in quel momento, c'erano solo lei e la musica e Demi si sentiva felice. Cantare era la sua passione e magari, chissà, un giorno sarebbe riuscita a diventare una cantante. Non le interessava essere famosa, avere tanti fan e nemmeno che i giornalisti scrivessero articoli su di lei. Il suo desiderio era scrivere canzoni e poi esibirsi per aiutare gli altri, perché in quel modo, forse, avrebbe potuto dare una mano a chi stava peggio di lei e avere, al contempo, un motivo per alzarsi dal letto la mattina e per non pensare più, ogni fottuta sera, di volerla fare finita. Sì, perché aveva questi pensieri da un po' e i compagni che la prendevano in giro non facevano altro che peggiorare tutto ciò. Le bastava, però, ascoltare un po' di musica per sentirsi di nuovo viva. Si mise una mano sul cuore. Batteva.
"Sei qui, Demi" si disse. "Sei viva. Selena ti vuole bene, Andrew ti adora, Eddie e la mamma anche, Madison e Dallas ti amano. Non mollare. Fallo per loro."
Pensò a Maddie. Aveva solo tre anni, ed era una bambina meravigliosa, dolcissima, praticamente un angelo. Quella mattina quando si era alzata Demi si era sentita, come sempre, molto triste. Aveva fatto in modo di non darlo a vedere ai suoi, ma Maddie si era accorta di qualcosa e, dato che la ragazza non si accingeva a mangiare i biscotti e a bere il latte che la mamma le aveva preparato, e che Dianna continuava a ripeterle di farlo e che si sarebbe sentita male se non avesse fatto colazione, Madison aveva guardato la sorella e le aveva chiesto:
"Demi, vuoi i miei celeali al cioccolato? Sono tanto buoni, sai? Non fanno chifo come i bicotti!"
"Madison, non si dice che il cibo fa schifo" l'aveva rimproverata bonariamente Eddie. "E le parole giuste sono "cereali", "schifo" e "biscotti", ma sei comunque molto brava."
"Beh, è velo. Io ho mangiati e non sono buoni, okay?" aveva ribattuto la piccola, decisa.
"Da grande sarai una bambina molto testarda, Maddie" le aveva risposto Dallas, scompigliandole i capelli.
Tutti avevano sorriso e nessuno, stavolta, l'aveva corretta per non farla arrabbiare.
"Se qualcuno mi lascia parlare," era intervenuta Demi, "volevo dire che in effetti nemmeno a me piacciono molto quei biscotti, ma li mangio perché…" Si era bloccata. Non avrebbe potuto dire che lo faceva perché iniziava a desiderare di dimagrire ancor più di quanto aveva già fatto ultimamente. "Beh, perché mangiare troppa cioccolata fa male, ecco" aveva risposto, con il cuore che le batteva all'impazzata, sperando che nessuno si fosse accorto del suo tentennamento. "Comunque, Madison, per una volta posso fare un'eccezione. Se lo desideri tanto, posso mangiare una tazza di latte e cereali come stai facendo tu."
"Sììì!" aveva esclamato la bambina battendo le manine.
Demi aveva sorriso e le aveva dato un bacio in fronte.
Dopo colazione non era corsa di sopra a vomitare come a volte faceva, scusandosi con tutti e dicendo che doveva lavarsi i denti. Al contrario, si era goduta la colazione, cosa che non faceva da circa un anno, quando aveva cominciato sia a tagliarsi, sia a pensare di essere troppo
grassa.
La dolcezza di Maddie la fece sorridere anche in quel momento, mentre la canzone terminava.
"Sei fortunata, Maddie" sospirò. "Sei piccola, innocente, e non sai quanto si può soffrire a questo mondo. Spero tu lo scopra il più tardi possibile."
"Oh, guardate, c'è quella stronza di Demetria Devonne Lovato che parla da sola! Sembra una deficiente da rinchiudere in manicomio, dovrebbero metterle la camicia di forza!" esclamò una voce in lontananza. Era Friedrich, un compagno di Demi che aveva alcune lezioni in comune con lei. La ragazza sapeva soltanto che era nato a Los Angeles ma che i suoi genitori erano tedeschi, ecco il perché di quel suo nome strano. "Ciao, Devonne" le disse poi, avvicinandosi e le sputò in faccia. Fu un gesto così veloce che la ragazza non ebbe nemmeno il tempo di schivare quello schizzo di saliva. "Come va oggi?" le chiese lui, ridendo sotto i baffi.
"Stronzo."
Cercava sempre di difendersi quando le veniva fatto del male, non tanto con i gesti - non aveva certo la forza fisica necessaria per ferire persone come Friedrich e nemmeno lo voleva -, quanto con le parole. Tuttavia, da tempo subiva in silenzio, avendo capito che dire parolacce era inutile. Quel giorno, però, le era venuto spontaneo.
"Che cazzo hai osato dirmi, flaccida grassona di merda?"
Alcuni ragazzi e ragazze, radunatisi lì intorno, osservavano la scena e ridevano di Demi. Tutti vedevano che stava dimagrendo molto, ma poco tempo prima una ragazza l'aveva sentita vomitare in bagno e aveva messo in giro la voce, peraltro vera, che Demi pensasse di essere troppo grassa. Demetria non sapeva come quella fosse venuta a conoscenza di come lei si vedeva, ma non aveva importanza. Dianna si era accorta del fatto che la figlia mangiava sempre meno ed era preoccupata, ma la ragazza non saltava mai un pasto e, quindi, di non perdere il controllo. L'aveva fatto, invece, con l'autolesionismo, e i suoi non sapevano niente a riguardo. Non avrebbe lasciato che il desiderio di smettere di mangiare fosse più forte di lei. Ce l'avrebbe fatta, ne era sicura. Nonostante fosse magra, tutti i compagni continuavano a prenderla in giro facendole credere di essere sempre grassa, così da farla star peggio e lei, che ancora non riusciva a capire che quei ragazzi volevano solo ferirla e che tutto ciò non era vero, si sentiva sempre sbagliata, stupida, inutile e incredibilmente grassa e brutta.
"Ho detto che sei uno stronzo!" sbottò, acida.
Dove stava tirando fuori tutto quel coraggio? Non credeva nemmeno di possederlo. Non fece in tempo a pensarci e a provare un minimo di soddisfazione nei riguardi di se stessa che vide un piede di Friedrich alzarsi.
"Non la toccare!" esclamò una ragazza che Demetria non conosceva.
"Sta' zitta, Jessica, o giuro che farò molto male anche a te. Sai che ne sono capace" le rispose il ragazzo, minaccioso, mostrandole un pugno chiuso.
Questa si allontanò velocemente e Demi poté notare, anche se riuscì a guardarla negli occhi solo per un attimo, la sofferenza nel suo sguardo. Chissà, forse anche lei era stata vittima di bullismo, o lo era ancora.
Intanto Friedrich stava puntando il piede verso di lei. Demi provò a tirarsi indietro, tremando come una foglia, ma il calcio le arrivò comunque. Provò un dolore lancinante allo stomaco. Balcollò ma non cadde. Si piegò in avanti, proteggendosi il ventre con le mani per sentire meno sofferenza, anche se non servì a molto. Avrebbe dovuto essere più veloce, proteggersi prima, lo sapeva, ma la paura l'aveva completamente paralizzata.
"Stai per piangere, stupida?" le chiese Friedrich.
I ragazzi scoppiarono di nuovo a ridere sguaiatamente e qualcuno esclamò:
"Uh, poverina, ora scoppierà in lacrime e correrà dalla mamma!"
"Sì, e di sicuro lei la consolerà dicendole che è una bambina bravissima e bellissima. Tanto lei è Demi Lovato, i suoi genitori non faranno altro che elogiarla tutto il fottuto giorno visto che sta diventando famosa."
Demetria vide che molti ragazzi, più in là, guardavano senza fare niente, alcuni impauriti, altri invece impenetrabili, non riusciva a capire che cosa potessero pensare o provare. Le faceva male la pancia e le veniva da vomitare. Avrebbe solo voluto accasciarsi a terra e che tutti la lasciassero lì da sola. Tuttavia, nonostante il gran dolore, la sua testa le disse che la cosa migliore sarebbe stata quella di precipitarsi dentro l'edificio e correre in bagno. Una lacrima le rigò il viso, seguita subito dopo da un'altra e un'altra ancora.
"Sta piangendo davvero" constatò un ragazzo vicino a Friedrich e tutti scoppiarono di nuovo a ridere.
Demi si voltò e mosse un passo, urlando subito dopo per il dolore.
"Che succede qui?" chiese un professore avvicinandosi. Era il suo insegnante di inglese, il signor Brown, un uomo sulla quarantina. Era sempre molto gentile con tutti e spesso diceva che, se qualcuno avesse avuto un problema, avrebbe potuto parlargliene. Probabilmente era appena arrivato a scuola e l'aveva sentita gridare, si disse la ragazza. Nessuno rispose. "Chi ha urlato?" chiese ancora. "Ragazzi, siete molti qui in cortile. Ovvio, non vi conosco tutti, ma se uno di voi si è fatto male devo saperlo, perché quell'urlo mi preoccupa."
"S-sono stata io" balbettò Demi.
"Demetria, che ti è successo?" chiese l'uomo, facendosi largo tra gli studenti e avvicinandosi.
Friedrich e gli altri ragazzi che erano lì vicino si spostarono, mostrando quella classica espressione di chi ha fatto qualcosa di grave ma finge di non saperne nulla.
"Io…" Avrebbe potuto raccontargli tutto? No! Le cose non avrebbero fatto altro che peggiorare, loro sarebbero diventati ancora più cattivi con lei. "Sono scivolata. Sì, vede, io sono un po' distratta a volte, ho messo male il piede e sono finita a terra" concluse, con il cuore tumulto perché temeva che l'uomo dubitasse delle sue parole.
"Ti sei fatta male?" chiese l'insegnante, con dolcezza.
Le aveva creduto, era un bene.
Demi avrebbe voluto essere rassicurata con un suo abbraccio, o più semplicemente con una stretta di mano. Avrebbe desiderato urlare che sì, si era fatta male, ma per colpa di quegli stronzi che si trovavano lì con lei, in particolare di Friedrich in quel caso, ma che non era solo lui a provocarle dolore, soprattutto psicologico. Fanculo le conseguenze! Aveva cambiato idea nel giro di cinque secondi… non era un comportamento normale, quello. Del resto, però, era lei ad avere qualcosa che non andava, ad essere sbagliata. Doveva esserci qualcosa che non funzionava, nella sua testa. Aprì la bocca per parlare, ma poi fece cenno di no.
"Mi sono solo spaventata molto" disse.
"Capisco. Per fortuna non ti è successo niente. Forza ragazzi, tutti in classe, filate!"
In quel momento suonò la campanella.
Demi cercò di entrare a scuola il più in fretta possibile e di non zoppicare, ma ovviamente non ci riuscì e dovette camminare pianissimo. Arrivò all'ascensore sfinita e decise di prenderlo, anche se generalmente non lo faceva. Salita al piano in cui si trovava la classe nella quale aveva la prima lezione della mattinata andò subito in bagno, si chiuse nell'abitacolo, sollevò la giacca e le maglie che indossava e notò che sì, il suo stomaco aveva un lungo, orribile livido viola. Scoppiò a piangere e stavolta lasciò che i singhiozzi la scuotessero. Si inginocchiò vicino al water e si mise due dita in gola. Aveva mangiato poco a colazione, ma voleva buttar fuori tutto. Se era davvero così grassa non poteva permettersi di mangiare un granché. I conati arrivarono poco dopo e a Demi sembrò che le stesse uscendo anche l'anima.
"Quando andrai a casa prenderai la lametta e ti taglierai," le disse la sua voce interna mentre il vomito si mescolava alle lacrime sempre più copiose,, "perché se quei ragazzi ti fanno del male è colpa tua. Tu ti meriti di soffrire e fai schifo."
 
 
 
Mamma?
Mackenzie continuava a mostrarle il foglio nel quale aveva scritto quell'unica parola, ma la mamma sembrava assente. La bambina iniziò a muoverlo cercando di fare più rumore possibile, e fu allora che la donna sembrò riscuotersi.
"Mmm?" chiese distrattamente.
Siamo qui ferme da un po'. Stai male?
Demetria non si era nemmeno accorta di non aver acceso il motore.
"Cosa? No, no… sto bene, tranquilla. Stavo solo pensando a… niente. Ora andiamo."
Mentre guidava, ogni tanto Demi guardava Mac e le sorrideva per farle credere che andasse tutto bene e, fortunatamente, la bambina non si sentiva affatto preoccupata. La mamma sembrava più serena adesso. Forse aveva pensato un po' alla compagna che aveva incontrato prima, ma ora stava meglio.
Una volta entrata in casa, Mackenzie corse ad abbracciare il papà, che stava guardando la televisione seduto sul divano.
"Ciao, piccola!" esclamò lui scompigliandole i capelli.
Ciao. Dov'è Hope?
"Sta dormendo."
E Danny?
Fu allora che lo vide. Era sdraiato sul tappeto e la guardava. Gli andò vicino camminando molto piano per non spaventarlo, si chinò e cominciò ad accarezzarlo. Il micetto le prese la mano tra le zampine e cominciò a mordicchiarle le dita, facendola sorridere.
"Vuole giocare con te" le disse la mamma. "È un buon segno, significa che si fida."
Lei guardò i genitori chiedendo con gli occhi cos'avrebbe dovuto fare.
"Prova a liberarti dalla sua stretta" le suggerì il papà.
Mackenzie tentò e ci riuscì. Danny miagolò, allungò le zampe e le riprese la mano, stringendogliela con quelle davanti e raspando con le altre. A volte tirava fuori gli artigli e faceva un po' male, ma Mackenzie aveva capito che il gatto non si comportava così perché era cattivo, anzi, era il suo modo per dirle che le voleva bene. Continuarono a giocare per un po', poi Mac lo prese in braccio e si accomodò con lui sul divano. Danny si accoccolò sulle sue gambe e iniziò a fare le fusa, ma scese subito dopo e andò nella sua cuccia. Forse aveva bisogno di tempo per fidarsi completamente di lei e rimanere lì di più, pensò la piccola e quindi non ci restò molto male. Sarebbe stata paziente con lui, anche se avrebbe avuto una voglia quasi irrefrenabile di andare a riprenderlo. Tuttavia, non volendo spaventarlo, decise di aspettare che fosse lui ad avvicinarsi ancora. Sì, si disse, forse cominciava a capire un po' la psicologia dei gatti. Batman venne ad annusarla e cominciò a guaire forte.
Sei geloso, eh? pensò la bambina. Non devi. Voglio bene anche a te!
Il cane le portò una pallina e lei la lanciò lontano, verso la cucina. Batman corse a prenderla e gliela riportò, iniziando poi a saltare felice in attesa che il gioco ricominciasse.
 
 
 
"Stai bene?" chiese Andrew a Demi, mentre la piccola si divertiva con i suoi amici pelosi.
Per tutta risposta lei sospirò pesantemente e si mise la testa fra le mani.
"So che è brutto dirlo in questo modo, ma mi scoppia il cervello" sussurrò poi.
"Che è successo?"
"Un casino!"
"Demi, amore, non posso aiutarti se non mi dici tutto" insistette Andrew, prendendole le mani per farla sentire più tranquilla. "Stai tremando. Hai freddo?"
"No. Ho paura, perché quando il passato torna a bussare alla porta è sempre spaventoso, o quasi, ma non mi va di parlarne ora. So che sembravo convintissima di voler fare quell'intervista e che l'ho anche scritto ai miei fan, ma ci sto ripensando."
La voce un po' tremolante della ragazza fece capire ad Andrew che era insicura e anche che cercava di evitare l'argomento principale, quindi lui dedusse che doveva essere accaduto qualcosa di grave e, per quanto fosse preoccupato, cercò di rimanere calmo e di seguire il filo del discorso della fidanzata.
"Perché?" le chiese, stupito.
"Ormai credo sia chiaro che stiamo insieme; e per quanto riguarda ciò che mi ha detto quella giornalista, sì, mi ha mosso accuse pesanti, ma non ci sono state conseguenze e non ho trovato nulla a riguardo sui social network o sulle pagine dei giornali."
"Quindi, secondo te, fare l'intervista sarebbe sbagliato perché i fan e i giornalisti potrebbero pensare che abbiamo dato troppa rilevanza a qualcosa che si potrebbe lasciar correre, giusto?"
"Sì. Tu che ne pensi?"
"Non lo so. Eravamo d'accordo entrambi. Come mai hai cambiato idea?"
"Questi ultimi giorni sono stati difficili, è vero, ma quando ho avuto qualche momento per me, ho provato a calmarmi e ci ho ragionato."
Gli raccontò di aver riflettuto molto attentamente e a lungo prima di parlargliene e aggiunse che non aveva voluto dirgli niente finché non fosse stata sicura di non voler essere intervistata. Andrew rimase in silenzio per qualche minuto, con la testa fra le mani.
"Ti rendi conto, vero, che ti stai contraddicendo? Qualche giorno fa la pensavi diversamente."
"Sì" disse sospirando. "Quando pensavo a fare quell'intervista ero molto agitata, arrabbiata e ce l'avevo con quella giornalista, con me stessa per aver risposto male, con chiunque mi avesse scritto quel messaggio su Facebook! Dire ai miei fan che mi sarei fatta intervistare, o meglio, farlo in quel momento, è stato uno sbaglio. Avrei dovuto ragionare con la testa e non lasciarmi guidare dall'istinto."
"Hai ragione" disse Andrew, "non ci avevo pensato, altrimenti ne avremmo parlato insieme. Credo di aver commesso il tuo stesso errore, ma entrambi non l'abbiamo di certo fatto di proposito, quindi non dobbiamo darci colpe."
Quando si è sotto stress, o si provano forti emozioni, si dicono e si fanno cose che non si vorrebbe e di cui, in seguito, ci si pente amaramente. È facile lasciarsi prendere la mano in quei momenti, lasciandosi guidare dalla rabbia e dalla frustrazione. Bisognerebbe, invece, avere la forza di fermarsi, fare un respiro profondo, contare fino a dieci e ragionare, in seguito, a mente fredda. Il problema è che la maggior parte delle volte non ci si riesce e, quando ci si rende conto di aver sbagliato, spesso non si può rimediare. Andrew aveva provato quella sensazione. Ogni volta in cui aveva litigato con Demi, arrabbiandosi e facendola sentire malissimo, se n'era andato senza preoccuparsi troppo dei sentimenti della ragazza. Solo dopo, quando era stato abbastanza lucido da riuscire a ragionare, aveva riconosciuto i usoi errori e si era sentito una merda. Anche Demetria aveva provato tutto questo, per esempio quando aveva litigato con Selena la sera in cui l'amica l'aveva portata a quell'adoption party. Eppure, anche se entrambi avevano sbagliato e poi rimediato ai propri errori, sembravano non aver ancora imparato la lezione. Erano ben consapevoli di dover maturare sotto quel punto di vista, e l'avrebbero fatto insieme.
"Fare quell'intervista metterebbe a tacere le malelingue" disse Andrew.
"Sì, ma forse dovremmo semplicemente lasciar correre e aspettare che, magari, sia qualcuno a farci qualche domanda a riguardo."
"Forse non hai tutti i torti. Non vogliamo nascondere niente a nessuno, in fondo e tu con i fan sei sempre molto onesta" proseguì lui. "La stampa sembra essersi già dimenticata dell'accaduto, quindi perché riportarlo alla luce?"
"Infatti."
"Quindi niente intervista?"
"Esatto." Sorrisero e si strinsero la mano come per suggellare un patto. Demi trasse un sospiro di sollievo, sentendosi come se si fosse appena tolta un gran peso dal petto. "Okay" continuò, "ora sono pronta a parlare." Gli raccontò meglio tutto quello che era successo quel pomeriggio: di Mackenzie e dei suoi nuovi ricordi, della diagnosi fatta dal medico, del loro incontro con Denise e di quel lungo flashback. Parlò tanto velocemente che a volte rimase senza fiato ed Andrew dovette chiederle di ripetere alcune cose. A parte quelle piccole richieste, però, l'uomo non parlò. Lasciò che la ragazza si sfogasse, che buttasse fuori tutta la preoccupazione che provava per Mackenzie e la frustrazione e il dolore causati dal suo passato.
"Denise" sussurrò poi, stando sempre attenta che Mac non la sentisse, "era stronza con me, nel vero senso della parola. È stata colpa sua se sono arrivata allo stremo e mi sono ritirata da scuola. Certo, lei non è stata l'unica responsabile e forse avrò fatto qualcosa di sbagliato io stessa in quegli anni, non voglio dire che ero sempre nel giusto perché non è così. A volte la provocavo, o lo facevo con Friedrich, mi difendevo per cercare di essere più forte di loro, ma non ci riuscivo mai."
"Difendersi dai bulli non è una colpa, Demi. Anzi, è un atto di grande coraggio" la fece riflettere il fidanzato.
"Sì è vero, ma poi loro mi facevano più male, soprattutto verbalmente parlando."
"Anche quella ragazza ti picchiava? Giuro che se la trovo…" disse, furioso, ma cercando di non alzare la voce.
Il suo respiro stava notevolmente accelerando.
"Non fare niente. Sono passati tanti anni, e sai benissimo che con la violenza non si risolve nulla" lo bloccò.
"Hai ragione, ma mi fa incazzare tutto questo. Insomma, mi avevi raccontato di essere stata vittima di bullismo, ma non mi aspettavo che fossero arrivati a darti calci e a sputarti addosso, Demi. Perché non me l'hai detto prima? E poi, non hai mai pensato di raccontarlo ai tuoi, di andare in ospedale? Cazzo Demi, se quelli ti picchiavano, avresti potuto avere un'emorragia interna ed essere in serio pericolo di vita, te ne rendi conto?"
"Sì, lo faccio, ma al tempo ero troppo spaventata per parlare e per rifletterci. Lo so, sembrerò stupida dicendo questo, ma l'unica cosa che provavo era la paura, guardavo i lividi e mi ripetevo che facevo ancora più schifo con quelli, non ragionando su un'eventuale emorragia -, e poi mi dicevo di meritarmi tale sofferenza, che loro mi facevano del male perché sapevano, come me, che ero sbagliata e inutile, capisci? In ogni caso ho ricevuto pochi colpi del genere. Sono state molte più le offese verbali, anche alle elementari. Te lo giuro, non mi picchiavano ogni giorno, anzi, per fortuna non accadeva quasi mai."
"Santo cielo!"
Non poteva ancora credere che le avessero fatto tutto ciò, era orribile.
"Nascondevo i lividi, come del resto i tagli, in un modo o nell'altro ci riuscivo sempre. Non mi colpivano mai in faccia, solo allo stomaco o sulle gambe, e quando miam mamma vedeva qualcosa le dicevo che ero caduta, ma non accadeva quasi mai che notasse i segni sul mio corpo, non perché non fosse attenta e presente, anzi, ma perché ero io che continuavo a fingere che andasse tutto bene e a farglielo credere. Una volta in clinica, gli psicologi con i quali ho lavorato mi hanno aiutata anche a superare questo, e come sai, sono stata in psicoterapia anche dopo essere uscita da lì." Demetria era andata dallo psicologo fino al 2014, quindi per quattro anni, e durante i vari colloqui per l'adozione ne aveva parlato con Holly, la quale aveva contattato il suo terapeuta per farsi mandare un resoconto sulla situazione della ragazza.
Lo psicologo aveva scritto che Demi aveva sofferto molto, ne aveva elencato i motivi spiegandoli approfonditamente, e aggiunto che col tempo e dopo un gran lavoro su se stessa, fatto di momenti positivi e varie ricadute, era tornata a stare bene. Avevano concluso la terapia perché Demi sentiva di non averne più bisogno. "Per rispondere all'altra domanda che mi hai posto, non ero pronta a dirtelo, ma l'avrei fatto, davvero. Comunque, anche tu non mi hai raccontato subito che ogni tanto bevevi, quindi siamo pari."
"Già" sospirò Andrew.
"Denise una volta ha fatto una cosa: ha detto che avrei dovuto suicidarmi, tagliarmi le vene fino a dissanguarmi completamente, e ha anche pagato i miei compagni di classe perché firmassero un foglio su cui c'era scritta una cosa del tipo:
Chi scommette che Demi prima o poi si suiciderà?
Me l'ha fatto leggere e quando ho chiesto a lei e agli altri perché si comportavano così con me, mi hanno risposto:
"Sei grassa come una balena e sei inutile, per questo se te ne andrai nessuno soffrirà per la tua perdita, e noi saremo felici."
Un altro giorno, finita la lezione di educazione fisica, sono andata nello spogliatoio. Mi stavo cambiando e una ragazza ha iniziato a urlarmi contro dicendo che le avevo rubato i vestiti. Io le ho risposto di no, che non sapevo dove fossero i suoi abiti, ma che non avevo fatto nulla di tutto questo. Voglio dire, okay, nessuno è perfetto, ma non ero così stronza da rubare degli abiti a qualcuno. Per quale motivo avrei dovuto farlo, oltretutto? Comunque, questa ragazza mi ha tirato uno schiaffo, io sono uscita e sono scappata via, di sopra e sono corsa in bagno. Sentivo dei passi veloci lì intorno, lei e le sue amiche avevano capito dove mi ero nascosta. Ho chiuso a chiave la porta e dato che, fortunatamente, avevo il cellulare, ho chiamato mia mamma che era al lavoro e me la sono fatta passare. Le ho raccontato tutto, piangendo, e le ho chiesto di portarmi via da quella scuola subito, perché non ce la facevo più. Pensavo che o sarei rimasta in quell'istituto e prima o poi mi sarei davvero suicidata, oppure l'unica alternativa era andarmene e non tornarci più. Lei ha cercato di calmarmi ma io mi sono messa ad urlare, così mi ha detto di rimanere ferma lì e che sarebbe arrivata immediatamente. Mi ha portata a casa. Ci è voluto un po' di tempo, ma alla fine dopo aver firmato varie scartoffie è riuscita a ritirarmi da scuola. Come sai, dai dodici anni in poi ho avuto un tutor che veniva a casa a farmi lezione. È stato da allora che sono davvero iniziati i miei problemi di anoressia e poi di bulimia, causati da tutto quel che avevo passato."
"Dio… non lo sapevo. Scusa se mi ripeto, ma non mi avevi detto niente, anni fa e nemmeno i tuoi l'avevano fatto."
Andrew era sconvolto. Come avevano potuto quei ragazzi arrivare a tanto? È vero, generalmente i bulli sono persone molto insicure di se stesse, deboli, con problemi familiari o altre difficoltà, ma arrivare a dire ad una ragazzina di togliersi la vita era decisamente troppo, un atto che non si poteva né giustificare in alcun modo, né comprendere.
"Ho cercato di tenerlo nascosto a più persone possibile. Lo sanno solo mamma, Eddie,e le mie sorelle. A Madison l'ho detto quando è stata abbastanza grande per capire, ovviamente. Non parlo molto di questo episodio perché…" Si interruppe e tossì più volte, poi cercò di calmarsi e trasse un respiro profondo. "Fa ancora molto male. Ora non mi sento più sbagliata, comunque. Da quando sono andata in clinica e mi sono curata anche con la psicoterapia successiva, non sto più così."
"Ne sono felice, perché non lo sei, Demi. Tu sei una ragazza meravigliosa. Tu e le bambine siete  tutto per me, tutto! Probabilmente te l'avrò già detto, ma siete il dono più prezioso che la vita mi abbia dato."
La ragazza lo abbracciò, non riuscendo a dire niente, ma i suoi occhi lucidi e il sorriso che gli rivolse poco dopo valevano più di mille parole.
In quel momento Hope iniziò a piangere e Demi si alzò dal divano.
"Sei sicura? Vado io, se vuoi."
"No, non preoccuparti. Sto meglio, lei mi manca e poi tu hai già fatto tanto per me in questi giorni."
 
 
 
Hope si era svegliata di soprassalto. Aveva paura, ma non sapeva di cosa. Era ancora troppo piccola per capire cosa fossero gli incubi, e ciò che per lei contava in quel momento era che era spaventata e voleva la mamma. Le sarebbero andati bene anche il papà e Mac Mac, ma la mamma riusciva sempre a calmarla subito, e i suoi abbracci erano i più belli del mondo. Avrebbe voluto chiamarla, ma non ci riusciva. Piangeva così forte da essere quasi senza fiato.
"Hope" sussurrò Demi entrando.
Si chinò di fianco al lettino e le diede un bacino sulla punta del naso. La piccola smise immediatamente di piangere e sorrise.
"Mamma" disse, "tu qui."
La sua vocina era talmente bella e dolce in quel momento che Demi si commosse.
"Sì, sono qui. Ci siamo tutti."
"Paula di tuoni" continuò la piccola, prendendo alcune dita della mamma nelle sue manine.
"Lo so, ma ora non ci sono più, è tutto finito." La prese in braccio. Hope si lamentò un po', stava troppo bene sotto le coperte al calduccio! "Se ti lascio ancora qui, stanotte non dormirai più" le spiegò la mamma, anche se non era sicura che la bambina avesse capito, "e in quel caso io dovrei stare sveglia tutta la notte." Sorrise pensando a quelle volte, poche per fortuna, nelle quali era rimasta sveglia perché Hope stava mettendo i denti e piangeva. Ora ne aveva qualcuno e altri stavano spuntando, ma parevano non farle più così male per fortuna. Per quanto quelle nottate passate in bianco l'avessero sfinita, Demi aveva sempre saputo che adottando un bambino piccolo le cose sarebbero andate così, e nonostante la stanchezza e il nervosismo aveva sempre cercato di guardare il lato positivo: era una mamma e quelli erano momenti che vivevano tutte le madri del mondo, esperienze di vita in più, se così si potevano definire. "Coraggio, andiamo da papà e Mac" concluse, avviandosi di sotto.
Una volta lì portò Hope in bagno, la cambiò e poi tornò in salotto.
Quando vide la sorella, la bambina allungò le braccia verso di lei lanciando gridolini di gioia sempre più acuti e chiamandola continuamente:
"Mac Mac! Mac Mac!"
così Demi la mise giù e la sciò che corresse da lei. Fu proprio quello che successe, infatti, perché Hope si gettò letteralmente addosso a Mackenzie, che la abbracciò ridendo intenerita. La più piccola andò ad accarezzare il gattino, che però dormiva e miagolò infastidito e soffiò.
"Accarezzalo quando si sveglia, tesoro" le suggerì la mamma.
Nonostante si fosse appena alzata, forse a causa del brutto tempo che, spesso, toglie ogni energia, Hope sembrava molto stanca e anche Mackenzie lo era, visto il pomeriggio che aveva passato. Nessuna delle due bimbe aveva voglia di giocare con nulla in particolare e si guardavano in giro, visibilmente annoiate.
"Demi, perché non mostri a Mackenzie e a Hope il libro che hai scritto?"
 
 
 
Mac guardò la mamma, stupita e sorpresa al contempo. Rimase lì, immobile, con gli occhi sbarrati e la bocca aperta, e con un'espressione così divertente sul volto che Demi scoppiò a ridere.
"Non starci male, Mackenzie, non ti voglio prendere in giro, è solo che vederti così sorpresa è allo stesso tempo una cosa tenera e molto carina, per questo sto ridendo" le spiegò, per evitare che la bambina si sentisse a disagio. "Comunque è vero, non vi ho mai detto di aver scritto un libro. Avrei voluto farlo quando Hope sarebbe stata più grande, ma visto che non sappiamo cosa fare e che papà ha tirato in ballo l'argomento… ebbene sì, vostra madre ha pubblicato una specie di romanzo autobiografico. Più che altro è un libro in cui, oltre ad aver scritto alcune citazioni che ho letto e che mi hanno aiutata nel corso della mia vita, ho raccontato alcune mie esperienze e ho cercato di aiutare chi si trovava in difficoltà e ha passato momenti duri, com'è successo a me. Il libro è una sorta di mia autobiografia con molte riflessioni. Non è nulla di che, ci sono sicuramente scrittori molto più bravi di me. Ve lo mostro, aspettate."
Demi andò in camera e aprì un cassetto del comodino. Teneva sempre lì quella che amava definire "la mia creatura", perché in fondo era un'opera che aveva scritto lei e che poi, in realtà, aveva mandato in stampa e fatto pubblicare, in modo che servisse anche ad altre persone. Lo strinse nelle mani per qualche momento e poi ricordò tutto il tempo che aveva impiegato per lavorarci, quanta  passione ci aveva messo, e che Andrew e la sua famiglia l'avevano incoraggiata molto ad andare avanti nei periodi in cui aveva avuto il tipico e tanto odiato blocco dello scrittore. Tornò in salotto e diede il romanzo a Mackenzie, che lesse il titolo:
Staying Strong: 365 Days In A Year.
Sfogliandolo, notò che la mamma aveva diviso il romanzo nei vari giorni dell'anno e in ognuno di essi aveva scritto qualcosa, anche solo poche righe, ma era sicura che fossero piene di significato e messaggi profondi. Conosceva abbastanza bene sua madre, ormai, per sapere che lei era fatta così e quella era una delle tante cose che apprezzava del suo carattere.
Lo posso leggere? chiese, eccitata e curiosa, continuando a sfogliare le pagine senza riuscire a fermarsi.
Non aveva letto praticamente nulla, ma lo stupore era tanto che, lo sapeva, non sarebbe riuscita a staccarsi facilmente da quel libro.
"Quando sarai più grande sì, amore. Ora no, ci sono scritte alcune cose che è meglio che tu non legga, per ora." Mac si disse che non doveva essere un libro così semplice, se la mamma doveva aver raccontato la sua vita, le proprie difficoltà, e le ritornò in mente ciò che aveva sentito dire dalla giornalista pochi giorni prima. Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma fece di tutto per ricacciarle indietro in modo che nessuno le vedesse. "Comunque c'è una cosa che posso leggerti, se ti va" continuò Demi.
Oh sì, certo che mi va mamma, ti prego, ti prego, ti prego!
La bambina sfregò le mani l'una con l'altra, impaziente, gesto che fece sorridere i genitori.
Hope non sembrava molto interessata a quel che stava succedendo, ma quando la mamma iniziò a leggere la guardò e non le staccò più gli occhi di dosso. Demetria aprì una delle prime pagine, intitolata "Dear Reader," scelse un punto in particolare, si schiarì la voce e iniziò:
Dear Reader,
 
Each day I meditate and pray by getting in touch with the higher power within me. No matter how old you are, where you come from, your race or religion, it is vital to have a higher power- something bigger than yourself that you can turn to for comfort. For me, it's God, but for you, it can be anything you believe in, the universe, karma, etc. Though some days can be a struggle, it's important to have something that will motivate, inspire, and help us stay positive and keep moving forward.
"Quindi," disse Andrew, "questo significa che la mamma prega molto Dio, ogni giorno, ma che ognuno può credere in ciò che vuole e rivolgersi ad esso quando ne ha bisogno, e che l'importante è andare avanti e trovare qualcosa di positivo, anche se la vita è difficile."
Aveva cercato di spiegarlo in modo semplice, anche se le frasi scritte da Demi lo erano già di per sé. Mackenzie sorrise e lo ringraziò per aver chiarito il concetto.
"Esatto" continuò la ragazza. "Il motivo per cui ho letto questo passaggio è che negli ultimi mesi abbiamo sofferto tutti quanti moltissimo, per vari motivi, ma la cosa importante è avere sempre fede, non perderla mai. Tu, Mackenzie, stai andando a catechismo e tra poco riceverai il Sacramento del battesimo assieme a Hope, come l'abbiamo ricevuto io e il papà, e questa è una cosa bellissima, e in futuro ognuna di voi sceglierà se e quanto essere credente. Voglio dire, ci sono persone che vengono cresciute in una famiglia cattolica, ma anni dopo, per varie ragioni, non credono più in Dio perché questo non le fa stare più bene. Anche se voi due doveste farlo, e per quanto per me sarebbe difficile accettarlo, rispetterei comunque le vostre scelte, perché Dio sarà sempre pronto a riaccogliervi se vorrete tornare da lui; ma la cosa importante è che crediate sempre in qualcosa, che troviate un motivo per continuare a vivere. Forse sto facendo discorsi troppo difficili…" disse, fermandosi un momento a riflettere. "Quel che intendo è che anche se oggi in ospedale abbiamo ricevuto notizie non proprio confortanti, non dobbiamo arrenderci. Mac, io so che tu e Hope siete delle guerriere, e che avete combattuto molto nella vostra vita. Sappiate che non sarete sole. Ci saremo io e papà, la tua amica Elizabeth, i nonni, le zie, Selena, la psicologa e tante altre persone. Affronteremo tutto quanto, e…"
Non so se ne avrò la forza, mamma.
Mac fece ammutolire Demi con quell'affermazione. Era talmente matura che aveva capito tutto, e l'aveva stroncata con una frase così sincera.
"Allora diciamo che ci proveremo, okay? Era ciò che stavo per aggiungere. Nessuno sa quali difficoltà ioncontrerà, ma bisogna comunque cercare d andare avanti."
Demi ed Andrew sapevano per esperienza che tutto ciò era molto difficile. Le parole della ragazza erano sante, ma vivere la vita con tutte le sue difficoltà è molto più faticoso che dire delle semplici frasi. Demetria sperava di aver trasmesso almeno un po' di coraggio alla figlia, e si disse che doveva essere riuscita nel suo intento, visto che ora la bambina sorrideva apertamente e annuiva. Per Mackenzie, in effetti, quelle riflessioni erano servite molto. Anche se un po' complesse, le avevano fatto capire che il PTSD non era, forse, un ostacolo insormontabile. Si domandava, però, se sarebbe davvero riuscita a vivere sempre con positività, almeno qualche momento ogni giorno, e la risposta che purtroppo riusciva a darsi in quel momento era un no. Tuttavia non si sarebbe arresa.
 
 
 
"Ti fermi qui, stanotte?" domandò Demi al fidanzato. Ad Andrew tremarono le mani. "Oddio, che hai?"
"Niente, mi succede ogni tanto. Credo sia qualche effetto collaterale del Daparox, ma vedrò il medico domani, quindi mi dirà cosa fare. Comunque no, preferisco andare a casa" continuò alzandosi. "I miei gatti han…"
Un improvviso, violento giramento di testa lo fece barcollare.
Mackenzie urlò, spaventata, credendo che sarebbe caduto a terra. Demi si sollevò di scatto e riuscì a sostenerlo, anche se con notevole difficoltà.
"Tu non ti metti in strada se stai così male" affermò, decisa, facendolo sedere. "Anche perché la tua macchina è messa male e dentro sarà tutta inzuppata d'acqua. Al massimo ti accompagnerò io."
Andrew iniziò a respirare a fatica, come qualche giorno prima quando aveva avuto un altro attacco simile, ma stavolta a Demi pareva molto più forte. Era pallido come un cadavere, sudava e farfugliava di avere freddo, di sentirsi soffocare.
"Mac, va' in camera, per favore" ordinò Demi alla bambina, ma lei scrisse che voleva rimanere lì. "No, non voglio che tu veda papà stare male. Tra poco gli passa, davvero, ma non…"
Andrew si stava spostando leggermente indietro per appoggiarsi allo schienale, quando un altro giramento di testa gli fece venire una forte nausea. Non riusciva più a vedere bene, si sentiva confuso, udiva la voce di Demi ma non capiva esattamente quel che stava dicendo e, forse proprio a causa del leggero movimento che fece per cercare di spostrarsi, il suo corpo reagì in maniera inaspettata. Fu un attimo. Demi non riuscì a prenderlo in tempo, stavolta, e lo vide cadere a terra. Gli si rovesciarono gli occhi e l'uomo svenne.
"Cristo!" urlò la ragazza, terrorizzata, spaventando ancora di più le bambine.
Hope, resasi conto della situazione, scoppiò a piangere, mentre Mackenzie iniziò ad urlare come Demi non l'aveva mai sentita fare prima. Era un grido lungo, pareva interminabile, l'urlo disperato di qualcuno che sembra stia per morire. La confusione e la paura regnavano sovrane, e mentre Demi cercava di calmare le bambine e allo stesso tempo di avvicinarsi al telefono per chiamare il 911, l'unica cosa che Andrew percepiva era il silenzio. Il nero l'aveva avvolto di nuovo, come mesi prima quando aveva tentato il suicidio. Era quella l'ultima cosa che aveva visto: il buio, un'oscurità spaventosa che l'aveva portato via, lontano dai suoi affetti e dal mondo.
 
 
 
credits:
Twinkle, Twinkle, Little Star è una ninnananna la cui melodia è francese, intitolata "Ah! Vous Dirai-Je, Maman", di M. Bouin e apparsa nel 1761 in “Les Amousements d’une Heure et Demy” (l’ultima parola scritta così, non “demi” come oggi). Le parole, invece, sono state scritte per la prima volta da Jane Taylor in una poesia intitolata “The Star”.
 
 
Green Day, Boulevard Of Broken Dreams
 
 
Per quanto concerne il flashback riguardante Demi e ciò che poi lei racconta ad Andrew, ho in parte inventato. Per esempio, non so ovviamente i nomi dei bulli che le facevano del male, quindi Friedrich e Denise non esistono nella realtà, e ovviamente sono inventati anche i dialoghi. Tuttavia i fatti sono reali: veniva davvero offesa con nomi come "grassa", la sua compagna le ha detto di uccidersi e ha fatto firmare a tutti una petizione riguardante una scommessa sul suo suicidio, l'episodio dello spogliatoio della palestra, la chiamata alla mamma, il ritorno a casa, il ritiro da scuola a dodici anni, l'insegnamento che ha ricevuto da un tutor e i suoi problemi con l'anoressia e la bulimia. Ho preso queste informazioni da un documentario uscito il 12 ottobre, "Simply Complicated", che si può trovare su YouTube, e da un video, che ho ascoltato sempre su quel sito, intitolato "Demi Lovato's Experience with bullying". Non ho, ovviamente, ricopiato parola per parola ciò che lei ha detto, l'ho però raccontato con parole mie, scrivendo anche offese abbastanza forti. Non so se lei sia stata veramente picchiata dai compagni, l'ho però aggiunto perché volevo parlare meglio degli atti di bullismo da lei subiti.
 
 
Ha scritto davvero quel libro. Io lo sto leggendo in inglese, ma vi riporto la traduzione italiana, fatta da me.
Staying Strong 365 Days In A Year
 
Caro lettore,
 
Medito e prego ogni giorno per entrare in contatto con una forza più grande che è in me. Non importa quanti anni hai, da dove vieni, la tua razza o religione, è vitale avere un potere più alto- qualcosa più grande di te al quale ti puoi rivolgere per trovare conforto. Per me è Dio,  ma per te può essere qualsiasi cosa in cui credi, l'universo, il karma ecc. Nonostante alcuni giorni possano essere difficili, è importante avere qualcosa che ci motivi, ci ispiri e ci aiuti ad essere positivi e ad andare avanti. 
 
La parola "power", secondo me, può essere tradotta sia come "potere", sia in questo caso come "forza superiore", visto che poi Demi parla di Dio e dell'universo.
   
 
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