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Autore: aleerika    03/01/2018    1 recensioni
«Nonostante ami le parole, Max, e tu lo sai, certe volte preferisco loro il silenzio. Possono portare a giustificazioni di circostanza o, peggio, a bugie volontarie.»
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield, Un po' tutti, Warren Graham
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Infinite sono le strade verso la distruzione,
unica è la strada verso la redenzione.

 

21 Dicembre, ore 02:54

 

È una di quelle notti che smuovono la città, imprigionate nel pungente effluvio del sale marino e nel gioco di chiaroscuro dei lampioni che, come lucciole, elargiscono all’atmosfera un non so che di speciale.
Tipico delle notti invernali di Arcadia Bay, il clima rigido avvolge la mia malandata berlina che, dopo ore di viaggio, mi ha portata a destinazione.
Non mettevo piede sulle sue strade da ormai nove anni, e le cose erano parecchio cambiate, non solo in città.
Al mio arrivo una sensazione non tanto di paura, quanto di angoscia, pervase le mie viscere.
La mia permanenza non sarebbe durata poco, ed il solo pensiero di rientrare nelle meccaniche di un ghetto che non era più mio, e che con molta probabilità mi avrebbe subito ripudiata, di certo non risollevava il mio stato d’animo.
Me ne ero andata senza spiegazioni, come una vigliaccata incapace di affrontare gli eventi insidiosi della propria vita.
E fu così che, in pochi istanti, ricordai della veduta sul mare a pochi passi da quella che era la casa dove abitavo.
A quei tempi mi dirigevo in piena notte a guardare, stesa su di una panchina, le migliaia di stelle che lambivano il firmamento.
Scaricavo così tutte le mie ansie, timori, che a confronto della vastità sul sommo del mio capo,  non erano nulla.

Parcheggiai, scesi dall’auto e strinsi le braccia fra di loro, sul petto, per non disperdere quel poco di calore che mi era rimasto in corpo nonostante il giaccone indossato.
La voglia di fumare una sigaretta era tanta, così ne accessi una ed aspirai un tiro, per poi espirarlo e vedere il fumo dissolversi nel buio della notte con una celerità disarmante.
Spensi la cicca e la buttai nel primo cestino vicino, come da brava cittadina.
Poco lontano vidi, nel nero della notte, una luce che, ad intermittenza, si accendeva e spegneva.
Avanzai di qualche passo e notai che si trattava di un’insegna di un bar che non avevo mai visto.
Sicuramente venne inaugurato nel mio periodo di lontananza.
In una serata così fredda, un bel bicchiere di rum mi avrebbe riscaldata per bene.

Erano le tre di notte passate, e veder entrare in un locale, a quell’ora, una donna, non era così usuale. 
Presi posto vicino al bancone ed ordinai ciò che avevo deciso poco prima.
Gli sguardi indiscreti degli uomini brilli seduti ai tavoli mi stavano divorando, soprattutto quelli di un ragazzo intorno alla trentina dai capelli lunghi e biondo cenere, dagli occhi castani tendenti al verde e dal viso quasi angelico che, nel suo caso, era sporcato dalla poca barba incolta.
Impegnata nel bere il mio drink, il ragazzo si avvicinò per sedersi alla mia sinistra e chiese al cameriere di ordinarne due identici al mio, e di servire il secondo proprio a me.
Lo guardai con non poca indifferenza , con lo sguardo di qualcuno che, inconsciamente, sa chi ha di fronte.

«Mi sa che questa sera qualcuno ha voglia di parlare.» - dissi come ad istigarlo. 
Avevo una voglia insana di scoprire la sua reazione.

«Probabile.» rispose con serietà - «Sai com’è,» - aggiunse, «vedere a quest’ora, in un locale del genere, una donna, non è comune.»

Prese il drink servito dal cameriere, con una calma inaudita, e ne bevve un sorso impercettibile, servito solo a bagnare le sue labbra rosee.

«C’è sempre una prima volta, non crede?»- risposi con malizia alla sua provocazione, sorseggiando qualche goccia insieme a lui.
«In questa città è difficile trovare e provare qualcosa di nuovo.» - aggiunse, come rassegnato, mentre fissava il bicchiere poggiato sul bancone.

Rimasi basita per qualche istante. 
La sua non fu un’affermazione fatta a caso.
Quell’uomo mi incuteva angoscia, mi stava lentamente, e con astuzia, catapultando nel mio passato. 
Mi conosceva, ma io non riconoscevo lui, o, forse, non volevo ricordarlo.

«Cosa intende dire?» - gli chiesi per fugare ogni mia incertezza.

Prima di rispondermi spostò, per pochi secondi, il suo sguardo dietro il bancone del bar, per poi posarlo sul mio polso destro, che avevo leggermente esposto per mantenere in mano il drink.

«Scommetto che quella piccola spirale nasconde un significato.» - disse riferendosi al tatuaggio che avevo marchiato sulla pelle.
«È un koru.» - risposi, cercando di eludere la sua domanda.
Feci quel tatuaggio qualche anno prima, con l’intento di marchiare sulla mia pelle qualcosa che non sarebbe andato più via, come il pensiero ormai fisso nella mia mente verso la persona a cui avevo inconsciamente dedicato quella piccola opera d’arte.
Il koru è una spirale che indica rinascita, ed io speravo di averne una tutta mia, prima o poi.
Non pensavo che il ragazzo conoscesse il significato del tatuaggio, ma lo intuii quando chiuse per un istante gli occhi, scosse leggermente la testa e mostrò un ghigno divertito alla mia risposta, uno di quelli che si fanno quando conosci perfettamente chi o cosa hai di fronte.

«La rinascita nel posto da dove si è fuggiti... È proprio vero che Arcadia Bay è la città dell’eterno ritorno.»

Non ci fu risposta più gelida per me.
Aprii i meandri della mia mente con una velocità disarmante.

Come avevo fatto a non riconoscerlo?

«W-Warren.» - affermai disarmata, balbettando il suo nome.

Warren. 
Non avevo riconosciuto Warren, una delle persone più presenti della mia vita, prima che andassi via.
E’ stata una dei pochi esseri umani consenzienti ad avvicinarsi a me ai tempi del liceo.
Condividevamo le stesse ore di chimica e scienze, e non poche volte ho invertito gli ingredienti di alcune pozioni per farlo sbagliare e vederlo imprecare contro il risultato finale.
Riusciva ad andare oltre il caratterino complicato che avevo, che mi rendeva incapace di istaurare dei rapporti umani in generale, figuriamoci quelli duraturi.
Ma lui era diverso, mi capiva, mi comprendeva, e non mi sono mai chiesta il perché.
La cosa ci faceva stare bene a vicenda, e questo ci bastava.
Ma non è bastato a mantenere i contatti con lui.
Sono stata patetica, è vero, ma ognuno ha le sue spiegazioni, come ho provato a fargli capire.

«Senti, io...» 
Provai a giustificare il mio comportamento, a giustificare la mia vita, ma Warren mi interruppe senza scrupoli.

«Nonostante ami le parole, Max, e tu lo sai, certe volte preferisco loro il silenzio. Possono portare a giustificazioni di circostanza o, peggio, a bugie volontarie.»

Mi limitai ad accennare con la testa alle sue affermazioni, stringendo fra i denti il labbro inferiore, colorato dal rosso vivo del rossetto che mai avevo messo prima.
Chiusi gli occhi come a voler dimenticare quel momento di strazio e vergogna.
Dopo un imbarazzante momento di silenzio, Warren si alzò dallo sgabello.

«Il lavoro mi attende presto domani mattina.» - disse pagando i cocktail ed avviandosi verso l’uscita del locale.
«Aspetta.»
Trovai il coraggio di parlargli un’ultima volta prima che uscisse dalla porta.
Ascoltando le mie parole tentennò per poi fermarsi sull’uscio.
Aspettava, con le spalle rivolte verso di me, una mia qualunque mossa.

«Dimmi che mi perdonerai... Prima o poi.» - completai la frase tentennando.
Una sensazione di vuoto si fece pesante sul mio petto.
Sapevo che sarei andata a toccare un tasto dolente. 
Non potevo chiedere il suo perdono così, da un momento all’altro, come se nulla fosse mai accaduto.
Il mio fu un comportamento da vera egoista. 
E da vera egoista meritavo la sua eloquente risposta, data dal suo andarsene via senza nemmeno voltarsi indietro, senza nemmeno guardarmi una volta, un’ultima volta.
Come biasimarlo.

Certe volte le parole sono futili come la luce artificiale accesa in pieno giorno - pensai. 

Ma io ero lì per cambiare le cose, ed avrei fatto di tutto pur di riuscirci.
L’alba era però vicina, così come la macchina che mi avrebbe portata nel mio nuovo  appartamento in città.
La proprietaria di casa lasciò le chiavi sotto lo zerbino, nascondiglio perfetto ed inusuale per nascondere qualcosa ad occhi indiscreti.
Raccolsi il tesoro nascosto ed aprii la porta che mi accolse dritta nell’ampio atrio.
Comperai la casa senza visitarla, fidandomi delle poche foto postate in rete e della proprietaria che me l’ha venduta, una donna sulla settantina che conoscevo da prima di andare via.
Vedova del marito che le ha lasciato in eredità l’intera palazzina che ha messo in affitto, ad eccezione della casa dove viveva, non aveva parenti su cui contare, nemmeno sul figlio, che si faceva vivo solo per riscuotere la sua parte d’affitto. 
Ricordo quando, qualche volta, la vedevo sedere su una sedia fuori al palazzo a sorvegliare la zona, come se fosse un poliziotto in azione.
Non avevo mai visto una donna della sua età comportarsi in quel modo in città.
Scaccio via i ricordi del passato per concentrarmi sul presente, sulle modeste quattro mura che mi avrebbero ospitata per un po’ di tempo.
Mi dirigo subito in camera da letto senza nemmeno guardarla con attenzione.
Era avvolta dalle luci di un cielo quasi del tutto sveglio, che emanava dei fiochi fasci di luce che si insinuavano tra gli spazi vuoti della tenda che copriva una piccola finestra di fronte al letto.
Si intravedevano l’armadio ed una scrivania di legno, che sicuramente sarebbe stata utile per il mio lavoro.
Dopo una veloce rinfrescata, fissai la sveglia sul telefono e mi rintanai tra le coperte del letto, capaci di farmi addormentare in poco tempo e di coprirmi dal freddo del mondo esterno.

   
 
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