Anime & Manga > Captain Tsubasa
Segui la storia  |       
Autore: Melanto    19/12/2017    13 recensioni
Nel bene e nel male, la vita è imprevedibile.
Capita che un minuto prima scherzi con gli amici e un minuto dopo ti ritrovi nell'incubo che non vorresti vivere; tanto vicino e tanto casuale da non credere che potrebbe capitare proprio a te.
Ma questa è una di quelle coincidenze universali che Mamoru si troverà davanti nel momento in cui la sua vita si fermerà per sempre in un convenience store.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Kumiko Sugimoto/Susie Spencer, Mamoru Izawa/Paul Diamond
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Sonnet - Capitolo IV

- IV: Sonnet -

 

Tate chiuse la conversazione soddisfatto di aver avuto l’ultima parola, ma fece sparire in un attimo il sorrisetto dalla faccia quando alzò lo sguardo in direzione di Jin: seduto contro il lato di uno scaffale restava immobile, con il viso girato e gli occhi serrati. Sopra la sua testa era visibile il foro dove si era conficcato il proiettile.

«La prossima volta ti assicuro che non mancherò la mira.» Ci tenne a precisare.

Tate mosse l’iride scuro verso i ragazzi, ammutoliti dopo lo sparo. Lo guardavano spaventati: la ragazzina non aveva tolto le mani dalla ferita, Morisaki respirava prendendo fiato anche con la bocca e Izawa restava curvo sul portiere facendogli da scudo, come se avesse potuto davvero proteggerlo poi. Patetico.

Infilò il cordless nella tasca dell’impermeabile e annuì.

«Spero che ora sia chiaro che non scherzo. E poi chi cazzo era quello che urlava come un matto? Sì, che aveva le palle!» Tate si mise a sghignazzare passeggiando per il konbini e dando loro le spalle.

A terra, Yuzo si lasciò sfuggire a metà un sospiro rassegnato.

«…papà…»

«Inconfondibile.» Mamoru accennò un sorriso divertito.

«Che figura…»

Kumi non trattenne un singhiozzo. «I nostri genitori sono qui fuori…»

«Tranquilla, piccoletta. Li vedremo tra poco. E li riabbracceremo.» Mamoru abbassò di nuovo lo sguardo su Yuzo. «Tutti.»

Il portiere annuì, stringendo appena un po’ il braccio dell’amico, ma la mano non era ferma; Mamoru se ne accorse.

«Hai freddo?» chiese, preoccupato, notando che il tremore arrivava fino alle gambe.

Yuzo si sforzò di sorridere. «Sto… gelando.»

«Merda.»

Mamoru si liberò della propria giacca senza esitare: tratteneva ancora tutto il suo calore e la usò per coprire il compagno. Guardò Kumi mangiucchiarsi un labbro con nervosismo; sul viso i tratti si crucciavano di più e gli occhi erano umidi in maniera pericolosa. Sarebbe bastato un niente affinché le lacrime fossero scivolate via, ancora.

«Prendete anche la mia.»

Entrambi i ragazzi alzarono gli occhi su Jin, offriva il suo piumino logoro. Aveva la testa bassa e faceva saettare lo sguardo su di loro solo per pochi secondi alla volta.

«Non servirà a molto, ma potete stenderlo sotto di lui, così non toccherà il pavimento.»

Kumi e Mamoru valutarono quell’offerta, e anche se la repulsione era forte, soprattutto in Izawa che non voleva che uno solo di loro provasse ad avvicinarsi un’altra volta a Yuzo, Kumi gli fece cenno col capo di muoversi.

«Mettila tu, io devo tenere premuta la ferita.»

Jin annuì e si mosse svelto, sotto lo sguardo sdegnato di Tate che li osservava e scuoteva la testa. Sbuffò addirittura con fastidio e poi tornò a scrutare l’esterno.

Cercarono di fare il più piano possibile e muoverlo il minimo necessario, ma Yuzo ringhiò comunque, con dolore, tremando così forte da farsi battere i denti e frammentare più di quanto già non fosse il proprio respiro.

 

«Il vicolo è troppo stretto e affaccia su abitazioni residenziali. Le nostre possibilità di azione sono ridotte all’osso, da lì non possiamo effettuare nessuna irruzione a meno di mettere a repentaglio la vita degli ostaggi.»

Il capo dell’Unità Anti-Sommossa della polizia che era stata inviata non ebbe alcun timore di esporre la realtà dei fatti davanti a un severo Ryota Himura, dalle braccia strette al petto e le labbra serrate.

L’Ispettore masticava con insistenza l’interno della bocca cercando di farsi venire un’idea a mano a mano che l’uomo vestito di blu scuro, giubbotto antiproiettile e casco gli illustrava cosa avrebbero potuto fare ma, soprattutto, cosa non avrebbero potuto. Davanti, srotolata sul sedile della camionetta con cui la squadra era arrivata sul posto, avevano una cartina urbana della zona.

Il capo spostò meglio dietro la schiena la pistola mitragliatrice MP5 della Heckler & Koch per indicare le posizioni delle parti in causa e dove avrebbe potuto piazzare i suoi.

«Posso mettere due dei miei tiratori migliori qui e qui – indicando gli angoli del pianerottolo sovrastante il konbini, dove si affacciavano degli appartamenti – nella speranza di avere una buona visuale e centrarlo appena mette piede fuori, ma nel frattempo posizioniamo un localizzatore sotto la macchina, gli facciamo credere d’aver via libera e poi lo prendiamo quando sarà uscito dalla città.»

«E come la mettiamo con il riscatto?» domandò Himura, passandosi la mano sul mento. «Non abbiamo più tempo per aspettare, non sappiamo le condizioni di Morisaki e ogni secondo è prezioso.»

«Abbiamo dei falsi sequestrati la scorsa settimana, non sono di fattura perfetta ma non credo proprio avrà tempo di metterseli a guardare una volta uscito. Quando se ne accorgerà, gli saremo già addosso.»

«Se dovesse uscire con un ostaggio, sarebbe rischioso…»

«Tutto è rischioso, Ispettore Capo.»

Himura valutò il quadro generale e così come il sergente della UAS che aveva davanti aveva detto di non avere margine di movimento, allo stesso modo non ce l’aveva lui. Doveva fare un passo alla volta, sfruttando tutto lo spazio a disposizione.

«Kitakami, allerta i paramedici di tenersi pronti a entrare. Sergente, lei piazzi i suoi uomini dove deve e mi faccia avere quella borsa, io vado a parlare con i genitori dei ragazzi e poi provo a telefonare di nuovo a quel bastardo nella speranza di far uscire almeno Morisaki.»

Nozuki intervenne che stava per congedare tutti.

«L’auto è arrivata,» disse passando lo sguardo da un ufficiale all’altro.

«Ci piazzi il localizzatore», ordinò Himura al sergente della UAS che annuì. «E che i kami ce la mandino buona, una volta tanto.»

Si strinse nel cappotto, affondando le mani nelle tasche, e camminò spedito dove si trovavano i genitori. Dopo lo sparo cui avevano assistito in prima persona le acque si erano un po’ calmate: Morisaki e Izawa avevano parlato con i direttori delle rispettive banche, in modo tale da tenersi pronti una volta che l’approvazione da parte del Quartier Generale fosse arrivata. Morisaki aveva continuato a fumare come una ciminiera, ma aveva smesso di dare di matto, mentre Izawa camminava percorrendo un cerchio immaginario con la testa piena di pensieri. I ragazzi, amici di scuola e poi di Nazionale, non facevano che rispondere a telefonate continue, digitare alla svelta sugli smartphone e comporre vocali da girare agli altri amici che si trovavano troppo lontani. Gli era parso di sentire anche il nome di Ozora e Wakabayashi.

Quando lo videro arrivare si raggrupparono tutti per poter ascoltare le ultime novità. A Himura sembrò quasi di essere un santone nel tempio.

«Ci sono notizie?» chiese subito la madre di Izawa, ma fu costretto a scuotere il capo.

«Si può sapere che aspettano? Che diavolo c’è da decidere?»

Morisaki, al solito, alzava la voce e attaccava per primo, come uno squalo, ma per una volta Himura non se la sentì di ammonirlo perché aveva ragione: le alte sfere stavano perdendo tempo sull’etica dell’accettare o meno le richieste di un delinquente qualunque mentre lì bisognava agire in fretta.

«Non abbiamo il loro permesso, ma abbiamo un piano. Gli offriremo la macchina al cui interno metteremo una borsa con yen falsi.»

«E se si dovesse accorgere dell’inganno?» Morisaki scosse il capo con vigore, appoggiato anche dagli altri genitori. «No, se lo scordi.»

«Signor Morisaki, attendere una risposta dal Comando Generale sarebbe troppo lunga e non ce lo possiamo permettere.»

«E mettere a repentaglio l’incolumità dei nostri figli con un inganno, invece? Quello potete permettervelo?»

Ryota umettò le labbra e posizionò le mani ai fianchi. Prese un respiro profondo e spostò lo sguardo altrove.

«Abbiamo la certezza che uno dei ragazzi è stato ferito,» ammise, guardando infine il suo interlocutore dritto negli occhi e scandendo le parole con una verve particolare. «Capisce cosa le sto dicendo, signor Morisaki? Per questo dobbiamo muoverci subito.»

Il non detto arrivò a destinazione e a dispetto dello scatto di collera esplosivo che si era aspettato, Akio Morisaki lo stupì rimanendo immobile. Gli occhi scuri si spalancarono, la mascella squadrata serrata e il pugno stretto così forte da spezzare la sigaretta che stava fumando.

«Non starà mica…» Yumeko Morisaki aveva la voce che tremava e frammentava le parole in un mormorio di paura che venne sovrastato da una tonalità più profonda e chiara, ma ugualmente bassa.

«Fate tutto quello che dovete fare.»

Yumeko spostò lo sguardo dall’Ispettore Himura, che annuì e si allontanò, a quello di suo marito che aveva appena parlato. Lo guardò dal basso con le iridi nocciola lucide come cristalli sotto la pioggia.

«Non dirà… vero?»

Akio non seppe rispondere a quella richiesta come avrebbe voluto, così si limitò a passarle una mano attorno alle spalle per tenerla più vicina e darle un sostegno cui aggrapparsi. Improvvisamente aveva finito le imprecazioni e la rabbia si era dissolta, aprendo le porte a un’angoscia che non aveva mai provato in tutta la sua vita. Si allontanarono insieme, fianco a fianco per restare un po’ da soli.

«Che ha detto il poliziotto?»

Ishizaki sopraggiunse in quel momento, aveva appena finito di parlare a telefono con Misaki. Appoggiò la mano sulla spalla di Urabe, mentre Yukari si allontanava di qualche passo, scuotendo il capo per scrivere a Sanae in linea su whatsapp.

«Vogliono intervenire», spiegò Hanji, deglutendo a fatica.

«Oh, finalmente. Era anche ora. Prima finisce questa storia meglio è.»

«Ha anche detto…», riprese Urabe affrontando il suo sguardo con espressione abbattuta. «…che Yuzo è ferito.»

 

«Pronto, qui siamo pronti tutti. E voi?»

– Abbiamo la macchina che hai chiesto.

«Alla buon ora! Volete proprio farlo crepare questo povero Morisaki, cazzo!» Tate liberò una risata sguaiata e solitaria, mentre dall’altra parte proveniva solo silenzio e qualche respiro pesante.

«Ci troverò i soldi dentro?»

– Per i soldi devi aspettare, ma io ho bisogno di un gesto di buona volontà da parte tua: permetti ai paramedici di entrare per portare via Morisaki. È solo un ragazzo.

«Me lo hai ripetuto mille volte, e pure questi qui dentro non scherzano, sembrate dei dischi rotti. È solo un ragazzo, è solo un ragazzo – fece loro il verso – ma a me non frega un cazzo. Anche io sono stato solo un ragazzo alla sua età, e in riformatorio ci sono finito uguale, e quindi? Io non faccio elemosina! Se vi do Morisaki non vedrò la sua parte di riscatto, mi prendi per coglione? Ma fottiti, sbirro.»

– Lascia almeno che i paramedici lo medichino!

«Ci sta già pensando l’infermierina, qui, e non se la cava male. Che cazzo ne so che invece dei paramedici non entra un sbirro d’assalto? Cazzo, la guardo la televisione! No, belli, voi statene fuori o faccio fuoco.»

Tate interruppe la comunicazione nella stessa maniera brusca della prima volta. Scosse il capo, sbuffando stizzito. Quell’Ispettore non aveva capito un accidenti di come funzionava, là dentro.

Si girò per guardare la situazione che aveva creato e la vide uguale a due secondi prima. Non era una favola, ma se i poliziotti non fossero stati più stupidi di quanto davano a vedere, ne sarebbe uscito prima che degenerasse del tutto. Si mosse per raggiungere la cassa e cominciare a ‘preparare le valige’; a qualche altro spicciolo non si rinunciava mai, così prese un sacchetto e ci mise dentro i soldi dell’incasso. L’occhio gli cadde sulla scacciacani e si fermò, scuotendo il capo. Le labbra tirate di lato in un sorriso storto e minaccioso.

«Ecco che cazzo volevi fare, ma davvero? Sei proprio un ragazzino di merda!» Afferrò la pistola e la rigirò tra le mani, divertito. «È una fottuta scacciacani, imbecille! Ma pensavi di spararmi con questa? Ma sei serio, cazzo?»

Con un gesto intimidatorio la puntò sulla testa di Ichikawa, facendolo rannicchiare su sé stesso e strappandogli un lamento di dolore per il ferro che sfregava sul cuoio capelluto.

«Questa fa solo rumore! Hai visto troppa televisione e questo è il risultato! Guardati, ora! Tutto il gradasso e l’eroe e ora ti stai cacando nelle mutande!»

«Lascialo in pace!»

Tate mosse lo sguardo verso J, fissandolo per qualche istante più a lungo. Alzò la mano, lanciando lontano la scacciacani. Il rumore della ferraglia sul pavimento fu piatto e l’eco amplificata.

«Va bene, supereroe numero due. Ci siamo dati al buonismo, Jin?»

«Che ti hanno detto?» J ignorò il sarcasmo per avere qualche informazione.

«Che tra poco me ne vado da qui. Hanno già la macchina.» Si affacciò oltre il bancone per guardare i due calciatori. «Ma i vostri soldi ci mettono un po’ ad arrivare, prendetevela con la burocrazia, ragazzi.»

«Se hanno la macchina, lascia perdere i soldi!»

«Certo, perché sono un centro di carità, vero?» Tate infilò la grana nella tasca interna dell’impermeabile. Cincischiò con la pistola tornando dove poteva vederli tutti.

«Vattene e basta, T. Non vuoi salvarti la pelle? Beh, ne hai l’occasione, non essere un ingordo e approfitta adesso!»

Tate lo guardò con evidente sospetto. Poi una risata gli gorgogliò dal petto, facendogli scuotere le spalle.

«Maddai, stai davvero cercando di voler salvare quello lì?» Indicò Morisaki con la pistola. «E da dove t’è nato tutto ‘sto buon cuore, Jin?»

«Non sono un assassino.»

«Ma sei un criminale. Sai il cazzo dello stare a sottilizzare in maniera tanto inutile.»

Jin scosse il capo, guardando altrove. A parlare con Tate si sprecava solo il fiato e lui ne aveva sprecato anche troppo, perché troppe volte era stato idiota e adesso, invece, che vedeva con quanta cura e preoccupazione quei ragazzi si stringevano attorno all’amico ferito sentì come se qualcuno gli avesse dato un sonoro pugno in faccia, di quelli che rompevano il naso e facevano un male cane. Perché nessuno, nella sua vita piuttosto discutibile, avrebbe mai fatto una cosa simile per lui.

«Però va detto che hai ragione.»

Sia Jin che gli altri alzarono lo sguardo su Tate, che sollevava le spalle.

«La pelle me la voglio salvare, quindi non penso proprio che uscirò di qui da solo.» Aveva un sorriso smagliante che mostrava denti storti e ingialliti dal fumo. «Chi vuole venire a farsi un giretto con me?»

La speranza che quella storia stesse per finire si dissolse davanti all’ennesimo ostacolo, così come nei loro occhi calò un nuovo velo di tensione.

«Nessuno si offre volontario? Oh, andiamo! Non sono male come compagno di viaggio! Ci facciamo due risate! Oh, Morisaki, tu sei escluso per ovvie ragioni, mi spiace.»

Ma il silenzio rimase tombale, rotto solo dai brusii dell’esterno.

Mamoru strinse, inconsciamente, la presa sul portiere, piegando le labbra in una smorfia minacciosa. Fece per allungare la mano verso Sugimoto e afferrare anche lei, ma Tate fu più svelto e la agguantò per una spalla, strattonandola via.

Kumi perse irrimediabilmente la presa sulle garze, la pressione sulla ferita interrotta in maniera brusca.

«Magari un po’ di compagnia femminile sarebbe gradita.»

La giovane liberò un grido di spavento, mentre veniva fatta mettere in piedi e Tate sghignazzava.

«No!» Mamoru allungò il braccio, ma non riuscì neppure a sfiorarla.

«Non la toccare!»

Dando fondo a tutte le energie che aveva messo da parte, Yuzo fece lo sforzo di tirarsi su, ora che Mamoru non lo stava più trattenendo a dovere, distratto da quanto stava accadendo. Puntellò il pavimento con la mano tremante e contrasse i muscoli. La giacca del terzino gli cadde da dosso e la carta con cui stavano tamponando la ferita si aprì rivelando graffi rosso scuro come petali di Abracadabra; le garze ne erano pregne.

L’emorragia interna fece il resto e un fiotto di sangue si riversò dalla bocca in un conato di vomito, mischiandosi ai resti dell’ultimo pasto; Yuzo si accasciò di lato per il dolore.

«Lasciami subito! Lasciami!» strillò Kumi disperata, e per la paura Tate mollò la presa all’istante, saltando indietro.

Di ferite d’arma da fuoco ne aveva già viste, e anche di morti. La gente moriva facile per le strade tra alcool e droga, ma lui non era mai rimasto troppo a lungo per veder crepare qualcuno in quel modo. Aveva dato coltellate, e anche già sparato, ma poi era sempre scappato, lasciando gli attimi raccapriccianti solo per la tv.

Mamoru afferrò Yuzo per le spalle, costringendolo a sdraiarsi di nuovo.

«Perché ti sei mosso? Perché?» masticava a denti stretti mentre il volto dell’amico si affacciava di nuovo ai suoi occhi in una maschera di paura e sangue che non avrebbe mai voluto vedere.

Le iridi nocciola del portiere erano spalancate, e le dita contratte che si artigliavano alle sue braccia nel tentativo di riuscire a respirare, ma il sangue stagnava in gola, gli sporcava la guancia e colava sul mento. Yuzo si volse, sputandone ancora e poi crollò sulle gambe di Mamoru, con gli occhi chiusi e respiri brevi e veloci, accompagnati da mugugni.

Mamoru gli ripulì la guancia alla meglio con le proprie mani ma quel flusso vitale si espandeva, nemmeno stesse giocando con colori a tempera. I palmi, le dita e fino al polso, i bordi della maglia erano rossi.

«…il sangue…», rantolò Yuzo, aprendo gli occhi adagio, «…ha davvero un sapore… terribile.»

«Sei impazzito?! Sei impazzito, non dovevi…»

Mamoru non sapeva se essere più in panico o più arrabbiato e nel dubbio fu capace di mettersi a cavallo di entrambe le cose. Strinse i denti con collera, ma le iridi tradivano la paura.

«Tu non potevi muoverti…»

«Nemmeno tu, accidenti!»

Mamoru alzò gli occhi su Kumi e quest’ultima si girò ringhiando contro il rapinatore, tra le lacrime che adesso scendevano incontrollate, le rigavano le guance e più cercava di scacciarle, più erano lì e si mischiavano ai segni rossi del sangue di Yuzo di cui anche le sue mani erano sporche, perché i tentativi di tamponare e rallentarne la fuoriuscita non erano serviti.

«Hai peggiorato le cose, sei contento? Eh? Sei contento, adesso?» gli riversò addosso in uno strillo.

Tate fece un altro passo indietro, i suoi occhi saettavano veloci su tutti fino a incontrare quelli di Jin che lo fissavano colmi di disprezzo mentre scuoteva il capo. Le cose erano precipitate di colpo, quasi a toccare il fondo, e forse l’alternativa che il compare gli aveva fornito di tagliare la corda e al diavolo i soldi non era poi così malvagia. Insomma, la sua pelle valeva più di venti milioni di yen.

«Io… io da qui non andrò via da solo, ficcatevelo in testa.»

«Vengo io, ma lascia in pace i ragazzi!»

Miura si alzò in piedi con una certa fatica per via dal ginocchio malandato. A Tate ormai non fregava niente di chi sarebbe stato il fortunato, si limitò a strattonare il vecchio per un braccio e a trascinarlo lontano dal bancone.

«Uno vale l’altro e non giocarmi scherzi, vecchio di merda.»

Ma no, Miura non ne avrebbe giocati. Guardò Izawa e Morisaki e pensò che non c’erano scherzi da giocare in quel momento.

«Non ti arrabbierai con me, proprio adesso… vero?» ironizzò Yuzo.

Il mondo gli girava intorno, come un vecchio carosello. Aveva la bocca con un sapore terribile e quella sensazione di sangue che continuava a risalire e poi scendere, piantato nella gola, non importava quante volte deglutisse. La nausea era forte, ma tenne duro solo perché non ce la faceva ad alzarsi ancora, a muoversi. Il freddo aveva dita di strega, fredde, lunghe e ossute, con artigli scheggiati. Dai piedi alle gambe, alla vita, al petto, non faceva che salire, quasi che un rampicante di edera stesse facendo attecchire i fusti sul suo corpo, poco alla volta ma in maniera costante. Si risaliva, si stringeva in una morsa che nella lentezza aveva il suo segreto letale. Il dolore era un’eco espansa ovunque non più solo dove era entrato il proiettile.

A Mamoru non disse niente.

Non disse della testa né della nausea, e avrebbe anche non voluto dirgli del freddo che sentiva ma il corpo lo aveva tradito tremando fortissimo. Il suo migliore amico era già terrorizzato così, con quelle premesse, aggiungerne altre era gettare benzina su un incendio.

Non era neppure riuscito a controllare il sangue quando era stato troppo da ingurgitare. Ormai non controllava più nulla, ci aveva provato per tutta la vita a tenere le redini di ogni aspetto, anche quando le situazioni e la sua famiglia avevano rischiato di frammentare il mondo in schegge di specchi. Lui aveva tenuto duro, aveva fatto da collante, filo che univa continenti su placche diverse. E adesso chi avrebbe tenuto insieme lui?

«No che non mi arrabbio. Non mi arrabbio, Yuzo.»

Ma Mamoru non era molto credibile nell’angoscia che trapelava comunque, anche contro la sua volontà o i tentativi di camuffarla.

Con la solennità del saggio dagli occhi socchiusi e l’indice sollevato, Yuzo alzò il braccio destro che ancora sentiva di poter muovere, mentre l’altro era pervaso da un formicolio fastidioso, pungeva in mille punti diversi.

«Bene. Anche perché devi ascoltarmi con attenzione… ho deciso che voglio fare testamento. E se sei arrabbiato, poi non mi ascolti, è un tuo difetto...»

«Ma che cazzo dici? Non essere stupido, risparmia il fiato! Altrimenti mi arrabbio sul serio!»

«Ah no, Cavaliere dei miei stivali,» scherzò. «Si deve sempre fare testamento. Vedi, poi, che succede? Succede… che rischi di non farlo più.»

«Non ti voglio sentire che parli così! Abbiamo detto che ne usciremo tutti! Tutti e tre

«Certo, ma… devi sempre avere un Piano-B

Mamoru si impuntò, serrando le labbra. Gli afferrò la mano destra che teneva alzata, ma la sorpresa di trovarla gelida castrò ogni velleità di rimprovero. Sembrava di ghiaccio.

«Kumi, mi siete testimoni, ok? Dite ad Hajime che la collezione bluray di Star Trek è sua, così finirà di sbavarci sopra… A Teppei, i libri di Sapkowski, ché in cartaceo sono più fighi… A Ryo, la action figure di Raoh, su Re Nero.»

«Sei pazzo?» scherzò Kumi che, tra le lacrime e le labbra tremanti, tentava di sdrammatizzare. «Con quello che ti è costata.»

«Era la sua preferita, non gliela posso negare…» Yuzo gorgogliò una risata nel sangue, cercando lo sguardo della ragazza. «Dei miei fiori di cosmos, quelli sul balcone di casa a Shimizu-ku… potresti occupartene tu, Kumi? Sono tuoi… vedrai in primavera, vedrai che belli… i sulfureus sono così arancioni…»

«Ma certo che ci penso io, Morisaki-kun. E… e li curo fino a che non guarisci, ok?»

«Sì…» Yuzo ammiccò. «…fino a che non guarisco. E già che ci sei, tieni d’occhio… questo qua.»

Questo qua che, torreggiando alle sue spalle, non trattenne un ringhio incollerito.

«Devi smetterla.»

«Non mi sono dimenticato di te…»

«Mi sto arrabbiando sul serio, sei avvisato.»

«Lo so, correrò il rischio…»

Mamoru deglutì a fatica e distolse lo sguardo per alcuni istanti, masticando saliva che gli impastava la bocca. Tornò a guardarlo solo perché non riusciva a non farlo, a non cercare quegli occhi amici, sempre ridenti. Non ridevano, ora, e questo gli stava spezzando il cuore un po’ alla volta.

«La mia medaglia del World Youth voglio che la tenga tu… non l’affiderei a nessun altro.»

«Non essere sciocco!» I capelli di Izawa oscillarono al gesto di scuotere il capo. «Ogni cosa ti aspetterà dove l’avrai lasciata. Tu… tu devi solo pensare a tenere duro come mi hai promesso. È chiaro? Adesso questo bastardo se ne andrà e verranno a prenderti, ti porteranno in un qualche ospedale e ti cureranno. Questo è quello che succederà. Non esiste nessun cazzo di Piano-B

Lo disse con così tanta convinzione che finì per crederci sul serio, perché a illudersi si faceva prima che dirsi la verità.

«Certo…», accondiscese Yuzo, «…ma nel frattempo, prenditi cura del mio pruno bonsai… mamma ha il pollice nero, lo sai anche tu…»

«Tu non mi ascolti!»

«Allora tu ascolta me.»

Mamoru aggrottò le sopracciglia a quella richiesta seguita dalle dita che stringevano le sue, anche se debolmente.

«Perché ho un favore enorme da chiederti…»

«Adesso vorrai anche che consegni i tuoi messaggi d’addio, già che ci sei?!»

«…solo uno.»

Mamoru si sdegnò. Era troppo, aveva il sapore del ‘definitivo’ e non voleva assaggiarlo, perché era uguale a quello del sangue e sì, Yuzo aveva ragione, il sangue aveva un sapore di merda.

«Scordatelo. Non ci penso nemmeno!»

«Mamoru, è importante… Non te lo chiederei se non lo fosse.»

«Non voglio ascoltarti!»

«Mamoru.»

Al richiamo di Kumi, così abbattuto, non poté fingere di non prestare attenzione. Lei lo guardava con occhi rossi, nascondendo la supplica dietro la richiesta.

«Ascoltalo. Per favore.»

Nascondendo la verità dietro l’omissione.

Mamoru scosse il capo in un brivido che l’attraversò per tutta la schiena e l’espressione si fece dura e distante.

«Non ti chiederò di dire ai miei che gli voglio bene, lo sanno già…», spiegò il portiere, i denti comparivano di tanto in tanto, rossastri. «…il messaggio è per mio fratello.»

«Yuzo, tu non hai-»

Mamoru si interruppe mentre fissava quegli occhi nocciola che chiedevano, in silenzio, di perdonarlo.

«No, nessun amore segreto a Tokyo, ora lo sai anche tu. Mi dispiace, avrei voluto dirtelo tempo fa…», masticò Yuzo, «ma è un po’ complicata... Quando lo vedrai, digli che: ‘saremo sempre fratelli’… lui capirà.»

Mamoru non seppe come replicare a quella rivelazione, se non con un cenno del capo. Registrò la frase all’istante, stampata nella mente.

Saremo sempre fratelli.

«Dovremo parlare di questa cosa, lo sai? È enorme.»

«Certo, te ne parlerò…», sorrise Yuzo, liberando la mano dalla sua.

Sollevò il braccio un po’ di più, fino a sfiorargli il viso, entrare con le dita tra i capelli scuri.

«…vorrei parlarti di così tante cose…»

«Parleremo di tutte le bugie. Figurati se mi scappi.»

Qualcosa si sciolse nelle iridi scure di Mamoru a quel gesto; il fastidio nel sentirlo blaterare di addii e testamento lasciò il posto alla rassegnazione. L’illusione si spezzò con quel contatto di dita ghiacciate sulla sua guancia e lui non provò freddo, ma l’aiutò a poggiare per intero il palmo sul viso.

Non avrebbe più avuto la sua mano a toccarlo con una pacca sulla spalla, uno scappellotto, una carezza ironica sulla testa, un braccio attorno al collo. E non avrebbe più avuto il sorriso con cui lo faceva sempre sentire la persona migliore del mondo.

«Sei un cretino… Mamoru Izawa.»

Il cordless del konbini squillò di nuovo, ma non lo ascoltarono. Né ascoltarono Tate che gongolava parlando di auto e soldi. Non ascoltarono i momenti concitati in cui afferrava Miura-san per trascinarlo via, verso il retro dal quale avrebbe tentato la fuga. Non ascoltarono quel ‘è stato un piacere fare affari con voi’. Non ascoltarono niente perché non avevano anche il tempo di pensare agli altri.

«Ma sono stato fortunato a incontrarti sulla strada… Mi hai sempre protetto…»

«Non abbastanza...»

«Credi? Eppure sei rimasto qui… anche adesso… che ho una paura tremenda.»

«Anche io ho paura.»

«Non diciamolo… a Ryo.»

«Se no poi ci sfotterà.»

Risero, così a bassa voce, come si erano scambiati quelle ultime frasi. Piano piano per tenerle solo per loro. Il loro segreto, il loro saluto, l’ultima battuta come fosse tutto normale. Si salutavano per rivedersi il giorno dopo, un vocale registrato al volo tra un allenamento e l’altro, commenti a una partita, commenti a una vita intera snocciolati come un sonetto, una battuta ciascuno.

«Starò bene…» sussurrò il portiere che la voce era un filo sonoro arrotolato su labbra vermiglie e pelle diafana. «…starai bene. Ja ne

Mamoru vide il nocciola degli occhi spegnersi, perdere presenza, ma rimanere aperti su di lui, nei suoi, per ricordargli che colore avevano avuto e quanto fossero stati luminosi fino all’ultimo istante.

«…anche questa era una bugia,» mormorò, abbassando piano la mano.

Nel palmo, tra le dita, c’era quella di Yuzo che si appesantiva priva di presa, ma Mamoru la accompagnò senza lasciarla mai andare come aveva promesso fin dall’inizio.

I rumori d’intorno si insinuarono di nuovo, facendosi spazio nelle sue percezioni, ormai non aveva più bisogno di isolare il resto, perché la sola voce che avrebbe voluto sentire gli aveva lasciato il silenzio. Riconobbe quindi il pianto di Kumi, seduta sui talloni con le mani sporche strette sulle ginocchia. Riconobbe il sospirò un po’ spezzato del secondo rapinatore, quello che aveva capito e si era pentito, ma sempre troppo tardi. Riconobbe rumori di porta sfondata, vetri infranti, la polizia che faceva irruzione e parlava in maniera concitata.

State bene?

I paramedici, presto!

Controllate sul retro!

I ragazzi ci sono tutti, sergente, l’ostaggio è il proprietario del negozio!

Mani sopra la testa, cazzo! Sopra la testa!

Faccia a terra!

Il retro è libero.

Mamoru non alzò il viso a nessuna di quelle frasi, i suoi occhi guardavano in altri che non potevano vederlo. Qualcuno gli si accovacciò accanto, rumore di borse e valigette che venivano sbattute in tutta fretta, aperte.

«Ferita d’arma da fuoco all’addome.»

«Non c’è polso.»

«Massaggio cardiaco.»

«L’emorragia interna è troppo estesa.»

«Sposta il ragazzo, defibrilla.»

«Indietro. Carica a 300. Libera!»

«Di nuovo.»

«Libera!»

«Polso?»

«Niente battito.»

«Riprova il massaggio.»

E mentre quelli si affaccendavano perché avevano una seppur minima speranza ancora intatta, Mamoru strisciò, ginocchia a terra, e poi con i gomiti per arrivare di nuovo a toccare le tempie e la fronte di Yuzo, i suoi capelli.

«Vieni, mia cara. Vieni con me,» disse una poliziotta a Kumi, che era rimasta in piedi, leggermente in disparte dopo che i soccorritori avevano fatto il loro ingresso di fretta e furia. Le aveva poggiato sulle spalle una giacca blu della polizia e l’aveva condotta all’esterno; qualcuno venne a prendere anche Ichikawa, appallottolato come un bozzolo nei suoi sedici anni.

«Polso?»

Alla fine dell’ennesimo massaggio, il paramedico tastò di nuovo. Sospirò. Scosse il capo.

Si sedettero entrambi sui talloni, scambiandosi un’occhiata di sconforto e resa.

«Ha perso troppo sangue», disse uno dei due e l’altro annuì.

Ce n’era dappertutto a terra, strisciato dalle impronte delle scarpe, su pacchi di garze e fazzoletti di carta, sul giovane Izawa che restava lì, accucciato. Non faceva alcun rumore, quasi potesse scomparire. I due si scambiarono un’occhiata dispiaciuta.

«Fai entrare gli altri», ordinò quello che era il responsabile, l’altro si tirò in piedi e sparì in un attimo nel via vai degli agenti che sembravano formiche blu.

L’uomo allungò la mano per chiudere gli occhi aperti di Yuzo Morisaki e quella di Mamoru arrivò come un falco a scacciarla con un gesto secco.

«Izawa-kun…»

«Non lo toccate.»

«Izawa-kun, ascoltami», l’uomo, non più di quarant’anni, gli parlava con calma. «Devo farlo, capisci? Dobbiamo portarlo via.»

«No. Resta con me.»

«Non può, Izawa-kun.»

«Sì, che può.»

«Ce ne prenderemo cura noi, promesso.»

Mamoru espirò con forza, quasi fosse lo sbuffo di un toro. «Anche lui aveva promesso. Avrebbe tenuto duro.»

«E lo ha fatto.»

«Ma ora…»

«I suoi genitori sono qui fuori, aspettano, Izawa-kun.»

Mamoru deglutì venendo a patti con quel compresso che non poteva rifiutare.

«Ja ne…» sussurrò, passandogli la mano sugli occhi e intrappolandone per sempre il ricordo.

Il paramedico e un poliziotto lo aiutarono a mettersi in piedi, anche se con un po’ di fatica: era rimasto in quella posizione per molto tempo e le ginocchia d’improvviso gli facevano male. Un dolore che gli ricordava che era vivo, che c’era, e che da quella porta – l’ultima dalla quale erano entrati insieme – sarebbe uscito da solo.

Un giaccone blu arrivò anche sulle sue spalle. Mamoru rabbrividì a contatto con l’eco del calore di chi l’aveva indossato prima di lui, ne ebbe una sensazione di déjà-vu pensando che Yuzo, forse, aveva provato lo stesso quando gli aveva ceduto il suo. Ne strinse leggermente i lembi, sparendo quasi al suo interno. I passi, piccoli e brevi, lo condussero verso la porta, mentre scientifica e coroner erano già al lavoro da prima per rilevare i dettagli della scena, fare le foto, portare via il suo migliore amico.

Nell’uscire, la luce dei lampeggianti lo accecò tanto che si tirò indietro; strinse gli occhi, ferito da quei baluginii intermittenti che mettevano fretta al tempo. Fuori dal konbini tutto correva e lui non se n’era accorto. Si guardò attorno, ma nonostante l’enormità di persone che stava aspettando, di flash che esplodevano e di voci, lui non riconobbe nessuno se non il volto di suo padre appena se lo trovò davanti. L’uomo gli prese il viso tra le mani, facendoglielo sollevare, mentre sua madre lo abbracciava stretto e gli parlava, diceva qualcosa. Mamoru ne guardò il volto rigato di lacrime, ma non capì, fino a che non fu di nuovo Hisoka a trovare i suoi occhi. Lo chiamava per nome, più volte, cercandone la lucidità. Mamoru non rispose perché non erano quelle che suo padre voleva, non c’erano risposte da dare né domande da porre, non ancora. Si guardarono, padre e figlio, e poi i loro occhi scivolarono sulle mani del giovane, sporche di sangue. Mamoru le strinse tirandole verso il petto, come se quella traccia fosse un ricordo da preservare e tenere con sé.

Hisoka non ebbe bisogno di altro per capire, gli passò il braccio attorno alle spalle e lo invitò a camminare, allontanandosi da lì, con Rina che lo sosteneva dall’altra parte. Stranamente docile per la sua indole, Mamoru si lasciò guidare, mettendo un piede davanti all’altro, in passi sempre più sicuri; il dolore alle ginocchia si affievoliva.

Il grido della signora Morisaki si levò alle sue spalle, pugnalandolo alla schiena come il più triste degli addii.

 

Non abbiamo una visuale pulita. Il bastardo è uscito con un ostaggio.

«Merda. Chi?»

– Sembrerebbe il gestore del konbini. Non è chiaro, hanno entrambi mascherina e cappello, il viso coperto.

«Così che non possiamo essere certi verso chi sparare.»

– A giudicare dal fisico, nessuno di loro è un ragazzo.

«Almeno quello.»

– Ha mangiato la foglia, è salito sull’auto. Se ne vanno.

«Tenetegli dietro. Non perdetelo, chiaro? Voglio quel figlio di puttana!»

L’Ispettore Capo chiuse la comunicazione e sollevò il braccio in direzione del sergente. Nell’abbassarla diede il via all’operazione.

«Via! Via! Via!»

La porta d’ingresso del konbini venne sfondata con un ariete e i vetri mandati in frantumi. Il team della UAS entrò di corsa, pistola mitragliatrice sollevata al viso, pronti a fare fuoco. Voci concitate tra comandi e ordini si susseguirono a ritmo vertiginoso.

«I paramedici, presto!» richiese il sergente affacciandosi e poi tornando dentro.

I due corsero con barella e valigette, anche loro inghiottiti dal ventre mostruoso del convenience store.

Schierato qualche passo avanti a dove si trovavano i genitori, Ryota Himura assisteva alla scena consapevole che alle sue spalle erano tutti sul punto di rottura. Lui strinse i pugni dentro le tasche del cappotto e rimase immobile, apparentemente impassibile, ma dentro stava fremendo.

Il secondo rapinatore fu il primo che venne fatto uscire, ammanettato e a testa bassa. Sentì un moto di soddisfazione montargli dentro e l’ottimismo che forse i kami davvero li avevano assistiti. C’era ancora molto da fare, ma quello era un buon inizio.

La ragazza della foto, figlia dei signori Sugimoto, uscì per seconda. La giacca della poliziotta le andava enorme. I capelli scarmigliati, uno sgraffio rosso di sangue sul viso e lacrime che lo strisciavano verso il basso.

«Kumi!» strillò la madre, che la raggiunse di corsa, seguita dal marito.

Come la vide, la ragazzina allungò le mani, così sporche di sangue da gelare a lui per primo tutto l’ottimismo. Esplose in un pianto incontrollabile.

«Mamma! Non ce l’ho fatta, mamma! Non ho potuto!»

Mostrava le mani come se ogni cosa fosse chiara solo tramite quel gesto, in un linguaggio segreto. I genitori la strinsero, e non importava capire, per quello avrebbero avuto tempo. Si allontanarono per raggiungere una delle due ambulanze dove i soccorritori l’avrebbero controllata e poi magari condotta in qualche ospedale per accertamenti, se ce ne fosse stato bisogno.

Per terzo fu il turno del giovanissimo garzone di bottega. Sedici anni, si vedevano tutti. Era un gomitolino spaurito a dispetto del fisico che voleva farsi uomo, ma tutto il resto non ci riusciva. Anche lui fu fagocitato dai genitori in un attimo, portato via in fretta, protetto nel nido.

Uno dei paramedici venne fuori subito dopo, i guanti sporchi di sangue gli saltarono agli occhi.

«La scientifica può entrare.» Poi accennò col capo verso il coroner. «Anche voi, ragazzi.»

Il gelo lungo la schiena di Himura si ghiacciò a metà. Fanculo all’ottimismo.

Alle sue spalle, il mormorio riconoscibile della madre di Morisaki era un principio del dolore che a breve, ormai ne era certo, sarebbe esploso. La deflagrazione più potente di un’atomica avrebbe spezzato anche la notte di Nankatsu e lui non era pronto a ricevere il colpo.

Quando vide uscire il giovane Izawa, Himura prese un profondo respiro. Il ragazzo apparve da subito spaesato dalla confusione: quelle luci, quei rumori, quella gente avrebbero dato fastidio a chiunque. Le mani insanguinate furono anche il suo segno distintivo, e nella mente l’unico pensiero che si formò fu che lì dentro doveva essere un macello.

Hisoka e Rina Izawa accorsero per portarlo via, condurlo con calma. E ciò che più lo colpì, forse, fu che a differenza di tutti gli altri il suo viso era asciutto, gli occhi padroni di un’immobilità impenetrabile. Non doveva aver versato una sola lacrima. Non una.

I fantasmi, dopotutto, non piangevano; perché era questo che sembrava Mamoru Izawa nel momento in cui lo vide: uno spettro dai capelli neri.

Poi, gli ultimi minuti, e ciò che aveva temuto varcò la soglia sfondata del konbini.

Il coroner fece attenzione nel far scendere la barella, con il sacco nero sopra di essa. Pieno.

Himura fu il primo ad avanzare, mentre sentiva il fiato che veniva strozzato, dietro di sé da coloro che erano rimasti ad aspettare. Con le mani in tasca tagliò la distanza in passi veloci e affettati. Lui su quelle cose c’era passato già un sacco di volte, lui era abituato a vedere morti di ogni età. Ma quando toccava a ragazzi che avrebbero avuto tutta la vita davanti, gli saliva dentro un moto di collera e rassegnazione che borbottava come magma nel ventre del vulcano. E il viso di Yuzo Morisaki era quello di un bravo ragazzo, anche se non l’aveva mai conosciuto.

Himura espirò con forza, prendendo il coraggio di cui aveva bisogno per farsi di gomma, isolante alla sofferenza, e nel momento in cui si volse non ci fu bisogno di altre parole; l’esplosione di dolore lo investì in pieno, spaccando la notte.

Yumeko Morisaki era crollata sulle proprie ginocchia senza riuscire neppure ad avvicinarsi, mentre Akio Morisaki, quello che fino a un momento prima faceva i diavoli a quattro per tutto il piazzale, era padrone di una compostezza insospettabile, ma con i sentimenti si poteva scherzare ben poco e gli attraversavano il viso come una mandria di bufali, aveva solo più forza per restare in piedi.

 

Qualche passo più distante, Ishizaki era rovinato a terra nell’attimo in cui aveva visto uscire il coroner. Sarebbe voluto crollare già nel momento in cui l’aveva visto entrare, ma era riuscito a resistere, pensando a qualsiasi altra possibilità.

Aveva la testa tra le mani, con le dita che scivolavano avanti e indietro nei capelli corti.

Quando la madre di Yuzo aveva gridato si era stretto i palmi sulle orecchie, e aveva stretto anche gli occhi. Piangeva, ma non si voleva far vedere da nessuno.

Urabe era in piedi, con una mano al fianco e una alla fronte. Avrebbe dovuto avvertire Kishida, si era detto; avrebbe dovuto avvertire Kishida che viveva con Yuzo a Shimizu-ku, stessa squadra e stessa casa. Avrebbe dovuto avvertire Kishida, che si era raccomandato di tenerlo aggiornato su tutto. Avrebbe dovuto avvertire Kishida, ma se l’era ripetuto almeno venti volte e non l’aveva ancora fatto.

A squillare, per l’ennesima volta quella notte, fu il telefono di Ishizaki. Il difensore lo tolse dalla tasca solo per volerlo lanciare via in uno sfogo di collera, ma quando lesse da chi proveniva la chiamata non se la sentì. Allungò invece il cellulare al nulla che lo circondava.

«È Genzo,» disse, la voce spezzata. «Io non ce la faccio.»

Yukari si passò le mani sul viso, in maniera svelta, e ingoiando le lacrime. Gli sfilò il telefono dalle dita e si allontanò di qualche passo. Anche se si stringeva nella sciarpa non riusciva a scacciare il freddo.

«Wakabayashi-san? Sono Nishimoto.»

All’altro capo, il tono sbrigativo e preoccupato chiedeva novità, qualunque fossero. Yukari si volse per guardare la scena, mentre una nuova lacrima le abbandonava la coda dell’occhio.

«Purtroppo le cose non sono andate come sperato…»

L’ultima immagine che vide, e che le sarebbe per sempre rimasta impressa, fu quella di Mamoru Izawa che si girava, ancora una volta, per cercare l’amico ormai troppo lontano.

«…lo abbiamo perso.»

 

 “Dreaming about the day when I can see you there
my side, by my side”

 

Sonnet – The Verve

 

 


JA NE: significa ‘ciao’/ ‘ci vediamo’ inteso come saluto di separazione e non di arrivo. Yuzo ha quindi salutato Mamoru come avesse dovuto vederlo il giorno dopo. Ciao. Perché addio non gliel’avrebbe mai detto.

E l'Unità Anti-Sommossa esiste davvero e usano davvero le pistole mitragliatrici MP5. Diciamo pure che ci sono due tipi di unità preposte a questo genere di interventi, la UAS che si occupa di casi locali e va in supporto delle Prefetture, e l'unità Anti Terrorismo che lavora su scala nazionale.


 

 

Note Finali: Io sono sadica, voi lo sapete. E sapete che con me non si salva nessuno, nemmeno il mio personaggio preferito. :)
E stavolta non si è salvato.

Niente salvataggio in extremis, niente coma, niente escamotage qualunque per farlo sopravvivere.

Mi dovete credere, ho vagliato decine di possibilità, ma niente. Questa era l’unica soluzione soddisfacente, l’unica accettabile e l’unica giusta.

Non ci sono confessioni dirette, non ci sono ‘ti amo’ dell’ultimo momento… perché erano cose troppo grandi che non potevano affrontare così, con due parole. Non avrebbe avuto senso e magari avrebbe finito con l’aggiungere dolore al dolore. Quindi Yuzo se ne va, assieme a parte dei suoi segreti ancora intatti, tranne uno. Uno enorme.

 

Il tempo presente, quello di Mamoru e del dottor Haruna, ci aspetterà nell’epilogo di ‘Sonnet’, per dirci qualcos’altro di quanto accaduto in quei quattro mesi dalla morte di Yuzo, attraverso gli occhi del povero Izawa.

 

So che mi vorreste strozzare per questa scelta, ma io sono La Sadica e la mia falce è sempre affilata.
XD magari vi può consolare il fatto che al momento in ‘Malerba’ non muore nessuno, e sono al Capitolo XIII!!! XDDD

No???

XD e va beh. <3
Sappiate che Yuzo è sempre felice di tirarci le cuoia, quando può: dice che almeno così soffre meno. Forse non ha tutti i torti! XD

E noi ci risentiamo il 23 Dicembre con la fine di questa storia… ma pronti per iniziarne un’altra <3

 

 

   
 
Leggi le 13 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Captain Tsubasa / Vai alla pagina dell'autore: Melanto