Attraversammo il nastro
giallo con facilità inquietante e bussammo stupidamente, pur sapendo che la
casa fosse deserta. Forse per abitudine o per semplici buone maniere, ma una
volta che Shuya bussò, anche io lo seguii nel futile gesto.
Ovviamente nesusno rispose,
dunque passammo alla maniglia. La porta era aperta.
Davanti a noi l’interno si
rivelava inquietante: di una lacerante oscurità. Tastai il muro alla ricerca di
un interruttore e finalmente, trovatolo, un fioco lampadario posto al centro
dello spazioso ingresso illuminò in modo assai smorto quell’ambiente. Forse per
i lunghi anni passati da quando quella casa era abitata. Ragnatele e polvere
regnavano sovrani.
Ripensai a Yumi e alla sua
allergia alla polvere. Sarebbe morta in un ambiente come quello.
Cominciammo a camminare
verso l’ignoto, mentre sotto i nostri piedi toccavano quel parquet una volta
ordinato, ma ora un totale disastro. Il vecchiume scricchiolava sotto i nostri
passi, mentre Shuya chiuse la porta dietro di lui.
“E’ un luogo tetro” sussurrò
Shuya
“Perché sussurri? Mica siamo in chiesa”
“Sarà questo luogo che mi fa sussurrare, allora”
“Ascolta, Shuya, tu resta qui e va un po’ in giro alla ricerca di qualcosa
interessante, io salgo al piano di sopra”
Annuì, ma vedevo la paura nei suoi occhi. Salii le scale, così tremolanti da
farmi sussultare ad ogni gradino. Avevo il cuore in gola. Un lungo e oscuro
corridoio si aprì davanti a me, varcandosi in varie porte, come un ventaglio. Aprii
la prima, che mi portò ad una camera di ragazza.
La polvere era ancora, una
volta la protagonista di quelle quattro mura, infestate dai poster. La targhetta sulla porta presentava la scritta
“Kayako”. La sua stanza.
La tensione saliva alle
stelle e cominciai a tremare come una foglia. Mi avvicinai alla scrivania,
posta sotto la finestra, dopo aver cercato di illuminare una stanza fin troppo
oscura.
La lampadina doveva essere
rotta, perché non rispondeva al richiamo dell’interruttore, dunque aprii la
finestra e finalmente regnò la luce. Grazie a quel clima solare cominciai a
sentirmi meglio. Aprii i cassetti della scrivania, in cui il caos regnava.
Fogli volanti, pastelli
inutilizzati e…una fotografia spiegazzata.
La presi tra le mani e
sospirai: c’era Kayako, sorridente e con quell’abito di raso viola e rosa che
avevo intravisto tra le lenzuola stese poco tempo prima e un uomo, che
indossava uno splendido smoking nero, con tanto di fazzoletto bianco ripiegato
nella tasca sul davanti della giacca. Era un ragazzo snello, ma il suo volto
non era presente. Era stato stracciato con ferocia. Cercai tra i fogli volanti,
con la speranza che ci fossero altre foto di quell’uomo misterioso, ma al suo
posto trovai una specie di busta, marchiata da una goccia di sangue. La aprii,
con il cuore che cominciò a battermi. C’era una lettera.
Appoggiai la busta, curiosa,
sulla scrivania e cominciai a leggere. La scrittura era femminile e aggraziata,
grondante di qualsiasi emozione celata.
“Cara Famiglia.
Non so se avete sentito ciò
che la gente dice sul mio conto e su noi in generale,
ma il fatto è che non ne
posso più di queste dicerie, che dicerie
in realtà non sono
completamente.
Vorrei chiedere a scusa a
Takeo: lui mi amava ma io e mia sorella l’abbiamo usato solamente per salvarci.
Vorrei chiedere scusa ai miei
genitori, perché se non fosse per colpa nostra la gente non avrebbe iniziato a
parlare.
Vorrei chiedere scusa a mia
sorella, perché le voglio bene e non avrei mai voluto
Che soffrisse così tanto.
E vorrei chiedere scusa a (un
nome cancellato da una striscia di sangue), perché lo amo e lo amerò per sempre
e perché so che sarà il primo a piangere una volta che vedrà il mio cadavere.
Vorrei solamente che la gente
la smetta di parlare.
Il mondo è un prato fiorito
che nasconde serpenti velenosissimi.
Il desiderio di porre fine
alla mia futile vita mi consuma letteralmente le interiora.
Un giorno avrò il coraggio di
portare a termine il mio volere e quel giorno
Troverete questa lettera.
Kayako”
Kayako, così
voleva morire. Voleva suicidarsi. Avrei voluto sapere che cosa riguardassero
quelle leggende urbane sul suo conto e cosa le avesse scatenate.
Ma soprattutto
mi spaventava il fatto che Takeo non fosse in realtà il ragazzo di Kayako, ma
semplicemente una persona che usava.
Probabilmente lui serviva da copertura, ma per cosa? Domande su domande mi
devastavano la mente, come un mucchio di aghi affilati con l’intenzione di
trapanarmi il cervello. Inquietata appoggiai la lettera sulla scrivania e
ricontrollai la busta. C’era anche una fotografia. Era ancora quell’uomo, ma
questa volta il suo volto era ben presente. Solo gli occhi erano stati oscurati
con una lunga linea nera, forse creata con un pennarello. Era sorridente e in
giacca e cravatta. Un primo piano da fotografo professionista. Mi servivano,
però, quegli occhi per poter confermare la mia idea.
Quella persona mi ricordava incredibilmente qualcuno che non riuscivo a
spiegarmi. Non riuscivo a capire dove avevo già visto quella fisionomia. Presi
lettera e fotografia e li misi nello zaino, quando all’improvviso un rumore.
Shdung.
Sobbalzai, con
un fremito e iniziai ad ansimare. Mi voltai di scatto e vidi che sulla
superficie dello specchio di quella stanza si era creata una crepa. Spaventata
mi avvicinai, incredula. Quello specchio era rimasto intatto sin dal momento in
cui avevo fatto ingresso in quella camera. Come diavolo aveva fatto a spaccarsi
da solo?
Ansimante
avvicinai la mano destra allo specchio, con l’intenzione di toccarlo, ma all’improvviso
un’altra crepa si formò, trascinandosi l’inevitabile Shdung.
Gridai, poi,
guardando che gocce di sangue cominciarono ad uscire una dopo l’altra da quella
crepa. Impietrii. Ero terrorizzata.
Il sangue
riprese a scorrere, sempre più velocemente e in quantità maggiore.
Indietreggiai
con orrore, quando anche l’orologio della stanza, appeso al muro, cominciò a
spezzarsi e ad emettere sangue. Grida lancinanti di donna avvolsero la stanza.
Cosa diavolo
stava succedendo? Continuavo a chiedermelo, anche quando le mie stesse mani
furono coperte di emoglobina. La porta si chiuse di colpo e sobbalzai
nuovamente.