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Autore: titania76    24/12/2017    1 recensioni
La vita di Shion Hayes, giovane uomo d'affari di successo, viene rivoluzionata da un messaggio che non può ignorare e al quale non può sottrarsi; viene così attirato a un appuntamento in un luogo fuori mano, in un freddo e lugubre pomeriggio autunnale. Qualcuno dal suo passato, che pensava di aver cancellato per sempre, torna nella sua vita e lo fa nella maniera più inaspettata e indelebile.
Anni dopo, l'infinita catena degli eventi innescata quel lontano giorno, sconvolge la quotidianità di una tranquilla e serena famiglia americana, portandola a cambiamenti radicali e allontanandola dalla propria casa e dalla propria città.
Quello stesso destino che in passato ha tolto, nel presente dona di nuovo.
La giovane Caroline Miller, da sempre sogna di tornare alla sua natia Boston; un incontro casuale e drammatico le dà la spinta decisiva per realizzare il suo desiderio. Ed è proprio a Boston, quando meno se lo aspetta, che incontra Saga.
Il colpo di fulmine è reciproco, ma fin da subito niente è facile per loro.
Ombre provenienti dal passato di entrambi sembrano spingerli in una direzione dove segreti e omissioni rischiano di spezzare per sempre il loro legame. Saranno in grado di resistere e rimanere assieme?
Genere: Romantico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Aries Shion, Capricorn Shura, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Sagittarius Aiolos
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Legacy'
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XXXV


Caroline iniziava a cedere.
Più volte al giorno si doveva ripetere che presto la sua vita sarebbe tornata alla normalità, che si sarebbe buttata alle spalle quel periodo da incubo; ma quando si guardava allo specchio e osservava il suo viso, con quell'occhio un poco cadente a causa del gonfiore, non si vedeva com'era in quel momento, ma ancora tumefatta, con mezza faccia livida, le labbra gonfie e il sangue secco sulla pelle, proprio come si era vista riflessa quella notte al pronto soccorso. Un'immagine che forse non avrebbe mai cancellato dalla sua mente.
Poi, a quel ricordo, sopraggiungeva la nausea; e, ad acuire il tutto, anche il mal di testa, perché da quell'occhio vedeva ancora sfocato e questo le creava problemi.
Fece un respiro profondo e raddrizzò la schiena: non poteva permettersi di lasciarsi andare.
Caroline si sentiva sola.
Non perché quella casa, da dopo quella tragica notte, la condivideva solo con Kitty, non perché l'altra metà del suo letto era da troppo tempo vuota e fredda. Dentro di sé percepiva strisciante un senso di abbandono. E questo era diventato ancora più presente e pesante dopo la visita di Kanon, che aveva fatto nascere in lei la falsa speranza del ritorno di Saga. Forse, se suo marito se ne fosse andato per un tradimento, o perché non l'amava più, le si sarebbe spezzato il cuore di certo, ma l'avrebbe potuto accettare; ma era difficile quella situazione di sospensione in cui viveva, senza una parola da parte sua, una chiamata, un messaggio. Era come se l'avesse dimenticata, che per lui non esistesse nemmeno.
Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
Se li avesse riaperti in quell'istante, si sarebbe ritrovata di nuovo nel bilocale di Dohko, ancora tutto sottosopra per i lavori? Sarebbe poi uscita per gli ultimi acquisti e si sarebbe imbattuta in quel ragazzo dallo sguardo limpido, e al tempo stesso smarrito, di un bambino e il viso d'angelo?
La suoneria del nuovo smartphone interruppe i suoi pensieri e la riportò alla sua ancor più triste realtà. Quasi aveva la tentazione di lasciarlo suonare fin quando chiunque fosse a chiamare non si fosse stancato. Non aveva voglia di affannarsi per andare a rispondere, non ricordava dove lo aveva posato l'ultima volta; e poi, non era neanche il suo, non c'era dentro nulla di suo, era vuoto come vuota era la sua vita, azzerata da quella notte nel vicolo.
Si piegò in avanti, appoggiandosi con le mani e la fronte al bordo del lavabo del bagno, trattenendo a stento le lacrime.
«Tutto andrà bene. Tutto tornerà come prima», mormorò, prima di fare un altro grosso respiro e tornare in camera da letto.
Quel maledetto aggeggio continuava imperterrito a suonare e non voleva lasciarla in pace.
Con gesti svogliati iniziò a spostare i vestiti abbandonati sopra le coperte in disordine in una ricerca senza esito. Poi, quasi per caso, lo trovò semicoperto dal lembo di lenzuolo ripiegato sulla coperta. Vide sul display il nome della madre e, benché non se la sentisse in quel momento di parlare con lei, rispose.
Le doveva molto.
Non solo perché, appena saputo dell'agguato di Deline, era corsa da lei per darle tutto il proprio sostegno, ma anche perché per lei aveva messo in standby la sua vita, rimandando il matrimonio a pochi giorni dal sì e interrompendo il tour promozionale dell'ultimo libro.
Si sedette sul letto e riuscì a sorridere quando Teresa le chiese se per pranzo preferisse la pizza ai peperoni e salsiccia, al prosciutto, oppure capricciosa.
«Perché non la facciamo noi in casa?» propose lei. «Ho voglia di cucinare. Prendi solo gli ingredienti. Scegli tu.»
«D'accordo! Allora vedrò di sbrigarmi», rispose Teresa; nella sua voce c'era speranza e sollievo nel sentire la figlia aver voglia di fare qualcosa.
Caroline si era chiesta in quei giorni cosa facesse la madre quando usciva di casa, ma non intendeva approfondire, per non sembrare invadente e ingrata.
Averla in casa era un aiuto insostituibile e questo lo poteva vedere soprattutto nelle piccole cose di tutti i giorni: il frigorifero era sempre rifornito di cibo fresco e sano, la casa era in ordine, cucinava per lei e le teneva compagnia; ma anche... le lasciava tempo e spazio per commiserarsi, quando ne aveva necessità.
Salì in mansarda, in attesa del ritorno della madre.
Quando percorreva quella bella scala a chiocciola che aveva sostituito la vecchia e scricchiolante in legno, accarezzando il corrimano in acciaio, si diceva che ci andava per riordinare, ma non appena metteva piede in quell'ambiente che Saga aveva preparato per lei, faceva una lunga panoramica e sospirava, perché quel leggero caos che persisteva le riportava alla mente ricordi piacevoli, ma anche gli ultimi momenti del suo matrimonio.
Si accomodò su una poltrona imbottita, di quelle con il sistema di sollevamento per le gambe e che si reclinavano. Forse faceva anche i massaggi, ma lei non se ne era mai curata di testarla. Di solito si metteva lì, incrociava le gambe e rimaneva a pensare.
Kitty arrivò dopo pochi minuti e le saltò subito sopra le gambe. Era come se non volesse più lasciarla sola. Accarezzare il suo pelo morbido, sentire le sue fusa e avvertire attraverso il contatto con le dita le soffuse vibrazioni che produceva era piacevole e rilassante. La calmava e regolarizzava il battito del suo cuore, che altrimenti, se lasciato a se stesso, probabilmente si sarebbe fermato per il dispiacere.
Pet therapy, la chiamano i dottori.
La gattina era la sua medicina, per non lasciarsi andare alla deriva.
Chiuse gli occhi. Era certa che la sua mente si sarebbe riempita di ricordi e rimpianti; invece il suo respiro si fece calmo, quasi impercettibile, e il vuoto prese il sopravvento. Trovava gradevole e confortante l'odore della cera d'api per i mobili che si respirava nella stanza. Le faceva provare uno strano senso di nostalgia.

Un breve rumore, come quello di schiarirsi di gola, le fece riaprire gli occhi e girare la testa verso la porta. Sgranò gli occhi e si irrigidì nell'intravedere un'ombra appena al di là della soglia. Strinse la presa sul bracciolo morbido.
«Chi c'è?» chiese lei, sforzandosi di mantenere un tono deciso.
«Non volevo spaventarti, Caroline Miller.» Shura si fece avanti, fino ad essere completamente alla sua vista.
«Come ha fatto a entrare?» chiese lei, raddrizzandosi.
«Non dovrei vantarmi, ma sono un eccellente scassinatore», rispose lui, con un sorriso sghembo sulle labbra.
Benché la gattina non avesse accennato ad alcuna reazione che premonisse pericolo, le recenti esperienze vissute da Caroline la portavano a mantenere un certo livello di allerta e poco importava che quell'uomo facesse parte della famiglia Hayes, era un estraneo che si era introdotto in casa sua senza permesso. Lo scrutò con attenzione: era combattuta, tra il dargli fiducia e tentare di fuggire; ma l'unica via d'accesso – e di conseguenza di fuga – era ostruita proprio da Shura.
Aprì la bocca per domandargli il motivo per il quale si trovasse in casa sua, ma venne anticipata.
«Shion Hayes aveva il desiderio di incontrarti e parlarti, così l'ho accompagnato», spiegò. Preferì però tralasciare per il momento che anche lui avrebbe avuto qualcosa da dirle, da confessarle, e del quale neanche Shion era a conoscenza. «Mi sono fatto dare l'indirizzo da Aiolos», aggiunse, notando l'espressione turbata sul viso di Caroline. Fece un passo indietro per liberare il passaggio e le diede strada.
Scesero al piano inferiore.
La giovane faceva ogni gradino con molta attenzione, cercando di appoggiare bene il piede e di concentrarsi soprattutto sull'occhio buono, ma non era facile. A metà scala, mise un piede in fallo e barcollò. Shura l'afferrò per un braccio perché non cadesse. Caroline si divincolò, scostandosi da lui e proseguendo più sicura, senza dire una parola.
Quando si affacciò nel salotto, la sua attenzione fu subito attirata dal padre di Saga. Se ne stava in piedi di fronte alla libreria, proprio come Kanon solo pochi giorni prima, e teneva in mano la cornice con la fotografia di Gregory Miller in uniforme. Persino di schiena la figura dell'uomo era molto distinta e metteva soggezione, tanto che il cuore della giovane iniziò a battere nervoso nel petto.
Mentre si avvicinava a passi leggeri, le si formò un breve sorriso d'imbarazzo sulle labbra. Le sembrò che il capofamiglia Hayes fosse circondato da una sorta di aura luminosa, mistica, e si bloccò, trattenendo il respiro. Rimase a fissarlo per almeno un minuto, come estasiata. Poi, si rese conto che quell'effetto era dovuto al riverbero del sole sui mobili chiari e ritornò con i piedi per terra.
«Buongiorno, signor Hayes», lo salutò, facendolo voltare nella sua direzione.
«Buongiorno a te, cara. Ti prego, chiamami Shion», rispose lui, posando con attenzione la cornice sul ripiano della libreria e avvicinandosi a lei. «Devi perdonarmi se mi sono presentato qui senza preavviso», disse in tono formale, ma sul suo viso vi era un sorriso paterno.
La giovane sentì un improvviso pizzicore agli occhi per la gentilezza con la quale le stava parlando e, d'istinto, si passò la mano sul viso. Poi, ricambiò la stretta di mano, ma si sorprese quando Shion la trattenne, posando l'altra mano sul dorso della sua. Non poteva fare a meno di guardarlo e sentire nel suo cuore un senso di nostalgia e di mancanza, per quel padre che aveva perso troppo presto e che le mancava ogni giorno, nonostante la presenza di Phillip Burton nella sua vita. Ma un padre era molto di più di un volenteroso zio acquisito e Shion Hayes sarebbe potuto essere quel padre che le era stato portato via tanti anni prima, se le cose fossero andate in modo diverso.
«Vieni, sediamoci un momento», disse l'uomo, facendo gli onori di casa.
Si accomodarono sul divano, mentre Shura preferì sedersi sul bracciolo della poltrona, osservandola con uno sguardo cupo, tormentandosi l'unghia del pollice sinistro.
«Ti starai domandando perché siamo qui. Innanzitutto devo chiederti scusa da parte di tutta la famiglia: in questo momento così difficile non ti siamo stati vicini come avremmo dovuto. E anche, di nuovo ti chiedo scusa per il comportamento di Saga, per questo suo silenzio così prolungato.»
«Non deve scusarsi, sono io che le devo delle scuse. L'ho trascinato con me nel pericolo ed è quasi morto. Lui voleva che smettessi di indagare, mi ha pregato di lasciar perdere di cercare la verità sulla morte di mio padre. Mi aveva avvertito che era pericoloso, ma io non gli ho dato retta. Sono stata testarda, sorda, volevo andare avanti... e Saga si è sentito obbligato ad accompagnarmi», confessò lei, con voce alterata dalla disperazione e gli occhi lucidi di lacrime. Faticava a trattenersi: quando ripensava a quei terribili momenti l'unica cosa che voleva fare era piangere. «Non lo biasimo se ora non vuole parlarmi, né vedermi. Gli ho fatto del male e non se lo merita», concluse, asciugandosi il viso con le dita.
«Hai certamente commesso un errore, mia cara, ma nessuno può obbligare Saga a fare qualcosa contro la sua volontà. Se quella notte era con te è perché voleva essere al tuo fianco», la consolò Shion, battendole il dorso della mano con delicati colpetti.
Nello sguardo e nella voce dell'uomo non c'era ombra di rimprovero. Eppure, dal punto di vista di Caroline sarebbe dovuto essere in collera con lei, perché aveva messo in pericolo la vita di Saga. Sentiva però che quella comprensione non sarebbe durata ancora a lungo; era in attesa del fatidico “ma”.
«In un certo senso, è proprio per questo che volevo parlarti... delle conseguenze che quella notte ha portato», continuò l'uomo.
Vide la giovane irrigidirsi, ma anche lui aveva perso quella moderata tranquillità con la quale si era presentato. Prese qualcosa dalla tasca della giacca, ma la tenne ancora nascosta nella mano. Si concesse qualche secondo per riordinare le idee; se fosse giusto che fosse lui a restituirle l'anello, oppure se doveva essere Saga a porre fine a quel matrimonio.
«Devi sapere che da quando è tornato dal pronto soccorso non è più la stessa persona. I medici hanno detto che a causa del trauma cranico lui è...»
Fece una pausa, per cercare le parole più adeguate. Aveva delle remore nel rivelarle il reale stato di salute del figlio, ma Caroline aveva il diritto di sapere, per potersi chiarire con Saga al più presto e forse aiutarlo a ritrovare se stesso. Si girò per un momento verso Shura, come a cercare un incoraggiamento per proseguire, ma quando incrociò il suo sguardo cupo corrugò la fronte. Il suo braccio destro sembrava avere un peso sulla coscienza e non desiderava altro che potersene liberare.
Tornò a guardare Caroline, che attendeva con penosa apprensione. «Saga è cambiato; nello sguardo, nel modo di rispondere, nei suoi atteggiamenti. Questo mi preoccupa, perché del vecchio Saga che entrambi conosciamo non sono rimasti che sprazzi.»
Caroline strinse i pugni e abbassò la testa, per nascondere gli occhi gonfi di lacrime. «Allora è per questo che non si è fatto sentire? È colpa mia. Tutta colpa mia», sussurrò, portandosi le mani al viso.
«Non ti sto dicendo questo per farti sentire in colpa, ma perché tu sia preparata per quando lo incontrerai.»
«Ma come posso fare se neanche risponde ai miei messaggi», si sfogò Caroline, lasciandosi cingere dalle braccia dell'uomo.
«Shion, dobbiamo andare», disse Shura, che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Aveva valutato la situazione e non gli sembrava più il caso di ripulirsi la coscienza e confessare cosa aveva fatto più di tredici anni prima, non quel giorno almeno.
L'uomo annuì e, a malincuore, rimettendosi in tasca la fede nuziale, si alzò dal divano. Dalla tasca interna della giacca prese un biglietto da visita e glielo porse. «Anche con noi parla poco, Caroline, ma credo che questa sera lo potrai trovare a quell'indirizzo.»
La giovane lo strinse fra le mani, fissandolo a lungo con sgomento. «Lo studio legale Prescott-Cochrane», mormorò.
Era il più importante studio legale di Boston, che primeggiava in ogni branca della giurisprudenza e che, da quando i Taylor erano stati nominati soci titolari, era diventato anche il più spietato. Se Saga si era rivolto a loro, cosa doveva aspettarsi lei che non aveva quel tipo di risorse?
«Siamo già arrivati a questo punto», si lasciò sfuggire dalle labbra tremanti. Se fino a un attimo prima le sembrava difficile poter risolvere la situazione, ora si era trasformata in un'impresa impossibile.

«Caroline, tesoro, sono tornata!» disse Teresa, aprendo la porta di casa con le mani piene di sacchetti del supermercato e di un paio di una boutique del centro.
Era così entusiasta di cucinare con la figlia, di fare qualcosa con lei, che non si accorse degli ospiti fin quando non alzò lo sguardo e li scorse nel salotto, vicino al divano. Si bloccò sul posto. L'atmosfera in casa era tesa. Osservò i due uomini che nel frattempo si erano voltati verso di lei, le diedero l'impressione che sovrastassero Caroline, seduta sul divano. D'istinto avanzò bellicosa verso di loro, ma venne preceduta da Shion Hayes che, con un sorriso affascinante, le tese la mano.
«Mrs Miller, finalmente la conosco, anche se in un'occasione poco felice. Sono Shion Hayes, il padre di Saga», la salutò, stringendole la mano con delicata fermezza. «Le presento Fernando Morales, il mio più stretto collaboratore.»
Teresa scambiò uno sguardo con il più giovane dei due e indietreggiò di un passo. Quegli occhi scuri e torvi le fecero una brutta impressione. «Cosa volete da mia figlia?»
«Solo esprimerle la nostra vicinanza», rispose Shion. «Ma forse non era opportuno il modo in cui ci siamo presentati, avremmo dovuto chiamare prima. Ci perdoni per il disturbo.» Fece un cenno di saluto ed entrambi uscirono dall'appartamento.
«Tesoro, va tutto bene?» chiese la donna alla figlia, appoggiando i sacchetti sulla poltrona e sedendosi accanto a lei.
Caroline annuì.
«Cosa volevano quei due?»
«Parlarmi di Saga e sapere come stavo.» Nascose il biglietto da visita e fece un respiro profondo. «Non ti preoccupare, mamma, non volevano nulla.»
Teresa la strinse in un abbraccio e la lasciò andare solo una volta convintasi che la figlia stesse veramente bene. E poi, dovevano cucinare assieme; di certo sarebbe stata un'efficace distrazione ai suoi crucci. La incoraggiò a seguirla in cucina.
«Sai, tua nonna mi ha svelato il segreto del suo favoloso impasto per una pizza croccante. Ce la preparava ogni domenica e tuo fratello non mancava mai di fare il bis», le raccontò, versando la farina sul piano dell'isola, formando poi una fontanella nella quale versò il lievito disciolto in un poco d'acqua, iniziando a impastare.
Intimamente tirò un sospiro di sollievo nel sentirla ridere e commentare che se Mickey avesse continuato così sarebbe diventato un barilotto. Ma quella sensazione di serenità e spensieratezza che aveva contagiato anche lei, durò giusto il tempo di quella preparazione.
Essere lì in quei giorni per Teresa era vitale come respirare, ora che la sua Caroline aveva più bisogno di lei. Nel corso degli anni si era domandata spesso se avesse fatto abbastanza per sua figlia, se fosse stata una buona madre per lei.
Guardò di sottecchi sua figlia: gli anni della sua ribellione adolescenziale erano ormai lontani e sbiaditi come un ricordo quasi dimenticato, la testardaggine che l'aveva contraddistinta dopo le superiori l'avevano resa indipendente e capace di affrontare le difficoltà della vita, ma non aveva cancellato del tutto il bisogno naturale di appoggiarsi a sua madre nei momenti critici.
«Per favore, tesoro, puoi tagliare la mozzarella a scriscioline?»
Si perse ancora qualche secondo a osservarla, mentre Caroline avvicinava a sé il piattino con la mozzarella e il coltello, per assecondare la sua richiesta. Dio le aveva donato quella figlia stupenda che nel tempo era diventata una donna altrettanto stupenda, forte e determinata nelle sue scelte, ma nonostante la sua giovane età aveva già sofferto molto, troppo.
Finalmente era stata messa la parola fine al capitolo Deline, ma Caroline ne era uscita a pezzi e con il cuore spezzato, anche se cercava di nasconderglielo.
Come poteva ora sopportare di vederla soffrire ancora, non solo nel fisico ma anche nell'anima?
Non conosceva più nessuno a Boston che potesse darle una mano. Non si era fatta amicizie durature, né aveva coltivato i rapporti con i vecchi colleghi di Gregory, ad eccezione di Phillip che col tempo era diventato il suo nuovo compagno. Non sapeva a chi rivolgersi per aiutare Caroline. Però... una cosa la poteva tentare. Una volta Gregory le aveva detto che se mai avessero avuto un problema, avrebbero potuto chiedere aiuto al professor Taylor.
Guardò la sua Caroline, che fingeva serenità per lei, e maturò la decisione di fare qualcosa di più concreto per sua figlia. Si sciacquò le mani, prese la borsa e le chiavi dell'auto che aveva noleggiato per quei giorni e uscì dalla cucina.
«Mamma, dove stai andando?» disse con tono preoccupato Caroline. Si alzò per seguirla, ma inciampò nello sgabello accanto.
«Non ti preoccupare, tesoro, torno presto», rispose Teresa, chiudendosi la porta di casa alle spalle.

*****

«Hai delle mani meravigliose. Se fossi una donna, Ted, ti sposerei.»
«Se fossi una donna, mr Hayes, non apprezzerebbe in questo modo il mio massaggio.»
«Hai ragione... una donna non saprebbe mandarmi in estasi come te.»
Era strano sentir uscire dalla bocca di Kanon Hayes parole di apprezzamento verso un altro uomo, soprattutto se lo stava toccando e lui era praticamente nudo; ma in quel momento, sdraiato a pancia in giù sul lettino per massaggi, si sentiva in paradiso e con un principio di erezione.
Quelle mani erano davvero magiche ed erano un toccasana per le sue spalle e la schiena irrigidite da troppe ore dietro la scrivania.
Aiolos grugnì qualcosa di indecifrabile, nauseato dalla situazione. Era seduto poco più un là, tenuto in ostaggio dalla manicure che lottava invano con le sue cuticole, ma solo perché lui non riusciva a stare fermo.
Kanon gemette più forte quando le mani robuste di Ted spinsero sulla zona lombare, facendogli provare scariche di piacere.
«È quasi meglio del sesso.»
Nuove lagne e mezze imprecazioni da parte di Aiolos si fecero sentire in sottofondo a quell'esternazione.
«Di' la verità, vorresti esserci tu al mio posto, vero?» lo schernì Kanon.
Congedò Ted e si mise seduto, risistemandosi l'asciugamano striminzito che gli copriva le parti intime. Poi, saltò giù dal lettino e si stiracchiò; si sentiva decisamente meglio e anche il suo umore era tornato quello di sempre. Era certo che nulla avrebbe rovinato quella giornata.
Almeno fino all'arrivo del direttore del Country Club che fece irruzione nella stanza con un'espressione disperata sul volto, mettendosi a piagnucolare che qualcuno si era barricato nella zona della piscina bloccando le porte d'accesso, o qualcosa del genere, e la squadra locale di nuoto non poteva allenarsi.
«Non è compito suo risolvere questi inconvenienti?» disse Kanon, sbuffando perché il momento idilliaco che stava vivendo era sfumato in un attimo.
«In altre circostanze non mi farei problemi a chiamare la sicurezza e far cacciare il responsabile, ma si tratta di suo fratello, mr Hayes; sono quasi quattro ore che occupa la piscina e non lascia entrare nessuno», spiegò, tamponandosi la fronte con un fazzoletto ormai sgualcito.
«Quattro ore? Siete sicuro che non si sia sentito male?» chiese Kanon, indossando l'accappatoio. Stranamente non sembrava preoccupato.
«Ma... ma... santo cielo, sarebbe molto sconveniente per il buon nome del Club», mormorò il direttore, impallidendo a quell'eventualità.
«Ah, non ne dubito, considerato che è uno degli azionisti di maggioranza di questa baracca», replicò il giovane, con una risatina.
Si strinse la cintura alla vita e, ciabattine ai piedi, sparì nella stanzetta attigua che fungeva da spogliatoio.
«Mr Hayes, cosa devo fare?» implorò il direttore.
«Lasci perdere», si intromise Aiolos, studiando le sue mani da “signorina” con una smorfia di disgusto. Le unghie erano così lucide e ben limate che sembravano avere su lo smalto. Si stava già pentendo di essersi lasciato convincere a farsi fare quel trattamento. Nascose le mani nelle tasche dei pantaloni, riflettendo su come potesse ridar loro un aspetto virile, mentre attendeva i comodi di Kanon.
Il rampollo Hayes si rifece vivo dopo una ventina di minuti, vestito di tutto punto, pronto ed entusiasta di tornare in ufficio e affrontare la riunione riepilogativa del secondo semestre delle aziende secondarie.
Alzò gli occhi al cielo e trattenne a stento uno sbuffo nel trovare ancora lì il direttore del Country Club, con un'espressione supplicante – e sudando disperato –, in attesa che facesse qualcosa.
Cosa pensava potesse fare lui?
Al massimo poteva parlare con Saga, ma non garantiva alcun risultato; il fratello era diventato un tale testone che a volte stentava a riconoscerlo. Scambiò uno sguardo con Aiolos, ma non trovò alcun sostegno da parte sua.
«Ma che diamine!» imprecò fra i denti, uscendo dalla spa a grandi falcate per dirigersi alla piscina.

Nel Country Club c'erano tre piscine, ma solo due erano esclusive dei soci; la terza invece, che era stata costruita con i criteri per essere usata in competizioni agonistiche ufficiali, spesso veniva lasciata in uso alle squadre dei college per gli allenamenti e veniva usata per il meeting di nuoto delle scuole superiori.
Il direttore non gli aveva detto in quale delle piscine si era rintanato Saga, ma a giudicare dalla piccola folla di curiosi che stazionava davanti alle porte sbarrate che davano accesso a quella olimpionica, non poteva essere che lì.
Seguito da Aiolos, mosso più che altro dalla curiosità, si fece largo fra gli studenti con i borsoni e, dopo aver provato ad aprire le porte, con scarso risultato, bussò al vetro. Da dentro, un inserviente si avvicinò e gli fece cenno che non era autorizzato a lasciar passare nessuno, ma l'occhiataccia che Kanon gli scoccò fu tale da valere come lasciapassare.
L'aria era calda e afosa. D'istinto si allentò la cravatta e sbottonò il colletto della camicia; già si sentiva soffocare. Nell'avvicinarsi alla vasca poteva sentire i suoi passi e quelli dell'amico che gli rimbombavano nelle orecchie. Si guardò attorno: dalle ampie finestre prorompeva un sole quasi estivo in larghi fasci di luci, eppure la piscina, vuota com'era, sembrava spettrale.
Arrivò fino al bordo della vasca e vide il gemello che galleggiava a corpo morto nell'acqua. La luce del sole creava un fastidioso effetto scintillante sulla superficie, increspata da lievi onde, e gli dava noia agli occhi. Saga stava fissando il soffitto, o forse il cielo incredibilmente azzurro che si vedeva dalle vetrate. Si chiese cosa gli fosse passato per la mente per volersi sfiancare con il nuoto se poi doveva ridursi in quel modo.
«Bel trambusto stai provocando, il direttore è sull'orlo di una crisi di nervi.»
Attese la risposta da parte dell'altro, ma sembrava che neanche l'avesse sentito. Allora si sporse un poco, appoggiando il piede su uno dei blocchi di partenza. Sul braccio teneva la giacca ben piegata e le maniche della camicia erano arrotolate fino ai gomiti, per la troppa umidità nell'aria. Aveva pensato di fare altrettanto con i pantaloni per non bagnarli, ma a tutto c'era un limite.
Saga ancora non si muoveva. Poi, all'improvviso, Kanon lo vide immergersi fino a toccare il fondo nella parte meno bassa e, dopo una spinta con i piedi, nuotare in apnea per oltre metà vasca. Rimase a guardarlo per qualche minuto completare la vasca e tornare indietro, seminascosto dalla spuma creata dalle bracciate e dalle poderose gambate; si dovette scostare, quasi scappare da lì, per non finire bagnato quando il fratello fece la virata. Era evidente che avesse fatto apposta a schizzare.
Saga fece avanti e indietro altre due volte a ritmo forzato, prima di toccare il bordo con la mano e fermarsi, ansimante.
«Ora sei soddisfatto?» chiese Kanon, con un mezzo ghigno.
Saga si tolse gli occhialini e la cuffia e si immerse completamente, riemergendo un attimo dopo, scrollando la testa. Ricambiò lo sguardo, ma non rispose subito. Nei suoi occhi però c'era una strana luce.
«Questa volta di cosa si lamenta quel pagliaccio?»
Kanon aggrottò la fronte, sorpreso per il tono e le parole del fratello. Non si era mai espresso in quella maniera; e più passavano i giorni, più lui si comportava in modo strano, come se fosse un'altra persona. Scambiò un'occhiata con Aiolos e tornò a guardare il gemello.
«Si può sapere cosa ti prende?»
Saga, in risposta, si riempì la bocca di acqua e la buttò fuori a fontanella contro il gemello, ma il getto risultò troppo corto, arrivando a mala pena a schizzare sul rivestimento antiscivolo.
«Il colpo che hai preso in testa ti ha fatto davvero male. Sei più taciturno del solito, enigmatico, scostante e maleducato.»
Kanon lo fissò negli occhi per diversi secondi, per capire cosa gli stesse passando per la testa. Aveva la netta impressione di dover stare attento alle prossime parole che avrebbe pronunciato. Ci rifletté per un momento, poi buttò fuori quello che gli premeva dire.
«Non parli mai di cosa ti è successo, né di Caroline. Dicevi di amarla, te la sei sposata in segreto, te ne sei andato da casa per stare con lei... ed ora non ti preoccupi di come stia. Non hai mai chiesto di lei.»
Saga indurì lo sguardo e si allontanò di qualche metro, nuotando all'indietro, dandogli poi le spalle. Sembrava voler riprendere a nuotare.
Il cuore di Kanon prese a battere più veloce. «Capisco che tu stia passando un momento difficile, Saga, ma dovresti prenderti cura di quella ragazza. Ti ama ed è disperata, perché non ha tue notizie», disse, alzando progressivamente la voce.
Aiolos era seduto sulle gradinate, occupato più a rovinare con i denti il duro lavoro della manicure che a seguire le scaramucce che stavano mettendo in scena i due Hayes; ma quando l'argomento della conversazione si spostò su Caroline, si irrigidì. A preoccuparlo era stato soprattutto lo strano tono che aveva usato Kanon nel parlare della giovane, come se ciò che era successo a casa di lei, non fosse stato un episodio isolato, ma il preludio a qualcosa di più complicato e pericoloso.
Imprecò, stizzito. Non ci teneva affatto a finire in mezzo a una più che probabile disputa tra fratelli; ne aveva già troppe di sue con Alan, che si era messo in testa di pagarsi da sé gli studi invece di continuare ad accettare il suo aiuto.
Sentiva Kanon continuare a parlare e, nei suoi tentativi di convincere Saga, a peggiorare la situazione, almeno a parer suo.
Kanon non poteva credere all'indifferenza di Saga. «Senti, fratellino, Caroline è una brava ragazza. Quando Aiolos e io siamo andati a trovarla e lei mi ha scambiato per te...»
Era indeciso se rivelargli che quando lei l'aveva abbracciato aveva provato il desiderio di consolarla, di baciarla, di tenerla fra le sue braccia senza lasciarla più andare; ma forse l'aveva già tradito la sua stessa voce.
«Se non inizi a comportarti bene con lei, se non te ne prendi cura, allora ci penserò io! Evidentemente non te la meriti!»
A quelle parole, Aiolos sgranò gli occhi e quasi gli scivolò di mano lo smartphone che aveva appena preso per avvisare in ufficio del nuovo ritardo. Non poteva crederci: l'aveva detto veramente?
Saga si girò di scatto verso il fratello e lo fulminò con lo sguardo. Al solo sentir nominare il nome di Caroline da parte di un altro uomo, i tratti del suo viso si indurirono, come se trattenesse a stento la rabbia. Si immerse di nuovo e nuotò sott'acqua fino a riemergere aggrappandosi al bordo della vasca, ma nei suoi occhi c'era ancora una luce pericolosa.
Kanon avvertì la pelle accapponarsi a quello sguardo. Per la prima volta nella sua vita, il suo gemello lo stava spaventando. Fu solo un attimo. Poi, vide il viso e gli occhi di Saga tornare quelli di sempre, quelli che lui ricordava, e si sentì rinfrancato.
Gli offrì la mano per aiutarlo a uscire dall'acqua. Non si sorprese quando il fratello l'afferrò, ma quando fu il momento di assecondare la spinta, Kanon avvertì una resistanza e un attimo dopo si ritrovò a mollo nella piscina.
Cercò con lo sguardo Saga, che se ne stava dritto in piedi, fuori dall'acqua, sgocciolante.
«Vattene, Kanon, per il tuo bene. Fai i bagagli e tornatene a New York», sibilò fra i denti Saga. Prese l'accappatoio e se ne andò negli spogliatoi.
«Chi diavolo sei diventato?» gridò Kanon, sconvolto e alterato, battendo la mano sull'acqua.
Una volta che l'eco delle urla di Kanon finì, risuonò la risata di Aiolos. Il ragazzo, si sporse verso l'amico e, puntando lo smartphone scattò una foto.

*****

Il giorno del suo colloquio, Edward Price le aveva detto che tra i suoi compiti sarebbe potuta rientrare anche la consegna di documenti ai clienti e che fra essi figurava anche il prestigioso studio legale Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor. L'occasione non c'era ancora stata, eppure lei in quel momento si trovava proprio di fronte al palazzo dove risiedevano i loro uffici; ed era lì per motivi personali.
Alzò lo sguardo verso l'alto, provando a immaginare come potevano essere quei locali e come sarebbe stata da lassù, dal 35° piano, la vista della città. Non aveva avuto molte occasioni in vita sua di osservare dall'alto la sua città, troppo piccola quando se n'era andata e travolta dagli eventi quando poi era tornata.
Il cuore le batteva forte nel petto. Fece un respiro profondo, dicendosi che era normale sentirsi nervosi al pensiero di entrare in quegli uffici e avere a che fare con persone tanto potenti; la verità invece era che quell'emozione così pesante, che le faceva tremare le gambe a ogni passo e le spezzava il respiro nei polmoni, era dovuto al momento in cui lo avrebbe incontrato. Aveva poca importanza il motivo per il quale Saga si sarebbe trovato lì, ciò che importava era che lo avrebbe finalmente rivisto; avrebbe avuto la possibilità di scusarsi di persona, di chiedergli perdono, di accertarsi di come stesse e, forse, convincerlo a darle un'ultima chance, anche se probabilmente non se la meritava.
Si soffermò ancora per una manciata di secondi di fronte alle porte automatiche: non era sicura di avere abbastanza coraggio per affrontare quell'incontro. Si fece superare da un giovane uomo che portava due grosse borse da ufficio, seguito da due ragazze che arrancavano anch'esse cariche di documenti. Li osservò con una certa compassione: sarebbe potuto capitare a lei di sfacchinare in quel modo. Poi, entrò nell'edificio.
I suoi passi si fecero fin da subito più incerti e timorosi. Si sentiva soverchiata dalla sfarzosa eleganza della hall, piena di marmi preziosi ed elementi decorativi in ottone lucido che risplendevano come oro.
Dietro al bancone della sicurezza c'erano quattro uomini, due in divisa e due in giacca e cravatta che sembravano usciti dalle pagine dei fumetti di Man in Black. I tre giovani che l'avevano precenduta erano inchiodati lì, mentre la sicurezza controllava le loro generalità e confermava il loro appuntamento. Sembravano fin troppo scrupolosi.
Si avvicinò con una certa cautela, frugando intanto nella borsa per recuperare il suo documento e sperando di non rimanere bloccata per troppo tempo: era certa che al minimo intoppo avrebbe perso tutto il coraggio che aveva e se ne sarebbe andata.
Il controllo procedette con straordinaria facilità e lei si ritrovò, neanche sapeva come, accompagnata dall'ascensorista fino al 35° piano, occupato esclusivamente dai lussuosi uffici dei soci titolari.
L'emozione si faceva via via più evidente. Iniziò a toccarsi i capelli, risistemandosi la punta di un ricciolo che le ricadeva sulla spalla; poi si sfiorò l'occhio ammaccato, sperando non si notasse troppo. Erano però i lividi che persistevano sul viso a preoccuparla di più. Si chiedeva in continuazione se il correttore li mascherava abbastanza da non farli notare; se il trucco che era costretta a mettersi sulla faccia fosse abbastanza discreto da non farla sembrare un mascherone, lei che non era abituata a impiastricciarsi tutta quando usciva di casa; anche solo un po' di rossetto la faceva sentire strana.
Osservò di sottecchi l'ascensorista: aveva l'impressione che la stesse fissando con un po' troppa insistenza, come se avesse qualcosa di strano sul viso, o come se la stesse giudicando. Forse riusciva a vedere quei segni che lei voleva cancellare e questo la metteva ancora più a disagio.
Abbassò lo sguardo, per non offrisi a quella che le sembrava una vera e propria inquisizione visiva. Pregava di arrivare presto al piano, ma più pocedevano, più le sembrava che l'ascensore rallentasse.
Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, provando a svuotare la mente e allontanare le preoccupazioni, sciocche o lecite che fossero, che l'assillavano in quel momento. Neanche si accorse che si erano fermati, le porte dell'ascensore si erano spalancate e l'uomo stava richiamando la sua attenzione perché erano ormai arrivati.

Il 35° piano si apriva davanti a lei elegante e di lusso quanto la hall al piano terra, se non di più; ma a differenza di quest'ultima, vi erano delle piante qua e là a smorzare la monotonia dei marmi. Pensò che tanto verde non fosse proprio normale, per un ambiente di lavoro tanto esclusivo; o perlomeno quella era l'idea che si era sempre fatta, in anni e anni di serie tv, perché di persona non ci era mai stata in uno studio legale tanto prestigioso.
Uscì dall'ascensore e si avvicinò di qualche passo al bancone del centralino, dove due donne, belle come top model, faticavano a stare dietro a tutte le chiamate in entrata; eppure, non perdevano un colpo e riuscivano a mantenere un'aria professionale e un aspetto perfetto.
Alle loro spalle, a precludere la vista degli uffici ai clienti e ai visitatori, c'era una grande parete sulla quale campeggiava la scritta, a grandi lettere d'oro, “Prescott-Cochrane-Taylor&Taylor”. Le bastò leggere quei nomi perché il suo cuore battesse impazzito e si sentisse in soggezione.
Con voce incerta fermò una giovane che stava passando lì vicino, quasi correndo, con le mani occupate da una voluminosa cartella e gli occhiali che le erano scivolati sulla punta del naso, e le chiese dove fosse la toilette. Aveva il viso in fiamme, provava un senso di ineguatezza a stare lì, anche nei confronti di quella stessa ragazza che sembrava poco più di una praticante al primo anno: sentiva l'impellente necessità di nascondersi.
Passò cinque minuti buoni a tormentarsi le mani, camminando avanti e indietro, davanti ai lavandini del bagno, e poi a guardarsi allo specchio, toccandosi il viso con panico crescente non appena intravedeva un'ombra attorno all'occhio o vicino alla bocca. Al collo, invece, i segni del tentato strangolamento non si vedevano più.
Si chiese se avesse fatto bene a indossare in quell'occasione la catenina con il diamante che le aveva regalato Saga, o se lui si sarebbe potuto infastidire nel vederla. Si sciacquò le mani e prese un gran respiro, pronta a uscire da lì.
Aprì la porta con un poco di coraggio in più nel cuore; ma, mentre si avvicinava di nuovo al bancone delle centraliniste, addette anche alla ricezione dei clienti, si accorse di un certo trambusto che proveniva dal corridoio alla sua sinistra. Si girò e vide un vecchio su una sedia a rotelle che inveiva contro il distributore dell'acqua. Si guardò attorno e si sorprese molto nel vedere che nessuno diceva o faceva qualcosa a riguardo, come se fosse una cosa normale da quelle parti.
«Signore, si sente bene, ha bisogno di aiuto?» chiese Caroline, avvicinandosi con una certa circospezione per non spaventare il vecchio. Lui però pareva non averla neanche sentita e continuava a sbattere con la sedia a rotelle contro la colonnina del distributore nel vano tentativo di afferrare il bicchierino di carta.
«Signore?» insistette, avvicinandosi di qualche altro passo.
Vedendo che di nuovo se la stava prendendo con il distributore, gli passò dietro e poi gli si affiancò.
L'uomo strizzava gli occhi tanto che sembravano completamente chiusi, la sua mano – ossuta e raggrinzita – si protendeva a fatica verso i bicchierini, senza però riuscire neppure a sfiorarli.
Caroline lo osservò per qualche secondo, non aveva mai visto un uomo così vecchio. Gli faceva una gran pena nella sua caparbietà di voler fare da sé. Prese un bicchierino di carta al suo posto, lo riempì d'acqua e glielo porse con un sorriso imbarazzato.
Il vecchio si fermò nel suo dimenarsi e la squadrò con uno sguardo arcigno sotto le sue folte sopracciglia bianche. Aveva la barba lunga di due giorni e la sua capigliatura bianco-giallastra era trasandata. Non le rivolse una parola e, nel prendere il bicchierino, fece un movimento nervoso, rovesciandosi addosso alcune gocce d'acqua. Poi, borbottando, avvicinò l'altra mano alla bocca – dove teneva alcune pastiglie di varie forme e colore – e ingurgitò tutto in un solo sorso.
Tossì più volte, di una tosse convulsa e soffocante, che gli squassava il petto fragile sotto alla giacca e al gilet in gessato di lana pesante, come gli accadeva ogni volta che prendeva le sue medicine. Rimase senza fiato e quasi si accasciò sulla sedia a rotelle. Il suo respiro era diventato poco più che un rantolo.
Caroline gli offrì un altro po' d'acqua e questa volta il vecchio lo prese con maggiore gratitudine.
«Si sente un po' meglio?» chiese Caroline.
Il vecchio borbottò ancora qualcosa, poi le fece cenno di aiutarlo a girare la sedia a rotelle e di spingerlo fino alla saletta d'attesa. Era un atteggiamento che fece sorridere la giovane e che in qualche modo la rassicurava.
Percorsero il corridoio fino a tornare davanti agli ascensori e da lì passarono di fianco al bancone con le due centraliniste che finalmente avevano un secondo per rifiatare: una stava sorseggiando un caffé da una mug con la scritta D&G in oro sullo sfondo nero, l'altra si ritoccava il rossetto.
Non appena le due si accorsero di Caroline, la guardarono incredule: a nessuno il vecchio Taylor consentiva di spingere la sedia a rotella, a parte sua figlia Anne, soprattutto poi rimanendosene così calmo.
«Sei una delle nuove praticanti?» chiese James Taylor, biascicando un poco le parole.
«No, signore», rispose con pacatezza Caroline, «sono qui per incontrare una persona.»
«Uno degli avvocati, per una causa?»
«No, signore», disse lei, questa volta con un tono di tristezza nella voce. Abbassò lo sguardo, sperando che l'altro non indagasse ancora, altrimenti non avrebbe saputo cosa rispondere senza sembrare patetica.
«Ecco, fermiamoci qui», disse l'uomo, senza dare altre spiegazioni, girando da sé la sedia a rotelle, mentre Caroline prendeva posto sul divanetto.
Da quella posizione, benché un poco nascosti alla vista di chi entrava, dalle enormi piante di ficus, entrambi potevano vedere bene l'interno dell'ufficio di Anne Taylor grazie alla parete di vetro. Dentro, sembrava ci fosse una specie di riunione di famiglia: oltre alla donna, seduta dietro alla sua scrivania, c'erano anche il gemello Richard e il primogenito James junior.
«Quelli sono i miei figli», disse il vecchio, indicandoli con il dito ossuto. Nella sua voce non vi era l'orgoglio di un padre per il successo dei propri figli, ma quasi disprezzo e vergogna. «Spero tu non ci debba avere a che fare», sospirò.
Poi, un nuovo attacco di tosse gli tolse il respiro e lo lasciò spossato, ma mentre si  asciugava la bocca con il fazzoletto, con l'altra mano blocco per il braccio Caroline, che aveva accennato ad alzarsi per prendergli dell'altra acqua.



   
 
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