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Autore: Son of Jericho    03/01/2018    1 recensioni
Sequel di "How can I know you, if I don't know myself?"
Sono trascorsi due anni da quando il sipario è calato sullo spettacolo alla Hollywood Arts. La vita per i ragazzi sta andando avanti, tante cose sono cambiate, e sta arrivando per tutti il momento di affrontare responsabilità, problemi e sorprese.
E mentre impareranno cosa significa crescere, si troveranno faccia a faccia con il tormento più profondo: i sentimenti.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andre Harris, Beck Oliver, Cat Valentine, Jade West, Tori Vega
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Bade - Cuori tra le fiamme'
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XV – Burning Hands

 

 

Freddie, fin da bambino, era sempre stato lodato per la sua bravura, la sua gentilezza e il suo altruismo. Era il classico “bravo ragazzo” che, nel mondo, doveva stare attento a tutto per evitare di finire fregato. E forse, era proprio per questo che sua madre si era comportata in maniera così protettiva con lui.

C’era un lato del suo carattere a cui Freddie era particolarmente legato, ma che nel corso della sua giovane vita, aveva faticato a trovare negli altri.

Un dettaglio che gli permetteva di fidarsi della gente, di integrarsi, di guadagnarsi dei veri amici.

E se c’era una cosa che, nella sua sensibilità, gli faceva perdere il controllo, era realizzare che la persona in cui aveva riposto la sua completa fiducia, non aveva fatto altro che prenderlo in giro.

Quella mattina, Freddie arrivò alla Crystal-Tech veramente arrabbiato.

Saltò l’appuntamento con la macchinetta del caffè e, dopo aver acceso il computer e lasciato lo zaino alla scrivania, si precipitò nuovamente verso le scale per tornare al piano di sotto.

Il passo era deciso e frenetico, e nei suoi occhi ardeva una fiamma che sembrava nata direttamente dall’inferno.

Raggiunse l’ufficio di Sam e, senza bussare, varcò la soglia come se volesse fare irruzione.

Sam sedeva di spalle rispetto alla porta, perciò la prima a vederlo fu la responsabile di reparto. Una donna sopra la cinquantina, capelli rossi fluenti e trucco pesante nel fragile tentativo di coprire le rughe.

Lo accolse con inopportuna allegria. – Buongiorno, genietto del computer! – gli strizzò l’occhio. – Franky, giusto? –

Lo innervosiva, il fatto che quella signora con tanti anni alle spalle, ancora non avesse nemmeno imparato il suo nome. Dopotutto, seppur in maniera anonima e ufficiosa, aveva partecipato alla realizzazione di un intero progetto di marketing per lei.

- Freddie. – la corresse, e finalmente anche la bionda si accorse della sua presenza. – Devo parlare con Sam, mi scusi ma devo portargliela via per un istante. – si rivolse a lei. – Puoi uscire, per favore? –

Mentre la accompagnava in corridoio, vicino al portone d’ingresso, il giovane Benson mostrava di essere pronto a rilasciare il tornado che infuriava sotto la sua pelle. Poteva affrontarla a testa alta, come forse non aveva mai fatto.

- Freddie, ascolta, io… - provò a esordire, ma lui la interruppe subito. Non avrebbe sentito storie.

- Stavolta ha davvero superato il limite, Sam! –

Lei fu colta un po’ alla sprovvista e incrociò le braccia. – Stai parlando di ieri sera? –

- No, del Natale scorso. –

- E’ andata così male? –

Il ragazzo ricorse al sarcasmo, almeno inizialmente, per camuffare l’acidità nel tono. – Se è andata così male? Aspetta, fammici pensare… ma no, è andato tutto a meraviglia! –

Sam cercò delle contromisure per un Freddie come non lo aveva mai visto. – Senti, stamattina mi sei piombato in ufficio senza dire nulla, e non c’è bisogno che continui con queste battutine del cavolo. Che accidenti ne so io? Ieri sera ti ho scritto, scusandomi anche per aver fatto tardi, e tu non mi hai nemmeno risposto. –

La maschera cadde definitivamente. – Quindi adesso sarei io lo stronzo? E’ evidente che non avessi tutta questa voglia di parlare con te, dopo quello che era successo. Oh, e tra parentesi, grazie mille. Grazie, perché adesso, ho uno stipendio che a malapena coprirà l’affitto e le bollette, e dovrò inventarmi qualcosa per riuscire a mangiare, senza che i miei amici debbano offrirmi il pranzo ogni giorno! –

- Se era così alto, perché non hai rifiutato? –

- Già. Perché non ci ho pensato prima? – si passò una mano tra i capelli. – Ah, ecco… perché altrimenti sarei finito a dormire per strada! Avevo già disdetto la camera, credendo di aver fatto bene a mettermi nelle mani tue e del tuo amico galletto. Che cos’era, il classico scherzo a Freddie Benson, come quella volta in cui sabotasti la mia domanda per il campo estivo? Spero che almeno vi siate divertiti. –

- Ti ho già detto che mi dispiace, e ti ho spiegato che non ce l’ho fatta perché… -

- Non mi interessa, hai capito? – non l’avrebbe lasciata parlare, ma doveva essere bravo a scegliere le parole. – E’ sempre stato così con te! Ogni volta che prendi un impegno, poi trovi una scusa per tirartene fuori, che sia un imprevisto con un fantomatico parente, una commissione che non puoi rimandare, o una qualsiasi altra cosa dell’ultimo minuto. Non avrei dovuto darti ascolto. Oggi come allora, non sei cambiata affatto. Se il mondo non ruota intorno a Sam Puckett, allora può smettere di girare. Tu non hai mai prestato attenzione agli altri, eppure ho commesso l’errore di pensare che tra noi potesse essere diverso. Lo sai quant’è difficile sapere di non poter contare su di te neanche per questo? Sono qui da mesi, ormai, e nonostante tutte le tue belle parole, non sei mai riuscita a trovare cinque minuti per me. E sai una cosa? Io non ho intenzione di sprecare un altro pomeriggio chiedendomi e chiedendoti quando ci potremmo vedere. Io mi sono stancato, Sam! Sono stanco di essere sempre l’ultimo della tua lista, e di vedere continuamente altri che mi passano avanti. Sono stanco di essere l’idiota che c’è sempre quando hai bisogno, per poi vedere invece che, nel momento in cui serve a me una mano, tu sparisci. Siamo stati lontani quattro anni, Sam, indipendentemente da quello che… provo. Per quanto mi riguarda possono passarne altrettanti. Io non voglio rincorrere più nessuno. –

 

*****

 

Bisognava ammetterlo, lavorare in biblioteca non era esattamente come stare sotto i riflettori del piccolo o del grande schermo.

Niente assistenti personali, camerini privati o copertine di riviste, ma anche nessun regista incontentabile o collega capriccioso e incompetente.

La biblioteca lo rilassava. Nelle giornate più stressanti, il peggio che poteva capitargli era dover riordinare la sezione dei manuali di botanica.

Indipendentemente da ciò che era accaduto, la sua carriera da attore aveva imboccato un periodo di flessione, e lui aveva preferito frenare e farsi da parte, prima di raggiungere il baratro del dimenticatoio.

Ma come gli piaceva pensare, non c’è niente di definitivo nella vita.

E al momento adatto e con l’occasione giusta, sarebbe saltato di nuovo in sella e avrebbe ripreso le redini dei suoi sogni.

Per adesso, era piacevole anche stare tra i libri per bambini.

Era come una sorta di mondo in miniatura. Erano sempre le solite facce quelle che si aggiravano tra gli scaffali: si andava dagli studiosi con le camicie a quadri e gli occhiali spessi come fondi di bottiglia, alle casalinghe in cerca di qualcosa per ingannare il tempo, passando per i ragazzini che si nascondevano con lo smartphone dietro gli atlanti.

Quella mattina, tuttavia, fu una in particolare a catturare la sua attenzione. Una giovane studentessa, bionda, minuta.

Quando gli passò vicino, Beck riconobbe in lei un’aria vagamente familiare. Teneva in braccio una pesante pila di volumi, di diversi spessori, che posò a fatica sul tavolo.

Spinto dalla curiosità, Beck si avvicinò con noncuranza alla postazione di studio. E non appena vide l’ultimo titolo in fondo al cumulo, anche la ragazza acquistò un’identità.

- Macbeth! – esclamò il canadese.

La studentessa alzò il capo, sorpresa. – Helen, in realtà. –

- Beck, piacere. – annuì sorridendo, per poi indicare il libro. – Ma io intendevo l’opera. –

- Oh, certo… scusa! – rise imbarazzata anche lei. – Non ti avevo riconosciuto dall’altra volta. Grazie ancora per l’aiuto. –

Beck si guardò intorno. Era una giornata piuttosto calma, non c’erano molte persone, e nessuno sembrava aver particolarmente bisogno di lui.

- Figurati. – decise di prendersi una piccola pausa e si sedette al banco. – A proposito di questo, com’è andata? –

- Che cosa? –

- Mi hai detto che dovrete metterlo in scena... immagino abbiate fatto dei provini. –

- Già, quello… - Helen fece una smorfia e scrollò le spalle. – Insomma, così e così. Hanno detto che sono andata bene, ma onestamente non mi pare di aver fatto granché. E poi sto avendo delle difficoltà enormi con il testo. La prima prova ce l’hanno fatta fare con il copione davanti, ma la prossima volta non so come riuscirò a superarla. –

Prese il volume e lo aprì casualmente a metà. – Il linguaggio è… strano, è complicato, più di quanto mi aspettassi. Ci sono dei termini che non ho mai nemmeno sentito, e dei passaggi che proprio non riesco a capire. – gli segnalò un punto col dito. – Guarda questo, per esempio, che diavolo significa? –

Beck, comprensivo, sollevò un sopracciglio. Quell’opera la conosceva abbastanza bene. - Vuoi che ti dia una mano con le battute? –

 

Vuoi che ti dia una mano con le battute?”

Considerando le ultime comparse, i nuovi commedianti e i suoi ex compagni della Hollywood Arts, Beck era senza dubbio uno di quelli con maggior esperienza teatrale. Inoltre, avendo partecipato alla stesura della commedia, poteva affermare di conoscerla bene come pochi altri.

Per questo, quando non aveva compiti di direzione, gli piaceva raggiungere gli altri sul palco e partecipare alle prove. Molti di loro erano dilettanti e spesso andavano in difficoltà, ma anche in quei casi, non si tirava mai indietro e faceva di tutto per aiutarli.

Chi non condivideva il suo metodo, tuttavia, era proprio Jade.

Beck avrebbe potuto chiederle quale fosse realmente il problema, ma dopotutto, sarebbe stato inutile. Lui lo aveva già capito, e lei non lo avrebbe mai ammesso.

Ricordava benissimo gli occhi gelidi di Jade puntati addosso, le occhiate di fuoco che lo lambivano ogni volta che prendeva un copione in mano.

Quella spiacevole sensazione di essere costantemente osservato, controllato, giudicato.

Vittima di una percezione sbagliata, colpevole soltanto di condividere il palco con altre attrici, con altre ragazze.

Più di una volta erano finiti a discuterne in camerino.

- Mi spieghi perché perdi tempo dietro a quelli là? –

- Anche loro sono attori, o quantomeno sperano di diventarlo. Mi sbaglio? –

- Nobile da parte tua trasformarti nel buon samaritano, ma è gente che non abbiamo selezionato nemmeno noi, quindi perché non può essere quello spocchioso damerino a insegnargli come si recita? –

- Perché non possiamo lasciarli così in alto mare. –

- Ma non è un nostro problema! –

- Sì, invece, se vogliamo che questa volta funzioni. E’ una ruota, un ingranaggio che non si deve fermare. Se falliscono loro, fallisce lo spettacolo, falliamo noi. –

 

*****

 

Andre guardò per l’ennesima volta l’orologio e sbuffò rumorosamente, sotto lo sguardo apprensivo di Cat.

Quel pomeriggio, avevano fissato le prove allo studio per le 14.30, ma alle 15.10, soltanto due partecipanti su tre si erano presentati.

Di Tori, Andre non riusciva ancora ad avere notizie. Ad ogni chiamata, il cellulare della ragazza rispondeva con la voce meccanica della segreteria e lo invitava a lasciare un messaggio. E la cosa lo stava facendo seriamente innervosire.

- Vuoi che cominciamo noi, intanto? – propose Cat, giocherellando col microfono.

- Stavolta no. – replicò brusco. – Scusa, Cat, ma comincio ad averne abbastanza. –

Andre si diresse al portatile e si mise a navigare per ingannare l’attesa. Stavolta avrebbe affrontato la questione, non importava che ora fosse.

Diversi minuti dopo, Tori fece il suo ingresso. Teneva la giacca stretta nella mano destra, l’aria trafelata.

- Eccomi, ragazzi. – appoggiò frettolosamente la borsetta sulla sedia e si riassestò i capelli.

- Dov’eri? – la interrogò subito l’amico, mantenendo il tono calmo.

- Con Thomas. Siamo andati a pranzo fuori, poi siamo tornati a casa sua, e… - le scoppiò un sorriso imbarazzato. - … e ho perso la cognizione del tempo. Ma adesso sono qui e sono pronta a cantare. Dai, cominciamo. –

Andre, rimasto in disparte a fissarla per quegli istanti, chiuse il portatile con un gesto risoluto. – Al diavolo le prove di oggi. –

Entrambe le ragazze si voltarono sbalordite verso di lui.

- Che ti prende? – chiese Tori.

- Che mi prende? – ripeté. – Tanto valeva che ti presentassi con il sole già tramontato, o che rimanessi direttamente a casa del tuo uomo. –

- Andiamo, dov’è il problema? – lanciò una fugace occhiata a Cat in cerca di supporto. – Ok, ho fatto un po’ tardi, scusami. Ma non c’è bisogno di fare storie per mezz’ora. –

- E’ più di mezz’ora, e soprattutto, non è la prima volta che succede. –

- Piantala, Andre. –

- Sto parlando sul serio. –

Mentre le amiche lo guardavano attonite, Andre iniziò a spengere l’impianto e a rimettere il computer nella borsa. – Per oggi mi è passata la voglia. E visto come stanno andando le cose anche per te, Tori, quella è la porta. –

La giovane Vega aggrottò la fronte e si impuntò. – Mi spieghi che cavolo ti sta succedendo? –

Il ragazzo sospirò e lasciò sbattere il palmo sul tavolo. – C’è che da quanto frequenti quel Thomas, non hai più tempo per niente e per nessuno! –

- Quindi è di questo che si tratta? Vorresti che rinunciassi ad avere un ragazzo perché senti che tu e la tua vita sociale non avete abbastanza attenzioni? –

- Non è di questo che sto parlando. –

- E allora, per favore, spiegami di cosa si tratta. Perché, ti giuro, non ti sto seguendo. –

- Da quando stai con Thomas, sembra che del tuo mondo non faccia parte nient’altro. Ti stai dimenticando di noi, i tuoi amici. Ci stai lasciando in panchina, io ho addirittura l’impressione che non abitiamo più nemmeno sotto lo stesso tetto! –

Cat si era rintanata in un angolo e si era timidamente stretta nelle spalle, mentre Tori pareva sinceramente affranta.

- Ho trovato qualcosa che fino ad ora nella mia vita non c’era. Non è qualcosa che accendi o spengi come una lampadina, lo vivi e basta. Ed è ciò che sto facendo. E’ importante per me, pensavo lo avresti capito. –

Come un fiume in piena che si avvia verso la cascata, Andre non aveva alcuna intenzione di fermarsi.

- Così com’era importante questo progetto. Sapevi cosa significava per me, sapevi che avevo bisogno di te al mio fianco. E invece lo stai ignorando perché, evidentemente, non è più così “interessante”! –

Una corda nella gola di Tori si incrinò. – Non puoi dirmi una cosa del genere. –

- Mi avevi fatto una promessa all’inizio, te la ricordi? E adesso stai buttando tutto all’aria per… cosa? Per un ragazzo che, per quanto ne sappiamo, potrebbe averti preso in giro sin dal primo giorno. –

A quelle parole, una scintilla scattò nella mente di Tori, e la sua espressione mutò profondamente.

- Di nuovo con questa storia? – si mise le mani nei capelli. – Mio Dio, non possiamo continuare a ripetere la stessa conversazione all’infinito, Io non ce la faccio più! –

- Mi sto preoccupando per te, è così sbagliato? –

- Sì, se in fondo è solo per te stesso che ti stai preoccupando. –

- Allora guardami negli occhi e dimmi, con assoluta certezza, che conosci veramente Thomas e che non ti sta nascondendo più nulla. –

- Ma che accidenti ne sai, tu? Sei per caso nella sua testa a leggere i suoi pensieri? –

- No, ma sono convinto di aver letto abbastanza bene le intenzioni dei suoi pantaloni! –

Cat rischiò di lasciarsi sfuggire un’inopportuna risata, ma fortunatamente riuscì a trattenersi in tempo.

Tori se ne accorse comunque. Trasse un profondo respiro e scosse il capo. – Ok, vediamo di calmarci tutti. Credo sia il caso di finirla qui, per oggi. – afferrò la borsetta e la giacca. – Prove terminate. Andiamo, Cat, ti accompagno a casa. –

Continuare a urlarsi contro non sarebbe servito a nessuno. Forse avevano bisogno di riposarsi, di fermarsi a riflettere, di mettere tutto quanto in pausa per un pomeriggio.

Prima di raggiungere la porta, Tori si voltò e un ultimo sguardo incrociò quello dolorante di Andre.

C’era amarezza nei loro occhi. C’era la consapevolezza che, per entrambi, il loro rapporto andava ben al di là dell’amicizia. E c’era il timore di riconoscere che, in fin dei conti, ciò che si erano detti era tutto vero.

- Tori… -

- Io mi fido di Thomas, speravo che questo ti sarebbe bastato. E mi dispiace, Andre, ma non mi scuserò per essermi innamorata di lui. -

 

*****

 

La sera era calata sulle colline di Los Angeles, ma non sulla mente di Sam.

Anche a casa di Gabriel, sdraiata sul divano a guardare la tv, la voce di Freddie sembrava non volerla abbandonare. Per quanto avesse tentato di scacciarlo, quel tarlo continuava a vagare e ad assillare i suoi pensieri.

Ciò che le aveva detto quella mattina era forte e difficile da accettare, e una reazione del genere era decisamente sopra le righe. Aveva esagerato. Dopotutto, un errore non è concesso a tutti?

Eppure, qualcosa le aveva impedito di mandarlo al diavolo e lasciarlo a piangere nel corridoio.

Forse era stata l’oscurità che aveva visto negli occhi di Freddie, o la punta d’odio che macchiava la sua voce. Un tono così duro e incrinato, un’espressione che il suo volto non aveva mai assunto.

O forse era perché, inascoltata in fondo alla sua coscienza, una parte di lei stava suggerendo che Freddie non aveva detto niente che non fosse vero.

Faceva male, sapere che quelle parole erano state pronunciate dal suo migliore amico.

Si sentivano entrambi feriti, ma non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta.

 

Siamo stati lontani quattro anni, Sam, indipendentemente da quello che… provo.”

- Adesso è il mio turno di parlare. Dimmi, Freddie, perché sei venuto a Los Angeles? –

Un silenzio incerto.

- Non c’è bisogno che tenti di inventarti una risposta, lo so. E so benissimo anche quello che… non dici di provare. –

- Davvero? Credi di saperlo? –

- Certamente. Non sono così egocentrica e incapace di guardarmi attorno come mi hai disegnata. Certe cose le vedo anch’io. E diciamo che, nel tuo caso, non sei mai stato bravo a nascondere quello ti passa per la testa. Il problema è che per questo sono io a non avere una risposta. Mi hai accusata di non concederti spazio, ma come al solito non hai capito un bel niente. Credi che io non ripensi mai a Seattle? Credi che in questi “quattro anni”, come li hai chiamati tu, non abbia mai sentito la mancanza tua, di Carly o degli altri? Poi d’un tratto, un giorno, ti ripresenti qui e pretendi che tutto sia come prima. Non funziona così. Adesso nella mia vita c’è anche Gabriel. Pensi che sarebbe semplice spiegargli chi sei veramente, o il rapporto che avevamo? Secondo te esisterebbe un modo per fargli capire, e soprattutto accettare, quello che c’è stato tra di noi, la nostra storia, il nostro passato? Te lo dico io: no, con te fisicamente qui, poi. Sarebbe troppo rischioso. E con Gabriel voglio smettere di rischiare. Lo sai cosa rappresenta per me. Perciò, se devo tenerti a distanza, specialmente in sua presenza, sappi che lo faccio anche per te. –

 

Avrebbe voluto che quella parte della conversazione fosse avvenuta. Non necessariamente sarebbe servita a rimetterli in carreggiata, ma ad ogni modo Freddie non le aveva dato il tempo. Dopo aver finito di urlare, si era rintanato di corsa nel suo ufficio, e non si era fatto più rivedere per tutto il giorno.

“Prima o poi”, pensò Sam, lo sguardo fisso sul televisore che trasmetteva un quiz show. Sorridendo, lanciò una breve occhiata al suo ragazzo, seduto ignaro accanto a lei, e si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina.

Ma come fu in piedi, Sam sentì improvvisamente una strana sensazione pervaderle il corpo.

Prese forma e si susseguì tutto in una manciata di secondi. Una morsa allo stomaco fulminea e un dolore lancinante, la vertigine, e infine il senso di nausea.

Si lanciò verso il bagno in fondo al corridoio, con quel minimo di equilibrio rimasto, e schiacciò al volo l’interruttore della luce. Le mani si posarono come artigli ai bordi del lavandino, e in tre conati, l’ultimo pasto andò a finire nei condotti della rete fognaria.

Appena passato il malore, fece scorrere per un po’ l’acqua e si bagnò le labbra e il mento. Alzò il capo e osservò il proprio riflesso nello specchio, la pelle arrossata e gli occhi lucidi.

In quell’istante Gabriel si affacciò sulla soglia, chiaramente preoccupato. – Tutto ok, Sam? –

Lei si premette la mano sotto lo sterno e fece una smorfia. – Lo stomaco… credo. –

Sembrava una stupidaggine, ma… possibile che pensare a Freddie le provocasse addirittura malessere fisico?

 

*****

 

Se c’era qualcosa in cui gli USA battevano ancora facilmente la Germania, era la capacità di organizzare party. Che fosse la presenza delle confraternite, di una maggiore libertà concessa dai comitati, o più semplicemente di un talento ereditato dai Padri Fondatori, nelle università americane sapevano come divertirsi.

Robbie sorrise, al pensiero che nello stesso momento, a centinaia di miglia di distanza, probabilmente sarebbe stato a testa in giù a fare da bersaglio per le freccette.

Gli sforzi di Kendra e delle sue amiche erano stati encomiabili, ma il risultato, benché non fosse pessimo, non era esattamente quello si aspettavano.

La palestra, quella più piccola con il campo da basket, era stata riattrezzata e decorata per l’occasione. Ad uno dei canestri era appeso il cartellone della serata, che celebrava la fine del primo quarto di anno scolastico. Una ricorrenza insignificante, ma certo un’ottima scusa per festeggiare.

Mentre Stefan, già in cerca di prede, si intratteneva a conversare con una ragazza, Robbie decise di fare un giro e studiare l’ambiente. A memoria, era una delle prime volte che metteva piede lì dentro. Ci si era sempre tenuto alla larga, consapevole di come lui e una qualsivoglia attività fisica non potessero fare parte dello stesso universo.

Dal lato opposto del campo, praticamente sotto l’altro canestro, era stato allestito il palco per l’esibizione delle band. Si stavano alternando due gruppi locali, buon sound, discreto coinvolgimento, ma futuro pari a quello di una foglia in autunno.

In mezzo si era formata la pista da ballo, tuttavia molto meno affollata di quanto avesse immaginato. C’era chi si stava scatenando, ma l’impressione era che mancasse un sacco di gente dai corsi universitari.

Le transenne degli spalti erano anch’esse tappezzate da poster e striscioni, e nella zona in fondo a sinistra, erano state spostate le panchine in modo da creare un angolo di ristoro.

Robbie percorse la corsia di destra, a metà della quale erano sistemati i tavoli con le vivande. Un piccolo buffet, tra patatine, gamberetti e tante bibite. In particolare, tanto alcol, aggiunto clandestinamente anche dove non era previsto.

Robbie passò accanto a Stefan, ancora intento a parlare e ridere con una bionda molto carica, afferrò un paio di tartine e si versò un bicchiere di limonata “corretta”.

Non era male, ma assomigliava un po’ troppo a un party anni ’80, pensò divertito mentre proseguiva in direzione del palco.

Fu allora che incrociò Kendra. La ragazza si precipitò ad abbracciarlo con entusiasmo e gli schioccò un bacio sulla guancia.

- Ce l’avete fatta, finalmente! Dove vi eravate cacciati? –

- Abbiamo trovato traffico. – scherzò.

- Dal dormitorio a qui? –

Rise. Gli occhi di Kendra brillavano, e la voce pareva contenere un’euforia fuori giri. Era abbastanza chiaro che avesse avuto già parecchi drink prima del suo arrivo.

Poi si sentì tirare per il braccio. – Non vorrai mica restartene qui impalato per tutta la sera, vero? Andiamo a fare due salti! –

Lui guardò prima la pista e poi il palco. Ballare, francamente, non rientrava nella sua lista di cose da “da fare”.

- No, grazie, per ora non mi va. –

- Perché devi sempre farti pregare? Guarda, persino Stefan si sta divertendo! Vuoi essere più antipatico di lui? –

Robbie la riportò lentamente verso i tavoli del buffet. – Preferisco godermi tutto questo ben di Dio. Da dove mi consigli di partire? –

Kendra gli indicò il bicchiere vuoto che teneva ancora tra le mani. – Da un altro di questi. –

Quella che seguì fu una lunga serie di bicchieri pieni. E alla fine, tra le risate incontrollate, Robbie non fu più in grado di opporre resistenza e fu trascinato in pista.

I piedi si muovevano da soli in maniera improbabile, di fronte alla chioma rossa dell’amica che svolazzava da una parte all’altra.

- Come ti sembra che stia andando? – le chiese, avvicinandosi all’orecchio per farsi sentire.

Lei agitò un po’ le braccia, la voce sempre più impastata. – Non male, diciamo che ho visto scimmie ballare peggio di te. –

Le tirò uno schiaffetto sulla spalla. – Intendevo la festa! –

E in mezzo alla musica assordante, sotto la luce soffusa dei neon, anche un sorriso alcolico si fece triste.

Kendra si bloccò e, senza dire niente, cominciò ad allontanarsi tra la calca. Robbie la osservò spingersi verso la porta anti-incendio, o almeno ciò che supponeva tale. Aveva distinto del verde, ma con i riflessi che si ritrovava, non poteva pretendere molto di più.

Cercò di seguirla, con passo incerto, andando a sbattere due volte contro dei ragazzi.

Raggiunse la soglia dietro la quale era sparita l’amica, e per sua fortuna, trovò il maniglione già abbassato e l’anta socchiusa.

Una folata di aria gelida lo colpì in pieno viso, come approdò nel giardino esterno della palestra.

Intravide Kendra appoggiata con la schiena a un albero, con la testa bassa e le mani nelle tasche dei jeans.

- Ehi! – la chiamò, tentando nel frattempo di mantenere l’equilibrio e non inciampare nell’erba. – Cosa fai? Scappi così dalla tua festa? –

- Bella… sarebbe stato lo stesso anche se fossi rimasta a casa. –

Robbie arrivò a pochi metri da lei. – Che stai dicendo? –

Gli occhi della ragazza luccicavano ancora, ma stavolta per qualche altro motivo.

- E’ stata un fiasco! Hai visto quanta gente si è presentata, niente ha funzionato come avrebbe dovuto. Volevo fare qualcosa di grande, che colpisse… ma non era così che me l’ero immaginata. –

- Secondo me ti sbagli. Insomma, non so perché ma sei stata l’unica in tutto il campus ad avere questa idea, e avete fatto davvero un bel lavoro per organizzarla. Quindi non capisco perché una dozzina di persone in meno debba buttarti giù in questo modo. –

Lei gli lanciò un’occhiata velata di tenerezza. – Grazie. –

Robbie allungò il braccio e posò la mano sul tronco. Da dove gli fossero uscite tutte quelle parole era un mistero, considerato che faceva fatica persino a stare in piedi.

- Aspetta a ringraziarmi. Il mio parere potrebbe essere relativamente poco importante. Ormai dovresti conoscermi, sai che non sono un cosiddetto… animale da party. –

- Sei un mistero, Robbie Shapiro, ecco cosa. - un sorriso stanco tornò a fare capolino sul suo volto. – E’ dal primo giorno che cerco di capire come tu possa essere finito in questo posto. E’ come se appartenessi a un altro mondo. Sei così diverso dagli altri, e io mi chiedo cosa ho fatto per meritare di averti incontrato. –

Il fiume di alcol che scorreva nelle loro vene rendeva confusi pensieri e volontà. Le tre dimensioni si stavano appiattendo l’una sull’altra, e ciò gli impedì di realizzare che si trovavano fisicamente più vicini di quanto sembrasse.

Uno spostamento fulmineo, un sottile fruscio delle foglie, e le labbra di Kendra andarono a stamparsi su quelle del ragazzo.

Nessuna resistenza, all’istinto che comandava lingua e mani.

Robbie lasciò che le palpebre si chiudessero, mentre lui si abbandonava a quel bacio dal sapore di rum e ciliegia.

 

   
 
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