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Autore: _Pulse_    30/12/2017    3 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Sorpresa! :)
Ho anticipato l'aggiornamento perché domani è l'ultimo giorno dell'anno e lo trascorrerrò a cucinare come Molly e Gen, pur sapendo che non avrò ospiti come Arsène (purtroppo >////<).
Anyway, scommetto che siete curiosi di scoprire come se la passa Arsène nel vestire i panni di Thomas. E, parliamone, Molly nell'averlo come vicino di casa? E Sherlock, il quale non sa più che pesci pigliare per via del silenzio del ladro e di Irene Adler, tanto da chiedere aiuto a suo fratello Mycroft? Beh, non dico altro.
Questo capitolo è uno dei miei preferiti, perciò spero piaccia anche a voi. Fatemelo sapere eventualmente, io ne sarei stra-felice *^*
Grazie a tutti e ci vediamo il prossimo anno! Tanti auguri e buona lettura :)

Vostra,

_Pulse_

N.B. Allarme rosso! ROSSO! In questo capitolo ci sono scene esplicite di sesso. Io vi ho avvisati u_u


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19. Role-playing game


«Mi stai davvero chiedendo di spulciare tra tutti i casi in cui è spuntato il nome di Lupin per darti una lista di sospettati?».
«So che si tratta di un lavoro gravoso, ma lei ne sa più di tutti».
«Vorrai dire che io sono l'unico pazzo che potrebbe fare gratuitamente un lavoro del genere».
Sherlock, dall'altra parte dello schermo, sorrise a trentadue denti. «Sapevo di poter contare su di lei, Ganimard».
L'ispettore intrecciò le braccia al petto e il suo volto burbero per natura si irrigidì ulteriormente.
«Ripetimi per quale motivo dovrei farlo. Qualcuno ha provato a rapirlo e poi ad ucciderlo, e allora? Sono ancora del parere che senza di lui si starebbe meglio».
«Non lo pensa sul serio», replicò, gli occhi stretti a due fessure. «Arsène non è malvagio, lui... Deve prendere ciò che fa come una malattia. Una forma di cleptomania, se vogliamo; unita alla sindrome del cavaliere bianco. Ma può ancora essere curato».
«Se ne sei convinto tu...».
«Ne sono convinto».
Ganimard colse la determinazione nello sguardo del detective e sospirò, prendendo tra le mani il block-notes su cui aveva preso appunti la prima volta che Sherlock gli aveva spiegato la situazione. D'altronde aveva sempre saputo che avrebbe ceduto e l'avrebbe aiutato; non solo perché glielo doveva, ma perché si sarebbe incavolato parecchio se qualcuno l'avesse preceduto nel togliere Arsène dalla piazza - in un modo o nell'altro.

Da quella chiamata su Skype era trascorsa una settimana e Ganimard non aveva ancora trovato nessun sospettato che lo convincesse sul serio.
Arsène aveva organizzato così tanti colpi e messo il naso nelle faccende di così tante persone che trovare i mandanti dell'agguato era come trovare un ago in un pagliaio, se non addirittura più difficile, dato che le informazioni che possedevano erano alquanto incomplete.
Sapevano solo che erano persone disposte a tutto per raggiungere il loro scopo, anche ad uccidere, e che avevano fondi consistenti: secondo le analisi della polizia scientifica infatti, l'auto su cui era stato fatto salire Arsène possedeva un impianto di aerazione modificato perché vi uscisse gas stordente. E quando il tentativo di renderlo inerme era andato a monte l'uomo alla guida non ci aveva pensato su due volte prima di correre incontro alla propria morte. Il che forniva un terzo indizio: erano persone che incutevano un certo timore, tanto da far preferire la morte piuttosto che il fallimento.
Uno dei dogmi di Arsène era quello di derubare solo i più ricchi, specialmente se erano coinvolti in attività illegali, perciò era ovvio che la lista fosse chilometrica.
Quando, per restringere il campo, Ganimard aveva chiesto a Sherlock se avesse idea del motivo per cui i persecutori del ladro avessero deciso di vendicarsi proprio durante la sua permanenza a Londra, il detective aveva lasciato intendere che temeva una soffiata. Era stato allora che si era reso conto che non gli era stato raccontato ancora tutto.
Sherlock aveva esitato parecchio, ma alla fine, minacciandolo che solo conoscendo tutta la verità l'avrebbe aiutato, era riuscito a fargli sputare il rospo persino su Irene Adler, la donna con cui aveva avuto una relazione e che per gelosia - o così ipotizzavano - aveva contattato Arsène perché scoprisse chi fosse il nuovo amore del consulente investigativo.
«Hai un nuovo amore?», gli aveva domandato l'ispettore, scioccato.
Sherlock aveva scelto di rimanere in silenzio, fornendogli comunque la risposta che cercava.
Secondo il detective il sentimento di vendetta era stato aizzato proprio da Irene, la quale doveva essersi rivolta a quelle persone conoscendo il loro odio per Arsène. Forse pensava che insieme a loro sarebbe riuscita a portare a termine il compito che aveva affidato al ladro - ed evitare persino di pagarlo - ma qualcosa doveva essere andato storto: Irene Adler era sparita all'improvviso ed era tutt'ora introvabile, persino per i Servizi Segreti guidati da Mycroft Holmes.
Impossibile sapere in che condizioni riversasse, ma di una cosa Sherlock era certo: le avevano sottratto tutte le informazioni possibili e poi si erano messi alla ricerca di Arsène.
Poi c'era il caso della cameriera assassinata. Lo stesso caso che aveva fornito loro degli indizi molto importanti per accorciare la famosa lista dei sospettati e al contempo aveva lasciato più perplessità.
Potevano aver scoperto in quale albergo alloggiasse il Ladro Gentiluomo tenendo sotto stretta sorveglianza il 221B, dove si era presentato in più di un'occasione, ma perché elaborare un piano per infiltrarsi? Forse volevano accertarsi al cento percento che avessero preso di mira l'uomo giusto. Sinceramente Ganimard non vedeva altre ragioni per cui avrebbero dovuto rischiare tanto uccidendo una ragazza. E Sherlock non l'aveva aiutato in quel senso; anzi, ancora una volta gli era sembrato restio nel divulgare informazioni. Gli aveva giurato però di avergli detto tutto ciò che era inerente al caso, nulla di più e nulla di meno.
Dopodiché, pur di cambiare argomento, gli aveva mostrato la fish da casinò che era stata trovata all'interno del corpo della vittima. L'assassino le aveva dato una forte dose di morfina e aveva simulato un suicidio, facendo in modo che la ragazza si portasse lei stessa l'arma alla tempia, poi aveva praticato un'incisione sul suo ventre e vi aveva infilato la fish, richiudendo la ferita con ago e filo.
Secondo l'analisi di Sherlock questo modus operandi delineava il profilo di una killer donna per almeno due ragioni: il fatto che avesse somministrato della morfina, come se avesse mostrato compassione e avesse voluto far soffrire il meno possibile la cameriera di cui poi aveva preso il posto; e la particolarità della sutura.
«Che intendi con particolarità?», gli aveva chiesto Justin, confuso.
Sherlock aveva preso una foto dal fascicolo del caso e l'aveva piazzata davanti alla videocamera del pc, mostrandogli com'era la ferita prima che Molly facesse saltare i punti.
«Che c'è di strano?».
«È evidente che la nostra assassina non ha una preparazione medica, ma la cucitura è fatta con cura. Quanti uomini conosce che sanno cucire?».
E così, per una questione di probabilità, avevano deciso che l'assassino era una donna. Sempre per ipotesi avevano anche stabilito che si trattava della stessa ragazza che aveva preso il posto della vittima al Savoy Hotel e che, per non destare troppi sospetti, doveva somigliarle almeno un po'.
«Aspetta, la vittima ha venticinque anni, giusto? Questo vuol dire che dovrei cercare dei casi in cui sono coinvolte ragazze giovani...».
«Delle bambine», lo aveva corretto il detective.
«Bambine?».
«Lei non è la mente dell'operazione. Sono sicuro che c'è qualcun'altro che tira i fili, qualcuno di più anziano. Forse un parente».
Ganimard si era passato una mano sulla fronte dolente. «Dovrei chiederti cosa te lo fa pensare?».
«La fish. È chiaramente un messaggio, non trova?».
La sua espressione indifferente, come se avesse appena sentito l'ultima strampalata teoria sulla fine del mondo, gli aveva fatto accartocciare il viso in un'espressione risentita.
«A volte mi stupisce, ispettore Ganimard. Perché l'assassino avrebbe dovuto perdere tempo a nascondere una comune fish nel corpo della vittima?».
«Alcuni serial killer lasciano la loro firma».
«Ma questo qui non è un serial killer! C'è stato un solo corpo, l'unico necessario prima della trappola tesa a Lupin. No, la fish è stata messa lì perché ha un significato».
«Quindi, dimmi se ho capito bene», aveva esclamato Ganimard, grattandosi dietro l'orecchio con la matita. «Stai per caso suggerendo che questa ragazza non voleva veramente uccidere, che è stata costretta, e che ha deciso di lasciarci un indizio?».
«È quello che credo».

Una bambina il cui cammino ha incrociato quello di Lupin e una fish da casinò, pensò Ganimard, togliendosi dalla bocca la sigaretta ormai consumata fino al filtro, gli occhi fissi sulla lavagna su cui aveva scarabocchiato tutti i fatti, le prove e le ipotesi, collegati da frecce di diversi colori, punti esclamativi e di domanda.
Cercò di spegnere il mozzicone nel posacenere, ma era così pieno che le sue dita affondarono tra la cenere e altri filtri accartocciati. Solo allora distolse lo sguardo e si alzò per andare ad aprire la finestra e far cambiare aria all'ufficio.
Guardò giù in strada, col freddo che gli pungeva gli occhi arrossati e la pelle del viso su cui si era lasciato crescere un velo di barba, e l'atmosfera natalizia lo colpì come una pallottola nel petto: le luminarie abbellivano le strade, il profumo caldo dei dolci delle pasticcerie aleggiava nell'aria e la gente camminava lungo i marciapiedi con quella frenesia tipica di chi deve trovare il regalo perfetto. Anche lui avrebbe dovuto essere là fuori, a cercare dei giochi per Emélie e Théa e un gioiello per Celestine, ma la realtà era che quello sarebbe stato il primo Natale che avrebbe trascorso lontano dalle sue donne e il solo pensiero lo stava uccidendo. Tanto valeva concentrarsi sul lavoro.
Qualcuno bussò freneticamente alla porta e Justin si voltò appena in tempo per vedere Folefant entrare trafelato nell'ufficio, chiudendosi l'uscio alle spalle ed appoggiandocisi col petto che si alzava ed abbassava irregolarmente.
«Ti stai allenando per la maratona di New York?», gli domandò Ganimard, allontanandosi dalla finestra per tornare dietro la scrivania. «Nel 2010 Lupin ha partecipato, lo sapevi? Prima ha rubato lo zaffiro a sei stelle più grosso al mondo - il Black Star of Queensland - alla sua proprietaria, giunta a New York dalla Svizzera per affari, poi per sfuggire alla polizia si è spogliato e si è mischiato tra i corridori. Credo sia arrivato anche tra i primi cinquanta atleti».
Svuotò il posacene nel cestino, anch'esso sull'orlo di straripare a causa delle scatole di pizza e di vario cibo d'asporto, poi estrasse una nuova sigaretta dal pacchetto per accendersela.
«L'Ispettore Capo Dudouis sta venendo qui», esalò Folefant a causa del fiato corto.
Justin posò l'accendino sul tavolo e si tolse la sigaretta spenta dalle labbra per dire: «E tu sei corso fino a qui per avvisarmi del suo arrivo?».
«Beh... sì. L'indagine che sta conducendo, dopotutto, non è stata autorizzata. Qualcuno dell'ufficio prove deve aver fatto la spia, altrimenti non mi spiego...».
Ganimard, che nel frattempo lo aveva raggiunto, gli posò una mano sulla spalla per scuoterlo e sorridergli teneramente.
«Ti ringrazio», lo interruppe. «Ma non è mai stata mia intenzione tenere nascosta quest'indagine a Dudouis. L'unico motivo per cui non l'ho informato è perché non volevo rovinargli le vacanze».
Tornò dietro la scrivania e si accomodò sulla propria poltrona, riafferrò l'accendino e fece un lungo tiro alla sigaretta prima di soffiare il fumo verso il soffitto ed esclamare tranquillamente: «Lascia pure che venga».
Quindi guardò negli occhi il ragazzo e rivolgendogli un altro sorriso aggiunse: «Non importa ciò che potrebbe accadere a me, ma sarebbe meglio che tu non ti faccia trovare qui».
«Sta scherzando, vero?». Folefant lo guardò ad occhi sgranati. «Nell'ultima settimana l'ho aiutata a controllare centinaia di vecchi casi su Lupin, se Dudouis intende presentarle un richiamo ufficiale allora lo merito anche io!».
«Non essere sciocco, Folefant».
«Dico sul serio!».
«Anche io!», gridò di rimando l'ispettore, alzandosi per sbattere una mano sulla scrivania sommersa di carte, alcune delle quali caddero sul pavimento. «Non permetterò che la tua carriera prenda la stessa piega della mia a causa di Lupin. Te l'ho già detto non so quante volte, ma per qualche ragione non mi stai a sentire!».
Il giovane poliziotto dai capelli biondi strinse i pugni lungo i fianchi e nonostante fremesse di rabbia non aprì bocca.
Ganimard sospirò e si lasciò ricadere sulla poltrona. Gli fece segno di uscire e con voce decisamente più pacata e stanca disse: «Te lo chiedo per favore, Marcel».
Folefant, essendo quella la prima volta in assoluto che si sentiva chiamare per nome, lo fissò scioccato per qualche secondo. Poi cedette alla richiesta dell'uomo che stimava profondamente, lo stesso uomo per cui aveva deciso di entrare nelle forze di polizia, ed aprì la porta per lasciare l'ufficio. Peccato che si ritrovò di fronte a Dudouis in persona, con indosso ancora cappotto e cappello.
«I-Ispettore Capo... buon pomeriggio», lo salutò irrigidendo la schiena.
«Folefant», ricambiò lugubre, riservandogli un'occhiata tagliente. «Che cosa ci fai tu qui? Non hai del lavoro da sbrigare?».
«Se ne stava giusto andando», intervenne Ganimard, comparendo al suo fianco e dandogli una pacca sulla schiena.
L'agente annuì e salutò entrambi chinando il capo in segno di rispetto, poi si avviò lungo il corridoio. Justin allora concentrò tutta la propria attenzione sul proprio capo ed abbozzò persino un sorriso, appoggiandosi allo stipite della porta con una spalla, le braccia incrociate al petto.
«Dev'essere successo qualcosa di davvero grave se hai preferito venire qui piuttosto che rimanere a casa con la famiglia. Come stanno i ragazzi?».
«Non tirare troppo la corda, Justin. Anzi, mi stupisco che non si sia già spezzata».
Dudouis entrò nell'ufficio e rimase paralizzato davanti alla quantità di scatoloni e fascicoli che l'avevano trasformato in un deposito interamente dedicato all'intensa attività del Ladro Gentiluomo.
Ganimard chiuse la porta e con la sigaretta appesa alle labbra si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, osservando tranquillo l'Ispettore Capo mentre si portava il cappello al petto, mostrando la vistosa piazza tra i corti capelli bianchi, e faceva un giro su se stesso. Quindi incrociò di nuovo il suo sguardo con l'espressione più adirata che gli avesse mai visto in faccia.
«Sei proprio un testardo figlio di puttana, Ganimard».
Il sorriso di Justin si ampliò e le sue sopracciglia di inarcarono. Si tolse la sigaretta dalla bocca ed esclamò: «Wow. Come mai oggi sei di così pessimo umore?».
«Smettila, va bene? E dammi un buon motivo per non sospenderti immediatamente».
«Sospendermi?», ripeté, divertendosi come non faceva da tempo. «E per quale motivo dovresti farlo? Perché faccio il mio lavoro cercando di arrestare Lupin?».
Dudouis strinse i pugni lungo i fianchi e il suo collo si imporporò, rendendo ancora più evidenti le vene gonfie. Prima di rispondere si passò nervosamente pollice e indice sui baffi bianchi e si diede un'altra occhiata intorno, concentrandosi in particolare sulla lavagna e sulla scrivania, su cui alla fine lasciò cadere il cappello a tesa stretta.
«Quante volte ti ho detto che sei uno tra i migliori ispettori francesi, se non il migliore in assoluto?», gli domandò, mostrandosi fin troppo docile.
«Non tengo il conto», replicò Ganimard.
«Perché tu non credi sia la verità». Si avvicinò di un passo e gli puntò un dito sul petto. «E il modo in cui tu sprechi il tuo tempo, per non parlare delle risorse della polizia, dietro alla tua ossessione per Lupin... mi fa imbestialire! Lo sai che, se avessi lasciato perdere la prima volta che te lo dissi, ormai quindici anni fa, adesso ci saresti tu al mio posto, come Ispettore Capo? Per non parlare di come sarebbe oggi il rapporto con tua moglie e le tue figlie...».
Ganimard perse le staffe e dopo aver gettato la sigaretta sul pavimento afferrò Dudouis per i baveri del cappotto, avvicinandogli il viso al proprio in modo che i colori delle loro iridi si fondessero.
«Credi che non lo sappia?», sibilò a denti stretti, il respiro del naso affannoso. «Tu non hai idea di quanto Lupin mi abbia rovinato la vita. Puoi immaginarlo, ma non non lo saprai mai. Ed è proprio per questo che non posso fermarmi. Capisci? Se lo facessi... tutti i miei sacrifici - una carriera brillante, l'amore di mia moglie, le feste e i pomeriggi al parco con le mie bambine - sarebbero stati vani».
L'Ispettore Capo rimase in silenzio, a guardarlo negli occhi, fino a quando Ganimard non decise di lasciarlo e di dargli le spalle.
«Mi dispiace, non avrei dovuto metterti le mani addosso», mormorò ad un tratto, gli occhi fissi sui propri scarabocchi sulla lavagna.
Dudouis si schiarì la gola e lisciandosi il cappotto sul petto esclamò: «Anche io sono andato troppo oltre. Ascolta, Justin...».
«Non so chi ti abbia avvisato delle mie indagini - non voglio nemmeno saperlo, visto che tutti qui dentro hanno almeno un motivo per odiarmi, - ma voglio assicurarti che ho risolto tutti i casi che sono passati sulla mia scrivania questa settimana. Due rapine, un omicidio e un furto d'identità. Casi semplici, se vuoi il mio parere».
Ganimard non poté vederlo, ma intuì che il suo capo stava sorridendo quando gli rispose: «Sei abituato a batterti contro il migliore, dopotutto. Hai trovato ciò che cerchi?».
«Non ancora. Ci riuscirò, prima o poi».
«Buona fortuna, allora».
L'ispettore guardò con la coda dell'occhio Dudouis che si voltava verso la scrivania per recuperare il cappello e portarselo di nuovo al petto. Quindi si scambiarono un lieve sorriso, carico di imbarazzo, e una volta sulla porta il più anziano aggiunse: «Buon Natale, Justin».
«Anche a te», ricambiò Ganimard, salutandolo con un cenno del capo.
Rimasto solo nel proprio ufficio, l'ispettore si passò una mano dietro il collo e sospirò pesantemente. Poi si chinò a prendere la sigaretta fumata a metà che aveva gettato a terra e la soppesò per qualche istante prima di scrollare le spalle e riportarsi il filtro tra le labbra.
Tornò alla scrivania per recuperare l'accendino e fu allora che notò qualcosa di diverso nella disposizione dei fascicoli e degli appunti, ma decise di non darci troppo peso: la sua fiducia nel corpo di polizia era già ridotta al minimo, se avesse iniziato a sospettare anche di Dudouis...
Qualcuno bussò alla porta, interrompendo il flusso di quegli inquietanti pensieri, e diede il permesso di entrare. Ovviamente si trattava di Folefant.
«È andata tanto male?», gli domandò con aria da cane bastonato, come se fosse stato lui a fronteggiare Dudouis.
Ganimard si strinse nelle spalle. «Come al solito», esalò insieme al fumo della sigaretta.
Folefant sembrò rincuorato e con un sorriso fanciullesco tornò a sedersi su una pila di scatole nei pressi del davanzale della finestra per riprendere da dove si era interrotto, prima della pausa pranzo. A dire il vero era stato Ganimard a buttarlo fuori dall'ufficio, dicendogli di andare in caffetteria; se fosse stato per Folefant avrebbe preso un panino e avrebbe continuato a lavorare mangiando. Stava prendendo le sue stesse brutte abitudini e l'uomo ne era sempre più preoccupato, proprio come lo sarebbe stato un padre per il proprio figlio.
«C'è qualcosa che non va?», gli domandò il ragazzo, notando il modo in cui lo stava fissando.
L'ispettore abbozzò un sorriso e scosse il capo, chinandosi a raccogliere i fogli caduti dalla scrivania. Dopodiché posò i piedi sull'angolo del tavolo ed usò le sue stesse gambe per appoggiarvi l'ennesimo fascicolo. Non riuscì però a scrollarsi di dosso la strana sensazione che aveva provato quando Dudouis aveva lasciato l'ufficio, un tarlo che gli impediva di concentrarsi appieno. La sua stessa visita era stata insolita, ora che ci pensava.
Lui e l'Ispettore Capo si conoscevano da vent'anni, precisamente da quando un appena trentenne e promettente Ganimard era stato promosso ispettore e trasferito nella sede parigina della Polizia Nazionale.
Avevano bevuto insieme, cenato insieme e con le rispettive mogli; Dudouis aveva persino partecipato ad entrambi i battesimi delle sue bambine. Insieme avevano iniziato a dare la caccia a Lupin e poi, dopo numerosi fallimenti e una pressione mediatica sempre maggiore, l'Ispettore Capo aveva riconosciuto la potenza e l'inafferabilità del Ladro Gentiluomo. Per Ganimard era stato un tradimento enorme, anche se col tempo aveva capito le sue ragioni. Ciò nonostante non aveva mai smesso di stimarlo, sia sul lavoro che nella vita privata, e lo stesso valeva per Dudouis, o almeno così credeva.
Decine di volte l'aveva difeso davanti alle telecamere e ai colleghi, l'aveva sempre lasciato lavorare come meglio credeva e quando il suo matrimonio si era sfasciato ed aveva iniziato a bere l'aveva aiutato in ogni modo possibile. Era uno dei pochi amici che aveva, se non l'unico, e la figura paterna che gli era venuta a mancare troppo presto. Per questo gli sembrava impossibile che Dudouis fosse in combutta con Lupin. Ma allora perché quella visita? Perché, durante il suo periodo di ferie, si era scomodato per ripetergli ciò che gli diceva tutte le volte che poteva e che sapeva non gli avrebbe comunque fatto cambiare idea? Qualcosa non tornava, glielo diceva l'istinto, e di solito il suo istinto non sbagliava.
«Lo sa, ispettore Ganimard... Ieri sera non riuscivo a prendere sonno», esordì Folefant, alzando gli occhi dal fascicolo.
Ganimard fu grato di quell'intervento e ricambiò il suo sguardo. «Benvenuto nel club».
Il ragazzo sorrise. «Ho ripensato agli elementi che le ha dato Sherlock Holmes, in particolare al fatto che l'assassina doveva essere una bambina all'epoca».
«Lui ne è convinto».
«Beh, se è così dubito che troveremo qualcosa in questi fascicoli».
L'ispettore, improvvisamente attento, si sedette composto e chiese: «Perché dici così?».
«So che è un'ipotesi azzardata, ma ascolti».
Folefant si alzò e mentre spiegava il proprio ragionamento iniziò a camminare avanti e indietro nel poco spazio che aveva a disposizione, gesticolando come se in quel modo potesse sfogare tutta la propria adrenalina.
«In queste scatole ci sono tutti i fascicoli dei casi che sono collegati certamente al Ladro Gentiluomo. Ora, Arsène Lupin, secondo le ultime stime, dovrebbe andare per la quarantina, giusto?».
«Sì, dovrebbe avere giusto qualche anno in più di Sherlock».
«Perfetto. Vuol dire che, all'epoca del colpo che ha coinvolto questa "bambina", doveva averne circa venti. È stato allora che ha iniziato a lasciare i suoi bigliettini, a fare carriera insomma...».
«Corretto. Vent'anni fa mi è stato affidato il primo caso in cui comparve il suo nome».
Folefant annuì e si avvicinò alla scrivania dell'ispettore per posarvi sopra entrambe le mani. Guardandolo negli occhi, coi propri brillanti di eccitazione, sussurrò: «Io avevo appena smesso di portare i pannolini allora, ma...».
«Questo mi fa sentire vecchio».
«... mi sono documentato parecchio e i colpi di allora erano audaci, dai piani elaborati, ricchi di azione e sentimento... Per il suo esordio sulla scena ha scelto gli obiettivi migliori. Voleva che la gente lo notasse, voleva la fama ancor prima della ricchezza e alla fine le ha ottenute entrambe».
Ganimard si alzò a sua volta, capendo dove volesse andare a parare il giovane.
«È possibile che non si sia parlato affatto di questo caso, o che comunque Lupin abbia agito in modo da non risultare coinvolto, per non farsi cattiva pubblicità. E questo potrebbe essere il movente delle persone che l'hanno preso di mira, anche a distanza di vent'anni».
«Sa come si dice... La vendetta è un piatto che va servito freddo».
Ganimard sorrise e spense la sigaretta nel posacene, poi diede un lieve schiaffetto sulla guancia di Folefant e guardandolo negli occhi esclamò: «Ottimo lavoro, figliolo».
Marcel rimase a bocca aperta per qualche istante, ma poi sorrise felice ed abbassò gli occhi lucidi di emozione. Ganimard stesso, rendendosi conto delle parole così paterne che gli erano uscite di bocca, chinò il capo e si allontanò, pensando alla prossima mossa da fare.
Grazie a quella nuova pista da seguire i sospetti su Dudouis passarono in secondo piano.
L'ispettore chiese all'agente di mettere da parte tutte le scatole che non riguardavano i primi anni di attività del ladro - ovvero la maggior parte - mentre lui telefonava a Sherlock per informarlo delle possibili novità.
Ganimard uscì in corridoio col cellulare all'orecchio, ricordandosi troppo tardi del costo esorbitante della chiamata, e quando il detective rispose non si perse in inutili convenevoli.
«Cercavamo nella direzione sbagliata, ragazzo. È come per il caso del diamante azzurro: se qualcosa è andato storto, tanto che quella bambina e chi con lei hanno covato rancore per vent'anni, allora Lupin avrà cercato di seppellire tutto».
Il silenzio di Sherlock era un segno inequivocabile: l'aveva stupito.
«Adesso vado, ti richiamo se trovo qualcosa».
Terminò la chiamata e rientrò in ufficio, scorgendo solo le gambe e le mani di Folefant - il resto del corpo era nascosto dalla pila di scatoloni che stava spostando. Lo raggiunse con poche rapide falcate e ne tolse due dalla torre pericolante, trovandosi di fronte ai suoi occhi cristallini.
«Che le ha detto Holmes?», gli domandò con un leggero fiatone.
Ganimard sorrise. «Si congratula con te. Dice che hai ottime capacità deduttive».
«Dice sul serio?».
L'ispettore annuì e fu un piacere per gli occhi guardare l'espressione felice e fiera di Folefant. Quel ragazzo aveva decisamente un futuro, ma era giusto permettergli di godersi il presente ogni tanto.

***

«Grazie e passi di nuovo a trovarci!», disse Arsène - o meglio, Thomas Lee - all'uomo che aveva appena comprato un volume proveniente dalla sezione dei libri rari.
Una donna sulla sessantina, con lunghissimi capelli bianchi raccolti in una treccia e occhiali da vista che prendevano il sopravvento su tutto il suo viso tempestato di efelidi, uscì dall'ufficio e sbalordita gli chiese: «Ne hai venduto un altro?».
Thomas annuì, sorridendo umilmente.
«Oh gioia, non so davvero che cosa abbia fatto per meritarmi un ragazzo come te!», esclamò la signora O'reilly col suo marcato accento irlandese, stringendolo in un abbraccio che per una persona anziana e minuta come lei era davvero di una forza inaspettata.
Tu non hai fatto proprio niente, pensò Arsène. Il motivo per cui si trovava a lavorare in quel negozio di libri antichi e rari, piccolo ma con dei pezzi davvero niente male, era uno e uno soltanto: era stato lui a volerlo. E, come sempre, era successo.
Certo, prima aveva dovuto aspettare l'arrivo del passaporto che autenticasse la sua nuova identità - speditogli alla sua casella postale londinese - e poi aveva dovuto dimostrarsi degno del lavoro.
L'idea di dover lavorare sul serio non lo faceva impazzire, però era una copertura perfetta: non solo avrebbe reso credibile la sua storia, ma dalla libreria, situata proprio davanti al condominio di Molly Hooper, poteva controllare chiunque transitasse nella zona senza destare sospetti, accertandosi così che sua figlia fosse al sicuro.
Aveva notato il cartello "Cercasi personale" già quando aveva fatto il suo primo sopralluogo (anche se all'epoca non aveva idea che Geneviève si sarebbe ritrovata a vivere sotto lo stesso tetto dell'anatomopatologa) e per fortuna non era ancora stato tolto quando aveva pensato di diventare Thomas Lee.

Dopo essersi specchiato davanti alla vetrina per controllare che i capelli neri e il farfallino rosso fossero in ordine era entrato nel negozio e al contrario di ciò che si aspettava aveva trovato un ambiente caldo ed accogliente e che gli aveva fatto tornare alla mente ricordi della sua adolescenza.
La libreria era composta da due locali delle stesse dimensioni - quattro contando i due soppalchi che erano stati costruiti apposta per sfruttare ogni spazio disponibile: l'ingresso, col bancone da una parte e un tavolo da consultazione dall'altro, e un salottino in cui era possibile sprofondare in una delle tre poltrone Chesterfield in pelle e leggere nel silenzio, avvolti dal profumo dei libri antichi e riscaldati dal tepore di una stufa in ghisa dell'Ottocento.
Ovunque il colore del legno era predominante e le luci delle lampade e del grande lampadario in ottone conferivano un'atmosfera d'altri tempi. I pavimenti erano ricoperti da vari tappeti persiani, dalle tonalità cangianti, e tutte le pareti erano nascoste da librerie stracolme che raggiungevano gli alti soffitti.
Entrando per candidarsi Arsène aveva involontariamente interrotto un affare che sembrava ben lontano dalla conclusione. Un uomo e una donna erano sul soppalco che dava sull'ingresso ed era stata la donna a sporgersi oltre la ringhiera e a sorridergli dicendo che l'avrebbe raggiunto subito.
Avendo ormai capito che era lei la proprietaria del negozio, la persona che doveva impressionare perché lo assumesse, si era messo a curiosare in giro mentre prestava orecchio alla conversazione sopra di lui.
L'uomo chiedeva insistentemente un ulteriore sconto, nonostante sembrasse che la venditrice gliene avesse concessi parecchi nel corso dei mesi e lui non si fosse mai deciso a comprare, tenendola in attesa. Ad Arsène era bastata un'occhiata per capire che quell'uomo era più che benestante e che l'unico motivo per cui voleva una diminuzione del prezzo era perché sapeva che prima o poi quella donna buona e amante dei libri avrebbe ceduto. Il Ladro Gentiluomo non poteva permettere che si approfittasse in quel modo di lei, perciò aveva deciso di intervenire. Inoltre, se la tecnica del concorrente avesse funzionato come aveva già appurato in più di un'occasione, sarebbe anche riuscito a tirare acqua al proprio mulino.
Così aveva attirato l'attenzione dei due e li aveva raggiunti salendo la stretta scala a chiocciola che portava al soppalco. Si era presentato e scusandosi per l'intromissione aveva chiesto di esaminare il volume, dimostrandosi meravigliato di fronte al perfetto stato di conservazione nonostante fosse la prima edizione ed avesse più di trecento anni.
Di fronte all'espressione innervosita dell'uomo si era tolto gli occhiali da lettura e aveva chiesto alla proprietaria a quanto lo vendesse. Sentito il prezzo, ribassato di almeno duecento sterline, Thomas Lee si era fatto una bella risata e ne aveva offerte mille.
«Mi scusi, ma questo è inaccettabile!», aveva esclamato l'uomo, il viso paonazzo. «Qui non stiamo facendo un'asta!».
«E che cosa ce lo impedisce?», aveva ribattuto Thomas, sorridendo pacato. «Io sono interessato a questo libro e se lei lo è altrettanto sono sicuro che lo otterrà chi lo desidera di più. D'altronde nessun prezzo è troppo alto per l'arte. Dico bene, signora?».
Alla strizzata d'occhio che aveva rivolto alla signora O'reilly l'uomo si era gonfiato ancor di più per la rabbia, ricordando un pesce palla, e ne era seguito uno scambio di offerte e controfferte che si era concluso quando Arsène aveva ritenuto che l'ultimo prezzo proposto dall'uomo fosse pari al valore attuale del libro, più un extra per il disturbo causato alla proprietaria del negozio.
Quando l'uomo se n'era andato col volume incartato e gelosamente stretto al petto, ignaro di essere stato raggirato dal solo ed unico Arsène Lupin, la signora O'reilly l'aveva guardato come un'apparizione divina. Immensamente grata gli aveva chiesto che cosa poteva fare per sdebitarsi e Thomas, senza peli sulla lingua, aveva risposto: «Mi assuma».
Solo allora la donna aveva realizzato che lui non era mai stato veramente interessato all'acquisto del libro e, ancora più conquistata dal suo talento, era andata a togliere il cartello dalla vetrina.
«Lo sai, sei qui da una settimana e sei già riuscito a vendere più di quanto io abbia venduto il mese scorso!», esclamò la signora O'reilly, entusiasta. «Per non parlare del tuo occhio negli acquisti!».
«Ah, a proposito».
Thomas si chinò sotto il bancone ed afferrò un voluminoso tomo dalla copertina in pelle, decorata con filamenti d'oro. Già da chiuso dava l'impressione di essere antichissimo e di inestimabile valore, ma quando lo aprì per mostrare alla donna le pagine ingiallite ma intatte, l'inchiostro delle lettere gotiche appena scolorito e le miniature dai colori ancora sgargianti fu quasi sul punto di farle venire un attacco di cuore.
«Christ on a bike!», esclamò col suo accento irlandese, facendo sorridere Thomas.
Il cellulare iniziò a vibrargli nella tasca posteriore dei jeans e le chiese se potesse fidarsi nel lasciarla sola col prezioso manoscritto e il suo shock. Tutto ciò che ottenne in risposta fu un mugugno e Arsène se lo fece bastare.
Attraversò il piccolo ufficio a cui si accedeva dal retro del bancone ed uscì, ritrovandosi in uno stretto vicolo.  
«Pronto?», rispose con cautela, non riconoscendo il numero sul display.
«Sono io».
Arsène riconobbe la voce e sorrise, decidendo di divertirsi un po'. «Io chi?».
«Non mi prendere per il culo, Lupin!».
«Che volgare! È di cattivo umore per caso?».
«Non sei il primo che me lo chiede».
«Beh, spero per il mio che abbia le informazioni che le ho chiesto».
«Sì, ce le ho. Ma con questo abbiamo chiuso, va bene? Justin è un amico, non voglio più...».
«Bla, bla, bla», lo interruppe Arsène, schifato. «Sono anni che ripete la stessa solfa. E sono anni che, ogni volta che chiamo, lei risponde. Perché non si decide una buona volta? Eppure le ho detto esattamente che cosa fare per liberarsi di me!».
«Sai che non posso farlo».
«Oh, no. Lei può, ma non vuole. Sia sincero, Ispettore Capo Dudouis».
Arsène sorrise e tirò fuori la sigaretta elettronica dalla tasca del grembiule bordeaux che indossava per proteggere i vestiti dalla polvere dei libri. Fece un tiro ed aspettò la risposta dell'uomo, che non arrivò.
Spazientito, fu lui a riprendere la parola: «Ecco perché non mi è mai piaciuto, Dudouis. Al contrario di Ganimard lei è un codardo, lo è sempre stato. Ha chiesto il mio aiuto quando ne aveva bisogno e in cambio ha accettato di essere i miei occhi e le mie orecchie nella polizia. Ovviamente si è accorto presto del suo errore e mi ha chiesto di porre fine alla nostra collaborazione. Ricorda cosa le risposi? Le dissi che avrei rinunciato ai suoi servigi se avesse annunciato alla stampa di aver fatto un patto con me. Allora ha fatto i suoi bei conticini e si è detto: "Ne vale davvero la pena? Rinunciare al posto di Ispettore Capo, alla stima dei miei amici e familiari... Cadere in disgrazia solo per andare a letto sereno?". Se siamo qui a parlarne dopo quindici anni, la risposta è chiarissima».
Il respiro affannoso di Dudouis infastidì Arsène ancora di più e con tono stizzito gli ordinò di aggiornarlo sulle indagini che Ganimard, corso in aiuto di Sherlock, stava conducendo sui suoi vecchi casi.
«Da quello che ho potuto vedere non ha le idee molto chiare. Però si stanno concentrando sui casi che hanno coinvolto bambine e casinò».
Arsène aveva voglia di prendere a calci qualcosa, ma si trattenne.
Niente, non gli veniva in mente niente! Per anni aveva ripetuto il mantra: "Il passato è morto per sempre; il passato non esiste", ma in quel momento, con la propria vita e quella di sua figlia in pericolo, avrebbe tanto desiderato ricordare e capire chi fosse il nemico da affrontare.
«Allora, ti serve altro?», domandò l'Ispettore Capo, innervosito dal suo silenzio.
«No. Le auguro un buon Natale, Dudouis».
Terminò la comunicazione senza aspettare di sentire la risposta dell'uomo e fece l'ultimo tiro alla sigaretta elettronica, giungendo alla triste conclusione che da solo non avrebbe fatto alcun progresso. Il suo primo pensiero fu per Grégorie, ma dovette scartarlo quasi subito: anche lui, proprio come Sherlock, aveva dedotto che l'assassina doveva essere appena una bambina quando le loro strade si erano incrociate per la prima volta, perciò l'amico, che conosceva da dieci anni e a cui non aveva mai parlato delle proprie avventure passate, non poteva essergli d'aiuto.
Aveva bisogno di qualcuno che aveva indagato nella sua vita a lungo, come Ganimard, e di cui poteva fidarsi ciecamente. Arsène aprì gli occhi e si colpì in fronte con una mano, dandosi dello stupido. Quindi si portò di nuovo il cellulare all'orecchio, picchiando a terra un piede nell'attesa.
«Avanti, rispondi», lo pregò a bassa voce e il ragazzo, come se avesse udito la sua richiesta, rispose.
«Pronto?».
«Maurice, sono io».
Il giornalista de L'Ècho de France sospirò di sollievo. «Allora stai bene! Grégorie mi ha confermato che non eri morto nell'incidente, ma non ha voluto dirmi nulla di più, quindi temevo...».
«Perdonami se non mi sono fatto sentire, sono stato molto impegnato».
«Ma certo, capisco».
«Hai da fare adesso?».
«Dimmi dove».
Arsène sorrise, dicendosi che aveva fatto davvero un colpaccio quando aveva scelto quel ragazzo come reporter ufficiale.
«Libreria O'reilly. Assicurati di non essere seguito».
«Va bene».
Arsène rientrò nel negozio e vide la proprietaria intenta ad infilarsi cappotto, sciarpa e cappello di lana.
«Sta uscendo?», le domandò, pensando che capitava proprio a fagiolo. Rimasto solo avrebbe potuto parlare con Maurice in tutta tranquillità.
La signora O'reilly incartò il tomo ed una volta infilato in una valigetta di cuoio annuì. «Ho bisogno di un secondo parere per la valutazione Ti affido la libreria. A dopo caro!».
Thomas la seguì fin sopra il marciapiede e la salutò quando salì sul taxi, poi tornò nel negozio e lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle scampanellando. Allora guardò il piccolo albero di Natale con cui avevano addobbato la vetrina e sorrise, ricordando la promessa che aveva fatto a sua figlia: quel week-end avrebbero portato la magia di quella festa anche nell'appartamento di Molly Hooper, la quale aveva tirato fuori gli scatoloni ma non aveva avuto ancora il tempo materiale per guardarci dentro.
Erano anni che non si preoccupava più del Natale: per lui era un giorno qualunque, come tutte le altre festività segnate sul calendario. Aveva sempre lavorato, nonostante i rimproveri di Victoire, e forse iniziava ad intravederne il motivo: il Natale era una festa in cui la famiglia si riuniva ed Arsène, essendone sprovvisto, aveva deciso di ignorarla per non soffrire troppo la solitudine. Quell'anno però era diverso; quell'anno aveva scoperto di avere Geneviève.
Il sorriso gli svanì dal volto ripensando all'ultima conversazione che aveva avuto con Victoire e di cui non aveva ancora avuto il coraggio di parlare con nessuno, men che meno con la diretta interessata, sua figlia.
Secondo le ricerche della donna l'unico modo per poter stare legalmente con lei era dimostrare ancora una volta di essere suo padre - aveva infatti già fatto il test di paternità dopo il loro primo incontro, all'insaputa di Clotilde - e portare i risultati davanti ad un giudice del tribunale dei minori, il quale avrebbe dovuto spulciare nella sua vita prima di decidere. Erano tutti ostacoli che Arsène pensava di superare, ma alla lunga sarebbe stato molto rischioso, soprattutto per Geneviève. Aveva promesso a Clotilde che l'avrebbe tenuta lontana dal suo lavoro, che l'avrebbe fatta vivere come una ragazzina normale e, soprattutto, che non l'avrebbe mai costretta a nascondersi. Farla diventare la figlia di un'identità fittizia, per quanto magistralmente creata, avrebbe voluto dire contannarla ad una vita di menzogne. Lei meritava di meglio, meritava di vivere nella luce.
Scrollando il capo nella speranza che quei pensieri lo abbandonassero si diresse verso il salottino, dove controllò la stufa e poi si mise a sistemare sugli scaffali i libri che erano stati consultati da alcuni dei clienti abituali della signora O'reilly.
Stava riesaminando mentalmente tutti gli indizi che possedeva quando sentì il tintinnio del campanello alla porta. Certo che si trattasse di Maurice corse all'ingresso, ma si ritrovò davanti proprio Geneviève.
«Buongiorno signorina», la salutò, fingendo che si trattasse di una cliente qualunque. «Posso esserle d'aiuto?».
La ragazzina si guardò intorno meravigliata e poi abbassò gli occhi su di lui, squadrandolo da capo a piedi. Thomas aveva mantenuto il suo stile punk, ma quando era di turno in negozio indossava sempre camicia e farfallino, i capelli neri erano ordinatamente legati in un codino e appesi al grembiule portava un paio di piccoli occhiali da lettura dalle lenti tonde. Più che un libraio sembrava un enologo, ma poco importava: era bello da togliere il fiato.
«Sai, potrei abituarmi a questo tuo look», esordì Geneviève sorridendo. «Sono venuta perché Molly è al lavoro e a casa mi stavo annoiando».
«Ti ho già detto che non è il caso che tu ti faccia vedere qui», sussurrò Arsène, avvicinandosi ad uno scaffale ed indicando una serie di libri per mantenere le apparenze. «Grégorie potrebbe insospettirsi e...».
«Tranquillo, il tuo fidanzato non è di turno questa mattina».
Il ladro sgranò gli occhi, scioccato. «Fi-Fidanzato?».
«Sì, lo so che probabilmente la vostra non è una relazione seria, ma lasciamelo chiamare così, okay? È già abbastanza strano».
Arsène le indicò il piccolo corridoio con un semplice cenno del capo e la precedette. Geneviève lo seguì e commentò il salottino con un semplice «Wow», scegliendo poi una poltrona tra i cui braccioli abbandonarsi.
Lontano dalle vetrine che davano sulla strada il Ladro Gentiluomo poté smettere di trattenersi e si portò le mani sui fianchi.
«Che cosa significa? Da quanto tempo sai che io e Grégorie...».
Geneviève si portò le mani sulle orecchie ed intonò un «La-La-La» per non sentire il continuo di quella frase. Quando fu sicura che suo padre non avrebbe aggiunto altro, spiegò: «Ho sempre notato che lui ti guardava in modo diverso rispetto agli altri membri della banda. Pensavo però che fosse una cosa a senso unico, insomma... che tu non ricambiassi visto che la tua reputazione da sciupafemmine ti precede. E poi sono nata io, quindi...».
«Sì, ho capito: non pensavi potessi andare a letto anche con gli uomini».
«Santo cielo, l'hai detto», mormorò Geneviève, coprendosi il volto rosso d'imbarazzo e lasciandosi scivolare un po' di più sulla poltrona.
«Non c'è nulla di cui vergognarsi. Il sesso è sesso... Se c'è attrazione, come nel caso di Grégorie o Sherlock, i generi non contano».
«Mi stai dicendo che tu e Sherlock avete...?». La ragazzina scosse violentemente il capo, correggendosi: «Lascia perdere, non voglio saperlo».
Arsène sospirò e si lasciò cadere sulla poltrona accanto a quella della figlia, le mani unite dietro la testa.
«E cosa ti ha convinta alla fine?», le domandò ad un tratto, non riuscendo a tenere a freno la curiosità.
La biondina si strinse nelle spalle. «Tu, poco fa».
«Mi hai raggirato col trucco più vecchio del mondo».
«Direi di sì».
Si guardarono negli occhi e sorrisero, sentendo la tensione stemperarsi.
Geneviève si portò un ginocchio al petto ed arricciandosi una ciocca di capelli tra le dita gli chiese: «Come vi siete conosciuti?».
Arsène distolse lo sguardo, improvvisamente malinconico. «Sai che non mi piace parlare del passato».
«Lo so, ma tende a vendicarsi se ignorato».
Lupin dovette darle ragione e cedette.
«È stato il 4 Maggio di dieci anni fa», iniziò a raccontare. «Era l'anniversario della morte di un filantropo francese e le sue figlie avevano deciso di organizzare una serata di beneficenza i cui fondi sarebbero andati alle varie associazioni no profit di cui il padre era un sostenitore. L'evento venne chiamato "Bazar de la Charité" e furono invitate le più ricche famiglie di Parigi».
«E tu trovarsti il modo per partecipare anche senza invito, giusto?».
Arsène sorrise, annuendo con un cenno del capo. «So che sembra banale, ma riuscii a farmi assumere come cameriere. Era la copertura perfetta: potevo girare tra gli invitati senza destare sospetti, rubare portafogli e sentirli vantarsi delle loro collezioni di opere d'arte e mobili antichi, acquisendo informazioni preziose».
«E Grégorie? Era anche lui un cameriere?».
Il padre sorrise furbescamente, scuotendo il capo.
«Non dirmi che lui era uno degli aristocratici!», gridò allora Geneviève, incredula.
«Perché ti stupisci tanto?».
«Perché... perché lui sembra un maggiordomo, non uno che era abituato ad essere servito!».
«Beh, allora dev'essere vero il detto "Guardando si impara"».
«Non posso crederci», mormorò Geneviève. La storia era appena cominciata ed era già esterrefatta. «E che cos'è successo? Avanti, racconta!».
«Va bene, va bene». La sua impazienza lo divertiva. «Grégorie era in un angolo della sala, col volto serio ed imperturbabile, e guardava le figlie del filantropo fare le civette con degli importanti industriali. Fui immediatamente attratto dal suo comportamento anticonformista, così lo raggiunsi con la scusa di volergli porgere da bere. Grégorie mi squadrò e rifiutò, però prima che me ne andassi mi afferrò per il polso e mi chiese: "Non hai intenzione di prendere anche il mio di portafoglio?". Non provai nemmeno a negare: avrei insultato il suo occhio attento. Gli lasciai il mio bigliettino da visita e decisi che per la serata avevo raccimolato abbastanza. Stavo giusto servendo gli ultimi drink quando Grégorie mi passò accanto e mi infilò nel taschino del gilet il mio stesso bigliettino, su cui aveva scritto che mi aspettava al piano di sopra in dieci minuti».
«Caspita, non lo facevo così audace», commentò Geneviève.
«Oh, lo era eccome».

Arsène represse un gemito di dolore misto a piacere quando fu spinto contro il muro alle sue spalle. Stretto tra la parete e il corpo dell'uomo ricambiò con foga il bacio fino a quando quest'ultimo non lasciò le sue labbra per scendere sul collo e sul petto da cui aveva già scostato i lembi della camicia bianca.
Rise, divertito dalla piega che aveva preso la serata, ed esclamò con voce affannata: «Non so nemmeno come ti chiami».
«Grégorie Carrière», rispose l'uomo, tracciando con la lingua i contorni dei suoi capezzoli.
«Carrière... Come Cécile e Pauline Carrière? Monsieur Carrière era tuo padre e questa è casa tua?». Sconvolto, Arsène gli portò le mani sulle spalle e lo allontanò per poterlo guardare negli occhi. Grégorie sorrise, annuendo.
«Non sapevo che il vecchio avesse un figlio».
«Diciamo pure che sono la pecora nera della famiglia. Non mi è mai andato a genio il modo in cui gestiva i suoi affari, trovando sempre scorciatoie per aggirare la legge e sfruttare i propri lavoratori... Cercava di pareggiare i conti con le sue generose donazioni per lo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo, ma la verità è che era un ipocrita. Questa sera sono venuto solo perché sono state le mie sorelle a chiedermelo. Direi che ho fatto bene ad accettare, non trovi?».
Detto questo gli sbottonò i pantaloni ed iniziò ad occuparsi della sua mezza erezione. Arsène chiuse gli occhi, abbandonando il capo contro la parete, e mormorò: «Oh sì, decisamente».
Non erano nemmeno lontanamente arrivati alla parte divertente quando furono interrotti dall'allarme antincendio. Grégorie gli disse di non farci caso, che probabilmente era partito a causa delle vecchie cappe della cucina, ma Arsène, il cui sesto senso aveva iniziato a pizzicargli la nuca, si alzò dal grande letto a baldacchino e si rivestì, consigliandogli di fare lo stesso. Insieme erano tornati al piano di sotto e una volta di fronte alle porte spalancate della sala da ballo erano rimasti ad occhi e bocca spalancati: il palco in fondo alla sala, sul quale si stava svolgendo l'asta di beneficienza, era avvolto dalle fiamme.
Il panico aveva portato le persone a calpestarsi a vicenda pur di scappare dalla sala e per via del fumo che rendeva l'aria irrespirabile i corpi stesi a terra erano già decine.
Arsène guardò il grande ritratto di Monsieur Carrière bruciare e poi seguì il percorso delle fiamme fino al soffitto dalle travi a vista. Afferrò il polso di Grégorie ed esclamò: «Presto, dobbiamo andarcene da qui».
«Le mie sorelle», balbettò l'uomo, sotto shock. «Devo trovare le mie sorelle».
«Non puoi, qui sta per crollare tutto!», insistette il ladro, ma Grégorie si liberò della sua stretta e corse nella sala da ballo coprendosi la bocca con la giacca.
Arsène sospirò frustrato e gridò alle persone che si stavano accalcando all'uscita di fare con calma. Come un perfetto vigile amministrò il traffico e grazie a lui ci furono due dozzine di vittime in meno.
Una volta riuniti gli invitati nel giardino, Arsène prestò primo soccorso ai feriti in attesa dell'arrivo delle ambulanze e dei vigili del fuoco. Perché ci stavano mettendo tanto?!
Stava raccomandando ad una signora di tenere sveglio il marito con un profondo taglio sulla testa, anche schiaffeggiandolo se necessario, quando un boato gli fece accapponare la pelle. Arsène si voltò verso la villa dei Carriére ed attraverso le alte finestre dai vetri in frantumi vide le lingue di fuoco tingere di rosso il cielo scuro. Quella scena l'aveva già vista.
«Grégorie», sussurrò col cuore in gola.
Si alzò e fece un passo verso la villa, poi si fermò coi pugni stretti lungo i fianchi.
Quello stupido non aveva voluto ascoltarlo e non c'era alcun motivo per cui doveva rischiare la propria vita nel tentativo di salvarlo. Non lo conosceva neppure!
Il Ladro Gentiluomo chinò il capo e sfruttando la rabbia che gli montava dentro corse verso l'ingresso, ignorando le urla e le mani delle persone che tentavano di fermarlo.

Geneviève guardò suo padre con espressione incredula e lui abbozzò un sorriso, alzandosi dalla poltrona.
«Ecco com'è andata», disse, sistemandosi i lacci del grembiule dietro la schiena.
«Che ne è stato delle sue sorelle?», domandò la ragazzina una volta ripresasi.
«Cécile e Pauline sono state le prime vittime: erano sul palco quando un'americana ha ceduto, facendo cadere i fari da cui poi è partito l'incendio».
«Quindi, rimasto solo al mondo, ha deciso di dedicare la sua vita a colui che gliel'ha salvata. Ora capisco».
«Già».
«Papà...».
«Uhm?».
Il suo sguardo serio lo lasciò interdetto, ma Geneviève non ebbe il tempo materiale per dire ciò che aveva in mente, anticipata dallo scampanellio della porta. Arsène si scusò e andò a vedere chi fosse. Ritornò poco dopo, accompagnato da Maurice Leblanc, e i due si scambiarono un'occhiata imbarazzata prima che quest'ultimo fingesse di non conoscerla.
Il Ladro Gentiluomo sorrise e diede una pacca sulla schiena del giornalista, esclamando: «Tranquillo, so che avete già avuto modo di presentarvi».
«Come?», esclamò Maurice, guardando prima il padre e poi la figlia.
«Non ha importanza. Avanti, accomodati», gli disse indicando la poltrona accanto a quella su cui era seduta Geneviève. Prima di lasciarlo andare però si sporse sul suo orecchio e sussurrò: «Guardala con occhi maliziosi e te li farò cavare».
Il ragazzo deglutì ed annuì, stringendosi al petto la borsa a tracolla in cui portava sempre il laptop.
«Bene, arrivo subito!», esclamò euforico Arsène, lasciandoli soli nel salottino.

***

Sherlock entrò nella stanza d'albergo in cui lui e Irene erano soliti incontrarsi e si guardò intorno, sentendo una sgradevole sensazione allargarsi nel suo petto.
Dubitava fortemente che la donna avesse lasciato qualche indizio per lui - pensava infatti che non avesse nutrito alcun sospetto sui suoi rapitori - ma ormai non aveva più carte in mano.
Cercò ovunque, persino dietro il quadro astratto che spesso e volentieri, dopo il sesso, erano rimasti ad osservare domandandosi che cosa diavolo rappresentasse.
Non trovò nulla.
Si sedette sul letto, davanti al maledetto dipinto, e finalmente riuscì a dargli un senso: caos. In quegli ultimi dieci giorni aveva avuto modo di viverci, perciò ora gli sembrava tanto elementare.
Ogni pista che aveva seguito lo aveva portato al nulla e la frustrazione l'aveva ridotto ad un fascio di nervi, insopportabile per tutti quelli che provavano ad avvicinarlo. John, in particolare, era quello che ci aveva rimesso più di tutti, incassando senza mai rispondere fino a quando, il giorno prima, non ce l'aveva più fatta.

«Devo trovare Lupin. Non è un buon segno che sia sparito nel nulla».
Il dottor Watson, chino su Rosie per aiutarla a muovere i primi passi, alzò gli occhi per affermare per la decima volta: «Sono certo che sta bene».
«E come fai a saperlo? Sei andato da un'indovina?», sbottò, riprendendo a camminare avanti e indietro di fronte al camino acceso.
«No», rispose sospirando. «Però, conoscendolo...».
«Conoscendolo? Tu non lo conosci! Ci avrai parlato quanto, venti minuti al massimo? Non hai la minima idea di cosa passi per la sua mente!».
«E tu sì?», ribatté il dottore, mostrandosi molto più arrabbiato di quello che avrebbe dovuto. Aveva raggiunto il punto di rottura, evidentemente, e Sherlock, nonostante se ne fosse accorto, ne approfittò per sfogare il proprio nervosismo.
«Certo! Lui mi considera un amico, perciò so che se le sue ferite fossero state gravi me lo sarei ritrovato qui, dato che non poteva andare in ospedale per evitare che gli aguzzini lo attaccassero mentre era incosciente. Non si sarebbe fidato di nessun altro!».
John lasciò Rosie seduta sul tappeto e si portò le mani sui fianchi, annuendo con un lieve sorriso sulle labbra.
«Mi dispiace dovertelo dire, ma non lo conosci bene come credi».
«Prego?».
«Arsène è venuto da me, dopo l'incidente. Da me! Io l'ho ricucito e sempre io ho vegliato su di lui! E tu eri così convinto di essere il solo ed unico che non ti è nemmeno passato per la testa che avesse preferito andare da un dottore vero!».
Sherlock, sotto shock, aprì la bocca ma nessun suono vi uscì. L'amico scosse il capo, prese la figlioletta tra le braccia e raccattò le sue cose.
«Sai, inizio a pensare che Arsène abbia ragione», esclamò sulla soglia del salotto. «Devi aprire gli occhi e reputare il tuo cuore un alleato, piuttosto che un nemico».
«Tu non capisci, John», mormorò, dandogli le spalle per osservare Baker Street dalla finestra.
«Che cosa non capisco?».
«Ho già fatto affidamento sul mio cuore, tanto tempo fa, e non è andata a finire bene».
«Forse dovresti riprovarci».
Quando Sherlock si era voltato per guardarlo in volto, John non c'era già più.

Un lieve bussare lo riportò alla realtà e Sherlock si alzò dal letto per addossarsi al muro e, pistola in pugno, aprire la porta.
«Mycroft?», domandò confuso il detective, fissando il fratello che, con le mani sollevate, gli sorrideva pacato. «Che diavolo ci fai qui? E come facevi a sapere...?».
«Non ha importanza. Come stai?».
«Come sto?», ripeté Sherlock. Poi comprese e ripose la pistola nella tasca del cappotto, lasciandosi andare ad una risata gutturale. «Ma certo. Perquisiscimi pure, ma non ho droga con me».
«Mi fido della tua parola».
Fece un giro su se stesso per verificare in quali condizioni igienico-sanitarie suo fratello minore avesse avuto dei rapporti sessuali e una volta completato l'esame disse: «Sei più preoccupato per lei o per Arsène?».
Sherlock sbuffò e si lasciò cadere di nuovo sul materasso, le dita sulle tempie. «Tu lo sapevi che dopo l'incidente Arsène è andato da John?».
Mycroft si rifiutava di posare le mani su una qualsiasi superficie di quella stanza, perciò usò l'ombrello come appoggio.
«No, non lo sapevo, ma nella sua situazione l'avrei fatto anche io. È la mossa più logica, dopotutto».
Il silenzio di Sherlock gli fece capire che lui non ci era arrivato, ma non infierì oltre.
«Fratellino, hai confessato al dottor Watson quello che ti preoccupa davvero?».
«No. E non ne ho alcuna intenzione, non cercare di convincermi».
Mycroft sospirò. «Bene, come vuoi. Devo continuare a cercare Irene Adler?».
Sherlock levò di scatto il capo, mostrando inconsapevolmente tutta la propria preoccupazione. «Credi che sia...?».
«Credo che dovresti prepararti all'eventualità».
Il detective si alzò e raggiunse le tende che oscuravano le finestre. Con un gesto deciso le scostò, facendo entrare la luce del primo pomeriggio nella stanza, ed esclamò: «No». Prima che il fratello potesse chiedergli a cosa stesse rispondendo, aggiunse: «Irene non è morta. Se lo fosse avremmo già trovato il suo cadavere».
«Magari non se ne sono ancora sbarazzati perché sapevano che avrebbero attirato la tua attenzione. Gestire Arsène è già abbastanza difficile, dopotutto».
Sherlock si portò di nuovo le dita sulle tempie, nel tentativo di capire a chi toccasse muovere.
«Secondo te Arsène che cosa sta facendo?», chiese a Mycroft.
«Probabilmente si prepara al contrattacco. E sarà qualcosa di grosso».
Il consulente investigativo lo fissò, colpito dalle sue parole. «Perché dici questo?».
Mycroft sorrise in quel suo modo mellifluo. «Il silenzio».
Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma aveva ragione da vendere. Arsène era solito provocare i propri avversari, avvertirli del suo arrivo (l'aveva fatto anche con lui), ma quella volta era semplicemente sparito, facendo temere il peggio persino a Mycroft.
«Dobbiamo trovarlo, prima che faccia qualcosa di stupido», esclamò il detective, con sguardo febbrile. «Le nostre risorse non bastano a stanarlo, perciò dovremo fare in modo che sia lui ad uscire allo scoperto. Idee?».
«Solo una», rispose il maggiore degli Holmes.
«Me la dici o vuoi una richiesta scritta?».
Arricciando gli angoli della bocca in un sorriso quasi perverso, Mycroft gli puntò contro l'ombrello ed affermò: «Diventerai Arsène Lupin».

***

«Sei arrabbiato?».
Arsène portò dietro il bancone le tazze di té che aveva offerto a Geneviève e Maurice e guardò quest'ultimo con le sopracciglia inarcate.
«E perchè dovrei? Io per primo non ho idea di chi siano i mandanti di quell'agguato».
«Non intendevo per le ricerche andate a vuoto». Il ragazzo chinò il capo e si grattò la nuca, imbarazzato. «Conoscevo Geneviève e te l'ho tenuto nascosto».
Il Ladro Gentiluomo sorrise di cuore e si appoggiò al bancone con gli avambracci, facendogli segno di avvicinarsi con un dito. Maurice deglutì e si chinò verso di lui, porgendogli l'orecchio.
«Sciocco!», gli gridò nel timpano, facendolo sobbalzare. Poi scoppiò a ridere, aggiungendo: «Non sono affatto arrabbiato, piuttosto... impressionato, ecco. Hai impiegato davvero poco a capire chi fosse in realtà. Ti devo fare i miei complimenti, Maurice».
Il giornalista, con la mano ancora sull'orecchio offeso, abbozzò un sorriso.
«Adesso vai», gli disse Arsène, dando un'occhiata all'antico orologio a pendolo posto alle sue spalle. «La signora O'reilly potrebbe tornare da un momento all'altro e dovrei costringerti a comprare un libro che non puoi permetterti».
«Continuerò a cercare», lo rassicurò Maurice, battendo il palmo sulla propria borsa a tracolla.
«E io ti ringrazio. Buona serata, amico mio».
Arsène guardò il ragazzo uscire dal negozio ed incamminarsi a piedi, le mani nelle tasche e il colletto della giacca sollevato per ripararsi dal vento freddo. Quindi sospirò e per evitare di abbattersi ulteriormente tornò a vestire i panni di Thomas il commesso e a sistemare il negozio.
Quando la signora O'reilly rientrò, una mezz'ora più tardi, lo trovò in cima ad una scala, intento a togliere le ragnatele dagli angoli del soffitto e dal lampadario.
«Com'è andata la valutazione?», le domandò subito.
Il suo sorriso a trentadue denti fu abbastanza eloquente. Era così euforica che per ringraziarlo gli diede il resto del pomeriggio libero. Thomas insistette per rimanere - dopotutto aveva iniziato a piacergli la tranquillità di quel posto e il lavoro non era troppo faticoso, anzi, era proprio quello di cui aveva bisogno: una distrazione - ma la donna non volle sentire ragioni e quasi lo spinse fuori dalla porta.
Rimasto sul marciapiede, Arsène sospirò e non poté far altro che tornare a casa.
Pensò che magari lui e Geneviève avrebbero potuto anticipare l'appuntamento con le decorazioni, oppure preparare la cena per fare una sorpresa a Molly, ma i suoi programmi vennero ancora una volta sconvolti quando vide la figlia seduta sulle scale che portavano al pianerottolo dell'anatomopatologa, il cellulare tra le mani e un'espressione pensierosa.
«Ehi, che succede?», le domandò, fermandosi al suo cospetto.
La ragazzina sollevò gli occhi e smise di torturarsi il labbro per forzare un sorriso e scuotere il capo. «Probabilmente non è niente».
«Mai sottovalutare il proprio istinto», le disse il padre, portandole una mano sulla testa. «Regola numero due del Ladro Gentiluomo».
«Qual è la numero uno?».
«Te la rivelerò se mi dici che cosa ti preoccupa».
Geneviève si fece un poco più in là, permettendo ad Arsène di sedersi al suo fianco sul gradino, e con le ginocchia strette al petto confessò: «Mi ha appena chiamato Molly e mi ha detto che farà tardi per cena perché deve fare degli straordinari».
«E...?».
«Ed è strano, perché è già la seconda volta questa settimana».
«Capisco», mormorò il ladro, guardando di fronte a sé.
Senza farlo apposta imitò la posizione di Geneviève, incrociando le braccia sulle ginocchia e posandovi sopra il mento. Ad un tratto si voltò a guardarla e le chiese: «Che cosa vuoi fare?».
«Non lo so. Che cosa dovrei fare?». La ragazzina sospirò.
«Regola numero uno del Ladro Gentiluomo», declamò Arsène, sollevando l'indice della mano destra. «Soddisfare sempre la propria curiosità».
«Non voglio passare per quella che non sa farsi gli affari suoi».
«Essere curiosi non significa per forza essere dei ficcanaso», le spiegò con tono dolce. «Il termine curiosità deriva dal latino e ai tempi significava essere attenti e diligenti, ma anche interessarsi e avere a cuore le conoscenze tramandate di generazione in generazione. Reprimerla è inutile, in quanto è insita nell'animo umano. Pensa dove saremmo, a quest'ora, se gli uomini primitivi non si fossero incuriositi alla vista del fuoco e non avessero imparato a dominarlo, rischiando anche di bruciarsi».
Geneviève riprese a tormentarsi il labbro inferiore con i denti, fino a quando non disse: «Non c'era un proverbio che diceva che la curiosità uccise il gatto?».
Arsène si strinse nelle spalle. «E allora? Noi non siamo mica gatti».
Si scambiarono uno sguardo e scoppiarono a ridere, appoggiandosi ognuno alla spalla dell'altro.
«Allora lo facciamo? Andiamo a pedinare Molly?», sussurrò Geneviève quando si calmò, con ancora dell'incertezza nella voce.
«Andiamo ad assicurarci che stia bene», la corresse, facendole sbocciare un sorriso sul volto.
E per quel sorriso Arsène avrebbe fatto qualsiasi cosa al mondo, ne era certo.

***

«Se tutto andrà come deve andare, non solo Arsène si farà vivo per capire chi abbia sfruttato il suo nome, ma potresti anche attirare l'attenzione dei suoi aguzzini».
Sherlock ascoltò distrattamente le parole del fratello, profondamente a disagio di fronte a quella porta immacolata e ciò nonostante tinta dei peggiori ricordi.
L'uomo che si presentò dietro di essa era lo stesso padrone di casa: un individuo massiccio, basso di statura, coi capelli neri e il volto olivastro tipici delle etnie mediterranee.
«Melas», lo salutò un sintentico Mycroft, rivolgendogli un sorriso forzato.
«Buongiorno professor Melas», disse invece Sherlock, chinando persino il capo. «La trovo in forma».
L'interprete greco alzò gli occhi al cielo vedendoli, ma non li cacciò via: con un silenzioso cenno della mano li invitò ad entrare e li fece accomodare in un piccolo salotto con vista sulla veranda che dava su un giardino chiuso - una specie di serra gigante - ed illuminato naturalmente grazie alle pareti e al soffitto di vetro.
«I fratelli Holmes», furono le sue prime parole, mentre si accomodava su una poltrona simile a quelle del Diogenes Club, il luogo dove lui e Mycroft si erano conosciuti. «A cosa devo il piacere?».
Non aveva nascosto il sarcasmo, né nel tono di voce né nel modo in cui il suo volto si era accartocciato, tuttavia Mycroft non perse il sorriso e rispose con calma: «Avremmo bisogno della tua collaborazione».
«Ah sì? E per quale motivo dovrei aiutarvi?».
Sherlock, il quale fino ad allora era rimasto in silenzio ad osservare le varie specie di uccelli che volavano da albero in albero in quel biotopo artificiale, fu costretto a prendere la parola quando il fratello gli colpì la tibia con l'ombrello.
Gli lanciò un'occhiataccia, poi si schiarì la gola e si rivolse all'uomo: «Professor Melas, speravamo che, visti i nostri trascorsi, sarebbe stato lieto di aiutarci».
«Avete proprio una bella faccia tosta voi due», esclamò in risposta il professore, con gli occhi neri luccicanti di rabbia. «Davvero pensate che io mi ritenga in debito, dopo ciò che è successo?».
«Se non ricordo male senza di noi saresti morto, Melas», ribatté Mycroft, abbandonando il sorriso per mostrare un'espressione autoritaria e in grado di incutere anche un certo timore. «Sherlock ha fatto tutto quello che ha potuto per salvare Katrides, ma la sua sorte era segnata fin dall'inizio».
Il consulente investigativo fissò il fratello, sorpreso di fronte al modo in cui lo aveva difeso. Quindi fece un passo avanti ed incrociando lo sguardo del linguista cercò di mitigare gli animi, per quanto non fosse una sua specialità: «Capisco ciò che prova, professore, e non passa giorno in cui io non mi penta degli errori commessi durante quell'indagine. So che questo non cambierà le cose, ma in mia difesa posso dire che ero giovane ed inesperto. Sono passati tanti anni da allora e adesso sono disposto a fare qualsiasi cosa per impedire ad altre persone di morire inutilmente. Lei è l'unico che può darmi una mano, perciò glielo chiedo per favore: mi aiuti».
Il greco soppesò a lungo le sue parole, tamburellando le dita sul bracciolo della poltrona. Ad un tratto grugnì qualcosa di incomprensibile, si alzò e fronteggiando i fratelli Holmes disse più chiaramente: «Di che cosa avete bisogno?».
«Del suo "Leda col cigno"», rispose prontamente Mycroft.
Il linguista divenne paonazzo ed alzò le mani a voler prendere il più grande per i baveri della giacca. Poi, scosso da tremiti d'ira, le abbassò e gridò: «Voi siete pazzi! Fuori da casa mia!».
«Aspetti!», lo fermò Sherlock, piantandosi davanti alla porta, a braccia aperte, per impedirgli di lasciare il salotto.
«Levati di mezzo!».
«Mio fratello si è spiegato male», riprese il detective, ammonendolo con gli occhi. «Non accadrà nulla di male al suo dipinto, glielo assicuro. Deve solo fingere che sia stato rubato».
«Oh! E questo come migliorerebbe la situazione?!», strepitò ancora, con un diavolo per capello.
Sherlock, a quel punto, realizzò di non avere la minima idea di tutte le complicazioni del piano. Guardò Mycroft e lo trovò assai divertito, tanto da reprimere a stento una risata.
«Tu non ne hai idea, vero?», gli domandò Melas, intuendo la buona fede di Sherlock e il subdolo gioco di Mycroft. «"Leda col cigno" non è un dipinto qualsiasi. Si tratta di un dipinto perduto, la cui ubicazione è nota solo a pochissimi. Se ne denunciassi il furto - cosa di per sé impossibile, in quanto non ho alcun documento che attesti che sia mai stato in mio possesso - sarei rovinato! Rischierei addirittura di finire in galera!». Si voltò nuovamente verso il maggiore degli Holmes e lo trucidò con lo sguardo: «Maledetto il giorno in cui te lo mostrai!».
Il consulente investigativo cercò conferme e il fratello si strinse nelle spalle: «Per questo è perfetto: la notizia del furto farà così tanto scalpore che Arsène sarà costretto a venire allo scoperto».
«E credi che ci cascherebbe così facilmente? Insomma, se non ci sono prove della sua autenticità...».
«Non ti preoccupare di questo. Spargerò io le voci giuste».
Sherlock avrebbe voluto domandargli se avesse fatto lo stesso per avvicinare Moriarty e dare così ad Eurus il suo regalo di Natale, ma decise di tacere. Ad ogni modo il professore non l'avrebbe lasciato parlare.
«E se non acconsentissi?», esclamò infatti, improvvisamente pallido in viso. «La polizia inizierà ad indagare, ci saranno dei processi, dovrò assumere un avvocato... Lo spreco di tempo e di denaro sarà enorme!».
«Vedilo come il prezzo da pagare per il modo in cui l'hai ottenuto», disse Mycroft, sollevando l'ombrello per avvicinarsi a Melas e rivolgergli un altro sorriso mellifluo. «Se farai quello che ti diremo farò in modo che la polizia non venga mai a sapere di ciò che hai fatto per avere il tuo prezioso dipinto», gli sussurrò.
«Questo è un ricatto», sibilò il professore, i pugni stretti lungo i fianchi.
«No, è una mia gentilezza. Ti prometto anche che quando tutto sarà finito riavrai il tuo dipinto e non sentirai più parlare di noi due».
A quelle parole il linguista sgranò gli occhi ed ogni traccia di rabbia svanì dal suo volto. Si prese il naso aquilino tra le dita, cercando la possibile fregatura, ma alla fine cedette: un'offerta del genere era da prendere al volo, prima che Mycroft ci ripensasse.
Ora che avevano trovato un accordo proficuo per entrambi, Sherlock fu impressionato dal modo in cui, seduti sulle poltrone e fumando sigari cubani, iniziarono a chiacchierare dei bei tempi al Diogenes Club.
Forse il fratello non aveva scelto Melas solo perché sapeva possedesse un dipinto di inestimabile valore, ma anche perché ne conosceva la storia e sapeva che un personaggio come quello - ipocrita ed egoista sotto la facciata del rigoroso e stimato professore universitario - sarebbe di certo entrato nel radar del Ladro Gentiluomo. Nel profondo del proprio animo, quella volta Sherlock fu costretto ad ammettere che lui stesso l'avrebbe derubato con enorme piacere.

***

Molly aprì l'armadietto e si guardò al piccolo specchio, trovandosi col volto accaldato e i capelli in disordine.
Non se li era lavati - una volta a casa l'occhio attento di Geneviève li avrebbe notati umidi e si sarebbe insospettita - perciò si sciolse semplicemente la coda di cavallo e se li pettinò, imitando l'acconciatura con cui era uscita quella mattina.
Le facevano male i muscoli delle gambe e delle braccia, ma accettava volentieri quel dolore: significava che aveva lavorato bene e che presto sarebbe stata in grado di possedere al meglio le tecniche che l'istruttore aveva mostrato loro.
Due giorni prima era andata ad assistere ad una lezione e ne era stata così colpita che aveva deciso di iscriversi, in modo da non avere il tempo materiale per ripensarci.
Lo stesso istruttore, vedendola arrivare in abiti da allenamento, era rimasto stupito dalla sua decisione: di solito, le aveva detto avvicinandosi per darle il benvenuto, le ragazze impiegavano qualche settimana per convincersi che un corso di autodifesa le avrebbe aiutate, non solo in caso di reale pericolo ma semplicemente per sentirsi più sicure.
«Io non ho qualche settimana, perciò non si trattenga con me», aveva risposto candidamente l'anatomopatologa, lasciandolo ancora una volta di sasso.
Si sedette sulla panca alle sue spalle e posò la testa contro il muro, gli occhi chiusi, mentre si portava la bottiglietta d'acqua alla bocca e beveva avidamente.
Un'ombra le si parò all'improvviso davanti, così Molly aprì gli occhi ed incrociò quelli sorridenti di Denise, anche lei appena uscita dalla doccia: un morbido asciugamano bianco le avvolgeva il corpo, mettendo in risalto la sua pelle color cioccolato, e i capelli riccissimi le gocciolavano sulle spalle nude.
Erano state compagne di allenamento quella sera e nonostante lei frequentasse la palestra da ormai un paio di mesi, in qualche modo era riuscita a stare al suo passo.
«Ehi, sei stata brava oggi», le disse con un ampio sorriso sul volto.
Molly ricambiò. «Grazie».
Denise si sedette al suo fianco e recuperò dal proprio zainetto un integratore dal colore giallo fluo. Bevve e poi espirò soddisfatta.
«Per quale motivo ti sei iscritta al corso?», le domandò ad un tratto.
«È una storia lunga».
«Già, lo sono tutte», mormorò, guardando le altre ragazze presenti nello spogliatoio. Quindi tornò a sorridere e come se nulla fosse esclamò: «Io sono stata quasi violentata, tre mesi fa».
Molly sgranò gli occhi, scostandosi dal muro. «Mio Dio, è terribile».
«Ho detto quasi!», ripeté, ridendo. «Sono stata incredibilmente fortunata. Se non fosse passata quella ragazza... dubito che a quest'ora sarei qui».
«Ragazza?».
Denise annuì. «Successivamente scoprii che era una poliziotta, ma poco importa. Quella sera mi salvò e poi mi consigliò questo corso, dicendomi che l'istruttore era un suo amico. C'è voluto un po', ma alla fine ho deciso di fare un tentativo ed eccomi qua».
Molly sorrise, ammirando la forza di quella ragazza che era riuscita a sfruttare la paura per diventare più forte.
«Denise, datti una mossa!», la chiamò una biondina già vestita.
La riccia rispose con uno sbrigativo: «Sì, ho capito!», per poi tornare a concentrarsi su Molly. «Dopo le lezioni è nostra abitudine andare a mangiare un boccone in una tavola calda non lontana da qui. Vuoi unirti a noi?».
In altre circostanze avrebbe accettato senza esitazioni - le piaceva conoscere gente nuova, anche se preferiva fare da spettatrice silenziosa - ma il pensiero di Geneviève, la quale la stava sicuramente aspettando per la cena, la costrinse a declinare l'invito.
«Hai famiglia?», le domandò Denise, mostrando un'altra caratterista della sua personalità estroversa: la curiosità.
No, è questo il bello!, avrebbe voluto rispondere Molly, ma si limitò ad annuire con un cenno del capo e a dire: «Sarà per la prossima volta».
«Guarda che ci conto, eh!».
«Denise, giuro che ti lasciamo qui!», gridò la stessa biondina di prima, minacciandola.
La ragazza si alzò, sbuffando divertita, e senza togliersi l'asciugamano iniziò a vestirsi. Molly la imitò e alla fine uscirono insieme dallo spogliatoio.
All'aria gelida della sera l'anatomopatologa rabbrividì e si strinse tra le braccia, rimanendo ai piedi della breve scalinata mentre il gruppetto a cui era stata invitata ad unirsi si allontanava lungo il marciapiede. Ad un tratto si sentì il suono di un fischietto e Denise, in mezzo alle amiche, voltò il capo verso l'altro lato della strada, dov'era parcheggiata una volante della polizia. L'agente donna che era appoggiata al cofano, il fischetto ancora tra le labbra sorridenti, sollevò una mano in direzione della ragazza, la quale le corse incontro e la travolse in un abbraccio dopo averla baciata a stampo sulle labbra.
Molly sorrise alla scena, pensando che Denise era stata davvero fortunata quella sfortunata sera, poi abbassò il capo e si incamminò nella direzione apposta per tornare a casa.
Era circa a metà strada quando iniziò a nevicare e si costrinse ad accelerare il passo nonostante i muscoli che le bruciavano. Non riuscì comunque a non tornare a casa coi vestiti appesantiti e i denti che le battevano per il freddo.
Il suo sogno era quello di spogliarsi ed infilarsi nella vasca piena di acqua calda, ma sapeva che probabilmente avrebbe dovuto mettersi ai fornelli per sfamare Geneviève, di certo troppo impegnata a ronzare intorno a suo padre piuttosto che aiutarla con le faccende domestiche che a causa sua si erano duplicate. Non poteva rimproverarla però: lei e Arsène avevano molto da recuperare e se solo suo padre fosse stato ancora vivo avrebbe trascorso tutto il tempo possibile con lui.
Sospirando aprì la porta dell'appartamento e non fece nemmeno in tempo ad annunciarsi o a togliersi il cappotto bagnato che Geneviève le corse incontro per stringerle le braccia intorno alla vita, cercando di tenere goffamente la testa sotto il suo mento ma che, per questioni di altezza, dovette portare sulla sua spalla.
«Gen, che cosa...? Che è successo?», le chiese e posandole le mani sulle braccia la allontanò da sé.
«Niente», rispose la ragazzina, scuotendo il capo e cercando di celare gli occhi lucidi. «Ho visto che ha iniziato a nevicare. Vieni, ti ho preparato il bagno. Intanto metterò su qualcosa da mangiare, va bene?».
L'anatomopatologa sbarrò gli occhi, ma la bionda la prese per mano e la portò in bagno, dove effettivamente c'era la vasca piena di acqua calda e schiuma profumata ad attenerla. Decise di rimandare le spiegazioni a più tardi.

***

John, una volta passato a prendere Rosie a casa della babysitter, prese una deviazione per fare un salto al 221B.
Aveva pensato molto a ciò che aveva detto a Sherlock il giorno prima, e a come l'aveva fatto, ed era giunto alla conclusione che forse aveva superato il limite.
Una frase in particolare l'aveva tormentato per tutto il giorno: «Ho già fatto affidamento sul mio cuore, tanto tempo fa, e non è andata a finire bene» e voleva che il detective si confidasse con lui, com'era abitudine fare tra migliori amici; voleva che gli spiegasse nei dettagli cos'era successo e se c'entrasse Arsène, soprattutto.
Sherlock non era uno a cui piaceva raccontare del proprio passato, specie se si trattava di parentesi dolorose, ma John era convinto che tutti dovessero imparare ad accettare i loro scheletri nell'armadio e a spolverarli ogni tanto, giusto per ricordare e non fare gli stessi errori.
Evitò di suonare al campanello per non aspettare la signora Hudson sotto la neve, col rischio che Rosie prendesse freddo, ed usò le proprie chiavi per entrare nell'androne.
«Signora Hudson, è in casa?», esclamò e poco dopo sentì la voce della padrona di casa invitarlo al piano superiore.
La trovò in salotto, intenta ad appendere le solite luminarie che nella loro semplicità riuscivano a portare la magia del Natale persino nella vita asettica del consulente investigativo.
«Se sei venuto a cercare Sherlock, temo che non rientrerà tanto presto», gli disse mestamente.
«Sa dov'è andato?».
«Non ne ho idea, caro».
La aiutò a scendere dalla scaletta porgendole una mano e poi si guardò intorno, cercando di trovare qualche indizio su quali fossero le sue intenzioni.
Un pensiero terribile gli attraversò la mente ed andò alla scrivania, trovando il primo cassetto chiuso a chiave come al solito. Andò a recuperare la chiave, grato che il detective non avesse cambiato nascondiglio, e lo aprì. All'interno trovò alcune carte, piccoli souvenirs dei casi più strani e fortunatamente anche ciò che cercava: la dose di emergenza di Sherlock. Sospirò di sollievo, ma durò poco. Un'altra cosa mancava all'appello: la sua pistola.
«In che guaio ti stai cacciando, Sherlock?», si chiese preoccupato, con una mano sul fianco e l'altra alla bocca.

***

Arsène, intento a suonare una malinconica melodia al piccolo pianoforte a parete della signora Lee, si interruppe bruscamente ed aprì gli occhi al suono del campanello. Guardò l'orologio appeso alla parete e pensò che solo una persona avrebbe potuto cercarlo alle dieci e mezza di sera: sua figlia.
Il campanello suonò di nuovo, con impazienza, e il Ladro Gentiluomo si alzò dalla panca imbottita esclamando in francese: «Arrivo, arrivo!».
Guardò attraverso lo spioncino e con sua enorme sorpresa si ritrovò davanti Molly Hooper, la quale non gli diede nemmeno il tempo di aprire bocca e lo schiaffeggiò. Lupin, il viso rivolto verso lo specchio alla sua destra, impiegò qualche secondo per incrociare nuovamente i suoi occhi furiosi.
«Buonasera anche a te», mormorò mentre si tirava indietro i capelli biondi, privi della parrucca, e si faceva da parte per invitarla ad entrare nell'appartamento della sua vicina.
Una volta chiusa la porta l'anatomopatologa fece del suo meglio per tenere un tono di voce normale esclamando: «Mi avete seguita!».
Finalmente Arsène capì il motivo della sua rabbia e con le mani posate sui fianchi scosse il capo. «Caspita, Geneviève ha già confessato».
«E ha fatto la cosa giusta!».
«La mia guancia si permette di dissentire», replicò Arsène, massaggiandosi la mandibola.
Le passò accanto per raggiungere il frigorifero dall'anta laccata di rosso, dietro la piccola isola della cucina, e tirò fuori dal ripiano superiore, quello riservato al congelatore, una busta di piselli surgelati. Se la posò sul volto, sospirando di sollievo in modo teatrale, e poi tornò a guardare Molly, ricordandosi delle buone maniere.
«Perdonami, posso offrirti qualcosa? Ho trovato una bottiglia di vino che sembra...».
«Non voglio niente, grazie», lo interruppe la donna.
Il Ladro Gentiluomo scrollò le spalle e sistemò nel freezer la busta di piselli, poi tornò verso il pianoforte e le indicò di accomodarsi sul divano, notando solo in quel momento che il suo viso si era colorato d'imbarazzo e che i suoi occhi castani lo stavano evitando, preferendo il pavimento o i quadri di dubbio gusto appesi alle pareti.
Stranito, le chiese: «C'è qualcosa che non va?».
Schiarendosi la gola, Molly alzò una mano ad indicargli il petto e rispose: «Potresti... ehm... indossare qualcosa?».
Arsène abbassò gli occhi e si ricordò che dopo la doccia, dato che non aveva altri programmi per la serata, si era infilato un paio di larghi pantaloni bianchi di cotone, di quelli con le fasce strette alle caviglie, ed era rimasto a petto nudo nonostante l'inverno fosse ormai alle porte. Recuperò dallo schienale del divano uno spesso maglione blu e lo indossò senza però preoccuparsi di allacciarsi gli alamari di legno, restando così comunque a petto scoperto, poi si sedette sulla panca imbottita e fece segno alla donna di accomodarsi dove preferiva.
Capendo che Molly, a braccia conserte e l'espressione di nuovo contrita, non aveva alcuna intenzione di avvicinarsi, sospirò e pur di rompere il silenzio riprese lui stesso l'argomento: «Spero tu non sia stata troppo dura con lei. Era molto dubbiosa sul da farsi».
«Lo immaginavo ed infatti non mi sono arrabbiata con Geneviève. In compenso lo sono con te! Tu non avresti mai dovuto permetterle di fare una cosa del genere!».
«Era in pensiero per te. Che cos'avrei dovuto fare?».
«Avresti dovuto dirle di aspettare e di parlarne direttamente con me!».
«Ho ipotizzato che, non avendole detto subito come stavano le cose, avresti continuato a mentirle anche in un probabile faccia a faccia».
Molly strinse i pugni lungo i fianchi e si avvicinò di un passo, forse nel tentativo di intimidirlo torreggiando su di lui.
«Hai detto bene, era una tua ipotesi! Non sai che cos'avrei fatto davvero!».
«Quindi le avresti detto la verità, se lei ti avesse chiesto il perché di tutti questi "straordinari"?», le chiese Arsène tranquillissimo, tanto da schiacciare qualche tasto del pianoforte con una mano.
«Non lo so e non è questo il punto!».
Le dita di Arsène si strinsero in un pugno e con esso diede un colpo ai tasti, suonando un accordo stonato che la fece sobbalzare.
«Allora qual è, il punto?».
Il ladro, non avendo ottenuto risposta, si alzò e dal suo abbondante metro e ottanta la guardò coi suoi occhi verdi, così magnetici da costringerla a tenere il capo sollevato.
«Mia figlia sapeva che avrebbe rischiato di fare la figura della ficcanaso, ma era così preoccupata per te che ha deciso di agire comunque. Io l'ho semplicemente sostenuta. È quello che dovrebbe fare un buon padre, giusto?».
Molly sentiva le gambe molli come gelatina, il cuore che le batteva forte nel petto. Non sapeva perché la vicinanza di Arsène le facesse quell'effetto, ma era ben decisa a non lasciarsi sopraffare.
«Ad ogni modo ti chiedo scusa, se ritieni che avrei dovuto comportarmi diversamente», disse ancora Arsène, impedendole così di replicare. «E voglio approfittare dell'occasione per dirti anche che quando ti rivelai il motivo della distanza di Sherlock non pensavo che tu ti saresti iscritta ad un corso di autodifesa».
«Questo non ha niente a che vedere con Sherlock», mentì di getto Molly, trovandolo estremamente più facile.
Arsène le rivolse un sorriso dolce, uno di quelli che gli contagiavano anche gli occhi, e sollevò una mano per sistemarle una ciocca di capelli umidi, sfuggita alla presa del mollettone, dietro l'orecchio.
«Io penso proprio di sì», sussurrò. «E non voglio che tu ti senta costretta a frequentarlo. Fin quando ci sarò io, sarai perfettamente al sicuro».
«Io non... non voglio essere un peso per nessuno», riuscì a balbettare Molly, nonostante la bocca le si fosse seccata all'improvviso.
Per qualche ragione Arsène non allontanò la mano dalla sua guancia, anzi la accarezzò fino a prenderle il mento tra due dita.
Il suo tocco era così leggero e delicato, come se stesse sfiorando i tasti del pianoforte per suonare la malinconica melodia che era rimasta ad ascoltare fuori dalla porta prima di trovare il coraggio necessario a premere il campanello; allo stesso tempo le lasciava sulla pelle una scia di fuoco.
Si chinò ancora un po' sul suo viso, tanto che Molly riuscì a scorgere il sottile cerchio dorato intorno alle sue pupille dilatate, e con tono suadente disse: «Sei proprio un esemplare raro, Molly Hooper. Mi piacerebbe molto aggiungerti alla mia collezione, ma temo che se ti portassi via con me Sherlock non mi rivolgerebbe più la parola».
«Io non sono un pezzo da collezione».
Fu tutto ciò che disse, il massimo che riuscì a pronunciare. Tuttavia Arsène ne parve soddisfatto, come se l'avesse messa alla prova. Quindi si risollevò, fece un passo indietro e si lasciò cadere di nuovo sulla panca.
«Però...», riprese Molly, prendendo coraggio. «Però mi sembrava di averti già detto che non voglio più precludermi nulla per via di Sherlock».
Il Ladro Gentiluomo la fissò intensamente, corrugando persino la fronte nel tentativo di stabilire se per caso non avesse mal interpretato le sue parole.
Stava ancora riflettendo quando Molly annullò la distanza tra loro: si chinò, gli prese il viso tra le mani e posò le labbra sulle sue in un bacio casto.
Aveva le guance in fiamme e si sentiva tremare da capo a piedi, ma bastò che Arsène le cingesse la vita con un braccio, attirandola a sé, perché si tranquillizzasse. E quando rispose al bacio si sciolse, sedendosi sulle sue ginocchia per paura di cadere a terra.
L'incertezza e la goffaggine vennero presto spazzate via da una passione inaspettata e travolgente, tanto che ad un certo punto si ritrovarono avvianghiati l'uno all'altra e coi polmoni che bruciavano.
Con sguardo liquido Arsène posò la fronte contro la sua e le accarezzò i lati del viso, per poi allungarsi a baciarle la pelle dietro l'orecchio e a scendere sul collo. Molly ne approfittò per riprendere fiato, immergendo le dita tra i suoi capelli biondo platino ed inebriandosi del suo profumo. Si lasciò scappare un verso di sorpresa quando il ladro si alzò, la tirò su di peso e, dopo aver calciato di lato la panca imbottita, la fece sedere sui tasti del pianoforte, i quali si esibirono in una cacofonia di suoni di protesta.
Entrambi risero sulla bocca dell'altro e ripresero la danza di lingue.
Il mollettone di Molly volò alle spalle di Arsène, il quale le strinse i capelli tra le dita mentre lasciava le sue labbra bollenti per scendere nuovamente sul suo collo, lascivo.
L'anatomopatologa gettò indietro la testa e si beò dei tocchi della sua lingua esperta, dei suoi baci e dei piccoli morsi con cui ogni tanto le arrossava la pelle.
Si chiese se quello che stavano facendo fosse giusto, non solo nei confronti di Geneviève, ma anche e soprattutto di Sherlock, il quale aveva tentato più e più volte di metterla in guardia sulle sue doti di seduttore.
Quando Arsène le aveva detto che gli sarebbe piaciuto aggiungerla alla sua collezione avrebbe dovuto esserne inorridita, però... però si era sentita solamente lusingata. Che lui, così simile al detective in intelligenza e così bello da far girare la testa a tutte e tutti, fosse interessato a lei in quel modo... era da non credere.  Aveva provato ad opporsi, ci aveva provato davvero, ma era stato inutile.
Le mani di Arsène scivolarono sotto la larga felpa grigia che indossava, accarezzandole i fianchi, e Molly sollevò automaticamente le braccia perché lui potesse sfilargliela. Poi l'imbarazzo ebbe la meglio e con un braccio andò a coprirsi il seno, arrossendo, e il ladro accostò di nuovo la fronte alla sua, respirando forte sulle sue labbra.
«Sei bellissima», le sussurrò, portandole una mano sulla guancia destra. Con il pollice le accarezzò lo zigomo ed abbozzò un sorriso, per poi cercare di nuovo le sue labbra.
Molly però voltò il capo di scatto, evitando il suo bacio, e rispose: «L'avrai detto a così tante donne che ormai avrà perso di significato per te».
Arsène si sistemò meglio tra le sue gambe e le avvolse la schiena con le braccia, accostò la fronte alla sua e la costrinse a guardarlo negli occhi.
«Ti sbagli», mormorò. «La bellezza è in ogni cosa, basta solo essere capaci di vederla. Provo pena per chi non ci riesce. E ancora di più per chi non ha il coraggio di allungare la mano ed afferrarla, nonostante sia tanto vicina».
Era ovvio che si stesse riferendo a Sherlock e Molly sentì le lacrime bruciarle gli occhi. Tuttavia non voleva rimangiarsi ciò che aveva detto: non poteva smettere di vivere la propria vita, di divertirsi ed essere felice - anche solo per un'ora, - nella speranza che Sherlock trovasse il coraggio per farsi avanti.
Per questo posò le mani sulla sua nuca, le dita strette tra i suoi capelli di seta, e bruscamente lo attirò a sé per far scontrare le loro bocche.
Arsène la invitò a cingergli il bacino con le gambe e poi, prendendola per le cosce, la sollevò.
Si ritrovarono così sul letto della signora Lee e se fosse stata pienamente in sé Molly si sarebbe sentita tremendamente a disagio, ma Arsène era tutto ciò che vedeva, sentiva e desiderava in quel momento.
Lo aiutò a sfilarsi il maglione e mentre lui tornava a baciarla, accarezzandole i fianchi e le cosce, lei percorse con le dita ogni centimetro di pelle: partì dal collo, dal quale penzolava una catenina d'oro con un piccolo crocifisso, e scese sulle spalle, fece avanti e indietro sui suoi bicipiti e tornò sul petto, dove tracciò le linee delle clavicole e poi trovò i suoi pettorali pronunciati, fino ad arrivare agli addominali scolpiti e alle ossa a V del bacino.
Non era mai stata con un uomo con un fisico così perfetto, anche se di imperfezioni ne aveva tante, forse troppe: le cicatrici, di ogni forma e dimensione; ricordi di chiassà quale passato.
Arsène le lasciò un morso un po' più forte degli altri sul seno e Molly inarcò la schiena, gemendo, ed involontariamente strinse le dita sui suoi fianchi. Il Ladro Gentiluomo trasalì, dato che aveva toccato la ferita non ancora del tutto rimarginata.
«Oddio! Scusami, scusami», esclamò la castana, col fiato corto e gli occhi lucidi. Piegò la testa di lato per controllare se la fasciatura si fosse sporcata di sangue, ma Arsène le sfiorò il collo col naso, ridacchiando.
«Non è niente», sussurrò, provocandole la pelle d'oca dove il suo fiato l'aveva sfiorata.
«Sei sicuro? Forse non dovremmo...».
«Ehi». Le prese delicatamente il volto tra le dita perché i loro sguardi si incatenassero e sorrise dolcemente. «Se hai cambiato idea non devi fare altro che dirmelo, siamo ancora in tempo».
Molly scosse con fermezza il capo e gli allacciò le braccia dietro al collo. «Non ho cambiato idea».
«Sei sicura?».
L'anatomopatologa annuì e chiudendo gli occhi sollevò il capo per posargli un casto bacio sulle labbra. «Sicura», affermò senza riaprirli.
Arsène la baciò di nuovo, e ancora e ancora, e nel frattempo le sfilò i leggings e, con lentezza esasperante, le mutandine di cotone bianco, semplici come lei.
Molly Hooper aveva un bel fisico, ben proporzionato, ed era un peccato che si trascurasse tanto nel vestire.
Le sue mani gli accarezzavano i capelli, a tratti con tenerezza e a tratti con forza, facendogli capire quali punti, se stuzzicati, le provocavano le sensazioni più forti.
Al ladro piaceva dedicarsi ai corpi dei suoi amanti, specie quando li possedeva per la prima volta: esplorarli in lungo e in largo, scoprirli e stupirsi delle loro reazioni; la consapevolezza di averli alla sua mercé... era ciò che gli piaceva di più, anche più dell'atto sessuale in sè.
Spesso quel suo dilungarsi tanto nei preliminari aveva riscontrato del malcontento, ma Molly lo lasciava fare e rispondeva ai suoi stimoli in maniera così docile e timida che troppo presto si ritrovò più eccitato del dovuto.
Provò a resistere ancora un po', ma fu costretto a cedere quando il piede dell'anatomopatologa gli accarezzò l'erezione stretta nei boxer. Allontanò le dita dalla sua apertura già umida e velocemente si sbarazzò di pantaloni ed intimo, poi recuperò un preservativo e se lo infilò. Tornò a sdraiarsi sopra di lei, baciandole il petto, il collo e poi le labbra, e lo sguardo offuscato dal piacere che gli rivolse fu ciò che cacciò via ogni ripensamento.
No, non avrebbe mai immaginato di finire a fare l'amore con Molly Hooper, la donna in grado di far ingelosire la Dominatrice, Irene Adler; la stessa donna il cui animo gentile e generoso aveva dato a Geneviève un tetto sopra la testa, regalandole giorni di normalità nel caos che era diventata la sua vita; la stessa donna che riusciva a vedere oltre le maschere, anche quelle meglio riuscite; la stessa donna che aveva rubato il cuore di Sherlock e che ora, per tutti questi motivi, rischiava di rubare anche il suo.
È giusto così?, si domandò mentre i loro gemiti riempivano la stanza.
Quale senso poteva avere innamorarsi di Molly Hooper, sapendo perfettamente che l'amore che lei nutriva per Sherlock non sarebbe mai svanito? Avrebbe finito per rimanerne scottato, come sempre, però...
«Arsène», ansimò Molly ad una spinta più forte e profonda delle altre, infilzandogli le unghie nella schiena.
Il ladro sorrise e con una mano le scostò i capelli dal viso, poi la baciò sulle labbra, sul mento e sul collo. «Sono qui», rispose ansimando sulla sua pelle.
Era lui che stava chiamando in quel momento, e niente al mondo gli avrebbe regalato un'emozione altrettanto forte. Sarebbe passato tra le fiamme dell'inferno pur di sentirsi in quel modo: compreso, desiderato, amato. Perciò al diavolo il dolore! La felicità di quegli attimi era insostituibile, irrinunciabile. E come aveva detto a Geneviève appena qualche ora prima, non se ne sarebbe mai pentito.

«C'era qualcosa che volevi chiedermi prima, in libreria».
Geneviève sollevò il capo dal marciapiede e lo guardò confusa.
Era così immersa nei suoi pensieri - scoprire che Molly si era iscritta ad un corso di autodifesa l'aveva davvero scioccata - che non aveva capito cosa le avesse chiesto. Dopo che il padre ebbe ripetuto, la ragazzina si strinse il collo tra le spalle ed abbozzò un sorriso palesemente finto.
«Non era niente di importante».
«Vorrei saperlo comunque».
La figlia sospirò e calciò una lattina vuota, i capelli biondi che le nascondevano il viso di nuovo rivolto verso il cemento.
«Volevo chiederti se avessi mai amato la mamma».
Arsène fu così colpito da quelle parole che si bloccò, come se qualcuno avesse appena messo il freno a mano alle sue gambe.
«Che domanda è?», le chiese quando riuscì a riprendersi. «Ho amato profondamente tua madre».
Geneviève scosse il capo, amareggiata. «Vedi? Lo sapevo che ti saresti arrabbiato».
«Non sono arrabbiato, sono solo... stupito. Perché dubiti del mio amore per lei?».
«Sono certa che le volessi molto bene, ma non credo che tu fossi innamorato. Insomma, l'amore... per come la vedo io si trova una sola volta nella vita».
«E che cosa te lo fa pensare?», le domandò.
«Ecco, io... non lo so».
Arsène sorrise e la raggiunse per posarle una mano sul capo. «Per come la vedo io, invece, Cupido ha decine di frecce nel suo arco e sta a lui decidere con quante colpirti. Lo so che può sembrare anticonvenzionale o addirittura doloroso per te pensare che tua madre non sia stata l'unica ad avermi rapito il cuore, ma è così: io sono uno che si innamora facilmente, e so che è amore perché non dimentico e soffro, soffro molto, quando una storia finisce. Dopo Clotilde ho amato altre persone e nel futuro ne amerò altre ancora, ma non dimenticherò mai quello che abbiamo avuto io e lei».
«E non ti sei mai pentito di aver amato e sofferto? Nemmeno una volta?».
Arsène rispose subito, certo della propria risposta: «Nemmeno una. E vuoi sapere il perché?».
Geneviève annuì con un debole cenno del capo.
«Perché è stata una mia scelta. Quand'ero un ragazzino... No, non è necessario che tu lo sappia». L'avvicinò a sé con un braccio avvolto intorno alle sue spalle e le baciò la tempia. «Quello che conta è essere liberi di fare le proprie scelte. Che siano giuste o sbagliate... poco importa alla fine».

Arsène era quasi giunto al limite, ma si trattenne ed infilò le braccia sotto la schiena di Molly per sollevarla e portarsela sulle gambe. Da quella posizione riuscì a toccare quel punto dentro di lei che le fece sbarrare gli occhi e raggiungere l'orgasmo. Il ladro, sentendosi stringere dal suo sesso, venne a sua volta, col volto premuto contro la gola dell'anatomopatologa.
Non si allontanarono subito: rimasero abbracciati per diversi minuti, a riprendere fiato e a permettere ai loro cuori di rallentare il ritmo dei battiti.
Lupin, con l'orecchio posato contro il suo petto, si lasciò cullare da quelle pulsazioni e rilassò ogni muscolo. Rischiò addirittura di addormentarsi quando Molly iniziò ad accarezzargli i capelli, passandoseli tra le dita ed immergendovi di tanto in tanto il viso per baciarli teneramente.
«Farei meglio ad andare», sussurrò ad un tratto, scostandosi per cercare di guardare Arsène negli occhi.
Lui li riaprì di scatto e sollevò il viso verso il suo, fissandola con l'espressione spaurita di un bambino. «No, non mi lasciare. Dormi con me».
Molly provò a dirgli che se Geneviève si fosse alzata nel cuore della notte - e capitava più spesso del dovuto - e non l'avesse trovata si sarebbe insospettita, ma la morsa che sentì stringerle il cuore impedì alle parole di uscire.
«E va bene», acconsentì piano, anche se con una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco.
Arsène le rivolse un ampio sorriso - e l'unico aggettivo che le venne in mente per descriverlo fu ancora una volta "bambinesco" - e gentilmente uscì dal suo caldo anfratto, non senza provocarle un brivido lungo la spina dorsale. Si alzò per sbarazzarsi del preservativo e darsi una ripulita e poi la raggiunse sotto il piumone che Molly si era tirata fin sotto il mento. Le sollevò un braccio e tornò a posare l'orecchio contro il suo petto, con espressione pacifica.
La donna corrugò la fronte, ma non disse nulla. Dopotutto ognuno aveva le proprie piccole manie da dopo-sesso. Anche se forse, dal suo punto di vista, avrebbe dovuto essere lei a sentire il bisogno di accoccolarsi contro di lui.
Intuì che forse c'era un motivo per cui si sentiva tanto a disagio quando Arsène le chiese: «Mi accarezzeresti i capelli come hai fatto prima? Solo finché non mi addormento».
Molly ridacchiò nel tentativo di buttarla lì come uno scherzo: «Come mai tutto d'un tratto sei così mammone?».
Arsène però si irrigidì bruscamente e rotolò di lato, prendendo il cuscino e modellandolo con delle manate.
«Hai ragione, scusami», disse quando vi tuffò la faccia, e fu un miracolo se la castana riuscì a capirlo.
L'imbarazzo a quel punto, invece che diminuire, era aumentato.
Molly si girò sul fianco e gli posò una mano sulla spalla. «Ehi, non volevo offenderti o...».
«Non hai fatto nulla di sbagliato», la interruppe, alzando il volto di scatto per rivolgerle un largo sorriso, ma privo di sincerità.
L'anatomopatologa sospirò e spostò la mano sulla sua guancia, accarezzandola dolcemente. Quindi si sporse a baciargliela e sussurrò: «Di qualunque cosa si tratti, mi dispiace. Meglio che vada».
Si alzò, recuperò le mutandine e i leggings e se li infilò. Con un braccio a coprirsi il seno, sulla porta della camera da letto si fermò a guardare Arsène, trovandolo nella stessa posizione in cui l'aveva lasciato ma con una sostanziale differenza: la lacrima che gli brillava sulla guancia.
Molly non se la sentiva di addossarsi altri tormenti, non quella sera; non dopo che aveva fatto l'amore col ladro nel tentativo di riappropriarsi della propria vita in seguito alle tre parole pronunciate nei confronti e dal detective. E forse anche un po' per ripicca, chi lo sa.
Perciò gli diede le spalle, anche se non fu affatto facile, e una volta in salotto si chinò a raccogliere tutte le tracce del proprio passaggio. Rivestita, lasciò l'appartamento della signora Lee e nonostante fossero solo pochi passi respirò profondamente per affrontare quella specie di "camminata della vergogna".

***

«Allora, sei pronto?».
Sherlock si voltò verso il fratello, divertito come lo vedeva raramente, e sospirò. «C'è qualcosa che non mi hai detto, ma adesso è già tardi».
Mycroft annuì con un breve cenno del capo, facendogli segno di scendere dal furgone nero preparato per l'occasione, e Sherlock, infilandosi il passamontagna, si disse che la sua carriera e la sua reputazione di detective, soprattutto, ne avrebbero risentito parecchio se si fosse venuto a sapere che era finito ad interpretare il ruolo di Arsène Lupin. Non poteva più tornare indietro però. Sospirò nuovamente e zaino in spalla scese dal furgone.
Scavalcò la recinzione del giardinetto sul retro e raggiunse la grande serra di vetro. L'interno era buio e silenzioso, ma il detective sapeva che le telecamere con rilevatore di calore erano pronte a far scattare l'allarme se avessero registrato l'ingresso di una massa corporea di temperatura inferiore ai quaranta gradi centigradi (la temperatura media degli uccelli, appunto). Dato che Sherlock non aveva la febbre, doveva per forza disabilitarle. E qui entrava in gioco suo fratello.
«Ci sono», sussurrò dentro il piccolo microfono appuntato alla giacca.
«Diamo il via all'Operazione Role-Play, allora», rispose Mycroft.
«Dobbiamo per forza dare un nome a questa... cosa?».
Sherlock non fece in tempo a concludere la domanda che tutto il vicinato finì al buio a causa di un black-out.
«Fase uno completata», gli disse il fratello maggiore.
Il detective si limitò a tirare fuori dallo zaino un cutter per vetro, dell'olio e una ventosa. Con calma e precisione fece un cerchio accanto alla serratura ed estrasse il pezzo di vetro, poi infilò la mano nel buco ed aprì la porta.
E anche la fase due era completata, come avrebbe detto Mycroft.
Entrò con passo felpato per non svegliare gli uccelli; non tanto perché avrebbero potuto dare l'allarme - Melas era fuori a teatro - ma perché sin da bambino li aveva sempre trovati fastidiosi ed inquietanti, coi loro piccoli occhi, i becchi appuntiti e il loro volare in gruppo. Quindi percorse il vialetto che attraversava tutto il biotopo fino ad arrivare al centro esatto, dove il dolce gorgogliare di una fontana spezzava il silenzio. Si acquattò a terra e coi soli raggi di luna a fargli luce cercò la finta grata di scarico, di forma rotonda e grande all'incirca una spanna, che gli aveva mostrato quel pomeriggio il professor Melas. Quando la trovò infilò le dita della mano destra nei cinque buchi posti alle estremità e la ruotò di trecentosessanta grandi. Contemporaneamente qualche metro più avanti due mattonelle del vialetto scattarono verso l'esterno, rivelando una botola.
Sherlock scese la stretta scalinata di pietra e sbucò in una specie di cantina, dal soffitto a volta e con le pareti di mattoni. Sapeva di avere i minuti contati, perciò non si soffermò a guardare gli altri oggetti da collezione del professor Melas, tra cui vasi ed anfore dell'antica Grecia, e a passo spedito raggiunse il caveau. La porta elettronica aveva un'alimentazione di riserva, ma era nel loro interesse tenerla accesa. Sherlock tirò fuori dallo zaino la strumentazione che Mycroft gli aveva fornito e lasciò che fosse il piccolo computer a trovare la combinazione numerica, anche se era certo che con un po' di tempo in più, esaminando le impronte lasciate sul display touch screen, sarebbe riuscito a trovarla lui stesso.
L'attesa fu a dir poco snervante e a suo parere non ne valse comunque la pena. Una volta entrato nel caveau, infatti, si ritrovò davanti all'oggetto per cui stava facendo tutta quella fatica: il dipinto perduto di Leonardo da Vinci intitolato "Leda col cigno".
Che si trattasse di un quadro astratto, come quello nella camera d'albergo, o di una tavola raffigurante un mito greco, per Sherlock non faceva alcuna differenza. Riconosceva l'impegno e il talento dell'artista - lui non ne sarebbe mai stato in grado - ma non riusciva proprio a comprendere il motivo per cui certe persone fossero disposte a pagare cifre assurde o a compiere azioni illegali pur di impossessarsene. Forse quando Rosie sarebbe cresciuta abbastanza da regalargli un disegno anche lui l'avrebbe conservato, magari appendendolo sul frigorifero per guardarlo e riguardarlo, ma era una questione completamente diversa a causa del legame affettivo tra "artista" e possessore. Qual era il motivo che spingeva Arsène Lupin a rubare i dipinti, invece?
Avrebbe potuto continuare quel ragionamento per giorni, accumulando ipotesi e teorie, ma non aveva tutto quel tempo a disposizione.
Lasciò la porta del caveau aperta alle sue spalle per non rimanere stordito dai bassi livelli di ossigeno - necessari per la perfetta conservazione di opere come quelle - e con due sole falcate raggiunse il cavalletto su cui era posata la tavola perduta di Leonardo da Vinci.
Si inginocchiò e dallo zaino tirò fuori diversi fogli di plastica a bolle. Li posizionò sul pavimento e tirò giù il dipinto dal cavalletto per imballarlo, poi lo infilò all'interno di una grossa sacca di tela.
Prima di lasciare il caveau tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il bigliettino che aveva preparato in anticipo, imitando perfettamente la calligrafia del Ladro Gentiluomo, e lo lasciò sul cavalletto. Quindi sospirò e se ne andò, cancellando ogni traccia del suo passaggio ad eccezione del pezzo di vetro che aveva tagliato per aprire la porta della serra. Per coprire il buco ed evitare di far patire il freddo agli uccelli dovette farsi bastare del nastro adesivo in PVC. Un comportamento da vero gentiluomo, in stile Arsène Lupin.
Con la tavola appesa sulla spalla destra ritornò al minivan nero in cui Mycroft lo stava aspettando, insieme ai due uomini fidati che il fratello aveva coinvolto per fare loro rispettivamente da autista e da hacker.
Una volta entrato e chiusa la portiera, Mycroft gli chiese con gli occhi se fosse tutto a posto. Al cenno affermativo di Sherlock fece segno all'uomo seduto al suo fianco, con un PC sulle gambe e un paio di cuffie alle orecchie, di procedere: in meno di tre secondi la corrente tornò nelle case in cui era venuta a mancare.
«Signori», esclamò poi, con un mezzo sorriso sul volto. «Operazione Role-Play completata. Ottimo lavoro».
L'uomo che era al volante mise in moto e Mycroft non perse tempo: stese le mani verso il fratello minore e questo gli consegnò la tela, studiando con occhi attenti ogni suo più piccolo movimento. Contò persino quante rughe a zampe di gallina gli si formarono agli angoli degli occhi quando la afferrò e la tirò fuori dal proprio imballaggio per accertarsi che fosse proprio l'opera che ricordava e poi la trasferiva in una grande valigetta costruita su misura.
«Che cosa vuoi farci?», gli domandò Sherlock, con gli occhi affilati.
«Pensi che ti abbia nascosto qualcosa?».
«Sì, lo penso».
«Fai bene».
Quella sua onestà non lo stupì affatto. D'altronde perché mentire? Probabilmente Mycroft aveva scommesso con se stesso quanto tempo ci avrebbe messo a giungere alla conclusione che lui non si offriva mai di aiutare qualcuno, perdendo del tempo prezioso, a meno che non avesse un interesse personale.
«Purtroppo però non posso parlartene», aggiunse, chiudendo di scatto la valigetta e rivolgendogli un sorriso. «Spero tu possa capire».
«Certo», rispose Sherlock, incrociando le braccia al petto.
Quella volta fu Mycroft a scrutarlo, alla ricerca del motivo per cui gliel'aveva data vinta così facilmente. Alla fine decise di chiederglielo direttamente.
Sherlock scrollò le spalle. «Tutto ciò che mi interessa è che il piano funzioni. Quello che farai poi col dipinto non mi riguarda».
Mycroft non era ancora convinto, ma era difficile capire quello che passava per la testa del suo fratellino quando c'era di mezzo Arsène.
Quell'uomo era sempre riuscito, fin dal loro primo incontro, a turbarlo profondamente - spesso nel bene, ma non sempre. Si domandò quale fosse delle due, nonostante fosse consapevole che le risposte ad ogni sua curiosità le avrebbe ottenute solo alla fine della storia. Avrebbe aspettato. 

   
 
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