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Autore: Blackvirgo    16/12/2017    6 recensioni
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
[Altri avvisi: italian!ship, linguaggio a tratti scurrile. Niente di drammatico, ma di sicuro non hanno studiato a Oxford!]
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Anteros'
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CASTELLO DI CARTE
 
18 ottobre
 
Gino strinse i denti nel vedere giocare i suoi compagni di squadra perché stringere i pugni continuava a fargli un male cane.
Sembrava di assistere di nuovo agli allenamenti dei giorni scorsi: correvano per il campo senza coordinarsi, dimentichi di schemi di gioco provati e riprovati, sbagliando i passaggi, senza finalizzare in attacco e senza chiudere in difesa. Non era cambiato nulla dopo quello che era successo nello spogliatoio: non era servito parlare e neppure arrabbiarsi. Forse il Giappone avrebbe vinto anche se fossero stati al massimo delle loro forze, ma quello non era giocare. O perlomeno non era quello che lui chiamava giocare a calcio. Gino guardò il mister: era in piedi a bordo campo sin dal fischio di inizio, taciturno e concentrato. Aveva gridato qualche istruzione ai ragazzi, ma poi era pian piano sprofondato nel silenzio: probabilmente si era arreso anche lui. Forse aveva avuto ragione Christian la sera prima, quando aveva tentato di organizzare un pigiama party alcolico in camera sua: “Meglio arrivare in campo ubriachi e felici piuttosto che rischiare di inciampare nei musi lunghi!” Suo malgrado Gino sorrise: il difensore in campo pareva l’unico a giocare come sapeva. Peccato che fosse il solo.
Il portiere abbassò gli occhi sui guanti che teneva abbandonati in grembo: in quel momento erano inutili quanto lui. Non aveva neppure la forza di chiedere ancora una volta all’allenatore di entrare, tanto non era più così sicuro di essere in grado di fare la differenza: non lo avevano ascoltato finora, perché avrebbero dovuto farlo ora? Tanto ormai non cambia niente. Glielo avevano ripetuto fino allo stremo. Che avessero ragione alla fine?
 
Salvatore Gentile aveva seguito la partita seduto composto in panchina, immobile come una statua. Tsubasa aveva dato il via al calcio di inizio passando il pallone a Shingo Aoi e da quel momento i giapponesi avevano attaccato continuamente, dovendo prestare davvero poca attenzione alla difesa dato che, quel giorno, gli azzurri non riuscivano neppure a partire in contropiede. E così erano arrivati i goal: prima Nitta – alla sua prima rete nel World Youth – e poi il cannoniere Hyuga, entrambi su assist di Shingo. Il terzo, all’inizio del secondo tempo, era stato opera del suo nemico giurato che imperversava in campo da vero protagonista.
Gentile sospirò: la partita della sua squadra stava procedendo esattamente secondo le sue scarse aspettative. Il miglioramento di Aoi invece lo aveva stupito e, suo malgrado, anche preoccupato. Gino glielo aveva detto una volta: Shingo è un giocatore dal cuore caldo, come Tsubasa, uno che non si arrende. E, a quanto pareva, quella piccola scimmia aveva davvero carattere da vendere.
Di tanto in tanto aveva lanciato qualche occhiata di sbieco a Hernandez, seduto accanto a lui: lo aveva visto torturarsi le mani, giocherellare con i guanti, mordersi le labbra, gli occhi sempre incollati al pallone. Lo aveva visto fremere per ogni errore commesso, sbuffare a ogni palla persa, trattenersi dall’alzarsi in piedi per urlare le istruzioni che neppure il mister ormai suggeriva. Ogni goal che avevano preso era stata una stilettata per entrambi, ma Gino li aveva affrontati come se fossero stati delle pallonate nello stomaco. Nemmeno quando li prendeva lui, i goal, reagiva così male. E come sovrapposte alla realtà del momento, continuavano a girare in background le immagini di quanto era successo il giorno prima: le parole di Nicola, l’epilogo della sciagurata lite nello spogliatoio e la confessione che non avrebbe mai dovuto fare. E poi… La prego, mister: questa non è solo una partita. E la notte, insonne per lui quanto per Gino, che aveva continuato a girarsi e rigirarsi nel letto, inquieto. Aveva scoperto suo malgrado che la notte era pericolosa: non c’erano mostri in agguato sotto il letto o dietro le tende, come credeva da bambino, ma di notte le ombre si allungavano, si mescolavano ai pensieri, li aggrovigliavano e li confondevano. Nulla dava profondità a un baratro come il buio, nulla ti costringeva a procedere a carponi, palpando gli oggetti per indovinarne forma e dimensioni. Forse è questo il consiglio che porta la notte, pensò. Costringe a chiudere gli occhi e a usare gli altri sensi. Ti rende cieco e ti porta a cercare un’altra verità fatta di suoni e tocchi e odori. Ed è quella ricerca, più che la verità stessa, a lasciarti mutato in un modo che neppure il giorno può cambiare.
Alzò gli occhi verso il cielo, azzurro e limpido, per schiarirsi la mente e idee: il World Youth non era ancora finito e c’era ancora una cosa che dovevano fare. Scoccò un’altra occhiata a Gino, tutto preso dallo strazio che si stava consumando sotto i loro occhi, lo scosse per la spalla e si alzò in piedi. “Vieni.” Ignorò lo sguardo interrogativo del portiere e avanzò sicuro verso l’allenatore. “Mister, ci faccia giocare.”
Gino sorrise, si sfilò la felpa e la lasciò sulla panchina: quella frase aveva tutto fuorché il tono di una richiesta. L’idea di entrare in campo lo fece sentire vivo. Non credeva più che le cose sarebbero cambiate, in bene o in male, ma avere una possibilità di lottare per cambiare le cose gli cancellò dal cuore quell’ombra di dubbio e di sconfitta che lo stava offuscando. Sentì l’adrenalina scorrergli nelle vene, la mente limpida e il corpo pronto all’azione. Persino i guanti scivolarono agevolmente sopra le fasciature.
Quando l’allenatore si voltò e li vide, scosse la testa. “Rimettetevi a sedere, ragazzi.” Ormai si era arreso all’evidenza che da quella squadra non sarebbe riuscito a tirarci fuori nient’altro.
“No,” tornò alla carica Gentile. “Non può farci questo.”
“Ragazzi…” l’allenatore tentò di prendere la parola, ma Salvatore lo interruppe di nuovo. “No, mister! Lo so cosa vuole dirci e so che è tutto ragionevole e razionale e logico, ma è questo a non esserlo!” Indicò il campo da gioco e le due squadre. “Non mi può dire che è il nostro calcio perché non è vero!”
“Mister, per favore,” intervenne Gino, in piedi dietro al difensore, fermo e pacato come suo solito. “Lo so che ormai non cambierà niente e so accettare una sconfitta, ma non così,” disse indicando i suoi compagni che correvano guardandosi la punta delle scarpe. 
Francesco Rocca li squadrò per un lungo istante: erano giovani, talentuosi, con tutto il futuro davanti. Eppure ogni goccia della loro determinazione era concentrata su una partita già persa. Avevano diciannove anni e giocavano ancora per giocare, nonostante i fischi, gli infortuni, nonostante tutto. Sospirò, ripensando a sé stesso, molti anni prima.
Mancavano quindici minuti ed era stata una partita tranquilla: gli animi, a parte quelli dei tifosi italiani, erano pacati. Ormai il Giappone aveva stravinto, non ci sarebbe stato alcun motivo per infierire su due infortunati. E una piccola scintilla di orgoglio, la speranza che davvero potessero cambiare le cose e, in parte, redimere anche il suo fallimento, lo fece capitolare.
“Siate prudenti,” si raccomandò prima di chiamare l’arbitro per comunicare le sostituzioni.
 
Gino guardò di sottecchi Salvatore, grato per la sua intraprendenza. “Shingo si sta battendo senza esitazioni,” commentò. La possibilità di giocare insieme a Gentile gli dava una bella sensazione. E, in fondo, sperava di poter portare ancora una volta fuori dal campo quell’intesa che nasceva spontaneamente quando vestivano la stessa maglia.
“Dobbiamo assolutamente rispondergli,” replicò il difensore. Aveva un sorriso amaro sul volto, ma nessuna nota di ironia o sarcasmo nella voce. Per una volta la sua voglia di rivalsa non era concentrata contro Shingo Aoi, ma volta a sostenere la propria squadra.
“Nei quindici minuti che restano, anche noi giocheremo al massimo,” replicò Gino, lo sguardo fiero e determinato.
Salvatore annuì: avrebbero mostrato a tutti di che pasta era fatta l’Italia Youth.
***
 
A inizio partita, Shingo abbassò gli occhi e piegò le labbra in una smorfia di delusione quando, nel vedere la formazione ufficiale della squadra italiana, ebbe la conferma che Gino e Gentile non avrebbero giocato.
“Questa non è una partita in cui sacrificare degli infortunati,” tentò di consolarlo Ryo. Quel pomeriggio l’Uruguay aveva vinto contro il Messico quindi la classifica del girone era ormai decretata. E, per la legge del contrappasso, quel giorno sarebbero stati loro quelli che avrebbero potuto snobbare la nazionale italiana, sorrise il difensore tra sé e sé.
“Ma noi dobbiamo giocare come sempre, con tutte le nostre forze,” commentò Tsubasa. Ryo si guardò la punta delle scarpe, imbarazzato: come diavolo faceva sempre il capitano a beccarlo in flagrante?
Shingo tirò sul capo e annuì con veemenza. Sì, con tutte le nostre forze, ripeté fra sé e sé con un sorriso. Io ho un obbligo verso l’Italia, la patria del calcio che mi ha insegnato a giocare. Si era allenato ogni giorno, prima con la squadra e poi da solo agli orari più improbabili, pur di migliorare. Non gli era andata giù che alla cerimonia di inaugurazione Gentile lo avesse fermato come se fosse stato un dilettante qualsiasi. Il difensore juventino era il suo più grande rivale: scartarlo e superarlo rimaneva il suo obiettivo.
Scese in campo con il fuoco nelle vene e giocò come se ogni passaggio, ogni finta e ogni tiro fosse l’ultimo. Non si era mai sentito così motivato a fare bene, a trascinare la propria squadra. Si sentiva infaticabile e, nello stesso tempo, provava quell’allegria che lo aveva portato da piccolo a giocare con un pallone, a lasciare la sua casa per imparare il calcio per poi tornare con la maglia della nazionale addosso. E poter mostrare alla nazionale della sua patria d’adozione cosa aveva imparato nel loro paese era per lui la più grande prova di gratitudine che potesse mettere in campo. Anche se gli facevano male i fischi e gli insulti lanciati dai loro tifosi.
Spalancò gli occhi quando vide l’arbitro chiamare le sostituzioni e Gino e Gentile entrare il campo, mentre un largo sorriso si disegnò sul suo volto. Finalmente!, pensò. Sapeva che loro due avrebbero dato una svolta alla partita: aveva provato sulle sue gambe la bravura del difensore juventino e Gino… beh, sapeva di cos’era capace il “suo” capitano. Non solo fra i pali. E, come aveva previsto, la partita ebbe un subitaneo cambiamento: improvvisamente gli azzurri cominciarono a giocare sul serio, producendosi in un vigoroso gioco sia in attacco che in difesa.
Devo segnare un goal, si disse Shingo, l’emozione a mille per avere finalmente la sua sfida. Poteva giocare contro il suo migliore amico e il suo acerrimo nemico. Un altro goal…  Corse incontro a Gentile, palla al piede, gli occhi fissi sul difensore. Si studiarono immobili, come due guerrieri, per il tempo di un respiro. Quindi Shingo scattò come una molla a novanta gradi, velocissimo, il pallone attaccato ai piedi. Previde il movimento di Gentile che allungò una gamba per fermarlo, e lo saltò girando su stesso e imprimendo la stessa rotazione al pallone. Ce l’ho fatta! Ormai c’era solo Gino tra lui e la porta, così si alzò la palla, saltò e si produsse in una spettacolare rovesciata. Era il suo solito tiro, calibrato al millimetro per passare sotto le gambe del portiere. Hernandez lo conosceva bene: si inarcò all’indietro, la mano destra a raggiungere il pallone che prese in pieno. Sentì una coltellata al braccio malandato e le dita cedettero improvvisamente, incapaci di trattenere la sfera che rimbalzò verso l’attaccante. Shingo, cogliendo letteralmente la palla al balzo, tirò di nuovo e la mandò a insaccarsi nella rete alle spalle del perfect keeper.
***
 
Quando il triplice fischio dell’arbitro sancì la fine della partita, Alessio si materializzò al fianco di Gino. Si tolse la fascia da capitano dal braccio e gliela porse. “Lo so che è solo simbolica ormai, ma è tua,” mugugnò spazzandosi gli occhi pieni di lacrime con una mano. Gino alzò lo sguardo con gli occhi socchiusi. Si teneva la mano infortunata con la sinistra, il dolore gli pulsava assieme al sangue, gli risaliva dalla punta delle dita e gli scorreva lungo l’avambraccio fino al gomito. Fece per allungare il braccio verso il centrocampista, ma quel minimo movimento gli costò un dolore atroce. Sentì Alessio parlare, ma gli sembrò un indistinto rumore di fondo. L’unico suo desiderio era di arrivare negli spogliatoi e infilare il braccio nel ghiaccio.
Alessio osservò l’espressione sofferente di Gino, la sua postura piegata in avanti, la sottile patina di sudore che gli imperlava il viso. “Gino?” Non l’aveva mai visto così. “Vieni.” Si rinfilò la fascia al braccio, gli passò una mano attorno alle spalle e lo portò verso l’ingresso del tunnel.
***
 
La fine della partita colse Salvatore Gentile seduto per terra. Avevano perso, ma quello era un risultato annunciato. Appoggiò le mani a terra e lasciò cadere la testa all’indietro. Era stanco morto, come se avesse giocato due partite di fila invece che solo un quarto d’ora. Alla fine Shingo Aoi era riuscito a batterlo per davvero. Non era sicuro che anche nel massimo della forma fisica sarebbe riuscito a fermarlo: le sue finte erano state velocissime e il controllo del pallone impeccabile, ma di certo la gamba dolorante non lo aveva aiutato.
Alzò il viso quando il centrocampista giapponese gli passò vicino, lo sguardo fiero, ma per una volta non c’era alcun sarcasmo nella voce, alcuna arroganza: “Sono stato sconfitto. Adesso tocca a me impegnarmi per battere te.” Sorrise amaro, gli occhi chiusi, rivolti al sole. “La nostra sfida continua.” Sentì le lacrime pungergli le palpebre, ma le rimandò al mittente. Aveva il cuore in subbuglio per tutto quello che aveva passato in quei giorni e per quello che aveva significato quella partita. Una fase della sua vita si era chiusa e quello che ora lo aspettava gli era completamente ignoto.
Shingo lo guardò stupito: da Gentile non si sarebbe mai aspettato un’ammissione del genere. Sorrise e chinò il capo in cenno di rispetto quindi corse a festeggiare con i suoi compagni.
 
“Dobbiamo far venire una barella?”                                                                                                                     
Salvatore ricompose i pensieri, impostò lo sguardo e aprì gli occhi: il suono della voce e il tono ironico non gli erano nuovi. “No, ce la faccio,” rispose, prima ancora di sapere quanta verità ci fosse nelle sue parole.
Nicola allungò una mano per aiutarlo ad alzarsi in piedi. Gentile la studiò per un attimo per poi afferrarla saldamente. “Grazie.” L’attaccante annuì: aveva il viso imbronciato e rigato di lacrime.
Il ginocchio non gradì più di tanto sostenere il suo dolce peso, ma non cedette né lo costrinse di nuovo a terra per il dolore. Cosa che invece rischiò di ottenere la pacca sulla spalla degna di una badilata che gli diede Fabio. “Alla fine gli abbiamo fatto vedere chi siamo,” commentò. Era sudato marcio, stanco e avevano perso, ma aveva un’aria quasi soddisfatta. “Ben fatto! Da dieci, direi!” gli strizzò l’occhio.
Si avviarono verso gli spogliatoi, Nicola davanti agli altri due con il capo chino, Fabio che era rimasto indietro più preoccupato di quanto non desse a vedere per i passi lenti e misurati di Gentile.
***
 
Il mister, davanti alla panchina, aspettava in piedi i suoi ragazzi con un sorriso. Fece del suo meglio per confortarli, uno per uno, prima di spedirli sotto la doccia. Era stata una partita deludente a voler essere positivi, ma Hernandez e Gentile avevano fatto la differenza per tutta la squadra e, anche se era stato solo per un quarto d’ora, si sentiva orgoglioso di loro. Così come i tifosi italiani che erano rapidamente passati dai fischi all’entusiasmo e all’ammirazione per lo spirito di sacrificio dei due fuoriclasse.
Quando vide arrivare Hernandez quasi sorretto da Alessio gli mancò un battito. Gli andò loro incontro con due rapide falcate: “Che succede, Gino?”
Il numero uno della nazionale scosse il capo, lo sguardo sul braccio dolorante che sorreggeva con il sinistro. Il mister lo tirò a sé mentre un terribile senso di colpa si fece strada in lui. “Vieni, ragazzo.” Lo cinse per le spalle e lo accompagnò in infermeria. Era successo quello che aveva temuto: erano bastati pochi minuti per danneggiare ulteriormente la situazione. Almeno Gentile non pareva zoppicare più del solito.
Gino si stese sul lettino. Quando il medico gli liberò la mano dalle fasciature e gli spruzzò il ghiaccio spray sull’avambraccio gli si annebbiò la vista dal dolore.
“La situazione non sembra peggiorata,” commentò il medico dopo averlo esaminato attentamente. Per quanto la sua presa fosse delicata, a Gino sembrava che le sue dita fossero artigli mentre gli tastavano i muscoli doloranti, ogni movimento che gli chiedeva di fare per quantificare i danni era una tortura.
“Perché fa così male allora?” si lamentò. La bocca impastata gli legava le parole che la mente rallentata faceva fatica a mettere in fila. Era completamente sfinito.
“Perché continui a fare di testa tua,” rispose secco. E qualcuno più folle di te ti asseconda pure.
Gino alzò gli occhi per guardare l’allenatore. L’uomo era ai piedi del lettino: aveva controllato ogni mossa e ascoltato ogni parola. Non poté trattenere un sospiro di sollievo al verdetto del medico, ma abbassò gli occhi, imbarazzato dall’occhiata severa che si sentì rivolgere. “Se vi avessi lasciato entrare sin dal primo minuto, la partita sarebbe stata ben diversa,” sorrise il mister quando il medico si allontanò un attimo. “Ma non avrei dovuto lasciarvi giocare neppure per quel quarto d’ora.”
“Lo so.” Gino abbozzò un sorriso grato. “Però l’ha fatto.”
***
 
Quando Francesco Rocca uscì dall’infermeria, si trovò davanti Salvatore Gentile. Portava ancora addosso lo sporco dell’incontro, con le macchie di erba e terra che spiccavano sui pantaloncini bianchi. L’allenatore lo guardò preoccupato: “Il ginocchio?”
Il difensore si riscosse. “Va tutto bene, credo. Fa un po’ male ma ha retto bene.” Deglutì, imbarazzato nel fare l’unica domanda che davvero gli stesse a cuore. Indicò con il mento la porta chiusa dietro alle spalle del mister: “Come sta Gino?”
“Il medico dice che non è peggiorato.” Salvatore si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. “Avete fatto una bella partita,” sorrise. Si avvicinò a Salvatore e lo strinse in un abbraccio virile. “Grazie.”
Gentile sorrise imbarazzato per quella dimostrazione improvvisa. Se di stima o di affetto non lo sapeva neppure lui.
***
 
Shingo fece la doccia più veloce della sua vita e corse fuori dagli spogliatoi per aspettare Gino nel corridoio. Aveva atteso quella partita con ansia ed era stato felicissimo di vederli entrare in campo quel giorno. Ma fino a quel momento non si era reso conto dell’entità dei loro infortuni: non gli era sfuggita l’espressione di sofferenza con cui Gino aveva lasciato il campo in tutta fretta e neppure la rigidità che rallentava i movimenti di Gentile. Iniziò a camminare avanti e indietro lungo il corridoio, incapace com’era di stare fermo. Era talmente esaltato per la vittoria appena ottenuta che gli pareva di volare. Nonostante tutto, segnare a uno bravo come Gino era sempre una porca soddisfazione. Per non parlare poi di del modo in cui aveva dribblato Gentile. Non poté fare a meno di gongolare con un sorriso a trentadue denti al pensiero di averlo lasciato seduto per terra mentre segnava. E non sarà l’ultima volta, si ripromise. Quando finalmente il portiere azzurro uscì dagli spogliatoi, Shingo, dall’altro lato del corridoio, iniziò a correre e sbracciarsi per richiamare la sua attenzione.
“Gino!”
“Ehi! Campione!” gli rispose il portiere avvicinandosi, un largo sorriso sul volto. Era pallido, e aveva un’elaborata fasciatura su entrambe le mani, il braccio destro appeso al collo.
Shingo lo abbracciò forte, in uno dei suoi consueti slanci di entusiasmo e Gino lo ricambiò. Era felicissimo di vederlo.
“Congratulazioni!” fece il capitano degli azzurri. “Avete giocato benissimo: vi siete meritati il passaggio al prossimo turno!”
“Mi dispiace che voi non siate passati,” replicò Shingo. Un’ombra scura offuscò gli occhi allegri. “Non è così che volevo vincere.”
Gino sorrise mesto: anche lui avrebbe voluto che le cose andassero diversamente. “Non hai vinto solo perché eravamo infortunati, Shingo. Sei migliorato tantissimo.”  Gli scompigliò i capelli ribelli con una mano, facendogli ricadere sul viso. Erano ancora umidi. “Grazie per aver giocato senza esitazioni.”
Gentile uscì in quel momento dalla porta dello spogliatoio. Shingo si voltò per salutarlo, ma il difensore li squadrò da capo a piedi con il suo solito sguardo di ghiaccio, fece appena un cenno con il mento, si voltò e si diresse verso l’uscita. Aveva promesso a Gino di non tormentare più Shingo – e non era neppure nella posizione di poterlo fare –, ma familiarizzare con il nemico… no, quello no.
Gino osservò Salvatore mentre si allontanava: una zoppia accennata toglieva severità alla sua andatura rigida. Sentì il familiare nodo allo stomaco che gli provocava la sua presenza, gli occhi calamitati dalla sua figura.
Shingo sbuffò. Gentile lo aveva veramente colpito in campo, con il suo commento, ma ora che era finita la partita sbuffò: “Quello non cambierà mai.”
Gino riscosse, l’ombra di Gentile ormai sparita dal corridoio, ma non dalla propria mente. “È una persona difficile da avvicinare,” rifletté. “Ma riserva molte sorprese quando lo si conosce meglio.”
Shingo sollevò le sopracciglia un po’ stupito. “Se lo dici tu!” Non gli risultava che Gino avesse mai apprezzato Gentile più di tanto, magari aveva cambiato idea. “Ma tu come stai?”
“Dovrò rimanere a riposo per un po’,” sospirò. “Salterò due o tre giornate di campionato, ma per quando tornerai in Italia sarò di nuovo in forma.” Poi il portiere si fece improvvisamente serio. Appoggiò la mano sinistra sulla spalla di Shingo e si chinò verso di lui.  “Mettetecela tutta anche per noi. Vincete!”
“Te lo prometto,” annuì Shingo gravemente. “Avrai l’onore di giocare in squadra con uno dei vincitori del World Youth!” strepitò, alzando un braccio al cielo.
***
 
Salvatore dovette utilizzare tutta la propria forza di volontà per non voltarsi indietro. Per quanto Gino gli avesse detto che erano soltanto amici, vedere lui e Aoi così complici gli causò un doloroso morso allo stomaco. Salì sul pullman e si sedette vicino al finestrino, lo sguardo rivolto verso il parcheggio e lo stadio. Si vede che non era il nostro torneo, cercò di distrarsi. Ci saranno altre occasioni e ci rifaremo. Ma quel tarlo che quella maledetta scimmia non l’avesse battuto solo in campo continuava a rodergli lo stomaco. Checché Gino blaterasse di amicizia, nei riguardi di Aoi, nei suoi riguardi Hernandez era diverso: quando ne parlava c’era una nota di dolcezza nella sua voce, la stessa che ritrovava nei suoi occhi quando lo guardava. Gentile si passò una mano sull’addome, per avere sollievo da quel malessere continuo, ma con scarso successo. Rivide le pacche sulle spalle, i sorrisi e gli sguardi complici fra i due giocatori della primavera dell’Inter e non riuscì a impedire alla sua immaginazione di andare ancora oltre e vederli in atteggiamenti più intimi. Si sentì il volto avvampare e si costrinse a distogliere l’attenzione da quelle fantasie imbarazzanti. Si chiese come Gino guardasse lui e non si seppe rispondere: dei suoi occhi aveva in mente le iridi azzurro cielo e lo sguardo limpido di chi non ha niente da nascondere. Salvatore scosse il capo e strinse ostinatamente le palpebre.  Non era abituato a gestire i sentimenti, non era abituato alla confusione, all’incertezza. Così, per l’ennesima volta provò a ricapitolare come era arrivato fino a lì, perché magari se ci avesse trovato una logica allora avrebbe potuto scardinare quell’improbabile castello di carte che continuava a resistere imperterrito a tutti gli scossoni a cui quotidianamente lo sottoponeva. Per quanto non l’avrebbe mai ammesso neanche sotto tortura, Gino gli era piaciuto subito come giocatore: capace, serio, un buon capitano già dalle selezioni giovanili. Gli piacevano i suoi modi schietti, il suo essere estroverso, la sua capacità di chiacchierare con tutti. Gli piaceva quella prontezza di riflessi che lo portava a tenergli testa nei duelli verbali e, per quanto lo irritava, gli piaceva anche quella capacità di farsi scivolare addosso le cose, di lasciar perdere le discussioni, di fare sentire il suo interlocutore sconfitto senza batterlo sul campo. Non aveva esagerato quando aveva definito Gino un chiodo fisso: nessuno gli aveva mai fatto un effetto così devastante. E la cosa che più lo aveva inquietato era stato scoprire che non era solo attrazione fisica. Di Hernandez gli piaceva tutto: dallo stravagante cognome spagnolo alla meticolosità con cui si infilava i guanti prima delle partite, dalla voce calda al sorriso scanzonato. Gli piaceva l’espressione assorta con cui lo aveva visto studiare per l’esame di stato l’estate prima, dopo gli allenamenti, e gli piaceva la grinta che tirava fuori tutte le volte che avevano litigato. Ammirava la sua capacità di trovare un modo per andare d’accordo con tutti – persino con lui –, la sua capacità di ascoltare senza giudicare, senza dispensare consigli facili. E Salvatore se la prese per l’ennesima volta con sé stesso perché era sicuro di aver idealizzato un po’ troppo quel tizio biondo dal cognome spagnolo, ripetendosi spesso che il numero uno lo aveva stampato sulla maglia, non tatuato sulla schiena da Dio in persona. E aveva cominciato a cercare di smontarlo tutte le volte che gli si presentava l’occasione punzecchiandolo, prendendolo in giro, arrivando a offenderlo. Lo aveva irritato, si era guadagnato qualche risposta salace, si era persino trovato a fare avanti e indietro svariate volte da quel fantomatico paese. Aveva ricondotto Hernandez allo stato di essere umano. E gli era piaciuto ancora di più.
Si lasciò sfuggire un lungo sospiro dalle labbra, ma il suo castello di carte, seppur fragile e barcollante, ne uscì indenne anche questa volta.
***
 
Salvatore stava ancora guardando fuori dal finestrino quando sentì qualcuno sedersi al suo fianco. Non capiva perché, con il pullman mezzo vuoto, qualcuno dovesse proprio occupare quel posto. Non aveva voglia di compagnia in quel momento. Caparbio, chiuse gli occhi, pensando così di troncare ogni conservazione prima ancora che nascesse.
“Sono più stanco oggi di quando gioco una partita intera.”
Salvatore sussultò e si voltò all’improvviso. Accanto a lui si era accomodato Hernandez. Aveva gli occhi chiusi, la faccia sfinita, ma finalmente, dopo giorni, aveva di nuovo un’espressione serena sul volto. “Grazie,” mormorò il portiere. 
Lo sguardo di Gentile cadde sulle fasciature attorno alle mani e sul braccio al collo. “Di cosa? Di aver contribuito ad aggravare il tuo infortunio?”
Gino sorrise, senza aprire gli occhi, e scosse il capo. “Il medico ha detto che non è peggiorato, tutta questa impalcatura dovrebbe servire a diminuire il dolore.”
“Funziona?”
“Magari tra un po’ faranno effetto gli antidolorifici.” Gino aprì gli occhi, lo sguardo limpido, e proseguì imperterrito. “È solo per merito tuo che abbiamo giocato. Io mi ero arreso. Tu non invece non hai mollato.”
Gentile lo guardò dall’alto in basso, perplesso. Lui aveva capitolato sin dal principio, si era estraniato dai problemi della squadra e non aveva fatto nulla per rimediare ai suoi disastri. E il giorno prima era stato lui a causare la rissa che aveva stroncato il morale anche a Gino. Per poi svegliarsi all’improvviso quando una metaforica doccia fredda – una confessione che non avrebbe mai dovuto fare e le lunghe riflessioni che l’avevano preceduta e seguita – gli aveva fatto capire che era ora di agire.
Gino si strinse nelle spalle. “Sei stato tu a persuadere il mister, no? Non so cosa tu gli abbia detto, ma sei stato più convincente di me.”
Salvatore scrollò le spalle.
“E sono contento che tu e Nicola abbiate fatto pace.” Gino si sistemò meglio sul seggiolino, la testa abbandonata all’indietro, gli occhi chiusi, le labbra piegate nell’accenno di un sorriso. Infilò in tasca la mano sinistra e sfiorò con le dita la fascia di capitano che Alessio aveva voluto restituirgli a tutti i costi. Sorrise.
Non gli sfugge niente, pensò Salvatore. Ma era una cosa che aveva fatto piacere anche a lui. Finalmente aveva avuto l’impressione di aver fatto la cosa giusta.
 
Gino si lasciò cullare dall’andamento lento e sincopato del pullman. Era talmente stanco che avrebbe voluto dormire, ma la mente era affollata di pensieri e la vicinanza di Gentile non gli conciliava il rilassamento. Anche se in altri momenti ci avrebbe dormito tranquillamente tra quelle braccia. Non era mai stato un problema per lui dormire sul sedile di un pullman, ma il sonno ormai pareva rifuggirlo notte e giorno. Ora che il World Youth era davvero finito, il suo cervello aveva messo il cartello aperto a tutti gli sportelli in cui vi erano in coda problemi da risolvere. In realtà il problema era solo uno e la sua mente non faceva che tornare, come un disco rotto, al pomeriggio precedente: l’allenamento disastroso, il rimprovero del mister, l’ennesimo diniego alla sua richiesta di giocare, la rissa nello spogliatoio e, dulcis in fundo, il discorso di Salvatore. Sei un chiodo fisso, Hernandez, lo capisci? Un chiodo che non va né avanti né indietro. Ma sei lì e non ti sposti e io non so che cazzo devo farci. Hai capito ora?
Gino aprì gli occhi piano, ma il difensore era voltato di tre quarti verso il finestrino e non riusciva a capire se stesse dormendo oppure no. Il viaggio di rientro sarebbe dovuto durare poco più di un paio d’ore, ma un incidente pareva aver bloccato il traffico così procedevano a passo d’uomo o stavano fermi. Sapeva che avrebbero dovuto parlarne, solo che non sapeva che dire. Salvatore gli aveva fatto una confessione delicata, si era rimesso nelle sue mani. E lui aveva risposto con il silenzio, ignorando caparbiamente tutto quello che non era il calcio. E fino a quel momento gli era parsa la cosa giusta da fare, ma ora non poteva continuare così. “Salvo,” chiamò piano. “Sei sveglio?”
Il difensore, immobile come una statua di cera, non rispose.
Gino allungò le gambe e il collo, un lungo sospiro gli sfuggì dalle labbra. L’evoluzione del loro rapporto aveva preso la piega che temeva e che, nel suo profondo, sperava. Ma non riusciva a capire a che punto fossero e cosa stesse succedendo. E non capire lo lasciava disarmato, incapace di affrontare la situazione.
 
“Ma se uno ti dice che sei diventato un chiodo fisso, secondo voi cosa significa?” Mandò lo stesso messaggio sia a Serena che a Luca. Obiettivamente quelle di Salvatore erano state parole che avevano lasciato ben poco spazio all’immaginazione, ma avevano creato una scia di dubbi che faceva fatica a dipanare. Era come se nella sua testa si fosse formata una linea che univa tutti i puntini che li aveva visti assieme: la sera della cerimonia di inaugurazione, gli allenamenti, le partite e gli infortuni, le chiacchiere seduti sul pavimento e quell’altra sera, sul balcone. E poi nello spogliatoio e l’ultima partita…. E ora i binari erano terminati, le vie tracciate erano finite. Erano come due pianeti che si attraevano e si respingevano per la forza di gravità: serviva un atto di forza per evitare che si creasse un nuovo cratere in grado di separarli.
“Vuoi un disegno?” Rispose rapida ed efficiente di Serena. 
“Non l’ha detto come se fosse una cosa positiva.”
“Magari non crede che tu sia bravo a letto! XDXD” Gino sorrise. Serena era impagabile quando era il caso di risollevare il morale ed era ancora più brava di quanto fosse lui a non farsi problemi. Meglio un rimorso che un rimpianto, diceva sempre. Inutile immaginarsi la vita, meglio viverla.
 
Il messaggio di Luca aveva tardato più tempo ad arrivare, forse l’aveva beccato mentre era a lezione: “Non mi sembra che sia una frase che lasci spazio a molte interpretazioni… qual è il problema?”
Il portiere rispose con le medesime parole che aveva già detto alla sorella: “Non l’ha detto come se fosse una cosa positiva.”
“Gino, chi è stato a dirtelo?”
 
Gino girò appena gli occhi verso Salvatore. Gentile era stata una delle persone che gli avevano fatto sperimentare i sentimenti più forti che mai aveva provato nella sua vita. Andare d’accordo con Gentile era stata quasi una scommessa con sé stesso, avvicinarsi una sfida. Salvatore si era sempre premurato di erigere fra lui e il resto del mondo un muro con tanto di ronda al suo interno. Non era possibile avvicinarsi abbastanza per vedere cosa nascondesse al di là. Ma ogni tanto Salvatore aveva abbassato le sue difese e gli aveva permesso di guardare cosa succedesse dietro a quel muro.
Maledizione, pensò.
 
“Una persona che non credevo avrebbe mai potuto dirmi una cosa del genere.”
“Forse non lo credeva neanche lui.”
***
 
20 ottobre
 
Alla fine aveva dovuto rispondere. Il telefono aveva squillato più volte nell’arco di quel tardo pomeriggio: aveva fatto finto di non sentirlo, aveva mandato un messaggio per dire che era impegnato, ma ormai non aveva più scuse da inventarsi. “Quando torni a casa?”
“Abbiamo l’aereo domani.” La sua voce tradiva tutto il nervosismo che a fatica tratteneva. Era finito tutto, non solo il World Youth. E non era sicuro di esserne felice.
“Se non ci dici l’orario a cui arrivi, difficilmente potremmo venire a prenderti.”
Difficilmente verreste comunque, pensò Gentile. “Prenderò un taxi, le chiavi di casa le ho con me.” Sentì un sospiro dall’altro lato del ricevitore.
“E il ginocchio?”
“Meglio,” rispose Salvatore, mettendocela tutta per ignorare quella nota lamentosa nella voce di sua madre. “Ieri sono riuscito a giocare per un quarto d’ora.” E quello, al ginocchio, non aveva fatto proprio bene, ma lui non poté trattenere un sorriso di soddisfazione. Erano stati solo quindici minuti, ma ne era valsa la pena. Aveva finalmente trovato il suo posto in una squadra. Un posto che con aveva a che fare con l’essere il miglior libero del mondo, ma che era il frutto di quello che aveva vissuto e maturato. Aveva provato l’emozione di crescere come persona invece che come giocatore.
“Umph,” sbuffò la madre. Non le era mai interessato quello che lui faceva in campo. Per lei si trattava solo di correre bovinamente dietro a un pallone. “Vedi di non rompertelo un’altra volta.” Figurati! Pensò Salvatore toccandosi, giusto per scaramanzia.
“Papà sta bene?” Il difensore pensò che fosse il momento opportuno per cambiare argomento.
“Sta parlando nello studio con tuo fratello.”
“Davide è lì?” chiese Salvatore stupito.
“Un passaggio veloce a quanto pare,” sospirò la madre. “Non si ferma mai abbastanza.”
Gentile sbuffò: anche se non erano molto legati, gli sarebbe piaciuto vederlo. “Salutami entrambi,” concluse, riagganciando. Se papà e Davide sono nello studio allora stanno litigando, pensò. Chissà per cosa questa volta. Davide era l’unica persona che conosceva in grado di tenere testa a loro padre.
Salvatore si fermò sul balcone e inspirò profondamente l’aria fresca della sera. Quelle telefonate non facevano altro che riportargli alla mente che domani sarebbe tornato a casa e quel chiodo fisso di nome Gino e cognome Hernandez avrebbe dovuto per sempre scomparire dalla sua testa. Forse la lontananza avrebbe aiutato, ma quanto ci avrebbero messo a essere nuovamente riconvocati in nazionale?
 
Gli veniva da ridere a pensare come avrebbero potuto prenderla i suoi genitori a sapere che s’era preso una tale sbandata per un ragazzo. Probabilmente gli avrebbero dato fuoco in cantina e, non contenti, avrebbero affogato le sue ceneri nell’acqua santa. Oppure l’avrebbero prima affogato nell’acqua santa, poi cosparso di olio santo e quindi bruciato. In ogni caso, dal rogo non l’avrebbe salvato nessuno. Nella loro mente l’omosessualità era una malattia curabile nella migliore delle ipotesi, un reato nella peggiore. Il rapporto coi suoi genitori era qualcosa che si era andato sempre più deteriorando, soprattutto negli ultimi anni. Volendo vedere la cosa dal lato positive, nascondersi non sarebbe stato difficile: forse sua madre avrebbe ficcanasato un po’ in giro, ma non era niente che non avrebbe potuto gestire. E se l’avessero beccato che avrebbero potuto fargli, cacciarlo di casa? Salvatore scosse la testa: non era diventato il figlio che sua madre avrebbe voluto, non gli sarebbe stato più possibile ottenere la sua approvazione. E lui, per reazione, faceva di tutto per sbatterle in faccia la sua personalità. Aveva rinunciato a farlo con le parole: sua madre, quando se la vedeva brutta, cominciava a piagnucolare, a singhiozzare, a lamentarsi che al mondo nessuno capiva tutti i sacrifici che lei aveva sempre fatto per tutti loro. In quanto a suo padre… chi lo può sapere cosa gli andava bene e cosa no. Eppure gli aveva impartito un’ottima lezione: rispondere con il silenzio. Ai pianti, alle lamentele, alle provocazioni. A tutto.
***
 
Avevano la cena ufficiale quella sera. E cena ufficiale significava divisa ufficiale, con tanto di camicia e cravatta. Con la fasciatura semirigida alla mano destra Gino non era neppure in grado di flettere le dita. E per quanto alla sinistra avesse solo un bendaggio elastico, non era comunque libero nei movimenti. Riuscì a infilarsi camicia e pantaloni, ma alla terza battaglia persa con asola e bottone si lasciò cadere seduto sul letto, chiedendosi come avrebbe fatto a vestirsi. La tuta piegata sulla sedia non gli era mai parsa così allettante. In fin dei conti anche quella fa parte dell’abbigliamento ufficiale, no?
Gentile rientrò dal balcone perfettamente vestito e pettinato. Sembrava terribilmente a suo agio in quegli abiti eleganti che Gino aveva sempre trattato con una certa soggezione. Appoggiò il cellulare sul comodino per poi annodarsi la cravatta e sistemarsi i polsini. Prese in mano la giacca, pronto per uscire quando il suo sguardo cadde su Gino che stava armeggiando con le bende che gli fasciavano le mani.
“Che diavolo stai facendo?” lo apostrofò Salvatore avvicinandosi a di lui.
Gino lo guardò sconsolato, la fasciatura della mano sinistra a metà strada verso il disfacimento. “Non riesco neppure a muovere le dita con queste,” si schermì.
“Non hai pensato che lo scopo sia proprio quello di farti stare fermo?”
“Mi spieghi come faccio a vestirmi?”
“Potevi chiedermelo prima,” lo redarguì il difensore. Prese in mano l’estremità libera della benda e iniziò a studiare come rimetterla a posto. “Abbottonare una camicia è sicuramente più facile che rimettere insieme questo macello.”
Gino si morse il labbro. “Eri al telefono,” si schermì con poca convinzione. Quando riceveva quelle telefonate, Gentile diventava sempre di cattivo umore. E poi si era sentito in imbarazzo a chiedergli di aiutarlo. Ora che non c’era più il World Youth a mettersi in mezzo stare da soli era diventato ancora più imbarazzante di prima. Come quel giorno, in cui erano andati in giro per Tokyo con gli altri ragazzi della squadra e non si erano praticamente rivolti la parola per tutto il tempo.
“È troppo stretta così?” gli chiese Salvatore, concentrato nel ridare forma alla garza attorno alla mano.
Gino scosse il capo. “No,” sfiatò.
Anche Gentile sospirò esasperato. “Che ti succede, Hernandez?” Ancorò l’estremità della benda con il gancino sul palmo e gli voltò la mano sotto e sopra per valutare il risultato. Poteva andare peggio, pensò.
Il portiere lo guardò interrogativo.
“Quando ti metti a fare queste cazzate è perché hai troppi pensieri che ti girano in testa.” Serrò la mandibola, gli occhi severi. “Così ti escono le idee di merda.”
Gino abbassò sguardo, esitante. Ma Salvatore lo capì lo stesso. Da quando aveva cominciato a leggere le espressioni di Hernandez come un libro aperto?
“È per quello che ti ho detto nello spogliatoio?”
 
Sei un chiodo fisso, Hernandez, lo capisci?
 
Gino ricominciò a torturarsi il labbro con in denti. Dal momento in cui quelle parole erano state pronunciate avevano continuato a ronzargli nelle orecchie, solo momentaneamente accantonate dalla partita, per poi riprendere prepotentemente il palcoscenico. Sapeva solo che dovevano parlarne, che aveva bisogno di capire, ma non aveva idea di come affrontare il discorso.
“Dimenticalo.”
Salvatore si alzò in piedi, prese il portiere per il gomito e lo fece alzare a sua volta. Gli mancò il fiato per un attimo quando notò i pantaloni mollemente appoggiati ai fianchi a sfidare la forza di gravità e la camicia scivolargli languida sul torace. Il difensore si ricordò vagamente che era maleducato fissare le persone, ma era incapace di staccargli gli occhi di dosso: avvertì un familiare formicolio all’inguine e una sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco. E tutti i suoi propositi di cavarselo dalla testa una volta per tutte si frantumarono all’improvviso.
 
Un chiodo che non va né avanti né indietro.
 
“Non posso.” Gino prese un lungo respiro e cercò i suoi occhi con uno sguardo stranamente timido. Fino a quel momento erano stati presi dagli allenamenti, dallo spogliatoio e dall’ultima partita. In quelle sere la camera era servita solo per dormire, o meglio, per rigirarsi nel letto: niente confidenze, niente carezze rubate o abbracci a tradimento. Ma ora il World Youth era finito e rimanevano solo loro due con tutta la sequela di dubbi, speranze e incertezze che si portavano dietro. Con quello che gli aveva detto Salvatore e con il silenzio che lui aveva fatto seguire. “Non puoi chiedermi di dimenticare cosa mi hai detto o cosa è successo in questi giorni. Fino a pochi giorni fa tu eri quello con cui dovevo stare attento a come mi comportavo se non volevo beccarmi un cazzotto nello stomaco. Ora invece…,” al portiere scappò un sorriso imbarazzato. “Be’, sono confuso.”
Il difensore serrò le mandibole. Prese i lembi della camicia di Gino tra le mani e cominciò ad abbottonarla metodicamente, lo sguardo attento a ogni gesto delle sue dita. Ma non riuscì a impedire alla mente di andare per conto suo, a riavvolgere il nastro del tempo che stava vivendo: gli slacciò gli ultimi due bottoni, gli appoggiò le mani sul torace e gli fece scivolare la sottile stoffa giù dalle spalle e lungo le braccia, accarezzando lentamente la pelle nuda appena scoperta. Poi scese lungo i suoi fianchi e spinse appena i pantaloni verso il basso. Quindi si avvicinò a lui e con un’altra leggera spinta lo fece sedere sul letto e poi stendere…
 
La realtà tornò in tutto il suo splendore quando Salvatore non trovò più bottoni da allacciare. Aveva il fiato corto, il cuore che gli martellava nel petto e le mani che gli bruciavano dalla voglia di strappargli per davvero la camicia di dosso, buttarla in un angolo della stanza e dimenticarsene. E dimenticarsi della cena con la squadra, dimenticarsi della sconfitta, del World Youth e, soprattutto, dimenticare che a breve sarebbero tornati casa. E poi di nuovo quella voce stridula che nella sua testa gli diceva che l’unica cosa che davvero doveva dimenticare era questo tarlo, questi stupidi sogni e sospiri. Ma l’odore di Gino stava uccidendo il suo autocontrollo. La sua vicinanza stava facendo tutto il resto. “Tu sei confuso, eh?” esalò il difensore. Lui stava facendo a cazzotti con sé stesso e a ogni round finiva al tappeto. Forse confusione era un tantino eufemistico rispetto a quello che stava provando. “Almeno, non prendermi per il culo, Hernandez!”
 
Ma sei lì e non ti sposti e io non so che cazzo devo farci.
 
“Io non ti sto prendendo in giro,” replicò Gino a bassa voce. “Non ho nessun motivo per farlo.”
A Salvatore tornarono in mente con una punta di vergogna, tutte le volte che lo aveva punzecchiato perché gay, e pensò che invece sì, avrebbe avuto ben più di una ragione per prenderlo in giro e anche peggio. “Sicuro?”
Gino annuì e piegò appena la testa di lato: era sempre più difficile chiudere fuori le emozioni che Salvatore gli faceva provare. La sua presenza era intossicante, inebriante, capace di fargli desiderare l’impossibile e di fargli dimenticare tutti i suoi buoni propositi. Mai con un compagno di squadra, si era detto tante volte, ma non gli era mai successo che un compagno di squadra gli entrasse così nell’anima. All’improvviso quella sua legge interiore gli sembrò terribilmente ingenua. “Fino a questo momento sembrava che la possibilità di essere amici non fosse possibile a causa della mia omosessualità,” bisbigliò. Mise a fuoco il viso del difensore e notò che aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi, le pupille dilatate appena cerchiate dalle iridi grigie. “Perché non dovrei essere confuso ora?”
Salvatore serrò le labbra. Aveva avuto paura – e ne aveva ancora, una paura folle, di quella che correva lungo la colonna vertebrale, entrava nei nervi e paralizzava le membra. Paura di ammettere che il problema non era di Gino, ma era suo, perché non voleva essere come lui, non voleva che potesse piacergli lui. Abbassò gli occhi e il suo sguardo cadde sui pantaloni ancora slacciati di Gino. “Dovresti...”
“Sì,” annuì il portiere, ricordandosi improvvisamente di respirare. Infilò la camicia nei pantaloni e se li sistemò.                 
Salvatore afferrò i lembi dei calzoni, ma il portiere mise le proprie mani sulle sue.
“Credo di riuscirci da solo,” balbettò Gino. Le sue mani erano troppo vicine, erano troppo calde e ferme e meticolose. Erano troppo. “Ti danno fastidio le mie mani addosso?” Salvatore avrebbe voluto suonare sarcastico finanche a essere cattivo, ma la voce gli uscì tremula. Tentò invano di deglutire il nodo che aveva in gola, ma l’unico risultato fu sentire la bocca ancora più secca. Concentrò di nuovo tutta la sua attenzione sui bottoni e la cerniera mentre le mani di Gino – fredde, nonostante le fasciature – si erano appoggiate sulle sue braccia. Dio, una certezza, una! Non gli pareva di chiedere così tanto, in fondo. Solo un’illuminazione divina perché il suo cervello era evidentemente andato in cortocircuito: da un lato voleva scappare, seppellire tutto sotto due metri di cemento e dimenticarsene, dall’altro voleva spingerlo sul letto, baciarlo e scoparlo fino a convincersi che tutto sarebbe finito lì, a un’esperienza che sarebbe potuta dirsi buona solo nella sua fantasia. Ed era terrorizzato perché era sicuro che solo una volta non gli sarebbe bastata. Ma quella sera Salvatore non era sufficientemente ubriaco perché l’istinto lo sopraffacesse senza via di scampo. Così di nuovo si concentrò su semplici gesti manuali: bottone, cerniera, cintura.
Hernandez avrebbe desiderato il muro dietro di sé: se le ginocchia avessero dato segni di cedimento appoggiarsi al muro sarebbe stato più virile che crollare miseramente sul letto. “No,” esalò. Desiderava le sue mani addosso. Avrebbe voluto che lo spogliasse, invece di vestirlo. Avrebbe voluto che la smettesse con queste domande subdole che parevano accusarlo di qualcosa di osceno, come se desiderarlo fosse sbagliato. E a te, Salvo? Che effetto ti fa mettermi le mani addosso?
Salvatore si prese un lungo momento per osservarlo. Non si era messo il gel nei capelli, Gino, e i ciuffi ricadevano morbidi sulla fronte larga, dandogli un’aria ancora più sbarazzina del solito. Era bellissimo. Il difensore chiuse gli occhi per un momento: non doveva pensarci. Gli afferrò le mani, una alla volta, cercando di contenere il tremito che sentiva vibrare sotto la propria pelle, gli sistemò i polsini e, costringendosi a essere pragmatico, gli chiese: “Dove hai messo la cravatta?”
“Scusa?” Gino ripiombò bruscamente alla realtà. La stanza cadde improvvisamente nella penombra, come se il sole avesse deciso di tramontare da un momento all’altro.
“La cravatta,” si spazientì il difensore.
“Sul letto,” balbettò Gino. Si voltò per prenderla, ma Salvatore fu più veloce di lui.
Se la mise al collo e con poche abili mosse fece un bel nodo elegante. Quindi se la tolse, la fece passare sotto al colletto di Gino e gliela sistemò. Inspirò profondamente per poi buttare fuori tutta l’aria. “Credo che tu non abbia più bisogno di me,” lo salutò brusco. Prese la sua giacca e si diresse con lunghe falcate verso la porta della camera.
“Noi due dobbiamo parlare,” lo fermò Gino. Salvatore si bloccò, la mano appoggiata sulla maniglia della porta.
“Io non ho più niente da dire,” mormorò allo stipite di legno.
Gino lo raggiunse silenzioso alle spalle, un sorriso appena accennato gli piegava le labbra: quando Salvatore ci si metteva era veramente un campione nel mettere in difficoltà il resto del mondo. Ma Gino non voleva – e non poteva – demordere. Non dopo che erano stati così vicini. “Se non vuoi parlare, almeno ascoltami.”
Salvatore si strinse nelle spalle, lo sguardo fisso in avanti e Gino si sentì libero di applicare la legge del silenzio-assenso.
“Ti ho detto che sono confuso, ed è vero,” iniziò, ignorando lo sbuffo di Gentile. “Mi hai confuso perché non credevo che tu fossi…” Gino si interruppe. Non voleva girarci intorno, ma neppure essere così diretto da sembrare crudele.
“Frocio?” terminò Gentile per lui.
“Non stavo dicendo questo,” si schermì Gino, un lieve rossore a tingergli le guance.
“Ma eri lì che volevi arrivare, no?” Salvatore si voltò, uno sguardo duro sul volto. “Vuoi ricambiare con qualche insulto che ancora non ti ho detto?”
Gino scosse il capo. “Lo sai che non è questo che voglio.” Ma qualunque cosa volesse fare, Salvatore glielo stava impendendo con incredibile perizia.
“Allora che cazzo vuoi?”
 
Hai capito ora?

O la va o la spacca, si disse Gino. Lo stomaco gli si era completamente annodato e il cuore, impazzito, gli martellava il petto. Si avvicinò a lui fino ad appoggiare la fronte alla sua e a circondargli mollemente la vita con il braccio sinistro. “Mi piacciono le tue mani addosso,” Gino socchiuse gli occhi. “Come l’altra sera…” La voce andò a morire nel suo respiro strozzato. “Come ora.”
La mano di Salvatore si arrampicò vertebra dopo vertebra lungo la sua schiena, fino a tuffarsi tra i suoi capelli. Strinse forte gli occhi, le dita irrigidite tra i suoi capelli, l’impulso di baciarlo ormai più forte di qualsiasi pensiero razionale. Respirò il suo respiro mentre quel nodo alle viscere che aveva sin dalla fine della partita si andava sciogliendo per essere sostituito da una strana sensazione di leggerezza. Si appoggiò pesantemente alla porta perché aveva paura che le gambe non lo sostenessero – e il ginocchio infortunato in tutto questo non c’entrava niente.
“Che cazzo mi fai fare, Hernandez?” sfiatò. Una domanda che ormai si era fatto migliaia di volte in quei giorni e che aveva solo trovato risposte che non gli piacevano: non poteva essere così malleabile nelle sue mani, non poteva perdere il controllo solo perché se lo trovava vicino, perché se lo trovava addosso.
Gino scostò il viso appena da quello di Salvatore. Aprì gli occhi e cercò il suo sguardo. Poteva vedere la lotta che si consumava dietro le sue iridi grigie, il turbamento che ora diventava così chiaro dietro a tutte le azioni che lo avevano portato fino a lì. “Niente.” La sua voce era morbida come una carezza. “Io voglio essere qui e se tu...”
“Ssssh,” Salvatore gli appoggiò un dito sulle labbra. Non voleva ascoltare altre parole perché sapeva che erano vere, ma non voleva sentirle, non ora. Gli mancò il coraggio di fissare Gino negli occhi così si concentrò sulle rade lentiggini che aveva sul naso e sulle guance e poi più in basso, su un minuscolo neo all’angolo del labbro superiore. Spostò piano il dito dalle labbra in una carezza che risalì fino allo zigomo per poi scendere dietro l’orecchio, lungo la linea del collo e di nuovo su, fin sotto il mento.
Salvatore si lasciò incantare dagli impercettibili sospiri che il suo capitano lasciava uscire dalle labbra: non aveva le parole per spiegargli perché il suo odore lo facesse impazzire, perché la sua vicinanza gli facesse perdere ogni razionalità in favore di istinti animali e pensieri poetici. Si sentiva ridicolo. Chiuse gli occhi quando decise che di quel neo gliene fregava davvero pochissimo, quando sentì il proprio respiro confondersi con quello di Gino, quando gli sfiorò appena le labbra con le proprie… Oddio, allora era un ricordo! Perché erano esattamente come se le ricordava – morbide e fresche – e questa volta si schiusero appena alla sua carezza. Prese fiato e coraggio e lo baciò di nuovo, questa volta più deciso. Si sentiva soffocare dall’emozione: le sue labbra in quel momento erano l’unico punto fermo di tutto l’universo, erano il motivo per cui le sue ginocchia di gelatina riuscivano a reggerlo, erano l’appiglio a cui le sue mani tremanti si assicuravano.
Gino lo assecondò, dolce e fermo, perso nella sua bocca, nel suo sapore, nella sua passione. Sentiva il cuore a mille, le farfalle nello stomaco e la mente così leggera da volare. E sentiva e incoraggiava Salvatore che continuava a divorarlo come se non ci fosse domani.
Si separano per prendere fiato – sopraffatti dal turbamento, sorpresi di poter provare tante emozioni senza scoppiare, ansimanti perché trovare l’anima in un bacio era un attimo e lasciarla andare una fatica immensa – e i loro sguardi si incrociarono per un attimo.
“Dobbiamo scendere per la cena,” mormorò Gino per poi avvicinarsi di nuovo alle labbra di Salvatore e riprendere a baciarle. Erano già tumide dei suoi baci e si schiusero subito per far entrare la sua lingua e esplorare la sua bocca. Odiava aver le mani così impedite da non poterlo accarezzare.
Salvatore lo lasciò fare per poi allontanarlo a malincuore. “Non ho quel tipo di fame,” rispose a denti stretti. C’erano due letti in quella stanza, cazzo, e l’unica cosa che dovevano fare era uscirne per andare in mezzo al rumore, alla banalità, a un sacco di persone che per lui manco esistevano.
Gino sorrise e tornò ad appoggiare la fronte alla sua. “Non possiamo mancare,” sospirò. “Ma non credere che abbia più voglia di scendere di quanta ne abbia tu.” Il lampo di allegria negli occhi azzurri del portiere strappò un sorriso sincero a Gentile.
Il difensore guidò il suo viso sulla propria spalla e se lo strinse forte addosso. Era innegabile che la sua vicinanza lo eccitasse, ma il sentirlo addosso lo calmava, come se potesse chiudere fuori il resto del mondo: c’erano solo loro due, niente conflitti, né turbamenti. Solo il corpo caldo e solido di Gino addosso e la sua serenità che si trasmetteva come un’aura. Era felice, come se avesse scoperto in quel momento il significato della parola felicità. Aspettò che il cuore e il respiro tornassero a un ritmo normale e che l’unica sensazione nelle sue gambe fosse il vago fastidio al ginocchio infortunato.
Scostò appena il viso di Gino dalla propria spalla. “Dobbiamo scendere, ora,” deglutì.
Gino aprì le palpebre, pesanti come dopo un lungo sonno. Continuava a sorridere, sereno. Gli rubò un altro bacio a fior di labbra per poi tornare a prendere la propria giacca. Se la infilò, si sistemò il braccio al collo. “Pronto?”
Salvatore tornò a sistemargli la cravatta, poi aprì la porta. Mentre seguiva Gino fino all’ascensore – gli occhi calamitati in quel punto in cui i capelli terminavano a v sul collo e chiedeva solo di essere baciato – sorrise. Non avrebbe mai pensato a un castello di carte come a un luogo in cui andare a vivere.
***
 
 
Note dell'autrice:
- mi sono presa qualche libertà nei dialoghi che avvengono tra Shingo e i due giocatori italiani. Ho preferito spostarli dopo il termine della partita piuttosto che in campo perché mi pareva più logico che avvenissero non immediatamente (almeno quello con Gino). Anche nel manga Gino e Shingo paiono legati da una profonda amicizia e mi pareva logico che il principe del sole si andasse ad assicurare delle condizioni del suo portiere preferito!
- ancora grazie e ancora mille grazie per chi mi ha seguito fin qui nonostante la lunghissima assenza... in particolare a Melantò e a Karon per le loro splendide recensioni! Per quanto ora abbia davvero ripreso a scrivere e non credo che mi fermerò, un feed back fa sempre super piacere! Ecco, purtroppo i miei tempi saranno sempre lunghini per tutto... a scrivere sono abbastanza veloce, ma le revisioni mi fregano di brutto! Ne faccio centinaia per ogni pezzo e sì, i tempi si allungano. Se poi ci mettiamo in mezzo la real life... ecco perché sono biblici!
- manca solo un brevissimo epilogo in fase di revisione (vedi sopra...), ma è talmente breve che forse riesco a concludere il tutto entro Natale.

Un abbraccio a tutt*!
 
   
 
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