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Autore: reggina    14/12/2017    5 recensioni
Si dice che i gemelli abbiano un legame misterioso, speciale e invidiabile.
James e Jason , forse incatenati allo stesso destino, imparano da subito di non essere il centro del mondo.
Si guardano le spalle, si proteggono e si difendono l'un l'altro. Sempre.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gemelli, Tachibana/Derrick
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Tokyo sembra una città costruita con i Lego, con pezzi presi da collezioni differenti. È un melograno che snocciola chicchi di un rosso acceso ad ogni cambio della metro. Città nella città collegate da una lunga collana di rotaie.

James ,però, non ha il tempo di spaccarne il guscio per scoprirle.

Giusto una settimana dopo l’incontro con l’urologa, l’ efficientissimo e ordinato ospedale della capitale gli apre le porte attraverso le mani di un infermiere molto gentile.

Avverte la stessa malinconia infantile della fine di un giro in giostra e, allo stesso tempo, sente la spinta che lo fa partire verso un viaggio che non avrebbe mai voluto fare.

Alle tredici e quaranta, in anticipo rispetto all’orario previsto, è già pronto per entrare in sala-operatoria. Nonostante il momento poco piacevole non ha perso la sua vena ironica e scherza con il barelliere , con Jimon e Sumire, nonostante il groppo che gli attanaglia la gola.

“Comincia la mia settimana al Luna Park!”

I suoi genitori cercano di dargli forza ma James vede la loro voglia di piangere, vede che stanno male per lui e non gli resta altro da fare se non attaccarsi un sorriso forzato con lo scotch perché crede sia necessario essere ottimista a tutti i costi.

Tuttavia una lacrima dispettosa scende a bagnargli la guancia e, in quel momento, pensa che quella lacrima sia il cuore di mamma e di papà che entra con lui in sala-operatoria.


L’istinto di sopravvivenza lo protegge dalla paura e lo fa abituare anche alle situazioni più disagevoli.

James non si è mai pianto addosso e affronta a testa alta tutto: l’anestesista di turno che gli cosparge la schiena di un liquido freddo e rossastro e lo fa piegare in avanti, la leggera puntura e l’immediato calore alle gambe. Un formicolio e un tremore.

Lo fanno sdraiare.

Giù pantaloni e slip, coprono tutto con un telo verde: non vedrebbe nulla di quello che gli fanno se non fosse per il riflesso sulla lampada.

Lui però preferisce guardare il soffitto, vede passare mille immagini e tutto sembra surreale.

L’operazione dura una ventina di minuti, un attimo a suo parere. Ne è meravigliato ma felice.


In meno di mezz’ora si ritrova disteso sul letto della sua camera, in quell’evanescente stato di grazia di pochi minuti, in cui tutti i problemi sembrano lontani.

La mano grande e calda di Jimon gli trasferisce un senso di sicurezza tale da farlo sentire protetto contro ogni male. È incredibile l’infinità di sensazioni ed emozioni che scorrono attraverso la stretta delle loro dieci dita.

Sumire, da buona infermiera, esegue scrupolosamente la raccomandazione di applicare una borsa del ghiaccio sulla zona operata, per evitare il gonfiore.

Sono lì a consolarlo, a fare tutto quello che possono per aiutarlo.

“È maligno?”

Sua madre si sdraia accanto a lui e le sue parole suonano come una dolce musica rassicurante.

“Non pensarci adesso, andrà tutto bene. Tu mettici tutta la volontà che possiedi e vedrai che guarirai alla perfezione. Pensa che sia una partita da vincere!”

“È strano come ci si abitui al dolore, alla malattia…davvero strano!”

La sua famiglia è tutto ciò che un ragazzo può desiderare e grazie a quell’amore senza ostacoli ogni traguardo sembra possibile.

Ha un solo pensiero fisso adesso: fare pipì.

Suo padre lo sorregge e lo fa camminare lungo il corridoio della corsia e, alla fine, anche quell’ansia è risolta.

“Vado giù al bar a prendermi un caffè!”

Quando il cielo si tinge di rosso, nel tramonto caldo e umido Jimon cerca di sdrammatizzare quella situazione. Suo figlio, però, ha un’idea migliore.

“Apprezzo le vostre premure, davvero, ma così rischiate di diventare appiccicosi come due cozze. Prenditi mamma , procuratevi una mappa e una bussola e, per stasera, trasformatevi in dei tipici turisti per caso! Io me la caverò!”


Rimasto da solo non è proprio triste ma all’improvviso è svuotato di energie e scoraggiato e sa di dover stringere i denti per arrivare fino a sera.

Quando il cellulare inizia a squillare sobbalza per lo spavento: non ha avuto testa per silenziarlo e non ha ancora cambiato quell’orribile suoneria. Sorride per tutti i tintinnii di attenzione, per tutti gli sms volanti che gli sono arrivati quando non poteva rispondere: un modo per dirgli non posso chiamarti ma ti penso .

Poi si decide a rispondere alla videochiamata in arrivo.

Lo smartphone risucchia due volti con espressioni neutre e due sorrisi appena abbozzati: per un momento si sente a casa, si ricorda che lì fuori c’è il suo mondo che lo aspetta e si convince che tutte le cose torneranno al loro posto.

“Siete più brutti di quanto vi ricordassi ma siete il mio premio dopo una giornata andata storta!”

È difficile consolare un dolore che non si conosce ma Jason e Clifford sono simbolicamente lì a dargli coraggio, nonostante si muovano imbarazzati dal divano di rattan sul quale sono sprofondati e, aguzzando la vista, James ci nota sopra un graffio nuovo.

“Ma sta un po’ zitto che è come se ti stessi guardando allo specchio!”

Lo contraddice suo fratello, riavendosi dallo smarrimento e leggendo nei brevi silenzi sintomi della stanchezza di James.

“Come ti senti?”

La domanda di Clifford non è retorica, da per scontato che si senta distrutto, ma è fatta con il cuore. Deve dire qualcosa e quella domanda va bene come qualunque altra.

“Sopravvivo, amicone mio! Non sono triste, solo un po’ impaziente. Mi conoscete!”

Fanno finta di bersi quella rassicurazione perché sanno che l’unica cosa che possono fare adesso per James è regalargli un po’ di spensieratezza, qualche risata onesta e sincera.

“Eh allora cosa sono quelle facce abbattute? Non mi piacete così seri, raccontatemi qualcosa che mi tiri un po’ su!”

Il ragazzo si sistema meglio contro i cuscini, cercando di raddrizzarsi: sul suo viso compare una smorfia di dolore e di fatica che cerca di dissimulare. A Jason si spezza il cuore nel vederlo così ma è il più disinvolto possibile quando risponde.

“Cosa vuoi che ti racconti? Non mi viene in mente niente!”

“Qualcosa di buffo che vi è capitato!”

La faccenda non è affatto buffa ma ha bisogno di qualcuno che la butti sul ridere. Ci vuole Clifford, abile a raccontare barzellette che non fanno ridere.


“Ieri sera siamo stati ad un toga-party! Niente fighetti ma solo sfascioni, come noi!”

“Finalmente Jason ha capito che la vita universitaria non è fatta solo di libri e di esami ma, anche, di musica, amici e divertimento!? E poi? Vi siete lasciati sopraffare dal senso di libertà, esagerando con l’alcool e mio fratello si è ritrovato nudo nel corridoio con scritte su tutto il corpo?”

Yuma sghignazza mentre il soggetto messo in ridicolo scuote il capo.

“Niente performance imbarazzanti! Mancavi tu…”

“Ti dico soltanto che gli inquilini di tre alloggi hanno deciso di aprire, in concomitanza, le loro case e mixavano la musica da un balcone. Jason si è avvolto in un lenzuolo per non scervellarsi alla ricerca del vestito perfetto!”

A James scappa da ridere e dimentica l’impercettibile delusione per essere un malato piuttosto che l’anima della festa.

“Non ti sei sentito un po’ un cretino vestito da senatore romano, Jay?”

Jason bofonchia una risposta incomprensibile, James promette che al suo ritorno si godranno solo cose belle, Clifford è una fonte di informazioni inesauribile e, quando chiudono la videochiamata, invia all’amico una miriade di foto, alcune compromettenti.

I pensieri neri cominciano ad alleggerirsi e James vede la luce nel buio più profondo. Si addormenta e sogna.

   
 
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