Serie TV > Agents of S.H.I.E.L.D.
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Autore: mega n    02/01/2018    0 recensioni
Aleksandra Miusov, esperta agente dello S.H.I.E.L.D., riceve da Coulson un'importante missione: deve evitare che l'HYDRA entri in possesso di un pericoloso manufatto alieno, ma suo malgrado si ritroverà a necessitare l'aiuto dell'unica persona che ucciderebbe a prima vista senza nemmeno pensarci...
Dal testo:
«Cosa ci fai qui, agente Miusov?», mi domandò con un ostentato tono di sorpresa. Era disarmato, e in trappola, ma pareva mi avesse aspettata per tutto quel tempo nascosto nella boscaglia, come un fuggitivo disperato. Ero consapevole che mi sarei potuta aspettare di tutto da uno come lui, Coulson mi aveva avvertita, e il fascicolo informativo di cui mi aveva fornita era decisamente ricco di informazioni. E poi, lo conoscevo piuttosto bene.
«Non saprei, tu che dici? Sono uscita per una battuta di caccia, agente Ward, e tu invece?», replicai ammiccando al fucile che gli stavo puntando contro, nonostante entrambi sapessimo che non gli avrei sparato… anche perché avevo finito le munizioni.
«Cercavo te, se proprio vuoi saperlo», rispose sorridendomi.
Genere: Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Grant Ward, Nuovo personaggio, Phil Coulson, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cercavo soltanto un posto a sedere; l’autobus era completamente vuoto, non sarebbe stato un problema: e difatti non lo fu.

Il mio sguardo, che saettava da una fila di corsie all’altra, perlustrando il misero veicolo alla ricerca della posizione ad esso più congeniale, si posò sulla stessa persona che mi fissava, fingendo di leggere seduta su una panchina, fuori dalla stazione.

«Scusami, questo è libero?», domandai indicando il sedile alla sua destra; la donna dai capelli biondi era vicina al finestrino, con ancora il libro tra le mani e la testa china, ma l’attenzione degli occhi, dalle iridi verdi, visibilmente rivolta altrove; mi osservò attentamente per un attimo, e probabilmente una voce nella sua testa le intimava di comportarsi normalmente e con estrema gentilezza e cordialità – certo, nessuno l’avrebbe notato, se non fosse stato abituato ad attuare costantemente lo stesso identico tipo di atteggiamento, cosa che io facevo, naturalmente, ininterrottamente da diversi anni –, quindi mi sorrise, rispondendo con leggerezza: «Sì, siediti». E riprese a ostentare la lettura del volume che aveva davanti.

«Grazie», dissi, e appoggiai la borsa, che fino a quel momento avevo tenuto a tracolla, sul ripiano apposito, sopra le nostre teste, «Ti piace volare, eh?», ripresi.

La mia interlocutrice mi guardò, mostrandosi pateticamente sorpresa: «Come, prego?», come se non capisse – e, ovviamente, sapeva benissimo a cosa mi riferivo.

«Non ho mai capito perché la gente prenda l’autobus invece dell’aereo…», argomentai, appallottolando la giacca e riponendola insieme ai bagagli.

«Disse l’uomo sull’autobus», replicò la finta lettrice ridacchiando, mentre mi sedevo accanto a lei.

«Ho deciso all’ultimo minuto, era l’unico mezzo», spiegai, sorridendo a mia volta; tanto valeva proseguire la conversazione, sarebbe stato più utile che tacere: «Sei qui per scelta?».

L’attrice poggiò la testa sul palmo della mano sinistra per qualche istante, balbettando, come colta alla sprovvista da una richiesta assurda e inaspettata: «Ah, sì, mi godo la vista».

«Ah».

«Non si vede il mondo da sopra le nuvole», seguitò.

«Non lo vedi nemmeno se leggi», obiettai, ammiccando alla pagina, di cui sbirciai il numero di sfuggita: centodiciassette, decisamente, ribadii a me stesso, non stava leggendo.

«È un viaggio lungo, c’è tempo per fare tutto», replicò; sospirai.

«Puoi leggere direttamente la fine».

A quelle parole, la donna rimase un momento in silenzio, con lo sguardo nuovamente fisso sulla carta, come se pensasse ad un modo adeguato di ribattere; la prossima volta si sarebbe dovuta preparare le battute, pensai.

«E perdermi le parti più interessanti?», concluse provocatoriamente.

«Non sembrano interessanti», mi opposi.

«E tu che ne sai?», provò a non tradirsi.

«Perché eri a pagina 117 quando eri qui fuori… e sei ancora a pagina 117», le mostrai, «Quindi, o tu… leggi molto lentamente… o lavori per Coulson».

Si voltò di scatto verso di me: «Chi?».

Sorrisi: «Sono molto colpito… diglielo pure che mi siete mancati», cominciavo a divertirmi.

«Di cosa stai parlando?», la donna non pareva essere della mia stessa opinione, che peccato!

«Sono certo che sai di cosa parlo», dissi gravemente, stringendo con la destra un piccolo detonatore, con un pulsante per l’innesco della bomba, ad esso collegata, sulla cima, e i cavi che uscivano dalla manica della mia camicia, «Se provi a fare, o a dire qualcosa… beh, tutte queste persone salteranno in aria… quindi… continua a leggere il tuo libro tranquillamente, e augurati che abbia un lieto fine».

Era il momento di porre fine a quella sceneggiata, così mi alzai e mi rivolsi all’autista: «Ehi, autista!».

«Sì, signore?».

«Ho sbagliato autobus…», risposi riprendendomi la borsa, «Avrei dovuto… fare un po’ più di attenzione, scusi», afferrai la giacca e mi allontanai dalla mia precedente interlocutrice, che non distolse lo sguardo da me neppure per un momento.

Scesi in fretta e corsi velocemente verso il mio vero mezzo di trasporto

«Ultima chiamata per l’autobus quarantuno-sessantotto per Boston», gracchiava una voce mentre mi affrettavo a raggiungere l’autobus che mi avrebbe condotto in Massachusetts, e l’agente Morse mi fissava dalla strada, rabbiosamente.

«Mi scusi, avevo un bagaglio di troppo», mi giustificai prima di prendere posto

 

***

 

Con passo sicuro, ma con una certa dose di circospezione ormai divenutami indispensabile, mi diressi verso la Goldbrix Tavern ed entrai.

«Ti concedo la scelta: vediamo, cravatta colombiana o pallottola in testa?», mi domandò con voce graffiante il barista, un uomo corpulento e dal lucido cranio pelato, poggiando le mani, chiuse a pugno, sul bancone.

Sogghignai, abbassando per un attimo la testa per non farlo notare, quindi risposi con naturalezza: «Pallottola in testa… con ghiaccio», dunque appoggiai la borsa e mi sedetti.

Il barista mi porse un bicchiere pieno di ghiaccio, lo riempì di un liquido marrone e disse: «Offre la casa. Bentornato».

Lo presi e bevvi con estrema tranquillità, ma la mia mente era altrove – oh, certo, lo era dal momento in cui ero fuggito a quelle guardie incompetenti che, teoricamente, mi stavano impedendo di scappare.

   
 
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