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Autore: _Pulse_    17/12/2017    3 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Buonasera a tutti! :)
Allora, nello scorso capitolo vi ho lasciati ancora un po' in sospeso con la questione dell'appuntamento alla Royal Opera House ma direi che ciò che importava era il pre-show, no? Nel capitolo che leggerete tra poco vedrete il post e spero che vi piaccia, anche se sento di dovervi avvisare: preparate i fazzolettini. 
A proposito di avvisi, avevo già anticipato qualche capitolo fa che, essendo ormai a metà storia, gli equilibri cambieranno. E' giusto che i protagonisti rimangano Sherlock & Co., però non sono riuscita a tenere a freno quell'esuberante di Lupin, il quale da questo capitolo in particolare si prenderà ancora più spazio. Spero solo non sia troppo, ecco.
Ultimo ma non meno importante: fino ad adesso la storia era di rating arancione, ma è possibile che d'ora in avanti in certi capitoli ci siano delle scene da rosso. Come alla fine di questo, ad esempio. Vi avviserò di volta in volta, comunque.
Detto tutto ciò, vi lascio alla lettura!
Grazie a tutti, un bacio enorme e alla prossima!

Vostra,

_Pulse_



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17. White flower


La facciata della Royal Opera House, simile ad un tempio greco classico, era illuminata da luci dorate che oscuravano ancora di più il cielo, ricoperto da banchi di nuvole tanto fitti che nascondevano persino la luna. Forse avrebbe nevicato di nuovo.
Molly osservò l'uomo al suo fianco: stava prendendo una lunga boccata dalla sua sigaretta elettronica e nonostante le guance incavate aveva ancora quel sorriso divertito sul volto, come se gli avessero appena raccontato la barzelletta più divertente che avesse mai sentito; in tutta onestà le faceva un po' paura. Non ne sapeva esattamente il motivo, ma prevedeva guai.
Eppure a casa, durante la cena, non aveva provato le stesse sensazioni. Era come se, ad un certo punto, l'uomo gentile e premuroso che aveva visto con Geneviève fosse sparito per lasciare spazio ad un'altra versione di sè, imprevedibile e pericolosa. Una specie di dottor Jekyll e mister Hyde. Che il messaggio che aveva ricevuto appena un quarto d'ora dopo l'inizio dello spettacolo fosse stato la causa di quella trasformazione?
Molly non riuscì a trattenere la curiosità e per azzittire la vocina che le diceva di farsi gli affari suoi si disse che dopotutto era compito suo strappare da Arsène informazioni utili a Sherlock.
«Ricevuto buone notizie?», gli chiese quindi a bruciapelo.
Gli occhi verdi del ladro francese si posarono su di lei e la fissarono con un misto di sorpresa e curiosità.
«Ho notato che hai ricevuto un messaggio, durante lo spettacolo», aggiunse.
«Sì, è così», rispose Arsène. «Un'ottima notizia, piuttosto inaspettata».
«Posso sapere...?».
Il biondo non le fece nemmeno terminare la domanda. «Lavoro».
«Capisco».
Molly accolse il silenzio come un amico fidato, demoralizzata da com'era andato a finire il suo tentativo, ma quella volta fu Lupin a fare la prima mossa, esclamando: «Mi dispiace se ti ho dato l'impressione sbagliata. Ho adorato lo spettacolo, e tu?».
«Sì, anche io», rispose lei, abbozzando un sorriso.
«Ti ringrazio».
Qualcosa nel suo tono di voce, diventata improvvisamente più profonda, le fece aggrottare la fronte. «Per che cosa?».
I loro sguardi si incrociarono nuovamente e Molly sentì le ginocchia tremare.
Eccolo. L'uomo con cui aveva cenato e chiacchierato circa tre ore prima era tornato.
«Per tutto quello che hai fatto per Geneviève. Io... riuscirò a ripagarti, un giorno».
«Non ce n'è davvero bisogno. Io sono la madrina di Rosie, e dato che lei e Geneviève sono cugine mi sento in dovere di prendermi cura anche di lei».
«Molly Hooper», esclamò il Ladro Gentiluomo, prendendole le mani tra le sue ed incatenando i loro sguardi.
La donna rabbrividì nuovamente: l'ardore nei suoi occhi, il suo tocco delicato, il modo in cui aveva pronunciato il suo nome... Nome e cognome, proprio come faceva Sherlock. Tutto glielo ricordava dolorosamente, anche se i due non potevano essere più diversi.
«La gentilezza e la bontà sono doni preziosi, dovresti pretendere che vengano riconosciuti e ripagati».
«Se lo facessi... non sarebbero più doni, giusto? Chi fa del bene non lo fa per un tornaconto personale. Vedere che le proprie azioni hanno reso migliore la vita di qualcun altro... questa è la ricompensa».
Aveva cercato di non balbettare, ma non ci era riuscita. Inoltre, era arrossita davanti all'espressione ammirata di Arsène.
«Sherlock è davvero uno stupido», disse ad un tratto, rompendo il contatto visivo e tornando alla propria sigaretta elettronica con un sorriso rammaricato sulle labbra. Quindi si accigliò e voltando il capo verso la fine della strada borbottò: «Ma quanto ci mettono a portarmi l'auto?».
«Che cosa significa?», gli domandò Molly, col cuore in gola. «Che vuol dire che Sherlock è...?».
Venne interrotta da un uomo in smoking che, scendendo frettolosamente la scalinata, aveva urtato Arsène con tanta forza da spingerlo contro di lei.
Pensando che il colpo potesse farle perdere l'equilibrio il ladro le avvolse il braccio sinistro intorno alla vita e la strinse a sè. Il suo gesto era stato istintivo e per nulla malizioso, tuttavia Molly si sentì andare a fuoco nei punti in cui i loro corpi erano entrati in contatto.
«Ehi, stia un po' attento!», gridò Lupin, rivolgendo all'uomo un'occhiata tagliente.
«Mi scusi, non l'ho fatto apposta».
Solo quando l'uomo rialzò la testa, china in segno di prostrazione, e si portò i lunghi capelli neri dietro le orecchie Molly riuscì a riconoscerlo.
«Philip?».
«Molly! Che incredibile coincidenza!».
L'anatomopatologa non credeva affatto fosse una coincidenza e si accigliò, un pugno stretto nella tasca del cappotto.
«Che cosa ci fai tu qui?», gli domandò, fingendosi altrettanto sorpresa. «Non sapevo ti piacesse l'opera».
«Non particolarmente, in effetti. Solo che un mio amico non poteva venire ed era un peccato sprecare il biglietto, perciò... Ma chi è il tuo accompagnatore? Ha una faccia nota...».
Arsène si allontanò di un passo da Molly e lei tornò ad avvertire il freddo della notte penetrarle le ossa.
«Il mio nome è Jean Daspry», si presentò Arsène, porgendogli una mano.
«Jean Daspry... Ah, ecco! L'eroe del Waterloo Bridge!».
Il ladro gli rivolse un sorriso imbarazzato. «Così mi hanno definito, anche se non ho fatto nulla di speciale».
In quel momento la Porsche argentata con cui erano arrivati fu parcheggiata a ridosso del marciapiede dallo chaffeur che con rapidità scese dal mezzo e si scusò per l'attesa.
«Beh, è stato un piacere conoscerti, Philip», esclamò Arsène, chinandosi un poco verso di lui per sfilargli il fiore che aveva appuntato alla giacca. «Scusa, posso?».
Anderson lo fissò ad occhi sgranati, senza riuscire a spiccicare parola, mentre il biondo lo sistemava con delicatezza sopra l'orecchio sinistro di Molly.
«Credo che a lei stia molto meglio, non trovi?», aggiunse il Ladro Gentiluomo, rivolgendogli un candido sorriso prima di porgere il braccio all'anatomopatologa. «Andiamo?».
Molly non poté far altro che annuire e salutare uno scioccato Philip con un semplice cenno della mano. Salì in auto e, sempre in silenzio, guardò Arsène avviare il motore ed immettersi nelle strade sempre trafficate di Londra.

***

Rosie si era addormentata già da un pezzo quando Geneviève, fino ad allora di ottimo umore, aveva smesso di interessarsi al film che davano in televisione per rabbuiarsi e stringersi al petto un cuscino del divano.
John non aveva avuto il coraggio di chiederle che cosa le fosse preso, ma non aveva dovuto attendere molto prima di scoprirlo; era stata la stessa Geneviève a renderlo partecipe.
«Lei com'era? Mia zia, intendo».
Il dottor Watson aveva sospirato: aveva sperato di rimandare quel momento al più tardi possibile. La sua solita sfortuna.
Ricacciando in fondo alla gola il dolore aveva iniziato a raccontarle della donna che aveva rapito il suo cuore dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lei; una donna che credeva di conoscere e che invece gli aveva nascosto molti segreti.
Le aveva raccontato del loro primo appuntamento, di quando aveva capito di essersi innamorato di lei e della proposta di matrimonio rovinata da Sherlock.
Le aveva raccontato del matrimonio, del modo in cui avevano scoperto che presto sarebbero stati genitori e della crisi che avevano vissuto e superato per via del suo passato.
A quel punto aveva persino tirato fuori le foto delle nozze, sfogliando quell'album per la prima volta da quando era morta, ma aveva osato troppo: si era ritrovato in lacrime e Geneviève gli era stata accanto in silenzio, posandogli semplicemente una mano sulla schiena in segno di conforto.
A seguito dell'episodio l'aveva a malapena guardata in faccia e, seduto al tavolo della cucina con una tazza di tè tra le mani, era rimasto a guardare le lancette dell'orologio appeso al muro, in attesa del ritorno di Molly e Arsène.

***

Arsène guardò Molly con la coda dell'occhio e, turbato dal suo silenzio, le chiese: «C'è qualcosa che non va?».
La donna, fino ad allora con lo sguardo fisso fuori dal finestrino, si voltò per rivolgergli un piccolo sorriso. «No, è tutto okay».
«Gradirei che non mi mentissi».
La osservò aprire la bocca per replicare e poi richiuderla, abbassare gli occhi sul fiore finto che si era tolta dai capelli e rigiraselo tra le dita mentre scuoteva mestamente il capo, con aria afflitta.
«È solo... Tu, Geneviève, John, lo stesso Sherlock... Credete che io sia una stupida? Do' l'impressione di esserlo, forse, ma non lo sono. Credete di potermi manipolare a vostro piacimento, senza accorgervi che sono io a lasciarvi fare», disse alla fine.
Arsène non distolse gli occhi dalla strada, con un improvviso peso a schiacciargli il petto. «Désolé, non credo di seguirti».
Lo sguardo colmo d'ira e frustrazione che lei gli rivolse lo colpì con la stessa forza di uno schiaffo, tanto che lo sentì bruciare sul volto. Molly strappò via la microcamera nascosta tra i grandi petali bianchi del fiore finto, dimostrando di aver sempre saputo delle macchinazioni di Sherlock, e dopo aver abbassato il finestrino la gettò fuori dall'abitacolo.
Quindi tornò a prestare attenzione alle luci dei ristoranti e dei negozi dalle vetrine addobbate in tema natalizio e il Ladro Gentiluomo non osò più dire una parola, nemmeno quando raggiunsero il quartiere residenziale in cui abitava il dottor Watson.
Al loro arrivo Grégorie scese dal SUV e andò a bussare alla porta. Pochi minuti dopo tornò sui suoi passi insieme a Geneviève, la quale salutò il padre e Molly con un cenno della mano prima di salire sull'auto di grossa cilindrata. Quindi si diressero tutti verso l'appartamento della scienziata.
Davanti al portone del condominio Lupin salutò la figlia e le augurò la buonanotte.
Anche Molly fece per congedarsi, ringraziandolo per la serata, ma il ladro l'afferrò per il polso.
«Non posso lasciarti andare in questo modo», le disse con gli occhi venati di tristezza. «Ti prego solo di ascoltarmi».
Molly non riuscì a dirgli di no. Consegnò le chiavi di casa a Geneviève e quando scomparve in ascensore si concentrò sull'uomo che aveva di fronte, chiedendosi che cos'avesse da dirle.
Decifrare le sue espressioni era semplice, molto più semplice rispetto a ciò che era abituata di solito con Sherlock, ma proprio per questo rischiava di essere tratta in inganno: non sempre, infatti, erano autentiche. Sherlock non era in grado di fingere emozioni, mentre Arsène, da quel che le era stato raccontato, era un maestro in quel campo.
«Vedilo come un piccolo anticipo della tua ricompensa, oui? È vero che ti ho sottovalutata e che pensavo di usarti per ottenere qualcosa da Sherlock, ma ora non ne ho più alcuna intenzione. Anzi, gli ho promesso che ti avrei tenuta al sicuro».
Molly strabuzzò gli occhi, incredula alle proprie orecchie. «Che cosa vuol dire?».
«Vuol dire proprio ciò che ho detto», rispose, avvicinandosi per posarle le mani sulle braccia e sorriderle dolcemente. «Tu sei speciale, Molly Hooper, e conti molto per Sherlock. So bene che i suoi modi di dimostrarlo lasciano a desiderare e so quanto possa essere frustrante il suo negare l'evidenza, ma... è per la tua sicurezza che ha mantenuto le distanze fino ad adesso. Non vuole che tu diventi un bersaglio, capisci?».
L'anatomopatologa abbassò il capo ed arretrò di un passo, sottraendosi alla delicata stretta di Lupin così che non potesse notare il tremore delle sue spalle.
«Grazie», ebbe a malapena la forza di sussurrare prima di voltarsi verso il portone e sparire all'interno del palazzo.

***

«Molly era davvero uno schianto questa sera», fu il commento con cui Anderson ruppe la bolla di silenzio, carica di tensione, in cui si trovavano. Un commento che attirò su di sé lo sguardo di rimprovero di Lestrade e quello furioso di Sherlock.
L'ispettore accostò l'auto davanti al 221B di Baker Street e si voltò verso il detective.
«Stai bene?», gli chiese con tono apprensivo.
«Sì, certo», rispose freddamente Sherlock, fingendo che le parole di Molly, le ultime catturate dalla microcamera, non avesse aperto l'ennesima ferita.
Aprì la portiera e una volta sul marciapiede la richiuse con un tonfo, per poi chinarsi sul finestrino chiuso. Greg lo abbassò.
«Di sicuro a quest'ora gli uomini di Lupin avranno disattivato le cimici, ma...».
«Farò controllare tutto, non preoccuparti».
Il consulente investigativo annuì con un cenno del capo e deviò il suo sguardo, esitante. Lestrade abbozzò un sorriso e lo tolse dall'impaccio, esclamando: «È a questo che servono gli amici. Buonanotte».
Sherlock alzò un angolo della bocca. «Sì, buonanotte».
Salì le scale in punta di piedi, per evitare di svegliare la signora Hudson, e una volta in salotto lasciò il laptop sul tavolino davanti al divano; dopodiché si tolse il cappotto e lo appese dietro la porta.
Si portò le mani al volto e pensò alla prossima mossa da fare, ma il suo cervello si rifiutò di collaborare. Era come se i pensieri si fossero aggrovigliati, formando un unico, grande nodo impossibile da sbrogliare.
Alla fine decise di fare le due cose che odiava di più: la prima, chiedere consiglio a suo fratello Mycroft; la seconda, mettersi a dormire con la speranza che quella stupida diceria che la notte fosse in grado di portare consiglio si rivelasse vera.
La risposta all'sms che gli aveva inviato arrivò dopo pochi minuti:

Ti avevo detto di fare attenzione.
Ora aspettiamo.

Sherlock imprecò, scagliando il cellulare contro il divano.
Si spogliò e si lavò i denti, poi si chiuse nella sua stanza e si infilò sotto le coperte, coprendosi fin sopra la testa.
Rannicchiato sul fianco destro, abbassò le palpebre ed aspettò il giungere del sonno. Arrivò solo quando la sua mente si lasciò alle spalle gli eventi della giornata e si soffermò invece sull'immagine di Molly.
I capelli che per l'occasione non aveva raccolto sulla nuca le ricadevano in lisce ciocche sulle spalle nude, coperte soltanto dal cappotto; il rossetto lucido brillava su quelle labbra che per lui non andavano mai bene, e il vestito che indossava, blu notte e lungo fino alle caviglie, la faceva sembrare leggera ed aggraziata. Era come se fosse stata avvolta da un pezzo di cielo, dalla via lattea e una miriade di stelle cadenti.
Sì, Anderson aveva ragione. Era bellissima.
Soltanto nel buio e nella solitudine della sua camera, in stato di dormiveglia, poteva concedersi pensieri tanto frivoli, e da qualche parte dentro di sé ne fu molto triste.

***

Addossata alla porta d'ingresso, Molly si tolse i tacchi e rimase nell'ingresso, a piedi nudi e con le lacrime che non facevano altro che caderle copiose sul viso.
Sherlock l'aveva davvero evitata per tutto quel tempo per tenerla al sicuro? Ma al sicuro da cosa, o da chi? E, soprattutto, poteva fidarsi delle parole di Arsène Lupin?
La tristezza nei suoi occhi però, quella che le aveva sempre fatto sanguinare il cuore... Se quella era la verità, finalmente aveva un senso.
Era stata così dura con lui, c'erano stati giorni in cui l'aveva odiato con tutte le sue forze a causa del dolore che le stava infliggendo, e ora scopriva che l'aveva fatto solo per proteggerla?
«Sono una persona orribile», sussurrò, trattenendo a malapena i singhiozzi.
«Molly, sei tu?».
Sentendo i passi di Geneviève avvicinarsi, l'anatomopatologa si sciolse frettolosamente lo chignon e lasciò che i capelli le coprissero come una tenda il viso deturpato dal pianto.
«Che cosa stai facendo?», le domandò ancora la ragazzina, confusa.
«Credo mi sia uscita una vescica», rispose, facendo del proprio meglio per nascondere la voce rotta. «Non sono abituata a portare scarpe così femminili».
Geneviève rimase in silenzio tanto a lungo che Molly pensò di essere stata scoperta. In un certo senso ne sarebbe stata sollevata: era stanca di nascondere il proprio dolore, stanca di fingere che tutto andasse bene. Ma così non fu.
«Okay, allora io vado a letto. Buonanotte!».
Molly finse ancora di controllarsi la pianta del piede sinistro. «Fai bei sogni».
«Anche tu, qualsiasi cosa ti abbia detto mio padre».
L'anatomopatologa alzò di scatto la testa a causa di quelle parole che lasciavano intendere che lei sapesse più di quanto desse a vedere, ma Geneviève era già andata via.

***

Grégorie tornò finalmente al Savoy Hotel dopo aver dato il cambio ad Ernest, ma prima di dirigersi verso la royal suite si fermò al tredicesimo piano.

«Allora, com'è andata la cena?».
Geneviève lo guardò di sottecchi e col viso rosso per l'imbarazzo rispose: «Ti interessa davvero o vuoi solo che ti ringrazi nuovamente per l'aiuto?».
«Se ci sono i presupposti per un ringraziamento, vuol dire che è andata bene».
Quel suo commento la fece imbronciare, tanto che si strinse le braccia al petto, e Grégorie decise di essere sincero.
«Mi interessa veramente. Vede, padron Lupin era un po' giù di morale questa mattina e, come le ho già detto, io non desidero altro che la sua felicità».
La ragazzina rimase in silenzio per una dozzina di secondi, poi posò le mani sulle ginocchia ed abbozzò persino un sorriso dicendo: «È andata molto bene. Grazie, Grégorie».
Nonostante lo stupore, l'uomo si sforzò per mantenere la propria compostezza. «Bene, mi fa piacere sentirlo».
I minuti trascorsi in silenzio, mentre l'accompagnava a casa del dottor Watson, furono pacifici.
Erano passate solo due settimane da quando l'aveva conosciuta e mai si sarebbe immaginato che avrebbe impiegato così poco a tollerare il suo lavoro da babysitter, a non trovare più la sua sola vista insopportabile... in poche parole, che avrebbe smesso di esserne geloso.
Le gettò un'occhiata con la coda dell'occhio e la scoprì intenta ad osservarlo. Immediatamente Geneviève abbassò il capo ed iniziò a torturarsi le mani, intrecciando le dita.
«Senti, Grégorie...».
«Preferirei che non mi chiamasse in quel modo, signorina».
«E come dovrei chiamarti? "Baffoni" ti andrebbe bene?».
Grégorie finalmente capì perché quella mattina Arsène si fosse riferito a lui in quel modo e dovette sforzarsi parecchio per non sorridere divertito.
«Perché detesti tanto il tuo nome?».
«Perché mi ricorda il passato. Il passato è morto per sempre; il passato non esiste. E così anche Grégorie ha smesso di esistere nel momento in cui ho conosciuto padron Lupin».
«Aspetta un momento», esclamò la ragazzina, gli occhi verdi spalancati. «Ho già sentito quelle parole. Te le ha dette mio padre, per caso? Che cosa significano?».
L'uomo serrò le labbra, incupendosi al ricordo di quella vita che ora sembrava di qualcun altro.
«Sì, è stato padron Lupin a pronunciarle», confessò. «Dice quella frase a chiunque entri a far parte della sua organizzazione. Lui offre un futuro a chi non ce l'ha, permettendoci di lasciarci tutto alle spalle, ma mi sono domandato spesso anch'io quale sia il passato da cui lui per primo è fuggito».
Geneviève si chiuse di nuovo nel silenzio e fu il servitore a romperlo.
«C'era qualcosa che voleva chiedermi, signorina?».
La domanda parve scacciare via dal suo volto ogni preoccupazione, ma non dai suoi occhi, specchi dell'anima.
«Nulla di importante», rispose con le labbra arricciate in un sorriso. «Mi chiedevo solo se, quando mi hai preparato il bagaglio, avessi per caso visto un quaderno».
«Un quaderno?».
«Sì, uno di quelli scolastici, a quadretti, con la copertina blu. Lo uso come una sorta di diario».
Grégorie aggrottò le sopracciglia e la guardò severamente, tanto che il sorriso le sparì dal volto. «Non avrà scritto anche di padron Lupin, spero».
La ragazzina boccheggiò e il servitore strinse più forte il volante tra le mani, trattenendosi dall'imprecare.
«Capisce che se dovesse finire nelle mani sbagliate...?». Non continuò, riflettendo sulle varie possibilità.
«Io... Mi dispiace», sussurrò ad un tratto la ragazzina, mortificata.
Grégorie la guardò e si sentì così in colpa che la rassicurò e le diede persino un buffetto sulla testa, senza immaginare che avrebbe finito per aumentare i livelli di imbarazzo di entrambi.
Forse sbagliava ad essere così fatalista.
Sì, in fondo pochissime persone sapevano che Arsène Lupin alloggiava sotto falso nome al Savoy Hotel e ancora meno erano a conoscenza del legame di parentela tra lui e Geneviève. Una volta tornato in albergo sarebbe andato subito a controllare e trovato il quaderno l'avrebbe distrutto personalmente.
Sì, sarebbe andato tutto per il meglio.

Col passepartout che custodiva per il ladro entrò nella stanza di Geneviève e respirò profondamente per tranquillizzarsi, poi controllò nei cassetti di entrambi i comodini, sotto il letto, nell'armadio, nella cassettiera, persino nei mobiletti del bagno, ma del quaderno nessuna traccia.
Calma, si disse. Niente panico. Forse Geneviève si era sbagliata e l'aveva già con sè.
Gli sembrava improbabile, dato che era stata lei a sollevare la questione, ma non voleva scartare nessuna possibilità.
Decise che avrebbe indagato successivamente. Adesso voleva solo vedere il suo padrone e conoscere quali sarebbero state le sue mosse future.
Trovò Arsène ancora sveglio, nel salotto della propria suite, con un fiore finto tra le labbra rosee e gli occhi che scorrevano con attenzione la trascrizione che lui aveva ricevuto per primo.
«Ah, eccoti qua! Che fine avevi fatto?», esclamò il Ladro Gentiluomo non appena lo sentì arrivare, ma assunse tutt'altra espressione quando gli dedicò la propria attenzione.
«Che ti è successo? Hai una faccia così scura! Non mi dire che hai bisticciato ancora con Geneviève!».
Il servitore sorrise e con una mano sul ventre si chinò un poco, salutandolo.
«No, inaspettatamente il nostro rapporto migliora di giorno in giorno», rispose.
La notizia lo fece tanto felice che si dimenticò persino della sua "faccia scura" e Grégorie non riaprì l'argomento. Non voleva allarmarlo per nulla, specialmente ora che aveva ottenuto informazioni di rilievo.
«Sherrinford, eh? Secondo te di che si tratta?», gli domandò, facendo scorrere il dito sullo schermo del tablet.
«In base alle parole usate dall'ispettore Lestrade, sembra essere un luogo».
«Lo pensavo anch'io, ma non risulta in nessuna cartina».
Anziché dimostrarsi infastidito dal risultato infruttuoso delle sue ricerche, Arsène si sfregò le mani e si lasciò andare ad una risata entusiasta.
«Che bello, il gioco continua! Sherrinford... L'Atlantide di Mycroft e Sherlock Holmes!».
Si voltò di nuovo verso l'amico e i suoi occhi attenti, in grado di leggerlo come un libro aperto, lo scandagliarono. Quando parlò, lo fece con voce serissima.
«Puoi parlarmi di qualsiasi cosa, lo sai vero?».
Grégorie gli sorrise grato. «Sì, lo so».
«Bene. Puoi andare a riposarti».
«Non sono stanco, vorrei...».
Lo sguardo perentorio del Ladro Gentiluomo lo interruppe a metà frase e lo costrinse a chinare il capo.
«Come desidera. Buonanotte».
Si era già voltato, diretto verso la porta, quando Arsène lo richiamò. Grégorie si girò e vide che il biondo gli stava indicando col dito di avvicinarsi. Negli occhi aveva quel luccichio che stava a significare solo una cosa, per questo l'uomo si guardò intorno, a disagio di fronte ad altri membri della banda.
«Avanti, avvicinati!», lo incalzò Lupin, con le sopracciglia corrugate. Il servitore non poté ignorare il comando e si chinò oltre lo schienale del divano.
Arsène lo afferrò repentinamente per la cravatta ed avvicinò la bocca al suo orecchio, tanto da poter sentire le sue labbra sfiorargli il lobo.
«Preparami la pistola».
Grégorie sgranò gli occhi, scioccato. «La pistola, padrone?».
Il ladro diede un altro strattone alla cravatta, stringendogliela ancora di più intorno al collo e rendendogli difficoltosa la respirazione.
«Sì», sussurrò semplicemente, per poi lasciarlo andare e sdraiarsi sul divano, il braccio sano dietro la nuca e gli occhi chiusi, sul volto un'espressione serena e quel fiore dai grandi petali bianchi di nuovo sulle labbra.
Grégorie si massaggiò il collo, sapendo che presto sarebbe comunque uscito il livido, e rifiutandosi di dubitare del proprio padrone si allontanò per eseguire gli ordini.

***

Grégorie aveva proprio una brutta cera quand'era rientrato, ma nemmeno col sesso Arsène era riuscito a fargli sputare il rospo. D'altronde nemmeno lui aveva risposto alle sue domande in merito alla pistola, perciò non poteva lamentarsi troppo.
Con la mente affollata di pensieri aspettò pazientemente l'ora prefissata e poi scivolò via dall'abbraccio di Grégorie per andare in bagno.
Si guardò allo specchio e dopo aver inumidito un asciugamano si accarezzò il collo, poi scese sul petto e strofinò con forza tutte le cicatrici visibili, consapevole che quelle erano solo il dieci percento del totale. Il resto delle sue ferite era all'interno, infette e maleodoranti, il cui pus scuro somigliava a melma viscida che non sarebbe mai riuscito a lavare via. Come accadeva ogni volta che si soffermava su pensieri del genere, oltre alle proprie mani iniziò a sentire su di sé quelle dei mostri, capaci di graffiare, tirare, stringere e strappare per il proprio piacere.
«Basta», sussurrò, aggrappandosi al bordo del lavandino con entrambe le mani. «Basta, vi prego».
Con uno sforzo immane sollevò un braccio e con forza si colpì la schiena con l'asciugamano bagnato e pesante come una frusta.
Si piegò sul lavandino per il dolore, ma grazie ad esso riuscì anche a riprendere il controllo di sé. Si sollevò e ansimando tornò a guardarsi allo specchio: si tirò indietro i capelli e sorrise persino, dicendosi che non aveva nulla da temere, non più. Strinse nella mano destra il crocifisso appeso al collo e se lo portò alle labbra per baciarlo ad occhi chiusi, poi finì di pulirsi e tornò in camera da letto per vestirsi nel più totale dei silenzi. Svolse ogni azione meccanicamente, come un automa: calze, pantaloni, camicia, cravatta.
Si sedette sul bordo del materasso per infilarsi le scarpe e solo una volta allacciate si girò verso il compagno. Il suo respiro addormentato lo tranquillizzava sempre, perciò prima di rialzarsi chiuse gli occhi e si concentrò perché il proprio vi si adattasse. Quindi, con le mani guantate, afferrò la pistola che lo stesso Grégorie aveva preparato per lui e se la infilò nella speciale fibbia cucita all'interno di ogni sua giacca. Non si poteva mai sapere quando un gentiluomo avrebbe avuto bisogno di difendersi.
Era stata una giornata piena di emozioni e voleva concluderla nel migliore dei modi, mettendo al sicuro Molly Hooper. Non lo faceva solo perché l'aveva promesso a Sherlock, ma anche perché aveva scoperto che persona perbene fosse. Ce n'erano poche al mondo ed era nel suo interesse salvaguardarle. Inoltre, non gli era sfuggito lo sguardo pieno di stima che sua figlia le aveva rivolto in più di un'occasione.
Prima di allora Geneviève gli aveva già chiesto di non giocare con i sentimenti della donna, ma non pensava che l'avesse presa tanto a cuore. Che, in un certo senso, le ricordasse Clotilde? In effetti entrambe avevano un aspetto gentile e docile, quasi sprovveduto, dietro il quale si celavano intelligenza, forza e fierezza. Entrambe sapevano quand'era il momento delle carezze e quando, invece, quello degli schiaffi. Erano donne a cui la solitudine non spaventava, anzi, sapevano sfruttarla meglio di chiunque altro.
Finalmente l'auto che era venuta a prenderlo, mandata dalla Adler, imboccò la rotatoria posta davanti all'ingresso dell'hotel e si fermò al suo fianco. Arsène prese l'ultima boccata dalla propria sigaretta elettronica prima di metterla via, mentre l'autista scendeva e gli apriva la portiera.
Il Ladro Gentiluomo salì sull'elegante veicolo ed ebbe una brutta sorpresa: i finestrini erano oscurati anche all'interno, in modo da rendergli impossibile capire dove lo avrebbero condotto.
Abbozzò un sorriso, mettendosi più comodo sul sedile di pelle, ed ironizzò: «Beh, sempre meglio di un cappuccio sulla testa. Quello sì che sarebbe stato disdicevole».
L'autista rispose dicendogli che se voleva poteva versarsi un drink - c'erano diverse bottiglie sul tavolino posto tra i sedili davanti a lui - poi alzò il vetro che separava passeggero e conducente.
Arsène non dovette più mostrare ilarità e ne fu sollevato: non ne era in vena. I suoi sensi erano in allerta, lo erano sin da quando aveva messaggiato con Irene Adler, subito dopo aver riportato a casa Molly Hooper.
Aveva trovato strani sia i termini usati per fissare l'incontro sia il fatto che non gli avesse chiesto dove alloggiava. Come aveva fatto a scoprirlo? Che l'avesse fatto pedinare? O che qualcuno della sua scorta si fosse fatto comprare? Dopotutto era difficile rimanere indifferenti di fronte alla sua bellezza o al fascino della sua aura di potere e crudeltà. Persino Sherlock si era lasciato abbindolare. (Lo stesso Sherlock che, stranamente, non aveva risposto all'sms con cui l'aveva avvisato del suo incontro con la Dominatrice).
Solo Grégorie era, sotto quel punto di vista, incorruttibile, però un pensiero terribile gli aveva sfiorato la mente quando l'aveva visto rientrare quella sera, in ritardo e col volto deformato dalla preoccupazione. Lui che di solito non si scomponeva mai! Che cosa poteva essergli successo? E poi, perché all'improvviso aveva dei segreti? In dieci anni non gli aveva mai nascosto nulla...
Che fosse a causa di Geneviève? Era sempre stato un po' geloso di lei, ne era consapevole, ma sarebbe stato un motivo sufficiente per scegliere le parti di Irene Adler? O forse era per via del suo rapporto complicato con Sherlock? Temeva che, più si fosse trattenuto a Londra, più ne sarebbe rimasto influenzato?
Ad un certo punto si era costretto ad allontanare da lui ogni sospetto - un suo tradimento sarebbe stato insopportabile - ma nonostante tutti gli sforzi quel pensiero rimaneva lì, a mordicchiargli la nuca.
Arsène chiuse gli occhi ed acuì i sensi per cercare di captare i suoni della città, ma l'auto era ben insonorizzata. Dubitava comunque che avrebbe potuto indovinare in quel modo la loro destinazione. Se fosse stata Parigi nessun problema, ma Londra! No, quella era la città di Sherlock.
Ciò nonostante non fu tempo sprecato; anzi, fu grazie a quel tentativo che scoprì quello che stava succedendo.
Un leggerissimo ronzio, simile a quello dell'aria che esce dal forellino di un gommone bucato, impercepibile ad orecchie meno raffinate, gli fece trattenere il respiro appena in tempo. Quindi estrasse la pistola e sparò contro il separé, il quale si infranse facendo spaventare l'autista.
L'auto sbandò, ma solo per un attimo. Fu il terrore negli occhi dell'uomo, i quali incrociarono per la prima volta quelli di Lupin attraverso lo specchietto retrovisore, a durare di più. Ora che il vetro era andato in frantumi avrebbe respirato anche lui qualsiasi gas avesse azionato per stordirlo.
L'autista continuò a guidare e trattenne a sua volta il respiro, tanto a lungo che il suo volto divenne paonazzo. Forse sperava di poter durare più del ladro per poi, una volta fuorigioco, aprire il finestrino e prendere una boccata di ossigeno. Povero stolto.
Arsène gli rivolse un sorriso tranquillo e in tutta calma tirò fuori dal cappotto l'astuccio in cui conservava la propria sigaretta elettronica e dei filtri di ricambio. Tra questi ce n'era uno particolare, su cui anziché specificato il tipo di aroma - vaniglia, cioccolato, menta - c'era scritta una formula chimica: O2.
Avvitò il filtro speciale e tappandosi il naso tirò una lunga boccata, per poi rivolgere all'uomo un altro pacifico sorriso ed addossarsi allo schienale del sedile, con le gambe accavallate e le sopracciglia inarcate.
A quel punto, capendo di non aver alcuna possibilità, il conducente fece qualcosa che Arsène non aveva previsto: chiuse gli occhi ed accelerò.

***

Grégorie si svegliò di soprassalto, sudato e col cuore che gli batteva furiosamente nel petto.
Un incubo. Era solo un incubo, si disse nel tentativo di calmarsi.
Si voltò verso la parte di letto vuota alla sua destra e tornando a sdraiarsi vi passò sopra la mano, sentendo le lenzuola ancora calde e che sapevano degli umori del sesso.
Notò inoltre che la pistola, prima che si addormentasse posata sul comodino, era stata sostituita dal finto fiore bianco con cui Arsène aveva giocato per tutta la sera e che alla fine aveva infestato persino i suoi sogni. Nel suo incubo, infatti, il Ladro Gentiluomo si trovava in una bara stracolma degli stessi fiori bianchi, i quali però, nonostante la quantità e il loro intenso profumo, non riuscivano a coprire l'odore della morte.
Grégorie allungò una mano verso il comodino e lo afferrò, domandandosi come l'avesse ottenuto. Fu una curiosità di un attimo, spazzata via da altre e più pressanti preoccupazioni: chi era la persona che doveva incontrare e perché non si era confidato con lui come per ogni sua altra operazione?
E poi, perché quella missione in solitaria? Non si fidava di lui? O forse aveva capito che lo stava tenendo all'oscuro di qualcosa e quello era il suo modo per fargliela pagare? Se era davvero quello il suo intento ci stava riuscendo perfettamente, visto che era tanto preoccupato da avere gli incubi.
Chiuse gli occhi nel tentativo di dormire per qualche altra ora, ma non riuscì ad abbandonarsi alle braccia di Morfeo. Voleva solo le sue, di braccia... Voleva che lo stringessero forte, ma con dolcezza, e che allontanassero il mostro della paura che stava allungando le sue mani dalle lunghe dita sul suo cuore, intrappolandolo in una morsa gelata.

***

«Non risponde».
«Questo lo so anch'io. Riprova».
Venne inoltrata una nuova chiamata e i beep, un po' distorti a causa del vivavoce, riempirono il grande ufficio dalla moquette verde.
Dei mugolii ruppero il religioso silenzio tra un beep e l'altro e la donna seduta dietro la scrivania tirò un calcio alla causa di quei versi.
«Zitta, cagna».
Al settimo beep la chiamata venne accettata e si udirono un respiro rauco e dei passi strascicati su dei pezzi di vetro.
«Chiunque tu sia... ti troverò... e te la farò pagare... cara», esordì con voce affaticata, ma ugualmente minacciosa, l'uomo che aveva risposto alla chiamata. «Parola di Arsène Lupin».
Si udì il boato di un'esplosione e la donna sorrise, togliendosi le mani grassocce da sotto il mento per premere il tasto "Chiudi".
«Vieni, Arsène Lupin. Ti aspetto», rispose in tono di sfida.
Prese il cellulare prepagato e lo porse al ragazzo in piedi alla sua destra. «Disfatene», ordinò e questi, dopo averlo afferrato con entrambe le mani, annuì con un cenno del capo e si voltò per uscire dall'ufficio.
«Gabriel, aspetta».
Il ragazzo, con quei lunghi capelli biondi un po' ricciuti, legati in una coda, i lineamenti del viso delicati, quasi effemminati, e quei profondi occhi neri, ricordava davvero l'arcangelo Gabriele.
Si fermò davanti alla porta ed osservò il suo capo girare la poltrona verso la donna accucciata ai suoi piedi: indossava solo gli indumenti intimi e il pizzo nero metteva in risalto il chiarore della sua pelle e i lividi di varie tonalità che le ricoprivano le gambe, la schiena, le braccia. I suoi esili polsi e il collo, in particolare, erano martoriati dai segni delle catene che la tenevano legata all'imponente scrivania di mogano. E, come ogni cane rabbioso che si rispetti, una museruola in lattice nero le teneva chiusa la bocca.
Delle lacrime le scivolarono sulle tempie quando venne strattonata per le catene perché si mettesse in ginocchio ed alzasse il capo per ricambiare lo sguardo pieno di rabbia e follia del proprio carceriere.
«Che cosa c'è, Dominatrice? Non è più bello quando il gioco lo conduce qualcun altro, eh?».
La donna scoppiò a ridere e poi, bruscamente, mollò la presa sulle catene. Irene Adler, stremata, cadde con un tonfo sulla moquette verde e lì rimase, senza produrre il benché minimo suono, anche quando sentì un piede posarsi alla base della sua schiena.
«E così il signor Lupin non è venuto a sostituirti», disse ancora la donna, schioccando la lingua al palato. «Peccato, un vero peccato, perché inizio a stancarmi di te».
A quel punto le tirò un calcio nell'addome e poi la scavalcò per raggiungere Gabriel ed impartirgli gli ultimi ordini: «Dalle una ripulita e portala nella sua gabbia, non vorrei che mi sporcasse la moquette».
«Sì, zia».
Gabriel aspettò che la donna sparisse dietro l'angolo prima di tornare verso la Adler, la quale non oppose alcuna resistenza quando fu voltata e una mano gentile le scostò i capelli dalla fronte. Si limitò a piangere, guardando quel volto tanto angelico e chiedendo con gli occhi un po' di pietà.
«Resisti, presto finirà tutto», le sussurrò Gabriel, iniettandole nell'incavo del braccio una dose di morfina per alleviarle un po' il dolore.
Irene, nonostante fosse consapevole che lui non potesse vedere oltre il latex che le nascondeva la bocca, gli sorrise con gratitudine prima di chiudere gli occhi e perdere i sensi.
   
 
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