Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: _Pulse_    24/12/2017    3 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Okay, se dopo la fine del capitolo 17 mi avete immaginata a ridere con tono malefico... beh, non ci siete andati troppo lontani xD
A parte gli scherzi, la settimana scorsa ci siamo lasciati con un colpo di scena e ora è giunto il momento delle spiegazioni e delle reazioni. Inoltre, alcuni pezzi andranno al loro posto e avvenimenti che sembravano solo un modo per riempire i vuoti si riveleranno invece collegati a ciò che sta accadendo ai nostri protagonisti. Sono stra-curiosa di avere il vostro parere, perciò non vi annoierò oltre!
Vi auguro una buona lettura e ringrazio tutti per essere arrivati fino a qui, chi commentando e chi leggendo solamente. ♥
Buona Vigilia e auguri di Buon Natale!

Vostra,

_Pulse_



________________________________________________________________________



18. Undercover

John, grazie al suo sonno leggero da soldato, fu in grado di sentire i rumori provenienti dal salotto. Era entrato qualcuno.
Si alzò in fretta, già completamente sveglio e lucido, e tirò fuori dal primo cassetto del comodino la propria pistola. Controllò che fosse carica e poi si alzò per dirigersi verso la camera della figlia, posta proprio davanti alla sua. Vedendola addormentata chiuse la porta il più piano possibile e col cuore che gli batteva forte nelle orecchie percorse il corridoio rasentando il muro, il braccio destro teso davanti a sé.
Giunto in salotto puntò la pistola, ma non c'era nessuno. Fece per abbassarla, ma dei nuovi rumori, quella volta provenienti dalla cucina, gli fecero stringere il calcio con più forza.
Si avvicinò con cautela, prestando attenzione ad ogni passo, e solo quando abbassò gli occhi per non inciampare in un pupazzetto di Rosie notò la scia di gocce di sangue che dall'ingresso conducevano proprio alla cucina.
Il suo primo pensiero fu rivolto a Sherlock e, divorato dalla preoccupazione, abbassò l'arma per fare il proprio ingresso in cucina, sul cui pavimento era stato abbandonato un cappotto molto simile a quello del detective, ma differente.
John accese la luce e percorse la figura dell'uomo che si era appoggiato al bordo del tavolo, intento ad estrarsi dal fianco sinistro dei frammenti di vetro con una pinza da cucina in acciaio. Il sangue, che gli aveva già inzuppato la camicia, stava gocciolando ai suoi piedi.
«Mi dispiace averti svegliato», esordì Arsène Lupin, rivolgendogli un sorriso nonostante il dolore e le abrasioni sul suo volto. «Il fatto è che credo di aver bisogno di un dottore».
Iniziò a ridere debolmente e le sue palpebre si abbassarono. John lo raggiunse con poche falcate prima che gli cedessero le ginocchia e si portò un suo braccio intorno al collo, poi fece uno sforzo per stenderlo sul tavolo. Fece saltare i bottoni della camicia aprendogliela sul petto ed esaminò la ferita: il taglio era irregolare e profondo, come se fosse stato trafitto da una bottiglia, e diversi pezzi di vetro erano ancora all'interno. Aveva perso moltissimo sangue e il suo pallore mortale ne era la prova.
«Hai bisogno di andare in ospedale», esclamò con decisione.
Arsène però gli afferrò il polso prima che potesse allontanarsi per chiamare un'ambulanza e sia la forza della sua stretta, sia il fuoco nei suoi occhi verdi gli fecero capire fino a che punto fosse straordinario quell'uomo.
«Niente ospedali. Questo deve rimanere tra noi, dottore».
«Che cosa? Rischi di morire!».
«Credo nelle tue capacità», rispose il ladro, sorridendo. «Allora, ho la tua parola? Nessuno deve venirlo a sapere. Nemmeno Sherlock».
John non aveva tempo per porre ulteriori domande: se non faceva subito qualcosa per fermare l'emorragia, Arsène sarebbe davvero morto dissanguato.
«E va bene. Ma ti avviso che senza gli strumenti giusti...».
Arsène chiuse gli occhi, forse vinti per la stanchezza, ed abbozzò un sorriso. «Siamo in una cucina... Non c'è sala operatoria migliore».
Sembrava così tranquillo, anche ad un passo dalla morte... John non se ne capacitava.
Senza esitare ulteriormente il dottore gli prese la pinza dalle mani, recuperò la cassetta del pronto soccorso e degli stracci puliti, mise a sterilizzare sui fuochi alcuni attrezzi da cucina e prese tutto ciò che aveva in freezer.
Posò i sacchetti di piselli e delle bistecche congelate intorno alla ferita, per anestetizzare l'area, e nel frattempò andò a recuperare la bottiglia di whisky che teneva sempre di scorta per i momenti difficili.
L'aprì e la posò in mano ad Arsène, ordinando: «Bevi. Farà parecchio male».
Il ladro si attaccò al collo della bottiglia e trangugiò un lungo sorso, tanto da farsi lacrimare gli occhi. Quindi alzò il capo per vedere la pinza bollente che John stava per infilargli nella carne viva per divaricare la ferita e chiudere col calore i vasi sanguigni.
«So quello che faccio. O ti vuoi già rimangiare ciò che hai detto prima?», gli domandò il dottor Watson, notando il suo sguardo preoccupato.
Il ladro deglutì e tornando a posare il capo sul tavolo negò muovendolo a destra e a sinistra. Bevve un altro po' di whisky e poi strinse tra i denti un mestolo di legno.
«Allora io vado. Uno, due...».
Arsène sgranò gli occhi, straziato dal dolore. Aveva saltato il tre.

Quando Arsène riaprì gli occhi i primi raggi del sole illuminavano il soffitto della cucina. Era ancora sdraiato sul tavolo, ma John gli aveva messo un cuscino sotto la testa e gli aveva steso addosso una coperta in pile.
Nell'aria aleggiava ancora odore di carne bruciata, sangue e disinfettante; era chiaro però che mentre era privo di conoscenza era stato preparato del caffè: l'aroma era inconfondibile. Anche lui avrebbe gradito bere qualcosa, visto che sentiva la gola arida e la lingua come carta vetrata contro il palato.
Voltò il capo verso sinistra, in direzione del salotto da cui proveniva la voce dell'annunciatrice del telegiornale del mattino, e con un sforzo cercò di alzarsi. Il dolore al fianco fu talmente intenso che rischiò di vomitare. In qualche modo però riuscì a trattenersi e a mettersi seduto, poi scese dal tavolo. A passi brevi e sostenendosi al muro con una mano, mentre con l'altra si teneva la ferita ricoperta da vari giri di garza, raggiunse la porta.
John Watson era seduto sul divano, con la faccia sbattuta di uno che non aveva chiuso occhio, e quando i loro sguardi si incrociarono il ladro sorrise, esclamando: «Hai un aspetto terribile, dottore».
Il blogger di Sherlock Holmes ricambiò. «Ti sei visto allo specchio?».
Arsène non riuscì a trattenere le risa, le quali gli provocarono una scarica di dolore che lo costrinse ad appoggiarsi allo stipite con la schiena.
John gli fu subito accanto e come poche ore prima si avvolse un suo braccio intorno al collo per sostenerlo ed accompagnarlo al divano, dove lo fece sedere con delicatezza.
«Non devi fare il minimo sforzo, ci siamo capiti? Hai rischiato di morire».
Il Ladro Gentiluomo sollevò un angolo della bocca, sbarazzino. «Non è il mio primo rodeo».
John si diresse verso la cucina e tornò pochi secondi dopo con un bicchiere d'acqua. «Bevi, cowboy. Devi reintregare i liquidi perduti».
Arsène annuì e bevve, sperando che il saporaccio che aveva in bocca sparisse. Quindi riconsegnò il bicchiere al dottore e lo guardò sedersi al suo fianco sul divano, i gomiti posati sulle ginocchia e gli occhi rivolti verso il televisore.
«Che avrei fatto se fossi morto sul tavolo della mia cucina?», gli domandò piano. «Come l'avrei detto a Geneviève?».
«E io che pensavo che temessi davvero per la mia vita», ridacchiò il ladro, col capo abbandonato contro lo schienale.
«Sono un dottore, temo per le vite di tutti i miei pazienti».
Arsène rimase in silenzio, profondamente colpito da quelle parole. Quando trovò finalmente la forza per ringraziarlo, John indicò le immagini sul televisore con un cenno del capo.
«Ne sai qualcosa?», gli domandò.
Il servizio riguardava una notizia dell'ultima ora: intorno alle tre di quella notte un'auto si era schiantata a folle velocità contro la facciata di un palazzo e aveva preso fuoco. Il conducente era morto sul colpo e al momento la polizia, arrivata dopo l'intervento dei vigili del fuoco, era ancora sul posto per ricostruire l'accaduto, recuperare i filmati delle telecamere stradali e quelle a circuito chiuso dei negozi vicini e raccogliere le dichiarazioni di eventuali testimoni oculari. Era ancora da verificare se al momento dell'incidente sul veicolo ci fossero dei passeggeri, ma secondo le prime indiscrezioni sembrava proprio di sì.
«Mi vuoi raccontare che cos'è successo?».
«Meglio di no: ti ho già procurato abbastanza disagi. Tolgo il disturbo».
Nonostante vedesse doppio e si sentisse tanto accaldato da avere il volto bagnato di sudore, Arsène provò ad alzarsi; John ovviamente non glielo permise.
«Non hai ascoltato una parola di quello che ti ho detto, vero? Tu non puoi andare da nessuna parte in queste condizioni! Hai perso moltissimo sangue e hai bisogno di assoluto riposo».
«E dovrei rimanere qui?», chiese, esterrefatto.
Il dottore si alzò e si portò le mani sui fianchi, le sopracciglia inarcate. «Sono desolato che la soluzione non l'aggradi, Vostra Signoria!».
«No, non è quello», sussurrò il ladro, a capo chino. «Davvero tu... mi ospiteresti? Se Sherlock dovesse venirlo a sapere...».
«Di nuovo: non hai ascoltato una parola di quello che ti ho detto».
Arsène sollevò il capo e ad attenderlo trovò un inaspettato sorriso.
«Che tu sia un ladro, il papa o la regina d'Inghilterra non mi importa. Sei un mio paziente e non ti lascerò andare fino a quando non sarò sicuro dei tuoi miglioramenti».
«Potrei denunciarti per rapimento».
«E io per violazione di domicilio».
Arsène scrollò le spalle con un sorriso divertito sul volto, affermando: «Dovevo scegliere meglio il mio dottore».

***

Grégorie controllò l'orologio da polso e bussò alla porta dell'hacker che si era unito alla banda di Arsène Lupin circa tre anni prima: un ragazzino di nome François, dai folti capelli ricci, alto e secco come un giunco.
Dopo la tragica scomparsa dei genitori per mano di un assassino che il Ladro Gentiluomo aveva aiutato a consegnare alla polizia francese, aveva deciso di mettere le sue straordinarie abilità a servizio dell'uomo che gli aveva offerto una nuova vita. Si diceva che non ci fosse sito, programma o sistema di sicurezza che lui non potesse craccare ed era proprio delle sue abilità che aveva bisogno in quel momento.
L'hacker aprì la porta stropicciandosi gli occhi, piccoli dietro le grandi lenti degli occhiali, e Grégorie si introdusse nella stanza senza nemmeno ricevere prima il permesso.
«Che ore sono?», domandò il ragazzo con voce rauca, così profonda che pareva impossibile che appartenesse ad uno che, stanto alle apparenze, sarebbe potuto volare via al più debole soffio di vento.
«Le sette e trenta», rispose monocorde l'uomo coi baffi.
«Del mattino?! Ma sei pazzo? Sono andato a dormire tre ore fa per colpa di Sherrinford! Ne è valsa la pena però, sai? Ce l'ho fatta, ho finalmente...».
«Adesso non mi interessa», lo interruppe sbrigativo. «Sono venuto per una questione personale».
«Personale? Tu? Pensavo fossi un tutt'uno col big boss».
Lo sguardo severo che gli rivolse gli fece rizzare la schiena e recuperare il portatile abbandonato ai piedi del letto sfatto, sul quale si sedette a gambe incrociate. Lo accese e dopo essersi sistemato gli occhiali sul setto nasale gli chiese: «Che cosa posso fare per te?».
Grégorie si avvicinò e porgendogli una chiavetta USB spiegò: «Devi entrare nel programma dell'hotel che monitora i passepartout del personale e copiare la lista di tutti quelli che hanno aperto la camera di Geneviève».
«Easy. Altro?».
«Sì. Fammi una copia di tutte le riprese delle telecamere di sorveglianza che c'erano nella sua stanza».
A quel punto il ragazzo fermò il frenetico digitare sulla tastiera ed alzò il capo per incrociare lo sguardo del più anziano.
«Mi pare di capire che stai cercando qualcuno. Vuoi una mano? Le ore di filmato sono parecchie...».
Grégorie gli tirò uno schiaffetto sulla nuca. «Tu che ti offri di fare qualcosa? Di' la verità: vuoi vedere la figlia di padron Lupin mentre dorme».
Il ragazzo diventò rosso come un peperone, confermando i sospetti dell'uomo, e tornò a fissare lo schermo, muovendo le dita sui tasti.
Una volta fatto consegnò la chiavetta al superiore e prima che uscisse dalla porta sussurrò: «Non lo dirai al big boss, vero?».
Grégorie sospirò ed uscì senza rispondergli. Controllò di nuovo l'orologio e si diresse verso la royal suite del suo padrone.
Entrò e salutò con un cenno del capo gli addetti alla sicurezza che stavano per andare a riposarsi e quelli che avrebbero iniziato il turno, poi bussò alla porta della camera matrimoniale. Non ricevette risposta, ma questo non gli impedì di entrare: dopotutto era suo compito svegliarlo. Peccato che il letto fosse intonso e che di Arsène non vi fosse traccia. Che non fosse ancora rientrato?
Col cuore che gli batteva forte nel petto tornò indietro e sulla porta fermò gli uomini che erano rimasti lì tutta la notte per chiedere loro se l'avessero visto.
«No, pensavamo fosse con te».
Grégorie si portò un pugno alla bocca, cercando di mantenere la calma. Diede loro le spalle, dicendo che potevano andare, ed estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Lo chiamò, ma una voce femminile gli comunicò che l'utente non era raggiungibile.
Gli sembrava di essere rientrato nell'incubo che l'aveva svegliato quella notte, con l'unica differenza che quella volta era tutto vero.
Aveva un brutto, bruttissimo presentimento, però doveva avere fede nel proprio padrone e continuare il lavoro assegnatogli.
Un'altra occhiata all'orologio e fu costretto a prendere il cappotto: anche lui doveva dare il cambio ad Ernest nella sorveglianza della signorina Geneviève.

***

«Mi raccomando: nessuno sforzo. E non... non toccare niente, per favore».
Arsène gli fece l'occhiolino e sollevò una mano. John, già con un piede oltre la porta di casa, guardò la figlioletta rispondere al saluto stringendo e aprendo il pugno, e riuscì a stento a trattenere una risata guardando l'espressione incredula del Ladro Gentiluomo. Quindi chiuse la porta di casa e Arsène rimase solo.
Si sdraiò sul divano e riuscì a stare fermo per cinque minuti. Ciò che era successo poche ore prima, i vari sospetti che avevano iniziato a bussargli alle pareti del cranio e la consapevolezza di non poter fare davvero nulla in quelle condizioni avrebbero aggravato ulteriormente il suo mal di testa se non si fosse distratto con altro.
Quell'imboscata era stata opera di Irene Adler, stufa di attendere? Oppure qualcuno l'aveva sfruttata per arrivare fino a lui? In quel caso chi erano, come avevano fatto a sapere che alloggiava al Savoy Hotel e cosa volevano da lui?
Si alzò faticosamente e tornò in cucina per recuperare il proprio cappotto, appoggiato su una sedia. Sbuffò irritato, notando il sangue e le scuciture provocate dai frammenti di vetro delle bottiglie contro cui era finito nel momento dello schianto. Era irrimediabilmente rovinato e giurò a se stesso che avrebbe messo in conto anche quello alle persone che avevano ordito l'agguato.
Quindi prese ciò che cercava: il cellulare dell'autista e il proprio. Lo schermo di quest'ultimo aveva una ragnatela di crepe sullo schermo e non dava segni di vita (il conto continuava a salire), mentre quello che aveva preso al conducente kamikaze, un prepagato con la chiusura a conchiglia, era ancora in buone condizioni. Ne scandagliò il contenuto: rubrica, messaggi inviati e ricevuti, ma a parte la chiamata ricevuta subito dopo l'incidente e a cui aveva risposto lui non c'era niente. Forse con l'aiuto dei propri compagni avrebbe potuto ricavare qualcosa di più - delle impronte, o con un po' di fortuna la triangolazione dell'area da cui era stata fatta la chiamata - ma purtroppo era solo. Al momento non poteva fidarsi di nessuno, nemmeno di Grégorie, e il solo pensiero gli faceva sanguinare il cuore.
Si diresse verso il bagno e si guardò allo specchio, spaventandosi di fronte al proprio riflesso: il volto, in particolare la parte sinistra, era sfregiato dalle abrasioni - che il dottor Watson doveva aver medicato dopo l'operazione - e tanto pallido da riuscire a scorgere le vene bluastre sottopelle; gli occhi stanchi, cerchiati da ombre scure; i capelli in disordine. Automaticamente se li tirò indietro con una mano, accorgendosi della sporcizia e del sangue incrostato sotto le unghie.
Schifato si spogliò ed entrò nella vasca da bagno vuota, aprì il getto d'acqua e si lavò alla bell'e meglio, facendo attenzione a non bagnare la garza che gli fasciava il ventre. Quando si sentì sufficientemente pulito uscì e con un asciugamano intorno alla vita cercò la camera da letto di John. Si imbatté prima in quella di Rosie e un sorriso venato d'amarezza gli piegò le labbra comparando quella stanza dalle pareti colorate, col fasciatoio da una parte e la culla dall'altra, colma di giochi e vestitini, con quella in cui era cresciuto lui.
Scosso dai brividi di freddo allontanò quei pensieri ed entrò nella camera di fronte, dirigendosi immediatamente verso l'armadio.
«Mon Dieu», esclamò Arsène, atterrito di fronte alla scelta che sarebbe stato costretto a fare: maglioni dalle orribili fantasie o camicie di flanella?
Trovò una maglietta intima di cotone e se la infilò, poi prese uno dei pochi maglioni in tinta unita, di un grigio-beige e con spessi intrecci verticali, e dei jeans che, avendo il dottore le gambe più corte delle sue, gli arrivavano ad almeno tre dita sopra la caviglia scoperta. In quel momento si sentiva ridicolo, non poteva nemmeno immaginare che quel pomeriggio, girando per le strade di Londra, avrebbe dato il via ad una nuova moda.
Una volta vestito tornò in salotto, dove si mise a curiosare tra i libri posseduti da John.
Non doveva essere un gran lettore, o forse ultimamente non aveva abbastanza tempo per sé: così gli suggeriva la polvere sulle mensole. Solo un punto ne era privo, in corrispondenza di un volume dalla spessa copertina di pelle. Lo estrasse, venendo meno alla promessa fatta al dottore, e scoprì che non si trattava di un libro, bensì di un album fotografico.
Lo portò con sè sul divano e lo sfogliò con calma, ammirando i volti felici di John e Mary, novelli sposi, e di tutti gli invitati. C'erano la signora Hudson, l'ispettore Lestrade, Sherlock e Molly. Arsène sorrise notando che non c'erano foto di loro due insieme. O almeno, non in cui ne fossero consapevoli.
All'epoca l'anatomopatologa era fidanzata con un ragazzo che nelle fattezze ricordava vagamente il detective e davanti all'obiettivo aveva cercato in ogni modo di dimostrarsi felice ed appagata da quella relazione, ma le prove che la sua fosse una semplice recita ce le aveva davanti: in più di un'occasione era stata immortalata mentre guardava in direzione di Sherlock, con sguardo triste e malinconico, e lo stesso aveva fatto il detective quando lei non poteva accorgersi delle sue occhiate.
Il Ladro Gentiluomo si chiese come avesse dormito la donna quella notte, dopo aver saputo le motivazioni dietro il comportamento scostante di Sherlock. E come invece l'avesse trascorsa il detective, ora che finalmente aveva scoperto che il suo amico Lestrade era stato tenuto sotto sorveglianza.
Chiuse l'album e lo riaprì dall'inizio per incrociare ancora una volta lo sguardo di Mary Morstan, la sorella della sua amata Clotilde e zia di Geneviève; la stessa donna che aveva sacrificato la sua vita per salvare quella di Sherlock.
Estrasse la fotografia e se l'avvicinò al volto per sussurrare: «Non potrò mai ringraziarti abbastanza. Se Sherlock fosse morto, io... beh, non importa. Grazie, Mary. Grazie di cuore».
Posò un lieve bacio sulla fotografia, in corrispondenza della fronte della donna, poi la sistemò nell'album e si sdraiò supino sul divano. Le palpebre si abbassarono senza che nemmeno se ne accorgesse e piombò in un sogno in cui tornò ventenne.

***

«Perché sei voluta venire al lavoro con me? Di domenica, oltretutto».
Geneviève alzò gli occhi dal microscopio col quale si era messa ad esaminare un suo stesso capello e sorrise in direzione di Molly, seduta poco distante. Stava compilando il rapporto inerente all'ultima autopsia effettuata, alla quale purtroppo non l'aveva fatta assistere. «Non è roba adatta ad una ragazzina», le aveva detto.
«Ieri, al supermercato, non hai forse detto che potevi cavartela da sola?», aggiunse Molly.
«Mi piace questo laboratorio», rispose la ragazzina, stringendosi nelle spalle. Poi, mordendosi il labbro inferiore, confessò: «E non mi andava di lasciarti sola».
La scienziata sforzò una risata, così come si era sforzata quella mattina davanti allo specchio per coprire col trucco i segni di una notte praticamente insonne.
«Ti ringrazio, ma sto bene».
«Uhm, meglio così».
Entrambe tornarono alle loro faccende e calò il silenzio. Non era un silenzio spiacevole, ma Geneviève fu comunque grata all'ispettore Lestrade, il quale bussò alla porta ed entrò con espressione stanca.
«Ciao Greg», lo salutò Molly con tono di voce sorpreso. «Anche tu di turno, eh?».
«I criminali, proprio come i morti, non rispettano i festivi purtroppo».
«Se sei venuto qui per il cadavere carbonizzato, dovresti sapere che non ho effettuatio io l'autopsia».
L'uomo sorrise imbarazzato e le porse un bicchierone di caffè, per poi lasciare sul tavolo la cartelletta che portava sotto braccio.
«Non sono qui per quello, infatti. Che caso strano, comunque. Dai primi rilevamenti sembra che l'autista non abbia cercato di frenare».
«Credi si tratti di un suicidio?».
Lestrade scosse il capo. «Non saprei. La scientifica sta ancora controllando ciò che è rimasto dell'auto e dato che avevo del tempo libero ho deciso di fare un salto qui. Come stai?».
«Bene».
Si guardarono e Geneviève poté percepire la tensione tra loro. L'ispettore di Scotland Yard fu il primo ad abbassare gli occhi e a grattarsi la nuca.
«Ah, era ieri sera lo spettacolo alla Royal Opera House? Ci sei andata, poi?».
Molly sospirò profondamente e si addossò allo schienale dello sgabello per incrociare le braccia al petto e guardarlo severamente.
«Ascolta Greg, so benissimo che l'incontro con Anderson non è stata una coincidenza. So che è stato mandato lì da Sherlock per controllare Jean Daspry, Arsène Lupin o come volete chiamarlo... E so che tu l'hai aiutato, fornendogli la strumentazione necessaria a registrare tutto. Avete ricavato qualcosa di utile, almeno?».
Lestrade negò col capo, gli occhi fissi sul pavimento. Passarono diversi secondi prima che riprendesse a parlare.
«Non è una giustificazione, ma Sherlock ha scoperto che anche lui ci spiava. O meglio, spiava me. Ho fatto controllare la mia auto e il mio ufficio e sono state trovate delle cimici».
A quelle parole Molly rimase a bocca aperta, scioccata, ed istintivamente si voltò verso Geneviève, rendendosi conto troppo tardi dell'errore. Greg, il quale fino ad allora non l'aveva notata seduta dietro il microscopio, corrugò la fronte.
«Ehi, ma tu... tu sei quella ragazzina che abbiamo ripescato dal Tamigi insieme a Sherlock quando indagava sul caso del piede di diavolo!».
La biondina sorrise e sollevò una mano. «Ehilà».
Prima che potesse fare altre domande, Molly cercò di cambiare argomento: «Ci sono novità sulla sconosciuta della fish?».
Greg finse di dimenticarsi di Geneviève e rispose con aria afflitta: «Purtroppo no. Nessuno per ora ne ha denunciato la scomparsa, perciò non sappiamo ancora chi sia. La scientifica ha esaminato il proiettile per verificare se la pistola fosse stata usata in altri crimini, senza risultati. E per quanto riguarda la fish... è un pezzo standard, usato in decine di casinò. Ho mandato degli agenti a fare domande in giro, ma per ora siamo ad un punto morto».
Alzò la cartelletta che aveva lasciato sul tavolo e aggiunse: «Quindi pensavo proprio di passare da Sherlock per chiedergli un'altra volta il suo aiuto, anche se dubito...».
«Posso vedere?», lo interruppe Geneviève, saltando giù dallo sgabello.
«Assolutamente no!», gridarono contemporaneamente i due adulti.
La ragazzina incrociò le braccia al petto e con aria saccente esclamò: «Come volete. Però sappiate che, come nuova assistente di Sherlock Holmes, potrebbe darmi retta se fossi io a proporgli il caso».
Molly guardò Greg assottigliando gli occhi, sibilando: «Non ci pensare nemmeno».
«E se fosse un serial killer fissato col gioco d'azzardo?», replicò Lestrade, nonostante fosse lui stesso poco incline a condividere con una ragazzina informazioni su delle indagini in corso. «Se dovessero esserci altre vittime riusciresti a dormire tranquilla? Io no». Sospirò ed incrociò gli occhi della ragazzina, la quale stese le mani con un sorriso euforico sul volto.
«Ci serve l'aiuto di Sherlock», esclamò quindi l'ispettore, come a voler convincere se stesso, e stringendo i denti le consegnò la cartelletta.
Geneviève si appoggiò al tavolo, accanto ad una Molly contrariata, ed iniziò a sfogliare il fascicolo.
Guardò le foto della scena del crimine senza rimanerne minimamente impressionata, per questo trovarono tanto strano il suo improvviso pallore quando si imbatté in quella che era stata scattata al viso della ragazza una volta terminata l'autopsia.
I lunghi capelli neri, il volto pallido e le labbra a cuore. Non aveva segni distintivi, nessun neo o voglia caratteristici, eppure ne era assolutamente certa: lei aveva già visto quella ragazza.
«Che cosa c'è?», le chiese Molly, quasi con cautela.
«Io... Io so chi è questa ragazza. O meglio, so dove lavorava».
Greg la fissò scioccato per qualche istante, prima di trovare la forza per chiederle dove.
«Al Savoy Hotel. Faceva la cameriera, l'ho incrociata spesso nei corridoi e ha anche rassettato la mia stanza un paio di volte», rispose Geneviève, senza pensare che quelle informazioni, agli occhi dell'ispettore, avrebbero potuto legarla ulteriormente ad Arsène Lupin. Non poteva però rimanere in silenzio, c'era di mezzo una ragazza morta!
«Vado subito sul posto», esclamò Lestrade, togliendole il fascicolo dalle mani. Geneviève però lo pregò di aspettare.
«Aspettare cosa? Non c'è un minuto da perdere!».
«Non può essere», mormorò la ragazzina, con un lieve tremore a scuoterle le spalle. «Lì c'è scritto che è morta domenica scorsa».
«Sì, è esatto», confermò Molly. «Ho eseguito io l'autopsia».
Geneviève si aggrappò al braccio dell'anatomopatologa con entrambe le mani e la guardò con gli occhi colmi di lacrime. «E allora mi dici com'è possibile che io l'abbia vista uscire dalla mia camera l'altro ieri?».

***

Grégorie, appostato fuori dal St. Bart's, bevve un sorso di caffé e poi tornò a concentrarsi sullo schermo del piccolo notebook che aveva davanti al volante.  
Le telecamere installate nella camera di Geneviève avevano dei sensori di movimento, perciò si azionavano soltanto quando c'era effettivamente qualcuno; ciò nonostante se avesse dovuto controllare tutte le ore di registrazione ci avrebbe impiegato il doppio del tempo. Anche per questo aveva chiesto la lista degli accessi dei passepartout, in modo da diminuire la mole di lavoro.
Era sempre possibile che il ladro del quaderno si fosse introdotto dal balcone, o che avesse colpito quando ormai Arsène, spinto dal desiderio di essere un padre migliore, aveva smesso di sorvegliare la propria figlia.
L'uomo sospirò e strizzò gli occhi, mandando avanti velocemente il filmato. Quindi premette il tasto play e guardò Geneviève uscire dal proprio fortino col quaderno tra le mani ed infilarlo nel primo cassetto del comodino alla destra del letto. Proprio dove gli aveva detto di averlo visto l'ultima volta.
Mandò ancora avanti, arrivando alla mattina di venerdì, e guardò con particolare attenzione la cameriera dai capelli neri entrare nella stanza e rimanere con le mani sui fianchi a fissare le lenzuola fissate al lampadario. Quindi si arrampicò sul letto e le sciolse, le appallottolò e le buttò sul pavimento. Solo allora si mise a curiosare in giro, fino a quando non aprì i cassetti dei comodini e trovò il quaderno. Lo sfogliò velocemente e, capendo quante informazioni contenesse, lo infilò tra le lenzuola sporche ed uscì dalla stanza. Vi rientrò solo per terminare il lavoro da cameriera, che svolse con velocità e precisione. Fin troppa.
Grégorie stoppò il filmato e recuperò quello di una settimana prima, dove era comparsa la stessa cameriera. Mise i due modi di lavorare a confronto e a quel punto c'erano due possibilità: o quella cameriera aveva frequentato un corso lampo che l'aveva resa perfetta, oppure erano due persone diverse.
Gli bastò poco per verificare quale delle due teorie fosse quella esatta: chiamò il Savoy Hotel e dando al receptionist la parola d'ordine la sua chiamata venne trasferita al direttore, uno dei pochi a conoscere la vera identità del loro ospite. Gli venne assicurato che l'avrebbe richiamato con tutti i dettagli riguardanti la cameriera e così fu: cinque minuti dopo sapeva esattamente chi era, dove abitava e anche che, dopo quasi una settimana di malattia, venerdì mattina era tornata al lavoro, per poi sparire nuovamente senza più farsi viva.
«La ringrazio», disse e terminò la comunicazione.
Si massaggiò gli occhi con due dita e non ebbe nemmeno il tempo per mettere in ordine le idee che ricevette un'altra chiamata, quella volta dal cellulare prepagato dato a Geneviève per le emergenze.
«Altri dubbi culinari?», esordì divertito, ma cambiò repentinamente registro quando si rese conto che la ragazzina era in lacrime. «Signorina, che cos'è successo?».
«Una cameriera del Savoy è stata uccisa», singhiozzò. «Qualcuno... qualcuno si è sostituito a lei e ha rubato il mio quaderno, ne sono sicura. Grégorie, io... Mi dispiace tanto».
L'uomo, col cuore in gola, unì finalmente i pezzi. Che Arsène fosse giunto per primo a quella conclusione e fosse andato a fronteggiare da solo l'avversario? E che fine aveva fatto? Che fosse stato sconfitto?
All'improvviso ricordò la notizia che aveva sentito quella mattina alla radio: intorno alle tre di notte un'auto si era schiantata contro un palazzo e il conducente era morto per via dell'impatto oppure nel successivo rogo, era ancora da stabilire. Quello che però lasciava perplessi gli investigatori, avevano rivelato alla stampa, era la scia di sangue che era stata trovata nei pressi dell'auto, come se ci fosse stato qualcun altro all'interno del veicolo al momento dell'incidente, qualcuno che era sopravvissuto e che si era allontanato a piedi.
Grégorie non poté fare a meno di pensare che fosse Arsène il sopravvissuto. I pezzi combaciavano tutti: la richiesta della pistola, le lenzuola ancora calde quando si era svegliato nel cuore della notte, la sua scomparsa.
E se la ferita fosse stata troppo grave e non fosse riuscito a chiedere aiuto?, continuava a domandarsi Grégorie, pur consapevole che lasciarsi prendere dal panico non avrebbe giovato a nessuno.
Respirò profondamente e si rivolse a Geneviève, ancora scossa dai singhiozzi: «Stia tranquilla, signorina. Non poteva sapere che c'era qualcuno che controllava le nostre mosse. La colpa è solo nostra se si è verificata una falla nella sicurezza. Ora dove si trova?».
«Sono nel... nel bagno del laboratorio. Ascolta, Grégorie...».
«Sì?».
«Voglio vedere mio padre. Ho provato a chiamarlo, ma...».
«Padron Lupin si sta già occupando della faccenda», mentì, certo che se le avesse rivelato della sua scomparsa sarebbe stata ancora peggio. «E io devo raggiungerlo. Prenda i mezzi pubblici, faccia in modo di prendere strade trafficate e vada da Sherlock Holmes. Stia con lui, è la cosa migliore da fare al momento».
«Va bene, lo farò».
«Stia attenta».
«Anche tu».
Grégorie arrossì e fu lieto che non potesse vederlo tramite il cellulare.
«Mi prometti che mi farai chiamare da mio padre non appena avrà un momento libero?», gli domandò giusto prima che chiudesse la chiamata.
«Lo prometto».
L'uomo infilò il cellulare nella tasca interna della giacca, girò la chiave nel quadro d'accensione e diede gas per immettersi nel traffico cittadino.
Non erano molti, a Londra, i posti in cui un Arsène Lupin ferito e desideroso di non dare nell'occhio poteva rifugiarsi. Anzi, uno solo lo convinceva davvero e Grégorie sperava con tutto il cuore di non sbagliarsi.

***

Geneviève bussò freneticamente alla porta del 221B di Baker Street, ma nessuno andò ad aprirle.
«Dannazione», imprecò, tremando. Non sapeva se fosse dovuto al freddo pungente oppure per via di quella ragazza.
Aveva già visto la morte da vicino, ma un assassinio era tutt'altro paio di maniche e per quanto le costasse ammetterlo, l'aveva scossa nel profondo. Specie se pensava che quella morte era servita solo ed unicamente a raccogliere informazioni su suo padre.
La persona che aveva spento quella vita era entrata nella sua camera, le aveva rifatto il letto e toccato le sue cose... Sentì la colazione salirle su per l'esofago e, appoggiata alla porta di lucido legno nero, dovette inspirare ed espirare diverse volte, profondamente, per cacciare via la nausea. Quindi entrò nella tavola calda lì accanto e chiese del bagno, per poi sgattaiolare fuori dalla porta sul retro.
Nel piccolo spiazzo dietro il locale erano ammassati i bidoni della spazzatura e l'odore non fece altro che peggiorare il suo mal di stomaco, ma strinse i denti e li usò come scala per passare dall'altro lato della recinzione, ovvero nel giardinetto sul retro della signora Hudson.
La porta che dava direttamente sulla cucina era più facile da scassinare ed impiegò meno di cinque minuti ad entrare. Poi corse su per le scale, dove sperava di trovare il detective. Si ritrovò però in un salotto vuoto e silenzioso.
Il pensiero di ritrovarsi sola, senza suo padre e senza Sherlock, le fece quasi perdere la ragione. Quasi, perché a salvarla fu una tazza da tè.
La signora Hudson, come ogni mattina, doveva aver portato al detective la colazione, che consisteva in tè e biscotti, ma la tazza era ancora capovolta sul piattino, inutilizzata. Geneviève allora, speranzosa, corse verso la camera da letto e fu proprio là che trovò Sherlock, interamente nascosto sotto il piumone. Il sollievo fu tanto che senza pensarci si gettò sul letto e si aggrappò a quel corpo spigoloso che subito iniziò a divincolarsi, emettendo versi davvero buffi.
Quando riuscì a liberarsi dalle coperte, Sherlock incrociò gli occhi della ragazzina e ancora prima di riuscire a chiederle perché fosse lì e non con Molly, lei gli gettò le braccia al collo e riprese a piangere, in modo quasi incontrollabile.
«Geneviève», esclamò il consulente investigativo, confuso, ma ricambiò l'abbraccio accarezzandole i capelli con una mano. «Calmati».
«Non ce la faccio, io... Ho paura. Ho tanta paura», singhiozzò.
«Piangere non ti aiuterà. Avanti, alzati».
La ragazzina obbedì e mano per mano col detective, ancora avvolto nel piumone, tornò in salotto. Lui la fece sedere sulla poltrona di John e le versò una tazza di té tiepido, poi si sedette di fronte a lei e portandosi le dita unite davanti alle labbra esclamò: «Raccontami tutto dall'inizio».

***

Grégorie scese dal SUV e si guardò intorno, circospetto, prima di avvicinarsi alla casa del dottor Watson. L'ingresso era qualche gradino sotto il livello della strada e l'uomo fece per afferrare il corrimano, ma si fermò quando vi notò l'impronta insanguinata di una mano. Col cuore di nuovo vivo nel petto corse alla porta e suonò il campanello. Lo fece una, due, tre volte, senza ricevere mai risposta.
Forse Arsène si era fatto curare dal dottor Watson e poi era andato per la sua strada, evitando così di creare ulteriori disturbi all'amico di Sherlock Holmes. Tipico del suo padrone.
Si voltò, afflitto ma non ancora disposto a darsi per vinto. Era quasi giunto alla scalinata quando sentì la porta alle sue spalle aprirsi.
«Grégorie...».
Sentì il proprio cuore mancare un battito prima di iniziare a pulsare a velocità folle, incrociando gli occhi verdi di Arsène Lupin. Il suo volto era segnato da tagli e lividi che spiccavano sulla pelle pallida, quasi trasparente, ma era vivo.
Lo raggiunse con due sole falcate e lo travolse con un abbraccio.
«Piano, piano», disse il ladro, accennando una risata mentre gli posava delicatamente le mani sulle spalle e lo allontanava da sé per guardarlo negli occhi, quegli stessi occhi che Grégorie aveva vergognosamente nascosto nell'incavo tra il collo e la spalla sinistra perché lucidi di lacrime.
«Per un attimo ho temuto...», iniziò a dire, ma venne interrotto.
«Non dire scemenze, amico mio. Deciderò io quando morire, io soltanto».
I loro sguardi si incrociarono e quello sorridente di Arsène fu in grado di calmarlo, come sempre.
«Che cos'è successo?», gli domandò quindi.
«Sono stato attirato in una trappola», confessò il ladro, facendosi una bella risata. Ad un tratto si bloccò e cambiò espressione, chiedendo: «Se tu sei qui, chi sta sorvegliando Geneviève?».
«L'ho mandata da Sherlock Holmes».
Arsène lo afferrò per i baveri della giacca e lo inchiodò al muro, gli occhi a pochi centimetri dai suoi. Era furioso come poche volte l'aveva visto.
«E con quale autorità hai deciso di ignorare gli ordini?».
«Mi... Mi dispiace».
Il Ladro Gentiluomo lo lasciò bruscamente e gli diede le spalle per rientrare in casa.
«Aspetti un attimo. Ha intenzione di rimanere qui?», domandò Grégorie, confuso.
«Non avrei dovuto nemmeno aprire la porta», ammise Arsène, a bassa voce. «L'unico motivo per cui l'ho fatto è perché ti voglio bene, Grégorie. Ma i fatti non mi permettono di escluderti dalla lista dei sospettati, ecco».
«Sospettati? Crede... crede che io potrei tradirla, padrone?».
Il ladro si voltò di tre quarti, mostrando la lacrima che gli aveva rigato la guancia. «Spero proprio di no. Il mondo, però, è un posto spietato. Finché non avrò chiaro il quadro della situazione, dovrò lavorare da solo».
Grégorie abbassò il capo e dopo diversi secondi di silenzio mormorò: «Capisco. In questo caso ho da dirle qualcosa che credo possa esserle utile nelle sue indagini».
Arsène soppesò le sue parole e ancora una volta cedette alla speranza, facendogli segno di entrare. Seduti nel piccolo salotto del dottor Watson, padrone e servitore parlarono a lungo della cameriera uccisa e della persona che aveva preso il suo posto e che era venuta in possesso di informazioni di rilievo a causa dell'ingenuità di Geneviève. Era chiaro ad entrambi che quegli eventi e l'agguato di quella notte fossero collegati, ma era ancora un mistero chi stesse tirando i fili e quale fosse il suo scopo finale.
«È probabile che la signorina si confiderà con Sherlock Holmes e che questi si metterà ad indagare», esclamò Grégorie quando fu il momento dei saluti.
«Vedremo chi giungerà prima alla soluzione, allora», rispose Arsène, solare come suo solito. «Se si tratta di un nemico del passato in cerca di vendetta, come temo che sia, allora potrei avere qualche vantaggio».
Il servitore abbozzò un sorriso e di nuovo sulla porta si profuse in un profondo inchino. «Allora... a presto, padrone».
«A presto, amico mio».
Grégorie si sollevò e senza più guardarlo - temeva di dimostrarsi di nuovo commosso - si diresse verso la breve scalinata. Ricordandosi improvvisamente della promessa fatta a Geneviève si voltò e sorprese Lupin con un'espressione di pura tristezza.
«La signorina...», iniziò, deglutendo un improvviso nodo alla gola. «Vorrebbe tanto ricevere una sua telefonata, padrone. Può farlo?».
«Il mio cellulare si è rotto nell'incidente, ma in qualche modo riuscirò a contattarla», rispose con un sorriso.
Grégorie ricambiò, fingendo di non aver visto ciò che si celava sotto la maschera.

***

Molly pagò e scese dal taxi per bussare al 221B di Baker Street. Fu la signora Hudson, come la maggior parte delle volte, ad aprirle e a farla entrare.
Non si fermò a chiacchierare, preferì precipitarsi al primo piano, dove trovò Sherlock seduto sulla sua poltrona, con le lingue di fuoco del camino che si riflettevano nei suoi occhi di ghiaccio.
«Molly! E tu che ci fai qui?».
L'anatomopatologa si voltò verso la cucina e rivolse un'occhiata fulminante a Geneviève, scalza e con una porzione di spaghetti di soia in una mano e delle bacchette usa e getta nell'altra.
«Che cosa ci faccio qui?!», ripeté, furibonda. «Hai idea dello spavento che mi sono presa?! Sei sparita dal laboratorio senza dire una parola, a casa non c'eri e al cellulare non rispondevi!».
La ragazzina lasciò le bacchette nel cartone per potersi infilare una mano nella tasca posteriore dei jeans, da dove estrasse il cellulare e spiegò: «La batteria è morta».
Molly sospirò, cercando di calmare la rabbia, e la raggiunse a passi così pesanti che Geneviève ebbe paura che potesse picchiarla. Si ritrovò infatti a chiudere gli occhi, un braccio a proteggerle il viso, ma nessuno schiaffo la colpì: si ritrovò invece stretta in un abbraccio, immersa nella grande sciarpa di lana che copriva il collo della donna. Il suo profumo dolce e il suo calore la fecero rilassare a tal punto che posò il capo contro quello dell'anatomopatologa.
«Ero molto preoccupata. Dopo quella scoperta, temevo...».
«Ora sto bene», sussurrò la ragazzina.
Le due si scostarono per scambiarsi un sorriso e poi Molly si girò verso il detective, portandosi le mani sui fianchi.
«E ora è il tuo turno! Ho provato a chiamare anche te, decine di volte! Qual è la tua scusa?».
Sherlock non si degnò nemmeno di guardarla. «Non trovo più il cellulare».
Geneviève, che nel frattempo si era avvicinata al divano per finire i propri spaghetti, non fece in tempo a sedersi che estrasse qualcosa dalla piega tra lo schienale e i cuscini: il cellulare del detective.
Molly sospirò, lasciando penzolare le braccia lungo i fianchi. Poi si sistemò la borsa sulla spalla ed esclamò: «La mia pausa pranzo sta per finire, devo tornare al laboratorio».
«Hai già mangiato?», le chiese Geneviève, a bocca piena. Una volta deglutito, aggiunse: «Ho ordinato anche per Sherlock, ma ha detto che non vuole niente».
Lo stomaco dell'anatomopatologa borbottò per la fame, ma era già tanto se aveva resistito nella stessa stanza con lui fino ad allora. Il desiderio di prenderlo a schiaffi o di abbracciarlo, oppure di fare entrambe le cose e non necessariamente in quell'ordine, si stava facendo sempre più impellente. Doveva andarsene.
«Comprerò delle patatine dal distributore, ti ringrazio», rispose alla fine. «Vengo a prenderti più tardi, okay?».
«In realtà...».
«La mia non era una domanda. Non puoi dormire qui, punto e basta».
Geneviève aggrottò le sopracciglia. «Perché no? L'ho già fatto, in fondo. Diglielo, Sherlock».
«Molly ha ragione: non puoi dormire qui».
«Ma...».
«Tuo padre ed io abbiamo fatto un patto, ricordi? Zona neutrale».
A quelle parole la biondina abbassò gli occhi e smise di controbattere. Molly si avvicinò per darle una carezza sulla testa e poi, senza più guardarsi indietro o chiedersi perché lui avesse preso le sue parti, scese giù per le scale.
Stava già per tirare un sospiro di sollievo, con una mano sulla maniglia della porta, quando sentì la voce di Sherlock chiamare il suo nome. Con le gambe rigide come pezzi di legno si girò e vide la sua figura sulla sommità delle scale: con indosso la vestaglia, i capelli in disordine e quello sguardo indurito dai troppi pensieri sembrava un supereroe tormentato.
Lo guardò mentre la raggiungeva, uno scalino per volta, e deglutì ritrovandosi col mento leggermente sollevato per poter incrociare i suoi occhi freddi.
«Ti sei già affezionata a Geneviève», affermò. Raramente poneva domande, dopotutto.
«Già. Lo trovo strano anche io».
«Non deve accadere lo stesso con Arsène Lupin».
Molly corrugò la fronte. «Pensi che sia possibile?».
Sherlock aprì la bocca per rispondere, ma la donna riprese: «Capisco i tuoi timori, sai? Dopotutto è un uomo galante, socievole, divertente ed è in grado di dire le cose come stanno, anche se fanno male».
Il detective affilò lo sguardo e ancora una volta Molly lo precedette prima che potesse parlare.
«Sì, Arsène mi ha detto che mi stai evitando per tenermi al sicuro. Non so in che guaio tu ti sia andato a ficcare questa volta, ma preferisco avere un bersaglio sulla schiena piuttosto che... che perdere un amico».
Nel pronunciare quelle ultime parole la voce le si era incrinata e gli occhi velati di lacrime, ma aveva mantenuto il contatto visivo.
Sherlock non disse niente e Molly, annuendo come se non si aspettasse altro, deglutì il nodo alla gola ed aprì la porta, lasciando che il freddo entrasse nell'androne e gli facesse svolazzare i lembi della vestaglia blu intorno alle gambe.

***

Arsène, di nuovo seduto sul divano del dottor Watson, fissava lo schermo nero della televisione, profondamente concentrato.
Come aveva detto a Grégorie, per un po' sarebbe dovuto sparire. Non poteva fare diversamente, se voleva scoprire l'identità delle persone che volevano colpirlo. C'era solo un piccolo dettaglio che lo preoccupava: lui non era più solo, non lo sarebbe mai più stato, e quelle persone lo sapevano.
Dato che il piano di cattura era andato in fumo, era più che probabile che il piano B prevedesse l'utilizzo di Geneviève, sua figlia, come oggetto di scambio. Lei era il formaggio e lui il topo: per quanto scaltro, sarebbe stato impossibile tenersene lontano. Quindi doveva fingersi disperso e al contempo starle sempre vicino per evitare che la usassero come esca.
Si portò le dita sulle tempie e le massaggiò, meditabondo. All'improvviso, l'illuminazione.
«Ma certo!», esclamò, con un sorriso a trentadue denti.
Si precipitò subito in cucina e dai propri indumenti ormai inutilizzabili estrasse tutto ciò che gli era rimasto e con cui per il momento avrebbe dovuto arrangiarsi: il passaporto falso con cui si spacciava per Jean Daspry; il portafoglio in cui, tra le altre cose, c'erano diverse banconote da cinquanta sterline; l'astuccio con la sigaretta elettronica e i filtri; il revolver dal manico di madreperla con ancora cinque proiettili; i suoi attrezzi da scassinatore e la piccola chiave di una cassetta postale. Poteva decisamente andargli peggio.
Mise tutto in uno zainetto di John, gli scrisse un bigliettino, buttò nella spazzatura i suoi vestiti strappati e controllò che in giro non ci fosse nulla da cui si potesse estrarre il suo DNA (stracci sporchi di sangue, ad esempio) e dopo aver preso in prestito anche un Parka che su di lui sembrava una normalissima giacca si guardò allo specchio ed esclamò: «Sarà una lunga giornata!».
Gettò il sacco pieno in un bidone dell'indifferenziata e come un comune londinese prese l'autobus, da cui scese a poche vie di distanza da un piccolo hotel da poche pretese, la sua prima tappa.
La ragazza dietro il bancone della reception, troppo bella per un posto del genere, gli rivolse un sorriso cortese salutandolo. Arsène ricambiò chinando un poco il capo e prese l'ascensore che lo portò al secondo ed ultimo piano. Quindi camminò fino alla fine del corridoio, vicino alle scale antincendio, e dal portafoglio estrasse una tessera magnetica con cui aprì la porta della stanza 219.
Aveva affittato e prepagato quella camera contemporaneamente a quella del Savoy, all'insaputa di tutti come faceva ogni volta che usciva dai confini francesi, nel caso avesse avuto bisogno di un rifugio alternativo. All'interno aveva tutto il necessario per nascondersi o cambiare identità, insomma per agire in totale autonomia per diverso tempo: scorte di cibo e acqua, parrucche, vestiti, cellulari usa e getta, un tablet e un computer di riserva, alcuni attrezzi del mestiere - sia standard che fatti su misura - e soprattutto, al sicuro nella piccola cassaforte in dotazione, contanti ed altri passaporti falsi. Peccato che, per ciò che aveva in mente, avrebbe dovuto crearsi una nuova identità. Nulla di impossibile, per carità, ma avrebbe richiesto tempo e ad Arsène non piaceva aspettare.
Si truccò e si cambiò, e una volta soddisfatto riempì un piccolo trolley con tutto ciò che pensava potesse tornargli utile. Quindi uscì dalla stanza e non tornò all'ascensore, bensì aprì la porta tagliafuoco che dava sulle scale antincendio e le scese in tutta calma. Sapeva che alla reception sarebbe scattato l'allarme, ma sapeva anche che di giorno nessuno si degnava di controllarne il motivo, dato che era abitudine di molti clienti utilizzarle come area fumatori per comodità.
Con quello stratagemma poté raggiungere il parcheggio sul retro dell'hotel senza passare dalla reception, dove un uomo diverso da quello che era appena passato avrebbe destato qualche sospetto. Estrasse dalla tasca della giacca di pelle nera le chiavi della piccola utilitaria presa a noleggio e una volta aperta gettò il trolley nel bagagliaio, per poi mettersi al volante e guidare verso la sua seconda tappa: una lavanderia a cui consegnò i vestiti di John. Pagò in anticipo e diede l'indirizzo del dottore perché glieli recapitassero direttamente a casa, poi uscì e si rimise al volante, diretto verso un internet café dall'altra parte della città.
Alla barista chiese una tazza di latte caldo per riempirsi lo stomaco e riscaldarsi, poi scelse il computer più vicino ai bagni e si scrocchiò le dita delle mani: era da tanto che non curava più di persona dettagli del genere - di solito se ne occupava Grégorie o uno dei suoi hacker di fiducia - e lo colse un po' di nostalgia.
Nonostante la ruggine riuscì ad entrare facilmente nel Deep Web e a trovare il forum a numero chiuso in cui aspiranti Arsène Lupin raccontavano le loro piccole grandi avventure. Ricordava i bei tempi in cui passava le ore a leggere le discussioni, a rispondere ai commenti e a dispensare consigli. In particolare ripensò con gioia al giorno in cui, dopo un colpo piuttosto complicato, aveva osato troppo e aveva smentito tutte le supposizioni degli utenti per dare una semplice quanto perfetta spiegazione, scatenando un putiferio. Aveva provato in ogni modo a negare, inutilmente. Molti di loro, infatti, si erano convinti di aver scoperto l'identità di MonsieurL e Arsène, divertito, non aveva potuto far altro che ammetterlo e sfruttare la cosa a suo vantaggio.
In quel modo, quasi per gioco, era nata la sua organizzazione; grazie all'aiuto di tanti individui, provenienti da tutto il mondo ma con un solo desiderio: avere più giustizia grazie ai suoi colpi. Spesso Arsène non si era sentito all'altezza di quel compito ed era lieto che Maurice Leblanc, sei anni prima, avesse iniziato a chiamarlo come tutti lo conoscevano: il Ladro Gentiluomo. Era decisamente più appropriato, vista la sua indole volubile e il suo personalissimo metodo di giudizio.
Alla fine, per questioni di sicurezza, avevano rintracciato l'amministratore del forum e l'avevano comprato con la promessa che per gli utenti nulla sarebbe cambiato. E così era stato, dato che non avevano idea che alcuni dei membri entrati successivamente fossero uomini effettivi della banda, i quali utilizzavano la chat privata del forum per comunicare tra loro.
Non poté trattenersi dal salutare i propri ammiratori nella chat aperta, i quali risposero a centinaia, come se fossero stati tutti dietro le loro tastiere in attesa di una sua apparizione. Arsène ne fu onorato, ma anche un po' spaventato.
E se le persone che avevano architettato quell'agguato fossero riuscite ad introdursi pure lì, superando il test attitudinale e psicologico che in seguito alla sua rivelazione era stato istituito per limitare l'accesso alle sole persone veramente al fianco di Lupin?
Mordendosi le labbra, il ladro decise di fare la prima mossa ed aprì una nuova discussione con priorità massima:

Carissimi amici miei,
per chi ancora di voi non lo sapesse al momento mi trovo a Londra.
Vi scrivo per informarvi che la semplice vacanza che mi ero concesso e che mi stava arricchendo spiritualmente, purtroppo si è trasformata in un duello mortale contro una forza misteriosa. Ma voi mi conoscete e sapete che non ho paura!
Vi chiedo di assistermi nei giorni a venire e di prestare attenzione a qualsiasi stranezza, scrivendomi privatamente se necessario.

Sempre vostro,
A.L.

I commenti di indignazione e sostegno non esitarono ad arrivare, ma Arsène li ignorò per entrare nella sezione dei messaggi privati. Scrisse un breve messaggio all'utente Vict8ire, chiedendole di attendere la seconda parte, poi pagò il conto ed uscì per dirigersi verso la quarta destinazione: il centro commerciale.
Non si fermò molto, solo il tempo per farsi delle foto istantanee ed entrare in un'agenzia di viaggio. Quindi, con un biglietto di sola andata per la Costa Azzurra, Arsène decise di lasciare l'auto nel garage sotterraneo del centro commerciale e prese un taxi per raggiungere un altro internet cafè, più grande ed attrezzato e soprattutto più vicino alla sua prossima ed ultima tappa.
Scannerizzò le fotografie e le inoltrò in allegato alla seconda parte del messaggio per Vict8ire, il cui testo consisteva nell'indirizzo dell'ufficio postale londinese in cui aveva affittato una cassetta.
La donna rispose pochi secondi dopo la ricezione, rimproverandolo per la sua scarsità di buone maniere - non le aveva scritto né "Per favore" né "Grazie" - e chiedendogli aggiornamenti su Geneviève. Borbottando, Arsène scrisse un terzo messaggio e già che c'era le domandò se ci fossero novità in merito alla questione affidamento. Vict8ire rispose indicandogli un numero di cellulare prepagato: un chiaro invito a chiamarla. Arsène però non aveva tempo, perciò scrisse il numero su un bigliettino ed uscì dal forum.
Quindi lasciò il locale e, zainetto sulle spalle e trolley al seguito, si mischiò ai turisti che avevano deciso di visitare la capitale inglese in uno dei periodi forse più magici, quello natalizio.
Erano ormai le quattro di pomeriggio quando bussò alla porta della signora Lee.
Le sue doti di gentiluomo, rimaste invariate nonostante il travestimento, e una storia di legami familiari inventata su due piedi in base ai ricordi che aveva sui profili degli abitanti del condominio gli permisero di conquistarsi la sua fiducia, tanto che l'anziana lo lasciò entrare e gli offrì un tè e dei piccoli sandwich.
«Allora giovanotto, per quanto tempo hai intenzione di rimanere a Londra?».
«Un paio di settimane, pensavo».
«Viaggi leggero! E dimmi, dove starai?».
Arsène posò la tazza sul piattino e sorrise felice. «Speravo proprio mi ponesse questa domanda».

***

Sherlock fece finta di nulla, ma non gli sfuggì il modo furtivo in cui Geneviève spostò gli occhi dal libro che stava leggendo per spiarlo.
Dopo lo scambio di battute con Molly era tornato in salotto e aveva recuperato il cellulare per verificare se qualcun altro a parte lei lo avesse cercato. A quanto pareva sì.
Alle due e quarantotto di quella notte aveva ricevuto un sms da parte di un numero sconosciuto, ma leggendone il contenuto non ebbe dubbi sul mittente: Arsène. Aveva voluto avvisarlo che quella notte aveva fissato un incontro con Irene Adler, alla quale voleva proporre un patto per garantire la sicurezza di Molly. Ovviamente quell'incontro non era mai avvenuto.
Di nuovo sulla propria poltrona, accanto al camino acceso, cercava di recuperare il bandolo della matassa e forse era stato il suo mutismo meditativo ad incuriosire tanto la ragazzina.
«La trama non è di tuo gradimento?», le domandò all'improvviso, girandosi di scatto per coglierla sul fatto.
Geneviève reagì come un gatto, sobbalzando sul divano e stringendo gli occhi a due fessure. Mancava solo che gli soffiasse contro.
«E tu ti sei reso conto che ci sono anche io qui?».
Sherlock corrugò la fronte e si alzò per raggiungere la finestra. «Ne ero perfettamente consapevole. Qual è il punto?».
«Il punto è che forse, se mi parlassi, potrei aiutarti».
«Dubito che tu conosca l'identità della persona che ha ucciso quella cameriera. Deve trattarsi per forza di qualche vecchio nemico di tuo padre, qualcuno che ha deciso di pareggiare i conti...».
«Pareggiare i conti? Di che stai parlando?».
Il detective le rivolse un sorriso quasi derisorio. «Cara Geneviève, lo shock deve aver compromesso le tue capacità deduttive se non hai ancora capito che tuo padre è il passeggero scampato all'incidente d'auto di cui si è parlato in tutti i telegiornali».
«Che cosa?».
Quella volta Sherlock si concesse una risata, sinceramente divertito. Si tirò dietro la vestaglia mentre si sedeva al suo fianco sul divano.
«In questo momento sarà rifugiato da qualche parte, a leccarsi le ferite e a pensare ad un piano», disse. Quindi si portò le mani sugli occhi e mormorò: «Devo sbrigarmi, lui è già in vantaggio».
Geneviève lo fissò, scioccata ed inorridita allo stesso tempo.
«Credi che sia un gioco? Mio padre potrebbe essere ferito e tu...!».
Non continuò la frase, tremante di rabbia e di nuovo con le lacrime agli occhi. Si alzò in piedi e corse su per le scale. Sherlock non provò a fermarla, né reagì quando sentì il tonfo della porta della vecchia camera di John che si era sbattuta alle spalle.
Il consulente investigativo si alzò e tornò alla finestra, dove si infilò una mano nella tasca della vestaglia. Esitò. Non aveva mai creduto al sesto senso - preferiva affidarsi alla logica - ma gli era impossibile ignorare il brutto presentimento che gli stringeva lo stomaco. Quindi digitò a memoria il suo numero e rimase in attesa fino a quando non scattò la segreteria telefonica.
Serrò i denti e stringendo forte il cellulare nella mano destra tornò a contemplare Baker Street dalla finestra.

***

Gabriel alzò gli occhi dai libri contabili che stava controllando quando scorse il cellulare di Irene Adler vibrare insistentemente sulla scrivania. Sul display lampeggiavano solo le iniziali di chi la stava chiamando, ma non fu difficile capire a chi appartenessero.
Quando il tentativo di chiamata terminò, prese il cellulare per spegnerlo e toglierne la batteria. Poi si alzò dalla scrivania ed uscì dal suo piccolo ufficio barra camera da letto. Attraversò un corridoio con decine di porte tutte uguali e raggiunse l'ascensore, dove dovette inserire un passepartout e un codice di sei cifre per avere l'autorizzazione a salire all'ultimo piano.
Le porte si aprirono con un din delicato e Gabriel, ancora con indosso la sua divisa da croupier e i lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena, salutò con un gesto del capo l'uomo della sicurezza posto davanti all'ufficio di sua zia. Bussò alla porta e ottenuto il permesso di entrare avanzò fino a raggiungere il bordo della grande scrivania in mogano.
La donna, dalla corportatura massiccia che veniva ancora più evidenziata dallo stretto vestito viola che portava, era in piedi davanti alla parete vetrata che dava sull'enorme piscina e da cui si vedeva lo skyline londinese in lontananza. Tra le mani teneva il quaderno rubato dalla stanza di Geneviève, la figlia del Ladro Gentiluomo.
Senza voltarsi, domandò: «Che cosa c'è, Gabriel?».
«Irene Adler ha appena ricevuto una chiamata».
«Da chi?».
«Sherlock Holmes».
Quel nome attirò l'attenzione della zia, la quale diede le spalle al panorama per guardare il nipote coi suoi occhi porcini.
«Questo potrebbe essere un problema. Pensi che proverà a rintracciarla?».
«Posso chiederlo a lei».
La donna strinse le labbra e rifletté a lungo. Ad un tratto si gettò i gonfi ricci neri dietro le spalle e gli rivolse un ampio sorriso.
«Ma sì, fate una chiacchierata. Dille che nemmeno il grande detective riuscirà mai a trovarla. E se anche lo facesse, a noi lui non interessa: se metterà a rischio il nostro piano lo uccideremo senza esitare».
«Capisco».
«È tutto?», chiese la zia al nipote, tornando a dargli le spalle.
«Sì, è tutto».
«Bene, allora vai».
Gabriel chinò il capo ed uscì dall'ufficio. Percorse il corridoio fino a raggiungere un'altra porta sorvegliata, con l'unica differenza che poche persone possedevano la chiave per accedervi. Lui era una di quelle. Entrò e se la chiuse alle spalle delicatamente, ma questo non impedì ad Irene Adler di svegliarsi di scatto.
Il ragazzo accese le luci al neon e la donna, abituata all'oscurità più totale, strinse gli occhi arrossati. Quindi si rannicchiò in un angolo della gabbia in cui era stata chiusa a chiave, stringendosi le ginocchia al petto.
«Tranquilla, non sono qui per portarti dalla zia», cercò di rassicurarla, chinandosi per guardarla in volto attraverso le sbarre.
Le mostrò il suo cellulare e spiegò: «Per quale motivo Sherlock Holmes ti ha cercata? Siete amici? Amanti?».
La donna scelse il silenzio, chiudendo gli occhi e voltando il capo, e Gabriel sospirò alzandosi. Andò al bancone posto dall'altra parte della grande stanza, il cui unico arredamento consisteva in un tavolo operatorio e in un mobile pieno di flaconi che sembravano provenire proprio da un ospedale, ed Irene tremò vedendolo accarezzare i vari strumenti medici allineati sulla superficie metallica.
«Eravamo amanti», confessò con poca voce.
Gabriel alzò il capo e le sorrise. «Continua».
«Non c'è nient'altro da dire. Ci siamo detti addio alcune settimane fa».
Il ragazzo prese un bisturi e ne controllò l'affilatura esponendolo alla luce della lampada operatoria, poi lo ripose al suo posto. Alla fine scelse un piccolo cilindro nero e con un rapido gesto della mano, come se tenesse il manico di una frusta, ne fece uscire il contenuto: sembrava l'antenna retraibile di una radio, ma in realtà era un teaser di cui Irene portava addosso diversi segni.
«Aspetta. Aspetta, ti prego», cercò di prendere tempo la donna, consapevole che per quanto si addossasse alle sbarre della gabbia lui l'avrebbe raggiunta comunque.
«Lo sai che non mi piace farlo», esclamò Gabriel, con voce triste. «Quindi perché non collabori?».
«Io non... non so perché mi abbia cercata».
La punta del teaser sfrigolò di elettricità quando il ragazzo premette il pulsante sul manico.
«Lo giuro», singhiozzò Irene.
Gabriel si inginocchiò di fronte alla gabbia e sospirò, scuotendo mestamente il capo.
«Non ci hai mai rivelato quale fosse l'accordo che avevi con Arsène Lupin. Sai, ho visto lui e Sherlock Holmes trascorrere parecchio tempo insieme, quasi come due amici, ed inizio a chiedermi se Lupin non abbia preferito il detective a te».
«È probabile. Non gli sono mai andata a genio, dopotutto. Per questo ho chiesto il vostro aiuto. Sapevo che avevate delle questioni in sospeso con Arsène e pensavo che, lavorando insieme, avremmo potuto...».
Gabriel sorrise con una punta di malinconia e fece schioccare la lingua contro il palato. «Non avresti mai dovuto contattare mia zia. Lei... è spietata, penso te ne sia accorta».
«Ma tu non lo sei, tu...!». Irene, che con uno slancio si era aggrappata alle sbarre davanti al viso tranquillo di Gabriel e aveva cercato di disarmarlo del teaser, ricevette una potente scarica sul fianco che la lasciò agonizzante sul pavimento della gabbia. Tuttavia era ancora abbastanza lucida per guardare Gabriel negli occhi ed ascoltare le sue parole.
«Spero solo che Sherlock Holmes non si metta in mezzo: non voglio più uccidere persone innocenti».
Sospirando si alzò e andò a riporre il teaser sul bancone. Sulla porta si voltò a guardare Irene Adler un'ultima volta, poi spense la luce ed uscì.

***

Quando John quella sera rientrò a casa, dopo essere passato a prendere Rosie dalla babysitter, la trovò buia e silenziosa.
Era certo che il suo istinto non l'avrebbe deluso, ma si costrinse a fare comunque un tentativo. Sospirando, esclamò: «Arsène, sono tornato!».
Accese la luce in salotto, trovandolo deserto, e lasciò la figlia nel suo box per spogliarsi del giaccone e andare in cucina. Fu lì, sullo stesso tavolo dove l'aveva ricucito, che trovò il biglietto del Ladro Gentiluomo.

Caro John,
ti ringrazio per esserti preso cura di me. Sei un dottore veramente valido.
Se mai volessi cambiare fazione, sappi che hai un posto sicuro nella mia organizzazione. Ci facciamo male più spesso di quello che vorrei, purtroppo.
Ho preso in prestito alcuni dei tuoi abiti, ma non temere: ti verranno recapitati nei prossimi giorni dalla lavanderia.
Davvero, ti sono debitore.

A.L.

P.S. Qui sotto ti lascio i nomi di alcune boutique londinesi: ti basterà fare il nome di Paul Daubreuil per avere uno sconto del 50% su ogni capo.


John scosse la testa con un sorriso tra l'irritato e il divertito sul volto.
Non solo aveva disubbidito agli ordini del dottore, ma aveva avuto la faccia tosta di consigliargli di cambiare guardaroba! E lui che si era perfino abbassato a rubare dall'armadietto dei medicinali delle soluzioni saline e degli antidolorifici!
Dannazione, era diventato un ladro per conto del Ladro Gentiluomo. Ora aveva un motivo in più per non parlarne con Sherlock, anche se...
Andò nella cameretta di Rosie ed aprì il primo cassetto della cassapanca accanto al suo lettino: sotto i vestiti della figlia trovò il sacchetto di plastica in cui aveva conservato un pezzo di garza sporco di sangue, il sangue di Arsène Lupin.
Era certo che avrebbe cercato di eliminare ogni traccia della sua presenza prima di togliere il disturbo, per questo l'aveva nascosto lì.
Si colpì il palmo della mano col sacchettino e decise che non l'avrebbe consegnato subito al detective, ma che l'avrebbe tenuto come assicurazione, nella speranza di non doverlo mai usare.

***

Il campanello al piano di sotto suonò e, ancor prima che la signora Hudson potesse fare le scale per chiamare Geneviève, questa si precipitò giù dalle scale. Esitò di fronte alla porta del salotto, ma vedendo che Sherlock non aveva alcuna intenzione di voltarsi e salutarla evitò di sprecare fiato e scese anche l'ultima rampa di scale per raggiungere Molly, in piedi sul marciapiede. Si era rifiutata di entrare.
Sherlock le osservò salire sul taxi che era rimasto ad aspettarle e non mostrò alcuna emozione nemmeno quando il suo sguardo e quello dell'anatomopatologa si incrociarono per un breve istante, prima che lei rientrasse nella vettura.
Le parole che gli aveva rivolto qualche ora prima gli bruciavano ancora: non tanto perché Molly avesse saputo il motivo per cui la teneva a distanza, ma perché era stato Arsène a dirglielo e a trarne beneficio, diventando quello onesto.
Ma non poteva arrabbiarsi con lui, non ne aveva alcun diritto: Arsène gli aveva promesso che l'avrebbe tenuta al sicuro, ed evidentemente metterla a conoscenza dei fatti secondo lui era la cosa migliore. Forse aveva ragione.
«Sherlock, caro, che sta succedendo?».
O forse no.
Arrabbiato com'era con Arsène, se stesso e il mondo in generale, si voltò e se la prese con la signora Hudson: «Sempre a ficcare il naso in questioni che non la riguardano, vero? Mi lasci solo!».
La donna, anziché abbaiargli contro o andarsene tremendamente offesa, si avvicinò a lui e lo strinse tra le braccia, lasciandolo confuso e sbalordito.
«La vita è una sola, Sherlock. Vivila in modo da non avere rimpianti». Gli diede dei colpetti sulla schiena e lo lasciò andare per guardarlo negli occhi ed accarezzargli una guancia, sorridendo. «Ascolta chi ha più anni di te, per una volta».
«L'età non è sintomo di saggezza. Perché tutti pensano che...?».
La signora Hudson gli diede le spalle e se ne andò ridacchiando.
Sherlock sbuffò e al contempo, senza rendersene conto, sorrise. Scrisse un messaggio a Mycroft, chiedendogli di trovare Irene Adler ad ogni costo, e poi chiamò Lestrade per un aggiornamento.
«Cos'hai scoperto sulla cameriera?».
«È come ha detto quella ragazzina. Georgiana Horia, rumena, si è trasferita a Londra cinque anni fa e ha sempre lavorato come cameriera d'albergo. Ha iniziato a lavorare al Savoy sei mesi fa».
«Vai alla parte interessante, per favore».
«Beh, secondo la governante sabato scorso ha chiamato per avvisare che non stava troppo bene e che non sarebbe venuta al lavoro. È tornata questo venerdì - cinque giorni dopo la sua presunta morte - e alcune delle sue colleghe hanno detto di averla trovata strana, diversa. Più introversa, scostante... Pensavano fosse quel periodo del mese».
«Quando le donne non sanno che altro pensare danno sempre la colpa alle mestruazioni», commentò Sherlock, atono. «Ha mandato un certificato di malattia, per caso?».
«Sì, ma è stato falsificato da cima a fondo».
«Ovviamente».
«Come lo sapevi?».
«È una professionista che non lascia nulla al caso».
«Chi?».
«La donna che l'ha rapita, uccisa e preso il suo posto».
«Come fai a sapere che ad ucciderla è stata la stessa donna che ha preso il suo posto? Magari sono più persone».
«Uhm, se lo dici tu».
«Sai, mi piaceva di più lo Sherlock che adorava intrattenerci con i suoi ragionamenti prolissi».
«Non c'è tempo. Geneviève ha accennato ad una fish».
«Oh, sì. L'ha trovata Molly durante l'autopsia. A proposito, sa che ti ho aiutato con la microcamera piazzata su Anderson e...».
«Non è il momento, Greg».
Lestrade sospirò, abbattuto. «Non abbiamo molto... Ascolta, devo andare. Ti mando tutto per e-mail, okay?».
«Preferirei di persona».
«Giusto. Va bene, a più tardi».
«Ah, Greg! Chi si sta occupando del caso dell'incidente d'auto?».
«Dimmock. Come mai ti interessa quel caso?».
«Te lo farò sapere».

***

«Sai, per caso ho sentito che cosa vi siete detti tu e Sherlock».
Molly sollevò le sopracciglia. «Per caso, eh?».
«Non l'ho mica fatto apposta!».
Geneviève si fermò al fianco dell'anatomopatologa mentre questa cercava nella borsa le chiavi per aprire la porta di casa.
«Penso che tu abbia fatto bene a dirgli quelle cose».
«Lo spero davvero», sospirò Molly. «Che cosa vorresti per cena?».
La ragazzina si strinse nelle spalle, un dito sulle labbra, ma alla fine rispose con un semplice: «Non saprei».
Finalmente Molly trovò le chiavi e le infilò nella toppa, ma venne distratta dal giovane uomo che uscì dall'appartamento accanto: indossava dei jeans neri e tagliuzzati sulle ginocchia e una maglietta dello stesso colore con un grande scorpione bianco stampato sul fianco; i capelli erano neri, legati in un codino alto, e aveva dei sorridenti occhi color cioccolato; portava un cerchietto al naso e sul lato sinistro del viso aveva diverse escoriazioni, alcune coperte dai cerotti.
«Oh, buonasera», le salutò per primo. «Sono Thomas, il nipote della signora Lee, piacere di conoscervi. Mia nonna è partita per una vacanza e io starò qui per un po'».
Geneviève guardò Molly, la quale distolse lo sguardo ed esclamò: «Non sapevo che la signora Lee avesse un nipote. Eppure la conosco da dieci anni».
«Beh, io ho vissuto all'estero per parecchio tempo e non ci sentivamo spesso, perciò...».
Molly scoppiò a ridere, sotto lo sguardo sbigottito della ragazzina, ed incrociando di nuovo gli occhi del ragazzo disse: «Falla finita, Arsène».
Geneviève, a bocca aperta, avanzò di un passo verso di lui. «Papà?».
L'uomo cercò di trattenersi, ma alla fine si liberò con una risata genuina. «Mon Dieu! Hai davvero un occhio incredibile, Molly!».
«Che cosa ci fai qui? E che ne è stato veramente della signora Lee? Giuro che se le hai fatto del male...».
«Ma no, ma no! Non mentivo quando ho detto che è partita per una vacanza. Le ho mostrato la mia villa in Costa Azzurra e le ho chiesto se voleva fare a cambio per qualche settimana. Non è il periodo migliore, ma tant'è... Non mi credi? Giuro sulla mia collezione di Picasso».
Molly scosse il capo e guardò Geneviève saltare al collo del padre, il quale esibì una smorfia di dolore. Nemmeno quella sfuggì alla donna.
«Papà, ho avuto tanta paura! Quella cameriera... E poi Sherlock ha detto che ti stavi leccando le ferite!».
Arsène sorrise e prese la testa della figlia tra le mani per accostare la fronte alla sua.
«Guardami negli occhi», le disse, nonostante le fosse impossibile guardare altrove. «Ci vuole ben altro per fermarmi».
Geneviève ricambiò il sorriso, anche se debolmente. «Però...».
«Scusate, mi sono persa qualcosa?», domandò Molly, ancora ferma davanti alla porta del proprio appartamento.
Il Ladro Gentiluomo sospirò e circondando le spalle della figlia con un braccio la guardò negli occhi, più serio che mai. «Non è una questione di cui si può parlare sul pianerottolo».
Vedendola indecisa, Geneviève si avvicinò di un passo a Molly per pregarla: «Può entrare?».
L'anatomopatologa si portò le mani sui fianchi e sussurrò a sua volta: «Ti ricordi cos'ha detto Sherlock? Lui e tuo padre hanno fatto un patto e se lo facessi entrare...».
«Solo cinque minuti!», la interruppe, intrecciando le dita davanti al volto e sfarfallando le ciglia. «Per favore».
Molly alzò gli occhi su quelli di Arsène e trovando la stessa espressione supplichevole sbuffò, sbattendosi le mani sulle cosce.
«Va bene! Non farò la spia, ma se Sherlock dovesse scoprirlo non mentirò».
Mentre Geneviève saltellava, euforica, il Ladro Gentiluomo le rivolse un sorriso carico di gratitudine e quando fu trascinato all'interno dell'appartamento si piegò al suo orecchio per sussurrarle un «Merci beaucoup».
Ovviamente i "cinque minuti" si trasformarono in una pizza e poi in un film alla TV, di cui Geneviève guardò solo i primi venti minuti.
«Doveva essere proprio stremata per addormentarsi in questo modo», sussurrò Arsène, guardando Molly da sopra la testa della figlia, abbadonata sulla sua spalla.
«È stata una giornata piuttosto intensa», commentò l'anatomopatologa, alzandosi per recuperare una coperta ed aiutare il ladro a spostarsi senza svegliarla. Insieme la stesero sul divano e quasi immediatamente Toby si acciambellò al suo fianco, appisolandosi.
L'uno accanto all'altra guardarono la scena inteneriti fino a quando non si resero conto che sembravano una coppia di genitori. Allora, imbarazzati, si allontanarono e fu Arsène il primo a parlare.
«Credo che per me sia giunto il momento di togliere il disturbo. Ho approfittato fin troppo della tua ospitalità».
Molly, con le braccia strette al petto, lo guardò dirigersi verso la porta. La cosa migliore era tenere le distanze, però...
«Arsène, aspetta».
Il ladro si voltò, sorpreso, e attese in silenzio.
Molly non sapeva davvero da dove cominciare: aveva così tante cose da chiedergli! Si disse che magari sarebbe stato meglio iniziare con qualcosa di semplice, qualcosa con cui poteva avvantaggiarsi.
Raccogliendo il coraggio, la scienziata lo raggiunse a passi decisi e senza dargli il tempo di capire le sue intenzioni gli tirò su la maglietta, scoprendo così i giri di garza sporchi di sangue all'altezza del fianco sinistro.
«Sei davvero perspicace, Molly Hooper», esclamò il ladro, ammirato.
«Nessuno poteva uscire illeso da un incidente come quello, dico bene? Inoltre, quando Geneviève ti ha abbracciato, ho notato che ti sei irrigidito. Ho semplicemente unito i puntini».
«È comunque notevole».
Molly ignorò l'ennesimo complimento, abbassando il capo perché non si accorgesse del suo rossore.
«Avanti, quelle garze devono essere cambiate», lo esortò a seguirla in bagno.
Arsène si sedette sulla tavoletta del water e Molly gli srotolò la benda per osservare i punti che gli erano stati applicati sulla ferita irregolare. Intorno ad essa ce n'erano altre, più piccole, ed era evidente che fossero state causate da pezzi di vetro.
«Devi aver sofferto molto», esclamò per rompere il ghiaccio.
«Sono stato peggio, credimi».
«Chi ti ha ricucito?».
Arsène si limitò a sorridere, con un'espressione che diceva chiaramente: «Secondo te?». Molly gli diede le spalle per recuperare dalla cassetta del pronto soccorso del disinfettante e delle garze pulite.
«John», dedusse. «Ha fatto un bel lavoro. La cicatrice si vedrà appena».
Il ladro annuì, rimirando per la prima volta l'operato del dottor Watson. «Lo penso anche io. Sai, avevo intenzione di venire da te, però temevo che Geneviève si sarebbe spaventata. E poi eri troppo lontana, non ero sicuro di farcela».
Molly tornò a guardarlo in faccia e con espressione divertita chiese: «Quindi il fatto che di solito io abbia a che fare con i cadaveri non c'entra».
«Certo che no».
Risero insieme e la donna ne approfittò per passargli del cotone imbevuto di disinfettante sulla ferita. Arsène gemette ed irrigidì i muscoli, rendendo ancora più evidenti i suoi addominali scolpiti, e Molly dovette usare tutto il proprio autocontrollo per tenere gli occhi fissi sui punti.
«Ascolta, Molly», esordì ad un tratto il Ladro Gentiluomo.
«Uhm?».
«Non credevo mi avresti riconosciuto così in fretta».
L'anatomopatologa alzò gli occhi nei suoi e si chiese dove volesse andare a parare. Non fu così difficile indovinarlo.
«Non vuoi che Sherlock sappia che sarai il mio vicino per le prossime due settimane».
«Non lo sa nessuno e se mantenessi il segreto te ne sarei grato».
«Non si tratta del vostro patto, vero? C'è qualcosa di più».
Arsène aprì la bocca, ma il disinfettante gli provocò un'altra scarica di dolore che gli fece stringere i denti. Quando il bruciore passò, rispose: «C'è la possibilità che le persone che mi hanno attaccato la scorsa notte provino ad avvicinarsi a Geneviève e non voglio perderla di vista».
«Capisco».
«Mi dispiace averti trascinata in tutto questo...».
«Posso farti una domanda?».
Il Ladro Gentiluomo corrugò la fronte e la seguì con lo sguardo mentre si alzava e si passava il rotolo di garza da una mano all'altra. «Certo».
«Tu sai chi sono le persone da cui Sherlock mi sta proteggendo?».
Arsène iniziò a scuotere il capo, con un sorriso dispiaciuto ad increspargli le labbra, ma ancor prima che rispondesse Molly ripeté le parole che lui stesso le aveva rivolto la sera prima: «Gradirei che non mi mentissi».
«Anche se te lo dicessi... cosa cambierebbe?», le domandò il ladro.
«Lo voglio sapere».
«Perché?», insistette lui.
«Tu non vuoi sapere l'identità di chi ti vuole fare del male?».
Arsène si alzò in piedi con un'agilità che Molly non si aspettava e per questo si ritrovò con la schiena premuta contro il bordo del lavandino, il suo corpo a pochi centimetri dal proprio.
«Certo, ma io sono un ladro! So che se qualcuno vuole rintracciarmi è perché ho fatto qualcosa che non dovevo. E, cosa più importante, io ho le capacità e le risorse per contrattaccare. Tu, invece... sei solo una pedina che i cattivi usano per arrivare ai buoni». Le posò le mani sulle spalle e concluse, con voce soffice: «Ce ne occuperemo io e Sherlock, è meglio così».
Molly chinò il capo e Arsène la costrinse a guardarlo negli occhi posando due dita sotto il suo mento. Solo allora si rese conto di quanto fossero vicini: i loro respiri si mescolavano e lei poteva vedere chiaramente i contorni delle lenti a contatto colorate.
«Mi prometti che starai buona?».
Non poté far altro che annuire. Arsène, soddisfatto, si allontanò e si mise in posizione: alzò le braccia e le mostrò il fianco perché potesse fasciarlo meglio.
Molly riprese il proprio lavoro senza più aprire bocca e una volta finito si lavò le mani e sistemò la cassetta del pronto soccorso mentre Arsène si infilava la maglietta. Quindi lo accompagnò alla porta, non prima di averlo guardato chinarsi su Geneviève per lasciarle un delicato bacio tra i capelli.
Sul pianerottolo, Arsène sussurrò: «Mi dispiace se sono sembrato duro, ma...».
«No, hai fatto bene», lo interruppe Molly, stringendosi nelle spalle. Sorridendo amaramente, aggiunse: «Cosa potrebbe mai fare una come me?».
«Non è quello che volevo...».
«Ma è quello che è. Va bene così, Arsène».
L'uomo si guardò intorno, circospetto. «Io sono Thomas, ricordati».
Molly ridacchiò. «Certo, Thomas. È stato un piacere conoscerti».
«Anche per me», rispose facendo il proprio gesto caratteristico: togliersi un cilindro invisibile dalla testa. «Buonanotte, allora».
«Buonanotte», ricambiò la scienziata.
«Ehi, niente rif di chitarra dopo le dieci!», lo minacciò poi, puntandogli il dito contro quando entrambi avevano ormai un piede oltre la porta.
«Ah, l'idea di impersonare un rockettaro mi si sta ritorcendo contro: questo finto piercing al naso è insopportabile!», sussurrò, poi le fece l'occhiolino e si chiuse la porta alle spalle.
Molly fece lo stesso e sospirò, chiedendosi come diavolo fosse finita in quella situazione. Il sorriso però le svanì presto ripensando alle parole di Arsène.
Stare buona? Era tutta la vita che stava buona e non ne poteva più.
Recuperò il pc portatile, lasciato sul tavolino accanto al divano, e seduta su uno sgabello dell'isola della cucina aprì il portale di ricerca.
Non voleva più essere una pedina. Anche lei voleva le capacità per contrattaccare e le avrebbe ottenute, ad ogni costo.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: _Pulse_