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Autore: Heihei    27/12/2017    1 recensioni
Della vita che ha lasciato, a Beth non resta nient'altro che un buco in testa e qualche incubo. Quindi cerca di tornare indietro, seguendone le tracce.
Nel frattempo, le certezze di Daryl vacillano e ritorna su ciò che ha lasciato, seguendone la luce.
Questa storia NON mi appartiene; mi sono limitata a tradurla con il consenso dell'autrice, che è Alfsigesey. Potete trovare la storia originale su fanfiction.net
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Desecrated.

 

 

Il suo corpo è diverso.
Se n’è accorta praticamente subito, ma non le è piaciuto. O almeno, non le è piaciuto finché non ha dovuto mettersi a correre.
Ci sono troppi vaganti. Ne ha abbattuti due, ma riesce a vederne almeno altri sei aggirarsi tra gli alberi. Così, continua ad alternare la lotta alla fuga, tra l’altro con una naturalezza di cui non pensava di essere capace.
Il suo corpo, che aveva imparato a conoscere bene, così delicato e pulito, si è trasformato. È più tonico, più forte. Riesce a sentire vecchie cicatrici, ferite che ancora le bruciano mentre le sue gambe avanzano, in silenzio e senza impedimenti, tra i boschi. È come se questo corpo estraneo in cui si è svegliata abbia fatto della strada la sua nuova casa. È veloce, molto più di quanto riesca a ricordare. Sembra che le sue gambe siano abituate a correre così; reggono anche se il respiro si affanna, e i suoi stivali consumati non l’abbandonano.
I vaganti non si stancano, ma sono lenti; si sgretolano passo dopo passo. Beth, invece, diventa sempre più forte.
Il suo stomaco è come rimpicciolito. Non ha più fame come un tempo, mangerebbe solo se il suo corpo ne avesse estremo bisogno. Allo stesso tempo, però, butta l’occhio su tutto ciò che può somigliare a qualcosa di commestibile o, ancora più importante, a una fonte d’acqua.
Il mondo che la circonda è surreale. La strada principale è danneggiata, vuota, terrificante, ma i boschi sembrano ancora luoghi oscuri e sconosciuti. Non ha visto opzione migliore. Segue la strada come se fosse un fiume: non si addentra nella boscaglia più fitta per continuare a tenerla come riferimento, ma non vi si immerge.
Ha il passo svelto, corre quando può, finché non è troppo stanca e realizza di doversi fermare. Non ricorda l’ultima volta che ha mangiato, così come non capisce come si sia procurata tutte quelle cicatrici e tutti quei tagli, quindi non vuole forzare troppo la mano.
La sete la colpisce all’improvviso, duramente, e porta con sé un ricordo.

L’hai presa da qualche bagno?”
Ride, ma afferra comunque la bottiglia che le viene offerta.
L’immagine del ragazzo che gliel’ha data diventa perfettamente chiara, ma solo per una frazione di secondo. Indossa un cappello da sceriffo e arrossisce mentre le parla.
“Una parte.”
Scrolla le spalle e, chissà come, sa che le sta mentendo, ma beve lo stesso.
Non l’hanno bollita perché non possono accendere un fuoco, ma ha visto suo padre metterci due gocce di candeggina.

Perché non possiamo accendere il fuoco?
Frustrata, Beth ricomincia a camminare scoordinatamente, sperando che quel ricordo spinga la sua mente a recuperare qualcos’altro. Ha percorso molta strada e comincia ad essere stanca. Il cielo ormai si è oscurato da un po’.
Vuole ritrovare i suoi ricordi, sapere chi è adesso e com’è avvenuto il cambiamento. Voci e immagini diverse si sovrappongono nella sua mente come cocci di vetro, ma mancano i pezzi più importanti.
La strada è bloccata da un mucchio di veicoli abbandonati, riuniti chissà per quale macabro esodo. In auto ci metterebbe circa un’ora a raggiungere casa sua, ostacoli permettendo.
Non appena nota una macchina che potrebbe essere ancora in funzione, si avvicina e si mette in cerca delle chiavi, ma, anche quando ne trova una copia nell’aletta parasole, non riesce a metterla in moto. È effettivamente ferma da troppo tempo per poter ripartire senza la mano di un meccanico, ma a piedi il mondo è fin troppo dispersivo.
Più avanti, quelle sagome scure continuano a muoversi e lei, per quanto è esausta, sta camminando esattamente come loro. Vuole arrivare a casa in quello stesso giorno, lo vuole disperatamente, ma sa che la strada è troppo lunga per essere percorsa in un solo giorno, per di più senza provviste e alla mercé dei morti.
Una lurida pozzanghera si burla di lei e, se non fosse stata colpita dalla paura di prendersi la dissenteria, ci sarebbe anche cascata. Il cielo si è annuvolato già un paio di volte, ma non ha lasciato cadere neanche una goccia di pioggia.
Intravede tra i boschi un sentiero oscuro che spera porti a una proprietà privata. Decide di percorrerlo. Le auto sono state spogliate di qualsiasi risorsa utile: i cruscotti sono tutti aperti, le porte tutte forzate. Quasi sicuramente le case non saranno in condizioni migliori, ma almeno può trovare un bagno e sperare di recuperare un po’ d’acqua, così come le ha suggerito quel misterioso ragazzino con il cappello da sceriffo in uno dei suoi preziosi ricordi. Dovrà rischiare di accendere un fuoco, anche se ha ricordato che potrebbe, in alcuni casi, creare problemi.
La casa che trova a fine sentiero sembra la vittima di un’aggressione abbandonata a se stessa, lasciata a sanguinare per strada. Le mura sono consumate, le finestre rotte. Nota un paio di tombe all’esterno, ma non si sente un’intrusa mentre supera il cancello ed entra nella proprietà. Sente i suoi passi farsi più lenti mentre approccia al portico principale e nota come il suo respiro si sia ridotto a un flebile sussurro tra le sue labbra secche e spaccate. I muscoli delle mani si contraggono intorno al piede di porco.
Per tutta la giornata, per ogni vagante che ha ucciso in situazioni in cui non è dovuta subito fuggire via, si è fermata a controllare se avessero addosso delle armi. In un primo momento, non aveva neanche capito che cosa stesse facendo: quando il cadavere crollava a terra, s’inginocchiava automaticamente per perquisirlo.
Tutto ciò che ha rimediato sono stati un coltellino tascabile e qualche fiammifero; nulla che fosse migliore del piede di porco che ha trovato accanto a lei nel bagagliaio dove si è svegliata.
Solleva la sua arma e da un calcio alla porta, che si apre rumorosamente. Aspetta, ma non sente nulla. La tensione nelle sue spalle comincia ad affievolirsi.
Anche se non ricorda il perché, sa esattamente quello che deve fare, e cioè non precipitarsi all’interno. Deve aspettare ancora, ascoltare, assicurarsi che la casa sia davvero deserta, finché le pulsazioni della sua testa non la spingono a picchiettare con le nocche e i palmi, a ritmo e potenza diversi, sui coprifili.
Shave and a haircut!(*)”, grida. Bussa ancora, ma non c’è nessuno che le risponda “two bits” o qualsiasi altra cosa: quella casa è morta esattamente come tutto ciò che ha visto da quando ha aperto gli occhi.
Pensandoci, quando si è svegliata il sole era ancora alto nel cielo. Adesso è buio pesto e non ha ancora visto anima viva.
Devono esserci altre persone.
Ricorda di aver già provato altre volte sensazione come la paura, il terrore. Ma mai come in questo momento.
Perché mi sono svegliata da sola?
L’acqua del water, a meno che non sia prima evaporata, è già stata presa da qualcun altro. In ogni caso, non c’è.
La gola le fa male per quanto è secca; la testa, invece, comincia a bruciarle sul serio. La disidratazione non aiuta la ferita.
Dio, per favore… ti chiedo solo un po’ d’acqua.
Inaspettatamente, riceve una risposta alla sua preghiera, in forma di caldaia arrugginita. Era nascosta dietro a una porta bloccata che ha dovuto forzare con il piede di porco.
Scoperta quella nuova fonte d’acqua, corre in cucina e fruga tra i mobili in cerca di qualcosa in cui poterla bollire. Non c’è traccia di pentole o casseruole ma, scavando a fondo, trova una padella per friggere, che tra l’altro è anche carina. È infatti evidente che non sia mai stata usata: il manico è avvolto ancora in un piccolo nastro, su cui qualcuno, un tempo, ha lasciato un messaggio: - Congratulazioni, Robbie e Tiana! Con affetto, Bri.-
Lo rimuove lentamente, stupendosi di quanto sia strano vedere la sua mano sporca e livida sorreggere qualcosa di più o meno pulito.
Recuperato il contenitore, esce fuori per accendere un fuoco. Si inginocchia e le sue mani, compresa quella ingessata, agiscono per conto proprio: inizia a scavare nel terreno con fatica, muovendosi senza sapere davvero come e dove abbia imparato a farlo. Quasi come risposta alla sua domanda, vede apparire l’immagine sfocata di un altro paio di mani, più robuste, che scavano insieme a lei.

Se lo fai nel modo giusto, la fiamma non sarà alta e non la vedranno.”
La voce che sente è graffiata. Non le sembra familiare, ma ha un non-so-che di rassicurante. Deve essere uno degli altri che non riesce a ricordare bene, come il ragazzino con il cappello da sceriffo.
Stavolta, però, si tratta di un uomo cresciuto che le sta insegnando ad accendere il fuoco.
Ha le mani grandi e callose; le nocche, gonfie e grezze come quelle di un pugile, sfiorano le sue mentre la aiuta a rimuovere il terriccio superfluo rimasto nella loro piccola buca.

Davanti a quel contatto così rude, Beth s’imbarazza ancora, anche se è solo un ricordo. Infatti, è ancora nel cortile di quella casa abbandonata.
L’acqua è ancora calda quando la beve. La fa fuori in tre lunghi sorsi e decide di cercare qualcos’altro di utile, ammesso che ci sia.
Purtroppo, le dispense sono spoglie di cibo, i bicchieri tutti rotti. Riesce a trovare solo due vecchi biberon. Rabbrividisce immaginandone i proprietari, che devono essere non solo cresciuti, ma anche morti in pace.
Almeno la plastica non presenta crepe. Andranno più che bene come bottiglie.
Li riempie entrambi e li infila nello zaino che ha trovato all’ingresso, già pronto nel caso fosse costretta ad andarsene in anticipo.
Gli specchi sono tutti in frantumi. Vorrebbe usarli per dare un aspetto migliore a quella parte della sua testa dove si concentrano il dolore e il sangue secco, ma è comunque troppo buio. Dovrà aspettare che faccia giorno.
Prima di addormentarsi, compie un’altra precauzione istintiva, assicurandosi che tutte le porte siano sigillate.
Fuori dalla finestra di quella che doveva essere stata una stanza per gli ospiti, qualcosa cattura la sua attenzione: un cespuglio di more. Devono ancora maturare, ma non è il periodo giusto dell’anno per far crescere dei frutti.
Tuttavia, ricorda di averle già viste d’inverno, forse proprio il giorno di Natale. È successo in una serra. Le tende rotte facevano entrare il freddo, ma l’inverno non le aveva ancora uccise.

Saranno così felici quando le vedranno!”, dice entusiasta.
Il suo corpo somiglia di più a come se lo ricorda. È inesperta, non ancora così abituata a vivere per strada, ma nonostante le difficoltà è felice, perché ha trovato delle more.
“Carl, va’ a chiamare Rick!”
Deve essere successo molto tempo fa, perché le sue mani non sono ancora così forti e piene di ferite.
Prende una manciata di more e le ripone nel cappello di quel ragazzino, che si chiama Carl.

Certo che si chiama così, pensa, mentre quel nome le riporta alla mente tutta una serie di emozioni inaspettate.
Sa che Carl è dolce tanto quanto forte. Sa che vuole essere il figlio perfetto.
Non ricorda il modo in cui l’ha conosciuto, ma adesso ricorda il suo viso; ricorda di averlo consolato e abbracciato e ricorda di aver sperato, certe volte, che non dovesse essere così forte. Ricorda che gli vuole bene come il fratello minore che non sapeva di volere.
Nel frattempo, la scena nella sua testa continua.

Carl esce dalla serra gridando:“Papà!” e la lascia da sola con lui; con l’uomo dagli occhi azzurri e le mani forti.
Ha il suo nome sulla punta della lingua, ma non riesce ancora a dirlo.
Ci sono un centinaio di more; le stanno fissando entrambi. Così, senza aspettare che Carl ritorni con suo padre o con chiunque altro, si fiondano sullo stesso cespuglio. Le tracce lasciate dal freddo sono ben visibili, ma i frutti sono ancora morbidi e succosi.
Quando quell’alimento così perfetto tocca la sua lingua, chiude gli occhi e sospira compiaciuta.
“È la mora più buona di tutta la Georgia.”
“Mh… non credo. La mia è decisamente migliore”, risponde lui, e sembra avere ragione: prende la mora più grande che abbia mai visto in vita sua e la divora in un solo boccone, facendo gocciolare tutta la polpa nella zona tra il pollice e il palmo della mano.
Lei gli prende la mano e l’avvicina alla sua bocca, chiudendo le labbra su un pezzo di mora rimasto indisturbato sul suo pollice e succhiando via quel poco di scia viola rimasta.
Lui è teso; la vergogna gli arrossa le guance mentre sta per lasciarlo andare.
Davanti a quella scena, Beth lascia la presa sul suo polso con un unico, tempestivo movimento. La sua piccola mano comincia a tremare; vuole chiedergli scusa ma le parole le si bloccano in gola.
Tuttavia, il bisogno di eliminare l’imbarazzo svanisce nel nulla quando si accorge dell’impercettibile sorriso che gli ha appena curvato la bocca.
L’uomo si riporta la mano sulle labbra, succhiandosi le dita per ripulirle dal succo.
“Sì, la tua era migliore”, gli dice allora, pulendosi le labbra e sforzandosi di non guardare le sue.
È in quel momento, infatti, che realizza che in realtà il sapore che voleva sentire non era quello della mora, ma il suo.
Si chiede perché l’abbia fatto, perché non si sia fermata prima, e perché, piuttosto, non l’abbia fermata lui.
L’uomo si alza e lei sa che i loro occhi non s’incontreranno.
Quando cominciano a incamminarsi tra i boschi, le dà le spalle, mostrando due ali d’angelo.
“Puoi dirlo forte.”

 

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Daryl sa che dovrebbe parlargliene prima di raggiungere la città. Non è una di quelle cose che possono essere dette così, all’ultimo secondo.
Avrebbe già dovuto farlo un paio di giorni prima, in realtà, ma le spiegazioni gli erano rimaste bloccate in gola.
Neanche durante le ore notturne e tranquille, quando non hanno avuto nient’altro da fare che stare accanto al fuoco a dirsi frasi di circostanza, è riuscito a parlare. Eppure lo sguardo di Aaron è sempre confortante e privo di giudizio e, inoltre, è passato abbastanza tempo. È giunto il momento di dirgli qualcosa. Magari non gli dirà il suo nome, ma deve dirgli qualsiasi altra cosa a riguardo.
Sta per farlo, ma digrigna i denti, furioso, mandando per l’ennesima volta tutto a puttane.
Ormai Atlanta è vicina. Fa rallentare la moto e la abbandona, inducendo anche Aaron a fermarsi. Devono formulare un piano per approcciare all’ospedale e, nonostante tutto, Daryl ritiene che non sia ancora strettamente necessario parlargli di ciò che avverrà dopo.
Aaron scende dalla sua auto senza controllare abbastanza accuratamente lo spazio circostante. Il suo atteggiamento tradisce più una cautela abituale che una reale preoccupazione, che sarebbe più che legittima da parte sua. Evidentemente si fida della protezione che Daryl riserva a entrambi; evidentemente è sicuro che, se non si fosse prima assicurato che la strada fosse completamente a posto, non si sarebbe mai fermato.
“Vuoi ancora che me ne occupi io?” Lo sguardo di Aaron è serio mentre cerca i suoi occhi e Daryl riesce a intuire che c’è qualche sottinteso nei suoi pensieri, una taciuta domanda su quanto fosse andata male.
È andata così tanto male che non vuole neanche tornarci, ma allo stesso tempo non così male da spingerlo a rifiutarsi categoricamente di farlo. In ogni caso, ha le sue buone ragioni per credere che non siano brave persone.
In fondo, come sicuramente si sta chiedendo Aaron, dato che li conosce già, non dovrebbe essere proprio lui la prima persona che dovrebbero vedere?
È una domanda legittima, ma la risposta è assolutamente no.
“Non ti ho detto abbastanza su questa faccenda”, ammette, cominciando a far scivolare lentamente il suo discorso in delle vere e proprie scuse. Imbarazzato, scrolla le spalle. “Ho sparato in testa al loro capo, più o meno tre settimane prima che tu ci trovassi.”
Aaron sgrana gli occhi, facendo sparire le sopracciglia tra i capelli. “Loro ci…?”
Gli ingranaggi cominciano a girare, ma sembra ancora troppo confuso e non lo biasima. Alla luce di questa nuova informazione, si starà solo chiedendo quanto sia plausibile, adesso, l’idea che si possano unire a loro.
“Gli abbiamo già proposto di unirsi a noi, ma non erano interessati. Però allora non gli stavamo offrendo nulla che avesse a che vedere con Alexandria.” Deglutisce, consapevole che sta quasi per terminare la parte semplice del discorso. “Non sarei arrivato così lontano se non credessi che adesso potrebbero volerlo. Noah una volta ci ha detto che erano convinti che qualcuno prima o poi sarebbe venuto a salvarli, o almeno ci speravano. Penso che quella speranza sia morta il giorno in cui ce ne siamo andati, ma...”
Incerto su come continuare, borbotta qualcosa di incomprensibile, ma non va oltre.
“Ho capito”, dice Aaron con fermezza, e lui non ne dubita. Sposta il peso da una gamba all’altra, sistemandosi in spalla la tracolla del fucile. Pensieroso, sfiora con le dita il manubrio della moto di Daryl e continua a parlare: “Magari posso presentarmi per primo e avvertirli che vedranno una faccia familiare. Forse questo renderà più semplici le presentazioni e ci permetterà di coglierli di sorpresa. Non credo si aspettino di rivederti.”
“Se credi che questo possa aiutare...”, ripete lui, guardando di sbieco la città in lontananza.
“Tu cosa pensi?”
Daryl gli rivolge un cipiglio e scuote la testa. “Io credo che meno parlerò, meglio sarà. Ma comunque vorranno delle spiegazioni.”
Annuendo, Aaron aspetta che parli ancora, osservandolo con occhi sinceri. “È tutto?”, gli chiede, anche se sa che non lo è.
A quel punto, Daryl tira una serie di respiri profondi, con il battito accelerato e tendendo i muscoli delle spalle. “...Ho sempre saputo che prima o poi sarei ritornato qui, ma non pensavo di poterlo fare. Non volevo allontanarmi quando avevano bisogno di me, così ho aspettato il momento in cui...”
In cui sarei stato forte, in cui sarei stato pronto ad appiccare un rogo funebre.
“…in cui la mia presenza non sarebbe stata più così richiesta, o qualcosa del genere.”
Sentendo improvvisamente caldo, apre la cerniera della sua giacca anche se il vento è piuttosto freddo.
“Abbiamo perso qualcuno quando siamo venuti qui. Abbiamo portato con noi il corpo fino a una quarantina di miglia fuori città. Dovevamo seppellirla, ma ci siamo imbattuti in una mandria. Allora l’ho chiusa in un bagagliaio in modo tale che non potessero toccarla, ma...”
Cerca invano le parole giuste per continuare. Viverlo è stato un inferno e parlarne gli riapre in petto vecchie ferite avvelenate.
Il dolore negli occhi di Aaron gli ricorda qualcosa di com’era il mondo prima dell’apocalisse. È facile, adesso, essere forti, prendere consapevolezza di quanto tutto sia brutto e sanguinoso. Le brave ragazze muoiono, i cani diventano cibo, gli amici si perdono e i loro corpi vengono lasciati indietro, dissacrati.
“...Ma lei merita di più”, dice semplicemente. Non aggiunge altro, perché non è una domanda.
Certo che merita di più.
“È vicina. Non eravamo molto lontani dalla città. Credo che se sceglieranno di venire ad Alexandria avranno bisogno di tempo per organizzarsi e per prepararsi a partire. Quando lo faranno… io mi occuperò di lei. È... importante.”
Finalmente, si sente un po’ meglio. È l’equivalente emotivo della rimozione di un proiettile: fa male e lo fa sentire debole, malato, come se fosse sul punto di svenire per l’agonia, ma una volta rimosso può respirare di nuovo.
Ancora in difficoltà, Daryl nota con molto piacere che Aaron non solo ha capito, ma non insiste per i dettagli. La sua mano gli si chiude sulla spalla, ma non dice nulla, limitandosi a trattenerlo qualche altro secondo prima di gettare uno sguardo cupo alla città.
Le strade sono perlopiù sgombre di vaganti, o almeno ce ne sono molti di meno rispetto all’ultima volta. Le mandrie devono essersi trasferite in un’altra area della città, perché i pochi vaganti presenti sono estremamente consumati, con gli arti spezzati o comunque con qualche altro impedimento che li rallenta nel raggiungerli.
Improvvisamente nervoso, realizza di non essere mai arrivato così lontano. È stato così occupato a pensare al suo prezioso compito che ha quasi completamente tralasciato la parte del reclutamento vero e proprio. È il suo lavoro adesso. Lui e Aaron hanno visto molte altre persone e spesso sono stati anche sul punto di avvicinarsi, ma sono sempre stati frenati da qualcosa, fatta eccezione per Morgan, ma lui è stato un caso a parte. È stata la prima persona che Daryl ha portato ad Alexandria, ma per come sono andate le cose è stato più lui a trovare loro. Con questa gente, invece, stanno per uscire allo scoperto quando ciò che li lega è una storia orribile che lui vorrebbe seppellire e dimenticare, ma del resto crede che in fondo vogliano farlo anche loro.
Mentre si avvicinano all’edificio, non hanno bisogno di parlare più di tanto. Si aspettano di vedere qualche sbirro o qualsiasi altra forma di vita, ma l’ospedale sembra pressoché vuoto. Un movimento proveniente da una finestra attira la loro attenzione, ma lo sparo proveniente dal fucile di Aaron conferma che è solo un vagante, rimasto intrappolato in una delle stanze riservate ai pazienti.
“Potrebbe non significare nulla”, dice Aaron con il suo solito ottimismo, anche se l’espressione seria che gli indurisce i lineamenti del viso lo induce a pensare che non sia davvero così ingenuo: sa perfettamente che molto probabilmente è davvero così come sembra. “Hai detto di essere stato all’ultimo piano e che alcune erano sbarrate, giusto?”
“Sì, al quinto piano”, dice Daryl con voce roca.
“Bene. Quello è il terzo; forse è uno di quelli che hanno bloccato.”
Questo posto sembra morto, pensa. Non sono passati neanche otto mesi e sembra già più trascurato, le macchine con le croci bianche sono ancora parcheggiate di fronte all’edificio, ma sono molte di meno di quante ne ricordava. Magari non tutti sono morti, ma evidentemente quelli rimasti vivi non stanno più lì.
Nonostante ciò, non possono andarsene prima di aver controllato. Anche se non ci dovesse essere anima viva, devono comunque vedere di trovare farmaci e roba simile. Magari anche qualche libro con cui Rosita potrà approfondire le sue conoscenze mediche.
Daryl non sa sentirsi sollevato o meno dal fatto che l’ospedale sia deserto. Attraversa i corridoi vuoti, abbatte i vaganti di turno e nota che, mentre qualsiasi altro posto in cui sono stati ha lasciato le tracce di storie ormai andate, il Grady Memorial è davvero un mistero. Non ci sono segni di un’invasione di vaganti o di altre persone; per quanto ne sanno, è solo vuoto. Magari è successo qualcosa tempo fa, e i cani e i vaganti hanno già ripulito tutto il casino. Le porte sono tutte aperte e le risorse utili sono sparite.
Forse possono ancora trovare qualcosa; forse garze, ecografi, libri. Aaron ha già trovato varie siringhe, dei camici e due stetoscopi, mentre Daryl ha messo insieme un malloppo di strumenti chirurgici mai usati. Sono tutte cose che già hanno ad Alexandria, ma un giorno potrebbero servirne di più. E poi è evidente che Aaron non abbia intenzione di tornare a casa a mani vuote.
Maggie ha bisogno di un dottore.
Gli torna in mente la discussione avuta con Glenn, seguita da una dose extra di senso di colpa. Magari lui non avrebbe voluto un dottore del Grady in casa sua, ma può capire perché Glenn invece lo voglia. È una faccenda importante e, in fondo, sa che lo avrebbe voluto anche lei, non solo perché è sua sorella, ma anche perché era convinta che in giro ci fossero ancora brave persone.
Guarda il cartello appeso al muro: è al quinto piano, ma se ne sarebbe accorto anche senza. Quelle scale se le ricorda fin troppo bene. Lei era così arrabbiata.
Mentre Aaron cerca di aprire un cassetto chiuso a chiave, Daryl si ritrova con le spalle al muro. Sapeva che si sarebbe sentito così; sapeva di non essere pronto a tornare dove tutto è successo. È stato così pesante.
Devono aver ripulito tutto il sangue. Non è rimasto niente, eppure sembra che la morte sia ancora sospesa su quel corridoio. Di recente, per lui la morte ha acquistato un nuovo significato. La sente ovunque, in ogni istante. Non fa altro che pensare al suo potere e quel dannato posto sembra più pericoloso degli altri, così denso di morte a tal punto che sembra quasi un luogo sacro.
Lei era così arrabbiata.
“Daryl?”
Non è sicuro del tempo che Aaron abbia passato a fissarlo; non ha contato i minuti. Indossa un’espressione che gli comunica che è arrivato il momento di andare, che hanno già preso ogni cosa che potesse tornare utile.
“Forza, andiamo. Abbiamo un’altra cosa da fare in questa città.”
Non sarai mai pronto per questo, si dice, ma annuisce, perché non gli importa più se è pronto o no: lei lo sta aspettando in un bagagliaio e non può lasciarla lì.
Ha perso molte persone, così tante che la morte aveva iniziato ad essere, più che una vera e propria paura, qualcosa che lo sfiniva. Questa volta è diverso. Mentre lasciano l’edificio, il suo cuore s’infuria. Lui ha avuto paura di perderla molto prima che se ne andasse davvero, e non è stato qualcosa che l’ha fatto sentire stanco. Lui ha continuato a seguire quell’auto, finché non si è fermato solo per piangere. Vederla andare via è stato qualcosa che l’ha definitivamente atterrato.
Quando è successo con gli altri, si è sempre convinto dell’idea che fossero in pace, e ci credeva. Anche se perdere qualcuno è una merda, è quello che ha sempre fatto. Si è sempre incazzato e ha sempre maledetto il mondo, ma può dire di essere stato sempre lo stesso. Quella convinzione, quella vocina che gli raccontava che in quel momento erano in pace, lo faceva sentire meglio.
Vorrebbe poter dire lo stesso di Beth Greene, ma sarebbe una bugia. Lo sente più che mai adesso che è tornato in quel posto: lei non è in pace. E neanche lui.


 

 

(*) Da Wikipedia (che ha indubbiamente risolto la mia confusione davanti a questo passo):
- “Shave and a haircut”, e la risposta associata “two bits”, è un botta e risposta spesso utilizzato alla fine di una performance musicale, per accentuare l’effetto comico. È usato sia come melodia che come ritmo, per esempio per bussare alla porta. -
Da quanto ho capito, è molto comune come modo di bussare alla porta, in America
.

   
 
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