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Autore: aleerika    06/01/2018    1 recensioni
«Nonostante ami le parole, Max, e tu lo sai, certe volte preferisco loro il silenzio. Possono portare a giustificazioni di circostanza o, peggio, a bugie volontarie.»
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield, Un po' tutti, Warren Graham
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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22 Dicembre, ore 06:05
 

Il silenzio, che dominava la stanza, venne improvvisamente rotto dalla sveglia del telefono che qualche ora prima avevo attivato per svegliarmi.
Le palpebre facevano fatica ad aprirsi, il letto era caldo ed avevo poche ore di sonno addosso, ma non potevo tardare al primo giorno di lavoro.
Prima di ritornare in città mi organizzai in modo da non lasciare nulla al caso, affittando la casa e chiedendo il trasferimento di lavoro nella centrale di polizia “Blackwell Station”.
Tre anni fa non immaginavo nemmeno di voler fare un lavoro del genere, ma ho sempre voluto aiutare il prossimo e denunciare una qualunque ingiustizia, e mi sono resa conto, non troppo tardi, che questo lavoro è sempre stato nel mio destino.

Spensi la sveglia e mi alzai dal letto più stanca di quanto immaginassi.
Con la luce del sole gli elementi presenti nella stanza in cui mi risvegliai si fecero più chiari: le pareti erano di un grigio molto chiaro, così come la moquette sul pavimento.
Il letto era rivestito con un piumone bianco ed era affiancato, alla sua sinistra, da un comodino dello stesso colore, e non mi meravigliai nel vederci qualche nitido segno di usura.
Dopotutto si trattava di una casa già arredata.
A qualche passo, alla sua sinistra, una bellissima parete finestrata dava sull’ampio balcone da dove si intravedeva una sedia molto elegante.
Di fronte, invece, vi era una scrivania molto piccola in legno e subito affianco una porta che dava sul bagno, dove entrai per fare uno shampoo veloce.

Appena finito, presi dalla valigia il phone che asciugò in poco tempo il caschetto marrone che avevo in testa, mentre la spazzola mi ordinò la frangia.
Mi vestii velocemente con le prime cose capitate sotto mano, con una maglia rosa ed un semplicissimo jeans azzurro.
Per non sentire freddo, aggiunsi al mio outfit una felpa beige che rimasi aperta.
Ma avevo bisogno di qualcosa di più elegante, visto il mio “comodo” look, così cercai di migliorare di poco la situazione stendendo sulla palpebra fissa e sulla piega dell’occhio un ombretto scuro che esaltava i miei occhi azzurri e le lentiggini che quasi invadevano per intero le mie guance. 
Finita di truccarmi presi la borsa e scesi alla ricerca di un bar dove poter fare colazione, visto che non avevo ancora fatto la spesa.

Con la macchina passai davanti al bar dove solo poche ore prima avevo trascorso un paio d’ore in una inaspettata compagnia.
Non avevo intenzione di incontrare Warren e sentirmi ancora in soggezione, così da lontano scrutai la zona per capire se fosse lì, seduto ai tavoli di fuori od a quelli di dentro.
Per fortuna non c’era, così entrai e presi posto vicino al bancone, nonostante ci fossero dei tavoli liberi.
Molta gente gustava la sua colazione seduta, altra, invece, comprava un cornetto a volo e lo portava via per mangiarlo altrove.
C’era un via vai continuo di gente che non mi sarei mai aspettata.

Un cameriere mi si avvicinò per prendere l’ordire e mi fece trovare, pochi minuti dopo, un caffè macchiato ed un cornetto al cioccolato bianco, che ho sempre preferito a quello al cioccolato al latte.
Mentre gustavo la mia bevanda mi guardavo attorno; cercavo di scrutare, tra i tanti volti, qualcuno che potesse essermi familiare, proprio come quello di Rose, la mia vecchia vicina di casa, oppure quello di Lucas, un mio compagno delle medie.
Tutti volti che riconobbi al volo, tutti volti che contavano poco nella mia precedente vita.
Non fu il minimo cambiamento delle loro membra a farmeli riconoscere, ma il menefreghismo che provavo nei loro confronti.
Erano persone completamente estranee di cui mi importava nulla, compreso il loro giudizio.
Forse per questo non riconobbi Warren, di lui mi interessava e temevo una qualunque reazione, positiva o negativa.

Lasciai la mancia sul bancone e mi trasportai verso la macchina che mi diresse dritta verso la sede di lavoro, dove arrivai in anticipo nonostante il traffico intenso delle strade di Arcadia Bay.
Una città piccola, ma sempre affollata.

Avrei lavorato in una centrale moderna dove subito mi persi.
C’erano troppi uffici a disposizione ed il mio senso dell’orientamento non ha mai funzionato bene in situazioni del genere.
Colsi l’occasione per chiedere l’aiuto della guardia Madsen, così come riportava il suo cartellino di riconoscimento, che però si dimostrò restio ad aiutarmi ed indicarmi la strada verso l’ufficio dove il tenente mi aspettava in visita. 
Il suo sguardo era corrucciato, ed il suo labbro superiore coperto da baffi molto folti.
Mi dava l’impressione di una persona molto seria, che non si faceva abbindolare da niente e nessuno.
Con grande sorpresa mi condusse a destinazione facendomi percorrere diverse rampe di scale.

Entrata nell’ufficio del tenente, la prima impressione non fu del tutto positiva.
Varcata la porta un penetrante olezzo di tabacco pervase le mie narici oltre ad impregnare i miei vestiti.
Innumerevoli scartoffie erano sparse in ogni dove, così come i poster polizieschi mezzi scollati dal muro.
Un vecchio computer fisso era poggiato sulla scrivania mentre la stampante era in bilico su una sedia usata come mobiletto provvisorio.
Od il mio superiore amava vivere nel disordine, od aveva poco tempo anche per chiamare qualcuno che potesse sistemare per lui.
Quel posto era troppo in disordine per essere occupato da una figura così importante.

«Benvenuta alla Blackwell Station signorina Caufield, lieto di averla in centrale.» intervenne l’uomo allungando la sua mano verso la mia in segno di saluto.
«Il piacere è il mio tenente Wells.»
Volevo sembrare il più garbata possibile.

«Le regole le conosce, ed è inutile ricordarle che la prima è rispettare e far rispettare la legge.»
«Sono qui per questo.» gli risposi con fare autoritario.
«Ha già conosciuto il suo nuovo compagno di squadra?»
«A dire il vero no, tenente Wells.»

Senza dire nulla, l’uomo alzò la cornetta del telefono e chiese l’immediata presenza in ufficio del mio compagno di squadra.
Speravo si trattasse di una donna, mi sarei sentita di più a mio agio.
Quando la porta dell’ufficio si aprii non potevo credere ai miei occhi.
Warren Graham.
Inevitabilmente sul mio e sul suo viso si celarono sguardi stupefatti, accompagnati da un’improvvisa paralisi mandibolare.

«Avete già fatto conoscenza?» - domandò Wells incuriosito dalle nostre reazioni.

«Ho avuto il piacere di parlare col detective Caufield poche ore fa, senza immaginare che saremmo diventati nuovi compagni di squadra.» rispose con una calma inaudita.
Dietro la risposta di Warren lessi un pizzico di velata ironia a cui non potevo controbattere.

«Che ne dici di farle fare un giro perlustrativo? Così la signorina si orienta un po’.» 
All’ordine del tenente Warren agì, con lieve disagio.
Riuscivo a captare la sua inquietudine al solo pensiero di dover lavorare con me.

«Prego signorina Caufield, prima lei.» - disse aprendo la porta dell’ufficio ed indicando la via d’uscita, come un vero galantuomo.

Chiusa la porta dietro di noi Warren non si fece attendere, disse tutto ciò che gli ronzava per la testa in quel momento.
«Questo è un posto di lavoro, e come tale non voglio che la nostra vita privata venga fuori. Attieniti al tuo mestiere, e basta.»
Non poteva essere più diretto.

«Va be...» 
Prima che potessi completare la frase, mi interruppe.

«Non voglio sapere niente di te e di questi nove anni. Mi interessa solo lavorare, quindi ti farò vedere il posto e subito dopo, visto che sei una novellina, ti farò guidare. Hai la patente, giusto?»
Sembrava si fosse preparato ore ed ore prima il suo discorso.
Parlava come se fosse una macchinetta impazzita.

«Sì.»
Era stato più che chiaro. 
Non voleva avere contatti con me, non voleva parlarmi se non di lavoro, ed io non potevo controbattere, o meglio, non volevo.

«Allora prendi.» - disse lanciandomi le chiavi della macchina. 
Per fortuna i miei riflessi furono pronti e le presi a volo.

Dopo il giro perlustrativo ci dirigemmo in una macchina che non aveva nessun logo della polizia. Forse eravamo sotto copertura e forse la macchina era di Warren, ma ero troppo imbarazzata per chiederglielo, ed ero strabiliata dalla decisione di farmi guidare quella che molto probabilmente era la sua vettura.
Controllati gli specchietti, messa la cintura e regolato il sediolino, girai la chiave nell’interruttore e, sotto le sue indicazioni, guidai fino a dov’era da lui richiesto.
Il tragitto in macchina fu davvero silenzioso, gli unici rumori a farmi compagnia furono quelli degli altri veicoli in strada.

Arrivammo in una piccola piazza che ricordavo completamente diversa.
Era stata ristrutturata ed era popolata da più individui rispetto al passato.
Warren sembrava quasi impacciato, cercava di coprirsi il più possibile col berretto che aveva in testa, come a nascondersi da qualcuno, forse da chi spiava.

«Lo vedi quel ragazzo?» - disse rompendo l’imbarazzane silenzio che si era creato fra di noi. Lo indicò senza farsi notare.
Prima di parlare strinsi gli occhi come per mettere a fuoco l’obiettivo, e notai un ragazzo dalla carnagione scura mentre scambiava qualche parola con un suo amico.
«Ma è...»
«Sì, è Drew.»
Ormai si era abituato a concludere le frasi al mio posto.
«Lavora per Nathan Prescott che, come ben sai,» - aggiunse, - «è un figlio di papà, il papà più potente della città.»

Abbozzai un sorriso al sentire la sua rima.
«Immagino sia implicato in qualche affare bello grosso.» - gli risposi seria.
«Spaccio di droga e prostituzione. Non può rischiare di metterci la faccia, così ha qualche scagnozzo che fa il lavoro sporco al suo posto, proprio in questa piazza.»
«E Drew è uno di loro.»
«Già,» - rispose rassegnato. - «ma non posso fare nulla.»
«Come mai? Il potere dei Prescott è troppo alto per intervenire?»

Prima di rispondermi sbuffò, come scocciato dalla situazione.
«Sto lavorando a questo caso da ormai quattro anni, da solo. Non mi hanno permesso di aprirlo ufficialmente, ma se solo riuscissi a trovare delle prove che lo possano incriminare, potrei presentarle in questura e cambiare le cose, forse. Almeno spero.»
«Allora come fai ad essere sicuro che Nathan è a capo di tutto?» - chiesi interessata. Leggevo la convinzione nei suoi occhi, ma era poco per incolpare una persona, anche se aveva seri problemi di instabilità mentale.
«Ogni edificio sorto da tre anni a questa parte, così come la ristrutturazione di questa piazza, sono a suo nome.»
«I Prescott se lo possono permettere.»
«Nathan no.»
Alla sua affermazione, mi chiese di parcheggiare la macchina in un posto lontano da occhi indiscreti, così da poter cacciare dalla tasca del giubbotto alcune foto.
«Sono riuscito ad entrare nel sistema protetto della centrale, gestito dal solo tenente. Ho trovato queste cartelle nascoste.» 
Mi porse le foto fatte.
Da queste si leggeva che il padre di Nathan, a causa della instabilità del figlio, lo aveva privato di ogni bene familiare, a partire dai soldi fino ad arrivare alla possibilità di diventare, in futuro, il capo dell’impresa di famiglia.
Era una situazione davvero assurda.
«Come fa Wells ad avere queste informazioni?» 
Mi sorse spontaneo da chiedere. Si trattava di atti privati di competenza lontana da quella poliziesca.

«Prima che questa storia venisse fuori, Nathan fu colto in fragrante mentre molestava una ragazza che aveva drogato poco prima. Ed il padre, per toglierlo dai guai, ingaggiò i migliori avvocati per patteggiare una pena di poco conto: servizi sociali per un mese.»
«E questo documento come è arrivato nelle mani del tenente?»
«Diciamo che ha “ufficializzato” le volontà del signor Prescott.» - disse mimando delle virgolette con l’indice ed il medio di entrambe mani.
«Io solo una cosa non capisco.» interruppi.
«Perché ne ho parlato con te?»
«Sei più perspicace di come ricordavo.»
«Ho bisogno di qualcuno che mi appoggi, e so quanto tu odi Nathan.»

Non che lo odiassi per davvero, ma sin dai tempi del liceo si è sempre dimostrato uno sbruffone, incoraggiato dalla sua situazione familiare.

«Ma tu odi me.»
Le parole uscirono fuori spontanee, non le avevo nemmeno pensate.

«So che dal punto di vista lavorativo mi posso fidare di te.» 
Cercò di eludere le mie parole.

«Non mi hai risposta.» 
«Il lavoro è un’altra cosa Maxine.»
«Max, mai Maxine.»
Sapeva quanto odiassi essere chiamata col mio nome per intero, ma lo fece come a sottolineare, ancora una volta, il suo totale distacco dalla Max fuori dal lavoro.

«Lo so.»
Accennai un sorriso.

«Mi aiuterai?» disse quasi implorando.
«Certo.»

Aiutare un detective in un caso nemmeno aperto.
Che bella mossa, Max - pensai fra me e me.
Non mi sarei mai perdonata un mancato aiuto nei suoi confronti.

Nel bel mezzo della nostra conversazione, il cellulare di Warren suonò.
Mentre parlava a telefono sentivo una voce profonda urlargli contro, probabilmente avevano scoperto che il mio compagno di squadra non aveva utilizzato la vettura di servizio.
Le sue gote iniziarono a farsi leggermente più rosee per l’imbarazzo poiché si rese conto della figura che stava facendo.
Liquidò la ramanzina di chi era all’altro capo del telefono e si fece dire cosa in andava.

«Una donna sulla sessantina è stata derubata nel suo appartamento.»
Spostò la mano verso la sirena provvisoria che aveva nella sua auto, quella che usava nei casi in cui era sotto copertura.
Me la porse e la poggiai, già accesa, sul tettuccio della macchina.
In pochi secondi diedi gas e partimmo veloci per aiutare la donna.

«Grazie.»

Mi disse grazie e non potevo crederci.
Per un secondo aveva messo da parte tutto il risentimento che provava verso di me, ed io ne ero più che contenta, da rispondergli con un sorriso sincero e privo di ogni dolore.
Finalmente mi sentii un po’ di più a casa.

   
 
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