Un figura estranea si staglia sulla porta
del rifugio. Il luogo dove avevate deciso di crescere i vostri figli.
Il tuo primo istinto è proteggerli a
qualunque costo. Il secondo è una realizzazione che ti aveva spesso
accarezzato, ma hai sempre sperato di sbagliarti: il vostro riparo non è più
tale. Ogni madre ritiene che i propri figli siano speciali, ma loro non lo sono
solo per te. Quella società malata vuole la tua primogenita, il tuo prezioso
tesoro. La creatura per cui tu hai tanto lottato, la quale ti ha dato così
tante gioie e soddisfazioni; colei che ti ha reso completa. Lei è un miracolo,
in tutti i sensi. E’ una splendida fusione nata dall’amore di due specie in
pieno conflitto.
La pace è possibile, lei ne è la prova. Ma
gli umani sono accecati dalla visione del potere e sordi alle leggi della
Natura. Lo sono sempre stati…
Sono la rovina di questo Pianeta.
Il nemico comune.
Un dolore
tagliente si dipana dall’addome a tutto il corpo, mozzandomi il fiato. Avverto
il sapore dei succhi gastrici risalirmi dallo stomaco, incapace di trattenerli.
Vomito un liquido vischioso e nauseabondo che mi brucia e raschia la gola,
rinsecchita dal caldo asfissiante delle lande di Corel; il quale è in netto
contrasto con la condizione del mio corpo. Ho i brividi, tremolii incontrollati
scuotono tutte le mie membra, impendendo perfino di mantenere la postura
eretta. Mi accascio contro il muro e pian piano raggiungo il pavimento,
addossandomi contro la parete con tutta la schiena. Fissando il nulla, mi
concentro a riprendere fiato, prendendo grandi boccate d’aria, ma è
un’operazione che risulta dannatamente difficile a causa del pesante peso che
grava sul petto. Tossisco con forza, perdendo ancora più energie. Nemmeno i
muscoli della schiena riescono più a mantenermi eretto e per poco non mi sdraio
definitivamente a terra. A impedire ciò, c’è Vincent, il quale risolleva il
busto e mi sostiene per tutto il tempo della crisi. Da quando siamo sbarcati
sulla costa nord-occidentale del continente e ci siamo messi in viaggio verso
Rocket Town, le mie condizioni sono peggiorate a vista d’occhio.
- Ancora
quel sogno? –
Quel
briciolo di coscienza che mi rimane lo focalizzo tutto sul viso del mio
compagno di viaggio e annuisco. L’espressione del pistolero si adombra per un
attimo solo, per poi ritornare alla sua condizione originale d’impassibilità.
- Si sta
facendo più forte. –
La
costatazione di Vincent non mi lascia stupito. Il risentimento e l’ira di
quella donna crescono di pari passo con l’angoscia del Generale. E dalla vicinanza
con Takara. Se la visione è esatta, ormai manca poco al fatidico incontro. E al
suo destino. Certo che, per come mi stanno riducendo i suoi genitori, non vedo
come io possa rappresentare una minaccia alla sua vita, sebbene sia solo una
ragazzina. Un’altra scossa di dolore mi percuote le membra appena formulo
questo pensiero. Inveisco a denti stretti.
Quella donna
è una scheggia impazzita, capisco perché il Pianeta ha fatto di tutto per
relegarla nell’Oblio. Tuttavia, lei è stata più furba. Approfittando dei suoi
poteri di Sephera ha permesso a una buona metà della sua anima di legarsi al
diario dell’uomo che ha amato. Il problema è che quella che si trova qui dentro
è la parte più pericolosa, la parte che brama vendetta contro coloro che hanno
attentato alla sua vita e a quella dei suoi figli, la parte che desidera il
sangue di coloro che hanno condotto il suo uomo alla follia. La parte jenoviana
di Evelyn. E ora lei mi tormenta con le immagini della sua morte, facendomi
sentire TUTTO. Il senso di smarrimento di fronte a morte certa; la paura
raggelante per il pericolo corso dai suoi figli; il senso istintivo di
protezione delle loro piccole vite; l’atto disperato di una madre; la
sensazione gelida di una spada che trapassa la carne da parte a parte e, forse,
la peggiore di tutte, la realizzazione di aver fallito. Uno dei figli è morto
senza mai nemmeno aver assaporato la vita, mentre l’altra… è rimasta sola, su
un Pianeta che la disprezza per le sue origini nefaste in compagnia di un
popolo che la vuole sfruttare per il suo gigantesco potere.
Forse LUI aveva ragione… Non avrei mai
dovuto… essere così egoista.
Chiudo gli
occhi e sospiro, mentre quelle parole mi colpiscono con la forza di un maglio.
Questa constatazione lapidaria ferisce. Avverto il dolore derivato da questa
terribile realizzazione.
- Non dire
così… –
- Non dire
cosa? –
- Come? –
- Hai detto
‘non dire così’. A cosa ti riferivi? –
Lascio
scappare uno sbuffo divertito e scuoto la testa.
- Non
parlavo con te, Vincent. –
Il pistolero
grugnisce, nel frattempo egli si posiziona al mio fianco e mi afferra un
braccio e se lo lega attorno al collo, mentre l’altro circonda la mia vita.
- Comincio a
stancarmi di essere il terzo incomodo. Soprattutto se contiamo che siamo
soltanto in due. –
Mentre
pronuncia questa frase, un sorriso sincero appare sul mio volto stanco, mentre
egli mi solleva in piedi e inizia ad incamminarsi giù per la via, alla ricerca
di un posto dove io possa recuperare le energie.
North Corel
è molto cambiata dall’ultima volta che la visitai. Ricordo chiaramente l’odore:
sapeva di disperazione e tradimento. Questa gente aveva creduto alla falsa
promessa di prosperità e di una vita agiata sulla luce di una nuova era per
l’energia, sciorinata migliaia di volte da quella Compagnia succhia-anime. La
gente aveva creduto a questa prospettiva. Esper, perfino Barret era stato
abbagliato dalle infinite possibilità dei reattori mako. Così evidente che la
ShinRa pensò bene d’insabbiare le proprie scoperte e riportarle in patria. L’idea
di condividere quelle potenzialità non abbandonò mai la Compagnia, ma forse
‘condivisione’ non è proprio il termine più adatto. Con la presunzione di aver
imbrigliato la potenza stessa del Pianeta in macchine e uomini –come se non
fossero la stessa cosa-, la famiglia Shinra costrinse-un termine ben più
adatto- il mondo ad inginocchiarsi a loro ed accettare la loro netta
supremazia. Corel fu il primo continente a finire sotto il maglio dei SOLDIER.
La terra su cui un giovane dai capelli argentei impresse la tua prima insanguinata
impronta.
Lo ricordi, vero?
Questo continente ha
tirato fuori il peggio di me.
Ingoio
l’insinuazione, cercando di arginare l’ira nascente dalle viscere, e alzo lo
sguardo verso le montagne a sud-ovest, al di là delle quali si trova Nibelheim.
Fair da Gongaga, te ed
io da Nibelheim. Questa terra sembra sfornare valenti eroi.
Tu non sei un eroe…
Curioso, ho sempre
creduto che tu mi ritenessi tale fino a qualche anno fa. Non che m’interessi,
comunque. Ho vissuto troppo a lungo per continuare ad essere un eroe.
Avevi solo ventisette anni quando sei morto
la prima volta. Ti sembrano troppi?
Per la vita che ho
vissuto? Un’eternità.
E la tua famiglia? Anche quella è stata un
patimento?
E’ stata una
parentesi. Una bellissima parentesi, troppo breve per lavare via tutto il
marcio di una vita da “eroe”.
Anch’io l’ho vissuta, eppure sono ancora da
questa parte.
Non ti illudere,
Cloud. Quanti anni hai ora?
Posso
immaginare il suo ghigno mefistofelico brillare nell’oscurità della mia mente,
mentre la sua tagliente domanda mi annoda lo stomaco. Improvvisamente, un suono
incrinato seguito da uno tintinnante attrae la mia attenzione. Rimango a lungo
a fissare il sangue sgorgare dalle fenditure del mio pugno. Percepisco ogni
singolo, minuscolo frammento di vetro penetrare nella carne e, più stringo, più
loro entrano in profondità. Il dolore, tuttavia, sembra alimentare una
terrificante frenesia sanguinaria, impedendomi di lasciare la presa. La mia
fantasia soppianta quel vetro con schegge di osso e il latte con la vischiosità
del tessuto cerebrale e del sangue. Vedo la testa di Sephiroth, squagliarsi,
priva d’integrità, implosa su se stessa a causa della pressione impressa dal
fervente desiderio di eliminare quel ghigno dalla faccia del Pianeta. Eppure,
quel sorriso mellifluo è ancora lì, sempre più largo, sempre più divertito. Per
quanto possa stringere, ormai non c’è più nulla da maciullare. Avverto un fuoco
d’iraconda frustrazione esplodere in ogni parte di me, mentre una risata
sommessa e vuota, priva di qualsivoglia felicità, riecheggia nella mia mente.
Sei sulla buona
strada, Cloud.
Un ringhio
di disperazione irrompe dalle mie labbra e sciolgo il pugno, portando le mani
ai capelli. Le dita insanguinate s’infilano tra le ciocche che l’abbattimento
mi suggerisce di strappare, ma non ne ho la forza. Cado in avanti e i gomiti
vengono intercettati dalle mie gambe, impedendomi di crollare a terra. Vorrei
piangere. Piangere fino a perdere il fiato, ma tutto quello che riesco a fare è
concentrarmi sul mio respiro, al fine di provare ad ignorare la martellante
pulsazione della mia testa. Improvvisamente, l’idea di morire così giovane non
è poi così male.
- Odio
essere te. –
La
confusione scompare, svanendo lentamente come nebbia spazzata da una brezza
dolce e leggera, lasciando spazio ad una mesta quiete, alleviando per un attimo
le sofferenze. Per quanto la mia mente lo rifiuti, non posso fare a meno di
rendermi conto della terribile realtà: io e lui SIAMO simili. Molti altri hanno
letto quel diario, ma l’unico ad aver scatenato un tale putiferio sono stato
io.
Alzo lo
sguardo e vedo la figura diafana del Generale alta di fronte a me. La sua
espressione è neutra, ma i suoi occhi, come sempre, parlano per lui. V’è pena,
ma non verso di me, ma verso se stesso. Capisce cosa sto passando, perché lo ha
provato lui molto tempo prima. Vedo senso di colpa, non ha mai voluto che quel
fardello passasse ad altri. Sperava che, consegnandosi, al Pianeta sarebbe
bastato.
Perdonami.
L’espressione
neutra si distorce, rivelando il viso affranto e pieno di vergogna nascosto
dietro quella maschera. Sgrano gli occhi, incredulo. Lui, l’infallibile
Sephiroth, chiede il perdono.
On your
knees. I want you to beg for forgiveness.
[In ginocchio. Implorami di
perdonarti. Sephiroth,
FFVII:ACC]
Vincent
sbuffa, infastidito, mentre toglie le schegge di vetro dal palmo. Impresa
ardua, dal momento che alcune si sono conficcate così in profondità da
risultare difficilmente raggiungibili perfino dai sottili bracci della pinzetta
del pronto soccorso.
- Sembri
contrariato, Vince. –
Egli mi
scocca un’occhiata di fuoco delle sue, per poi rivolgere l’attenzione sul
lavoro certosino che sta eseguendo. Come risposta, mi pinza la carne viva della
ferita, strappandomi un verso sofferente.
- Non
storpiarmi il nome, Cloud Strife, o te le toglierai da solo queste dannate
schegge. –
In questi
giorni, Vincent è diventato duro e distaccato, sempre sul chi va là, come una
bestia in trappola. Non apprezza l’idea di fermarci troppo a lungo in un posto;
perfino sostare in questa bettola da quattro soldi nella periferia più
affollata di North Corel, o, di come la chiamano adesso, New Old Corel, è
costato un enorme sacrificio all’ex-Turk. Se non fosse per le condizioni
pessime in cui sono crollato appena messo piede su questo continente, probabilmente
ora saremmo già in viaggio verso la nostra meta. Non saprei dire se questa
fretta sia dettata dal desiderio d’incontrare sua nipote il prima possibile o
sia dovuta alla possibilità di avere qualche minaccia alle calcagna. Qualunque
sia la ragione, Vincent soffre sempre meno la mia estraniazione dal mondo
reale; il quale mi rende imprevedibile e instabile, oltre che un pericolo per
me stesso e gli altri, come fin troppe volte è accaduto. Questa riflessione mi
fa aggiungere un’altra possibile spiegazione allo strano comportamento di
Vincent: è preoccupato delle conseguenze di ciò che mi sta succedendo.
- Andrà
tutto bene, Vincent. –
Il pistolero
interrompe il suo lavoro da chirurgo improvvisato e pianta i suoi occhi
sanguigni nei miei. Impercettibili rughe si formano attorno ai lati della
bocca, mentre la mandibola si serra. Il sangue di quell’iride s’illumina per un
pericoloso secondo.
- Mi prendi
in giro?!-
Il tono di
Vincent rivela che è fuori di sé. Temo di aver toccato un pericoloso tasto
nell’ autocontrollo del moro. Perché? In fondo, volevo solo rassicurarlo. Egli
si alza di scatto, scagliando le pinzette dall’altro lato della stanza, per poi
voltarsi verso di me. Il suo sguardo è incandescente, le narici allargate e i
denti svelati. Per un attimo, temo che Chaos possa avere la meglio sullo stanco
Vincent, mettendo fine alla mia vita. Noto con orrore che questa prospettiva
non mi spaventa più di tanto. Qualunque cosa per finire con questa sofferenza.
- No. Io… -
- Come può
andare tutto bene se ogni volta che leggi quel dannato libro sei ridotto peggio
di prima? Che succederà quando non sarai in grado nemmeno di stare in piedi,
eh, Cloud? Dimmi anche come ti difenderai quando quelli che ci braccano ci
avranno raggiunto. Avanti, illuminami! –
L’artiglio
dorato della sua mano sinistra viene puntato verso di me, in un atto
accusatorio. Anche se io rassomiglio l’azione più che un avvertimento del
predatore alla sua preda.
- Braccano?
-
- Oppure,
come pensi di fare quando la bomba dentro la tua testa malata esploderà? Cosa
mi dovrei aspettare? Mi devo aspettare che tiri le cuoia o che… o che… -
- O che
impazzisca come tuo figlio? –
A quelle
parole, lo sfogo di Vincent subisce un repentino arresto, come se una cascata
gelata avesse spento l’incendio che lo dominava. In un primo momento, infatti,
nei suoi modi e nel suo sguardo vedo smarrimento e senso di colpa; ma l’attimo
successivo, si erge in tutta la sua altezza, i pugni si stringono così forte da
avvertire lo scricchiolio delle ossa, gli occhi sanguigni riversano uno sguardo
così rabbioso e addolorato che potrebbe incenerirmi sul posto seduta stante. E
per un attimo… lo credo. Il silenzio s’interpone tra noi per terribili,
interminabili secondi di tensione. Secondi in cui io prego il Pianeta di venire
fagocitato per la mia boccaccia insolente. Vincent si sta facendo in quattro
per me e io lo ripago sputandogli in faccia le sue colpe.
Che razza di
amico sono?
A quel
punto, distolgo gli occhi dai suoi e abbasso la testa.
- Scusa. Non
volevo. -
Avverto il
respiro affannoso del pistolero, scemare d’intensità, fino a regolarizzarsi.
Gli rivolgo uno sguardo in tralice e lo vedo prendere un profondo respiro, ad
occhi chiusi, e, quando questi vengono riaperti, la calma alberga di nuovo in
lui. Il suo portamento, tuttavia, rimane fermo nelle sue posizioni, ma comunque
con un’inflessione più rassicurante e aperta. Senza dire una parola, ritorna
alla sedia, scoprendo che si era rovesciata nel momento in cui la sua iraconda
ascesa era iniziata. Si siede comodamente, appoggiando la schiena alla parte
alta dello schienale, le gambe distese, le braccia adagiate sui braccioli, le
mani lasciate a penzolare nel nulla. Svuotato. Lo osservo dalla mia posizione
leggermente dismessa. Studio il suo sguardo perso nel vuoto, le occhiaie attorno
alle orbite, la pelle pallidissima con nuove impercettibili rughe attorno al
naso e ai lati della bocca. Sembra improvvisamente invecchiato, come se ciò che
sta affrontando adesso gli stia risucchiando la vita dal corpo.
Le vite hanno un caro
prezzo. Sia che le abbandoniamo, sia che le salviamo, prima o poi il Pianeta
richiederà il conto. E più vite avrai toccato, nel bene o nel male, più esso
sarà salato.
Questo è essere eroi.
Annuisco
automaticamente alle parole sussurrate da Sephiroth. Sono talmente assorto che
non mi rendo conto che Vincent ha ricominciato a puntarmi. Il suo sbuffo
divertito, infatti, mi coglie impreparato.
- Sembriamo
due vecchi pazzi. Stanchi e imbruttiti da una vita di cui desideriamo solo
vederne la fine il prima possibile. –
Un lato
della bocca si alza e faccio spallucce, adagiandomi anch’io sullo schienale.
- Il vecchio
sarai poi tu. Io sono solo pazzo. Non so cosa sia peggio, comunque. –
Vincent
rimane in silenzio per un lungo momento, osservando un punto imprecisato nella
stanza. In effetti, a dei pazzi ci assomigliamo, constato alla fine.
- Suppongo
di aver vinto, allora. –
Gli rivolgo
uno sguardo interrogativo.
- Che
intendi? –
- Oggi sono
sessantatré anni di vita da eroe. Parecchi, no? –
Corrugo le
sopracciglia in un primo momento di confusione, poi realizzo e i miei occhi si
spalancano, quasi come ad uscirmi dalle orbite. Boccheggio, cecando di uscire
dalla mia interdizione, ma due motivi me lo impediscono. Uno: Vincent Valentine
ha seriamente, spontaneamente rivelato qualcosa su di lui per la seconda volta
da quando lo conosco? Due: come fa a sapere di quel discorso tra me e Sephiroth?
Non era tutto nella mia testa?
Di fronte al
mio sbalordimento e alla mia faccia da ebete, l’ex-Turk si apre in un sorriso
furbo.
- Uno: sì, è
accaduto davvero. Sono tanti anni che nessuno mi fa gli auguri e, siccome
questo potrebbe essere l’ultimo compleanno che vedrò, perché non rivelarlo? –
Egli
raddrizza la schiena e si sistema meglio sulla sedia, incrociando le dita e
voltando il busto nella mia direzione, gomito destro appoggiato sul bracciolo.
Mi fissa e mi accorgo- senza tralasciare il brivido che mi attraversa la
schiena da sotto a sopra- che con quell’espressione divertita stampata in
faccia assomiglia terribilmente a Sephiroth.
- Io vi
sento, Cloud. Credi davvero che Sephiroth non abbia tentato un contatto con me,
appena scoperto chi sono? –
Cloud non è mai stato
un ragazzo molto sveglio, padre.
- Ha
semplicemente bisogno dei suoi tempi. Non tutti hanno la mente arguta come la
nostra. Cerca di essere più indulgente. –
Ogni scontro
verbale avuto con Sephiroth l’ho sempre e inevitabilmente perso. Lui orchestra
magistralmente la conversazione, esponendo argomentazioni inattaccabili,
rivoltando l’interlocutore come un calzino bucato. Come conversa, egli così
combatte. Fortunatamente, non sono così lento anche con la spada; anche se, in
ogni caso, la soddisfazione di una vittoria piena quel bastardo figlio di
Jenova non me l’hai mai data, proprio a causa della sua dannata boccaccia.
Ma Vincent…
Vincent con una frase l’ha zittito. Non ha urlato, non ha fatto la voce grossa,
non l’ha minacciato. L’ha… rimproverato, semplicemente, come una padre farebbe
con il figlio, con pacatezza e fermezza.
Dopo qualche
secondo di silenzio, durante i quali la mia analisi prende piede, Vincent
disimpegna la mano artigliata dall’altra e dirige gli artigli metallici verso
il mio mento. Con un buffetto alla mascella, ormai finita a terra, m’induce a
chiudere la bocca.
- E tu
chiudi quella bocca, Cloud. Sei ridicolo. –
Dopodiché,
il moro, ruota la sedia, avvicinandosi, mi afferra la mano ancora ferita e
ricomincia il lavoro lasciato a metà, recuperando una pinza sterilizzata dalla
cassetta del pronto soccorso. Il tutto sotto il mio sguardo sbigottito.
Dopo qualche
minuto di silenzio, durante i quali l’unico rumore era il tintinnio dei
frammenti di vetro che cado l’uno sull’altro all’interno di un altro bicchiere,
intervallato da qualche mio grugnito; chiedo:
- Da quanto
tempo è che lo senti? –
Vincent non
distoglie lo sguardo da ciò che sta facendo, ma un guizzo dispiaciuto deforma
per un considerevole momento il suo viso.
- Da qualche
tempo. Non so bene quando, ma ho iniziato a sentire delle voci nella testa.
Subito erano bisbigliate e incomprensibili, ma dopo poco, divennero più chiare
e distinte. A quel punto, capii che eravate voi. -
Si ferma un
attimo e si stropiccia l’occhio destro con il dorso della mano, sospirando
pesantemente.
- Spesso
noto che voi state parlando, la tua faccia assente lo testimonia. Tendo
l’orecchio, ma non sento nulla. Perché? C’è qualcosa che volete nascondermi? –
Sgrano gli
occhi e le labbra si dischiudono, sorpreso da quelle domande, le quali spiegano
il suo nervosismo e il comportamento guardingo di questo periodo. Boccheggio,
arrancando una risposta plausibile e mi ritrovo desiderare una mente svelta
come quella del mio nemico.
-Ecco…
insomma, n-no. Che dovremmo nasconderti? Che vai a pensare, Vincent? –
Di tutta
risposta, il pistolero alza il sopracciglio. Una sola azione per vanificare le
mie scuse. Vorrei scomparire.
Vi prego, perdonate
l’idiozia di Cloud, padre. Tuttavia, sì, devo confermare i vostri sospetti.
L’atto finale di una guerra va combattuta e, sebbene non ve ne abbia mai dato
ragione, v’imploro: fidatemi di me.
Per la prima
volta nella mia vita, sono grato di aver sentito la voce del Generale.
L’ex-Turk ascolta assorto le parole reverenziali del figlio e noto come la
supplica finale smuova qualcosa nell’espressione del pistolero, come una fatale
scoccata dritta al cuore. Mentre il moro pondera quelle parole, la mia parte
meschina e diffidente non può fare a meno di giudicare quelle accorate frasi
come una magistrale manipolazione di un abile burattinaio. Può anche essere
figlio naturale di Vincent, ma è Hojo che l’ha cresciuto e forgiato. Lo
scienziato può non aver intaccato la parte più fragile del Generale, il quale è
riuscito a mantenere i suoi ideali intatti fino al giorno in cui la follia non
distrusse ogni singola parte di lui; ma la fortezza di fili dentro cui l’ha
nascosta è stata creata ad immagine e somiglianza del vecchio. Anche se, a
detta dello stesso SOLDIER, lo scienziato aveva un talento particolare a
distruggerla in minuscoli pezzettini ad ogni loro incontro. Contro di lui,
Sephiroth non aveva alcuno scampo. Esattamente come l’ex-Turk. Forse ho
sopravvalutato Vincent. E’ un avversario più manipolabile di quanto credessi.
Abbagliato da quella che ho ritenuto una resa senza condizioni, non ho notato
che quel silenzio sarebbe potuto essere una semplice ritirata strategica, come
preludio all’attacco definitivo. Vincent è come il figlio, in fondo. La corazza
è apparentemente impenetrabile, ma basta usare le leve giuste per scardinare le
porte principali. Queste leve sono i sentimenti. Loro ne sono fatalmente
succubi. Sensazioni come pietà, sensi di colpa, speranza e, la più pericolosa,
l’amore, hanno portato alla rovina questa famiglia. E’ questo che ha permesso a
Hojo di trionfare.
Come
volevasi dimostrare, l’espressione di Vincent si distende e, dopo poco,
annuisce, deformando il suo viso con un leggero sorriso.
- D’accordo,
hai la mia fiducia. Ma non darmi del ‘voi’, per favore. Non voglio che tra noi
ci siano distanze. E chiamami pure Vincent, le formalità non sono il mio forte.
–
Come vuoi, Vincent.
Ma Sephiroth
è diventato l’uomo che è, perché impara dannatamente in fretta…
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26 Marzo XXXX
Non è la prima volta che imprimo su carta
questo mio pensiero, ma credo che a sto punto la si possa definire un’assoluta
certezza: il tempo possiede un curioso tempismo nel mutare in linea con i miei
sentimenti. Il temporale è iniziato da poco, accompagnando con il suo cupo
rombare la tempesta dentro di me. La pioggia scroscia copiosa dal cielo livido,
scuotendo la superficie del lago Hourei, inquieto come il mio spirito. Di tanto
in tanto, lampi di luce illuminano a giorno il bosco reso spettrale dal furioso
soffiare del vento in discesa dalle montagne. Gocce di pioggia, rapite dalle
folate imperiose, m’infradiciano in parte a secchiate irregolari, cucendomi
addosso una gelida coperta a cui il mio corpo cerca strenuamente di ribellarsi,
lanciando tremori e brividi di freddo. Non me ne curo. Il mio sonno, in ogni
caso, è ben più doloroso. A nulla, infatti, è valso rimanere in quella stanza
accanto al calore di mia moglie e al respiro tranquillo di mia figlia; poiché
non fanno altro che agitare le trame armoniose di Morfeo, trasformandole in una
cacofonia di incubi e rimpianti. Ho bisogno di assistere a qualcosa di più
folle dei miei stessi incubi. Odo il frinire impazzito delle fronde degli
alberi languire sotto il maglio spietato del vento. Alcuni rami non resistono a
quella furia e si abbandonano ad essa, mutilando così le loro madri. Lo
scrosciare ritmico delle onde lacustri è un’ipnotica melodia che ne accompagna
la frenetica corsa verso riva, dove la risacca discendente accarezza la terra bianca
di spuma come un tenero amante. E’ lo scenario perfetto in cui affogare i
ricordi di questi ultimi anni, in cui la mia vita pareva aver finalmente
deviato su un sentiero da me sempre agognato. Lasciare che la pioggia lavi via
il ricordo dolce dei due uomini più straordinari che abbia mai avuto l’onore di
conoscere, i miei più fidati compagni di battaglia, i miei più intimi
confidenti… Permettere a questa pioggia di lavare via il vuoto lasciato dalla
loro ingloriosa, immeritata, disonorevole morte. Una morte a cui, mio malgrado,
ho contribuito a far sì che prendesse luogo, sebbene abbia fatto di tutto per
non prenderne assolutamente parte. E di questo mi pento. Tutto ciò che volevano
era che mi unissi a loro o che li fermassi, in alternativa. Non ho colto il
loro disperato grido d’aiuto, volgendomi dall’altra parte, sordo ad ogni tipo
di supplica o richiesta. Mi sono lasciato trasportare dai dubbi,
dall’indecisione, da quell’odioso e indolente non-agire che ho sempre
disprezzato in ogni uomo. Io… quello stesso mostro che ha annegato nel sangue
qualunque tipo di ribellione contro quella Compagnia-succhia anime; quello
stesso Generale invincibile idolo delle folle; quella stessa marionetta mossa
dagli artigli avidi di Shinra. Mostro, Generale, marionetta… ma non uomo. Non
merito questo appellativo, perché le mie azioni non mi hanno mai reso tale. Angeal
aveva ragione: non ho una dignità, né sogni, tanto meno quell’onore che rendeva
il nostro essere SOLDIER qualcosa di più di una semplice macchina da guerra. Quello
che ci rendeva uomini. Quello di cui ho sempre dubitato, rimbeccando al moro di
quanto egli fosse ingenuo, ma di cui, segretamente, tentavo d’intravedere
quella fatua realtà. Lui vedeva Eroi, vessilli di una promessa di una vita
migliore per i più deboli, uno scudo contro il male e l’ingiustizia, la fiera
risposta alla vessazione dei potenti. Uno specchio per allodole, ma pur sempre
una splendida speranza, capace di alleviare almeno un poco quell’opprimente
incudine di peccati pendente sul cuore. Quanto avrei voluto avere il suo
talento… quell’innata capacità di non vedere. Non vedere ciò che SOLDIER veramente è: un rifugio di mostri guidati
da una mente affogata in un sanguinoso abisso e da una fiera incontrollabile e
crudele. Quanto spesso mi è capitato d’incrociarne le spalle incurvate
dall’ignavia, quando la folle sete della Bestia guidava vigliaccamente la
Masamune verso le schiene di civili innocenti in fuga dalla battaglia; oppure, quando
Genesis, in preda ai fumi dell’alcool, trascinava fino nella sua stanza una
donna dal viso talmente tumefatto tanto da risultare irriconoscibile, per poi
abusare di lei più e più volte? Atti osceni a cui egli ha sempre rivolto una
cieca indifferenza, mascherata da un forte senso del dovere o da una rassegnata
indulgenza.
“Tra di loro
poteva nascondersi qualche dissidente. Hai agito secondo gli ordini.”
“Lo sai che
Genesis ha i suoi bisogni. E’ fatto così.”
Parole di circostanza, costruite solo per camuffare
l’orrore provato in quel momento e salvare le apparenze, seguite poi da vuote
ramanzine su sogni, onore e disciplina, atte solo ad annoiare, piuttosto che
ottenere l’effetto contrario. Mi sono spesso domandato perché fingesse in quel
modo, perché cercasse di prendere le nostre difese in modo così caparbio,
invece di opporsi a quegli istinti bestiali e aiutarci a sopprimerli. Tra tutti
noi, Angeal era il più stoico e irremovibile, così attaccato ai suoi valori e
al suo onore da risultare il caposaldo del nostro trio di svitati senza
speranza. Alla luce dei nuovi fatti, tuttavia, quel caposaldo d’inscindibile
fermezza era più fragile di quanto immaginassi. Il ruolo di fratello maggiore
gli si era cucito addosso a doppio filo. Sentiva il dovere di proteggerci. Era
il più forte e, in più, conosceva le sensazioni che si agitavano in noi e
sapeva che erano irreprimibili, soprattutto per menti malate e deboli come le
nostre. In tutto questo, tuttavia, lo abbiamo aiutato a non cedere alla parte
oscura di sé, costringendolo a reprimere quegli istinti che, sono sicuro, si
agitavano perfino in cuore puro come il suo. Inoltre, troppi avrebbero pagato
le conseguenze dei suoi errori, perché se non ci fosse stato lui, il mondo
sarebbe collassato sotto la nostra furia.
Cosa che è avvenuta, ahimè…
La mia mente mi riporta automaticamente in
quella stanza lussuosa e opulente posta sull’ultimo piano dello Shinra Building:
l’ufficio del Presidente Shinra. Un luogo che lo assomiglio quanto più al nido
gigantesco di una vorace e viscida idra, la cui unica ossessione è la continua
ricerca di una nuova preda da accogliere nel suo letale abbraccio. Essa osserva
dal suo scranno il mondo che ha inginocchiato ai suoi piedi, elucubrando
riguardo le nuove possibili fonti di guadagno e potere ancora celati sotto la
crosta del Pianeta; certa che nessuno sarà mai capace di fermarla, finché egli
avrà le sue zanne avvelenate attaccate alle gengive. Io ero lì, uno dei denti
del viscido serpente dondolava quietamente al mio fianco, mentre Lazard leggeva
i minimi, terrificanti dettagli della missione che mi avrebbero affidato di lì
a poco, con tono quanto più possibile neutro. Nonostante i suoi sforzi, il
Direttore non riusciva a mantenersi distante, soprattutto nei passaggi più cruenti.
Ho sempre apprezzato la sua innata capacità di entrare in empatia con ogni
membro del Reparto. Conosce i suoi uomini e sapeva che io non ero l’agente giusto
per quella missione. Avrebbe preferito farsi sciogliere dai liquidi nauseabondi
di un Molboro piuttosto che sottopormi a quella tortura. Ma io sapevo perché
ero lì: era un test. Le teste dell’idra volevano sapere da che parte mi sarei
schierato. Il cagnolino avrebbe fatto il bravo e avrebbe obbedito senza
discutere, come gli era stato inculcato fin dall’infanzia; o si sarebbe
trasformato in un lupo, pronto a reclamare la sua stessa libertà ed unirsi al
branco dei traditori? Per evitare rischi avevano perfino mobilitato qualche
fante dell’esercito regolare a supporto dei Turks più esperti. Labile difesa.
Mai come in quel momento, ho potuto fiutare la tensione, l’ansia, la paura albergare tra quegli
ignominiosi rifiuti umani. L’intera stanza era invasa dal mefitico lezzo.
Quanto ci godevo! In tutta risposta, feci sfilare il mio mordace biasimo lungo tutti
i presenti e chiunque incrociasse i miei occhi rifuggiva o abbassava
l’attenzione. L’unico che sostenne il mio sguardo fu Hojo. Da dietro la
montatura spessa degli occhiali, potei cogliere il suo minaccioso ammonimento trafiggermi
con durezza. Se avessi deluso le sue aspettative, lo avrei pagato amaramente.
Con nonchalance, scrollai le spalle e abbozzai un sorriso strafottente, per poi
ritornare a fissare diritto avanti a me. Con la coda dell’occhio, però, vidi
l’emaciata espressione del vecchio virare da truce a oltraggiata.
Sfortunatamente per lui, è parecchi mesi in ritardo: la mia decisione era stata
presa nell’esatto momento in cui Genesis disertò.
Io non avrei combattuto.
Fatale
errore.
Quando Lazard finì, il silenzio più pesante
e tedioso che avessi mai avvertito piombò in quella stanza dorata, offuscando
perfino la lucentezza di quella nauseante dimostrazione di ricchezza. Lasciai
bollire quegli emeriti idioti nel loro brodo di tensione per lunghi minuti, per
poi irrompere con un semplice e secco diniego. Avvertii i Turks attorno a me
prepararsi al combattimento. Il suono di pistole private di sicura e lo sfilo
di armi bianche tolte dai foderi solleticarono la Bestia, la quale tese i miei
muscoli e aguzzò i miei sensi. Avrei potuto farne poltiglia e loro lo sapevano.
Avvertii la mia vecchia e rabbiosa compagna scuotere il mio torace con un solo,
basso ringhio. Cibarsi delle paure dei suoi nemici è ciò che più brama
nell’intero Pianeta. E quella stanza… Oh, quella stanza ne era piena! Per un
minuscolo momento, ho accarezzato l’idea di accontentarla. Se avessi agito,
ogni mia sofferenza sarebbe finalmente cessata e, forse, i miei amici sarebbero
tornati in sé, liberi di vivere in un mondo che li avrebbe accettati. Avrei
potuto tornare dalla mia famiglia. Avrei potuto essere l’eroe che tanto
LOVELESS decanta: colui che rimane.
La tentazione era forte: infatti, il palmo
della mano fremeva, il corpo si preparava al contrattacco, la gola secca
bramosa di sangue… l’ammaliante frenesia mi estraniava dal tempo. Ero pronto ad
abbandonarmi a Lei, di nuovo, ma Evelyn me lo impedì per l’ennesima volta. Il
suo viso mi attraversò la mente richiamando la lucidità all’ordine.
Non
potevo.
Quei soldati, quegli agenti… erano ancora
fedeli a quell’insegna insanguinata. Erano pronti a morire per quei maiali
insolenti e io mi sarei macchiato le mani del loro sangue. Sangue innocente.
Basta.
Sono stanco di uccidere. Sono stanco di
vedere visi agonizzanti. Sono stanco di ascoltare suppliche e gorgoglii di
morte. Sono stanco di marchiarmi la pelle di sangue.
Stanco di vivere una vita non mia.
Fermo nella mia decisione, girai i tacchi e
mi diressi verso l’uscita, lasciando i presenti sbigottiti dal mio semplice non
agire. Una mossa che probabilmente nessuno si aspettava. Nonostante tutto,
però, quella missione doveva essere compiuta, in un modo o nell’altro. Fu così
che, prima che lasciassi quella stanza, mi chiesero chi mandare al posto mio.
Avevo elaborato la mia strategia mesi or
sono, ma solo troppo tardi realizzai che, nell’approntarla, mi ero lasciato
guidare dai rancori e dall’arroganza. Angeal ed io avevamo avuto un pesante
diverbio quando venimmo a conoscenza della diserzione di Genesis. Erano
settimane che non ci rivolgevamo la parola e, quando scomparve anche lui, non
mi stupii. Immaginavo che il moro non avrebbe lasciato andare Genesis così alla
leggera, tanto più sapevo che non mi avrebbe coinvolto nella ricerca. Angeal ha
sempre avuto un occhio di riguardo per il suo vecchio amico d’infanzia.
Nell’ira, sono arrivato a credere che lui mi vedesse come l’ennesima
realizzazione di un capriccio di Genesis piuttosto che come un amico. Spinto da
queste sensazioni irrazionali, figlie di elucubrazioni malate e senza alcun
tipo di fondamento, realizzai la mia vendetta. La cosa peggiore è che convinsi
me stesso che fosse la cosa più logica e razionale da fare. E così, commisi il
secondo, crudele errore: indicare il giovane Fair come sostituto per la missione.
Una forte folata di vento ribalta il secchio
per le pulizie provocando un frastuono tale da farmi sobbalzare. Osservo
l’oggetto rotolare lungo la veranda e giù per le scale, fino al giardino. Lo
seguo inerme, impotente. Eppure basterebbe che mi alzassi per fermare la sua
corsa. Invece, rimango in disparte a guardarlo correre verso la propria
disfatta. Un piccolo secchio bucherellato non ha scelte di sorta se non seguire
il corso della tempesta…
Un dolore forte al petto mi strappa un
gemito. E’ esattamente ciò che è accaduto a Fair. L’eco dei suoi singhiozzi
nella Chiesa dei Bassifondi mi rimbomba ancora nella mente, strappandomi l’aria
direttamente dai polmoni. Nemmeno la gentile stretta di Aerith è riuscita a
quietarli, anzi li ha amplificati, rendendo il suo dolore ancora più penetrante
e schiacciante. Un macigno mi è crollato sulla testa, il quale m’impedisce di
dormire, di mangiare, di vivere… Quella croce su quella guancia liscia,
giovane, innocente è un colpo al
cuore ogni volta che la immagino. Fair era
un ragazzino costretto a seguire una terribile serie di tempestosi eventi,
dei quali lui non avrebbe mai dovuto esserne al corrente. Ciò che più mi
affligge, tuttavia, è la speranza che un tempo animava i suoi occhi blu. Quegli
occhi che riflettevano il mondo fittizio e perfetto di Angeal, quegli occhi che
sognavano un eroico avvenire, quegli occhi che rilucevano di entusiasmo e buona
volontà, quegli occhi che non mi stanco mai di osservare nelle giovani reclute.
Occhi che so già che non sarebbero durati a lungo in quel mondo venefico, ma
nutrivo forti speranze nel lavoro svolto da Angeal. Forse lui avrebbe creato
una generazione di SOLDIER veramente volta al bene.
Nella mia furia cieca, l’ho rovinato, l’ho
coinvolto in questo schifo… l’ho costretto ad uccidere il suo stesso mentore.
Un crimine orribile, di cui io stesso ne porto ancora i segni sul corpo e
nell’anima e a cui non ho mai voluto che nessun’altro ne venisse macchiato.
Invece, ne sono stato sia l’artefice che il mandante.
Un duplice ruolo che mi fa sentire così
sporco e marcio… un demone irrecuperabile. Un demone contro cui un angelo
dall’ala bianca ha cercato di opporsi in ogni modo. Angeal ha sempre voluto
fare la cosa giusta, quanto nel bene tanto nel male. E io… io non lo capii.
Sordo ad ogni ragione, mi fermai alle apparenze, troppo codardo per scavare più
a fondo e scoprire la verità. Quella verità per cui ho messo a soqquadro
l’intero archivio della Shinra, quella verità che tormenta il mio sonno, quella
verità che mi rende schiavo della paura. Quella verità che, nel profondo nel
mio cuore, non voglio accettare nemmeno se ce l’avessi davanti. Non voglio
accettare di essermi bevuto quelle menzogne per così tanti anni, di essermi
fatto abbindolare da esseri insulsi come Shinra o Hojo. Anche se, ad essere
sincero, ciò che non voglio accettare è che Gast mi abbia mentito. L’uomo che
più ho rispettato… no, che ho amato come
un padre per tutta la mia vita, sia come loro. Non lo posso accettare che anche
lui mi abbia preso in giro, sciorinandomi quelle pillole di menzogna solo per
rendermi una cavia più malleabile e quieta. Non voglio accettare che anche quel
rapporto fosse falso. Non lo sopporterei… Per questo DEVO convincermi di essere
diverso dai due banoriani, eliminare dalla mia mente quell’antica illusione
circa la nostra somiglianza e dimostrare che tra loro e me c’è un abisso. Poco
importa se avessi potuto salvare Genesis donandogli il mio sangue, poco importa
se avessi potuto schierarmi al loro fianco, poco importa se avessi potuto
proteggerli da loro stessi, poco importa se con loro mi sentivo a casa…
Li ho abbandonati nelle mani di un Fato
crudele, di un Pianeta spietato e di un’umanità senza cuore.
E’ una colpa troppo grande da sopportare,
ma, se mai abbia avuto un minimo di rispetto per loro, è un fardello che devo
portare da solo. DEVO farlo, per loro, per ricordare gli effetti dei miei
errori.
Per questo motivo, feci tappa a Modeoheim
durante il viaggio per Wutai. Avevo bisogno di vedere quegli effetti con i miei
occhi. La città congelata era, contrariamente a quanto mi aspettassi, viva più
che mai, a causa delle attività dei Turks e del Reparto scientifico volte a
eliminare ogni minima prova della ribellione di SOLDIER, dichiarata da poco
cessata, come era accaduto a Banora. Mentre le operazioni avanzavano febbrili
nella città, m’infiltrai all’interno della Bath House, la quale era ancora in
attesa di essere ispezionata. L’aria gelida delle montagne rendeva l’atmosfera
ancora più lugubre di quanto non lo fosse già, complice il silenzio tombale,
rotto solamente dall’ululato del vento che s’infilava nelle fessure arrugginite
dell’edificio. Difficile immaginare che tra quelle mura si fosse consumato
l’ultimo atto di una guerra. Percorsi in riverente silenzio il tragitto che mi
portò alla grande stanza circolare in cima alla ciminiera principale. Secondo
il rapporto di Fair, Angeal era morto proprio lì. Rimasi ad osservare quel
luogo come se fosse sacro, impaurito dall’idea di entrare all’interno e
inzozzare quell’intonsa tomba con la mia sudicia presenza. Un candido manto
nevoso ricopriva il pavimento, come a nascondere con la sua purezza i segni
feroci dello scontro in cui un uomo retto e giusto aveva perso la vita; o a
voler nascondere la disperazione di un ragazzo, costretto ad affrontare la
persona più vicina ad un padre che abbia mai avuto. Come a voler nascondere le
conseguenze della mia codardia. Non ressi all’indulgenza che la natura mi
concesse e crollai in ginocchio, disperato. Invocai perdono, mentre il senso di
colpa mi schiacciava sempre di più verso la terra. Ricordo che mi dissi che avrei
dovuto essere al suo posto. Angeal era un uomo onesto, buono, giusto. Non
meritava di morire. Non in quel modo. Così anche Genesis, il quale, nonostante
le sue centinaia di difetti, lui voleva fare del bene, così come aveva fatto a
Banora. Voleva allargare quel desiderio al mondo e vedeva nella Compagnia il
modo per farlo. Peccato che si siano fatti traviare dalla falsa promessa di
gloria e onore imperituri sciorinata dalla campagna di reclutamento SOLDIER. E
Hollander strappò loro le anime, nel momento stesso in cui entrarono in quel
cilindro di contenimento, cancellando col mako la loro innocenza
adolescenziale. E i loro propositi. Genesis si fece abbagliare dalla gloria,
dal fervente desiderio di prendere il mio posto e Angeal storpiò i suoi
preconcetti sull’onore adattandoli allo schifo che affrontava ogni giorno. Avrei
dovuto capire che la loro mente provinciale e ingenua non avrebbe mai retto la
cruda realtà dei fatti: SOLDIER è una tana di mostri e io ne sono il signore.
Per quanto non ami questo appellativo, tuttavia, non posso che sentirmi
responsabile per ogni singolo uomo marchiato come SOLDIER.
Con loro, ho fallito.
Non merito di portare quell’uniforme, quei
gradi, quel titolo. Non sono nessuno, sono un uomo senza onore, senza identità,
senza spina dorsale. Per certi versi non sono nemmeno un essere umano.
Come posso pretendere che la mia famiglia
possa camminare a testa alta? Che razza di idea si farà di me mia figlia?
Proprio nel momento in cui la paranoia mi
stava risucchiando nel suo nero abisso, un fruscio d’ali attirò la mia
attenzione. Il mio sguardo venne accolto dalla figura irremovibile e solenne di
una grossa fiera d’argento. Sulla sua spalla sinistra un’enorme, singola ala
bianca si inerpicava verso il cielo bianco latte. Nonostante la luce
opprimente, l’essere sembrava rilucere di aura splendente. Le neve accarezzava
la sua corazza gentilmente, silente, quieta. Tutto di quell’essere suggeriva mitezza
e pace, ma la mia proverbiale sfiducia nei confronti di tutto e tutti, mi portò
ad ignorare ciò che la mia mente mi suggeriva e lasciare che l’istinto prendesse
il sopravvento. La mano della spada corse verso l’elsa della Masamune, però
tutto ciò che le mie dita afferrarono fu l’aria. Fu in quel momento che
rimembrai gli intenti che mi avevano guidato lì, quel giorno: fare ammenda, o
almeno provarci. La belva continuava a fissarmi nella sua statuaria e composta
postura e fu solo quando riportai la mia attenzione su di lei che emise uno
sbuffo, scuotendo la testa. Le protuberanze dorate che dondolavano alla base
delle orecchie similmente a degli orecchini, emisero un lieve tintinnio, quasi
impercettibile; eppure, per me, fu come un boato capace di scuotermi da capo a
piedi. Mio malgrado, deglutii. Quel gesto così semplice, così… amichevole mi
cadde sulle spalle come un macigno e, subito dopo, un lampo di riconoscimento
sovrappose l’immagine dell’impassibile essere alato con l’ultima immagine di un
vecchio amico.
Angeal…?
Il canale a due vie…
L’esperimento più riuscito di Hollander.
Una creatura capace di trasferire tratti
genici su altri, così che possano acquisire caratteristiche totalmente nuove, ma
tipiche del soggetto originale.
Project G.
Tutte le informazioni riguardo quest’ultimo
esplosero dalla mia memoria, vorticando nella mia testa, incatenandosi l’un
l’altra. Compresi il piano di Angeal, del suo voltafaccia finale a scapito di
Genesis, della sua determinata intenzione di mettere fine alla sua vita. Ogni
sua azione era volta a distruggere il suo corpo e trasformarsi in qualcosa di
meno riconoscibile. Ma a che pro? Lo capii nell’istante dopo, quando infranse
la sua immobilità e mosse i primi passi nella mia direzione. Con la lunga coda,
egli iniziò a tracciare qualcosa sulla neve.
Scrisse una sola parola: ‘Proteggili’.
Quasi mi commosse il suo incrollabile senso
del dovere. Nonostante i peccati commessi, la morte delle persone a lui care,
gli esperimenti, la follia; lui pensava agli altri. E scelse me per portare
avanti le sue intenzioni. Ero l’ultimo rimasto, quello che era riuscito a
sfuggire ai velenosi tentacoli di Hollander, quello più forte di tutti.
Angeal lo diceva sempre: “I più forti
devono proteggere i più deboli.”
Dopodiché, la fiera si librò nel cielo,
seguito da una scia di piume bianche, di cui una la conservo al fine di
rimembrarmi dell’obbligo preso.
Temo che tempi duri arriveranno… Questo era
solo il preludio, la prova generale. Sento che Genesis non è morto. Almeno, il
suo spirito credo aleggi ancora tra il confine tra la vita e la morte. Nel
rapporto, infatti, Fair afferma che, prima di lanciarsi nel Lifestream, Genesis
ha pronunciato questa frase:
If this world seeks my destruction… it goes with me.
[Se questo mondo desidera la mia
distruzione… allora verrà con me. Genesis, FFVII:CC]
Una promessa contenente un minaccioso intento e un ancor più
celato significato, a cui solo pochi possono dire di comprenderlo appieno. Se
Angeal è stato in grado di ritornare sotto forma di fiera sebbene il suo corpo
originale sia andato distrutto, non vedo perché Genesis non possa fare lo
stesso. Nei vari rapporti concernenti le Cellule J, ho letto che questo tipo di
cellule sono dotate di grandi doti rigenerative. Alcuni ritengono che un individuo
dotato di queste particolari strutture, se messo a contatto con sufficiente
energia, possa essere in grado di rigenerare totalmente il proprio corpo, a
patto che ce ne sia una quantità sufficiente. Questo processo è chiamato
‘Riunione’. Genesis ha creato migliaia di copie di sé e ha totale accesso al
Lifestream in quanto parte di esso. Potrebbe davvero essere in grado di
ritornare dalla morte…
Ciò mi fa pensare al modo peculiare in cui solevo intendermi
con i miei compagni, soprattutto durante le battaglie. I nostri movimenti erano
fin troppo coordinati. Era qualcosa di più della semplice abitudine, perché ci
è venuto sin da subito. Quasi come se… fossi in grado di leggere le loro menti.
Come se tra noi ci fosse una sorta di legame mentale.
No… un legame… cellulare.
Eppure io non sono stato così coinvolto nella crisi come
loro. Forse perché provengo da un diverso programma? Ma non ho trovato mai
traccia di un progetto parallelo a quello G… almeno non a Midgar. La Shinra ha
centinaia di siti di ricerca segreti sparsi per il mondo, tuttavia un luogo
papabile a questo fine può essere il luogo dove passai i primi anni della mia
infanzia. Sfortunatamente non ricordo la localizzazione, a causa della mia
troppo giovane età e per il fatto che girai parecchi laboratori in quegli anni,
prima di stabilirmi definitivamente a Midgar. Ricordo, però, che si trattava di
una grossa magione tra le montagne. La prossima volta che tornerò in servizio
dovrò controllare l’ubicazione di quei siti scientifici, anche se temo che sarà
una dura ricerca, dal momento che sono passati quasi trent’anni e potrebbe essere
stata dismessa o distrutta. I risultati, comunque, devono essere stati
conservati in un qualche modo, perché Hojo è troppo geloso del suo lavoro per
gettarlo nei rifiuti, soprattutto la parte che mi concerne. No, quella magione
con il suo esplosivo contenuto deve essere ancora nascosta lassù, tra la neve e
il ghiaccio. E questa volta sono determinato ad andare fino in fondo. Devo
capire per che cosa sono morti i miei amici e che cosa la Shinra cerca
d’infangare a tutti i costi. Devo conoscere il mio nemico se voglio mantenere
fede al mio giuramento. E quel nemico è il folle desiderio di dominio, tanto da
trasformare uomini in mostri creati per un solo scopo: distruggere. Dentro di
noi è stato impiantato qualcosa di più velenoso del mako stesso, qualcosa che
ci rende uniti e che non ci permette di perderci definitivamente nel Flusso
Vitale.
Mi sovviene il sogno che mi perseguita negli ultimi tempi.
Che accade ad un corpo vivo se immerso nel Lifestream? Muore per davvero? O la
sua coscienza continua a vivere in esso, trasformandosi in qualcos’altro? Che
quel sogno non sia solo opera della mia paranoia, ma una vera e propria visione
del futuro? Talvolta Aerith è in grado di conoscere l’esito di eventi che
devono ancora succedersi, semplicemente ascoltando le voci dall’aldilà, ma è un
evento abbastanza raro. Che anch’io abbia questa capacità? Ho sempre avuto la
terribile sensazione che quegli incubi non siano semplici prodotti del mio
inconscio, ma veri e propri messaggi dal futuro. Le sensazioni sono così reali,
così tangibili da perpetrare anche nello stato cosciente. E non svaniscono
nell’oblio, come se la mia mente effettivamente registrasse e ascoltasse quei
messaggi. Ricordo, infatti, ogni benché minimo dettaglio, anche se ogni volta
scopro particolari sempre diversi, poiché la loro nitidezza si fa sempre più
chiara ogni qualvolta che mi si ripropongono. Che sia una sorta di
comunicazione? Ma CHI sarebbe il mittente di questi messaggi? Il Lifestream?
O qualcun altro?
La chiave di questo enigma sono queste fantomatiche Cellule
J. E’ chiaro che siano loro a rendere questa ‘Riunione’ possibile e a donare ai
soggetti sottoposti ad esso abilità superiori a qualunque SOLDIER, ma da dove
provengono? Come sono state create?
Non vi sono rapporti in letteratura riguardanti la loro scoperta
o caratteristiche dettagliate, si sa soltanto che sono state usate, come se non
fosse necessario spiegarlo.
Come se tutti lo sapessero…
Odio tutto questo mistero, il quale non fa altro che
aumentare la mia angoscia riguardo le mie origini.
Cosa mi hanno fatto?
Cosa scorre nelle mie vene?
Cosa
sono io?
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Scrive. Da
ore, credo. Al freddo, sotto a questa terribile pioggia. E’ totalmente zuppo
d’acqua, eppure continua a scrivere. A scrivere e pensare. Pensieri tristi,
pensieri orribili. E domande, domande a non finire che lo intrappolano in un
abisso di angoscia. Vuole sapere, ma non è ancora il suo momento. Prego non
arrivi mai. Ma lui lo vede, il suo futuro. Il terribile fato a cui il Pianeta
lo ha destinato, lui lo vede ogni notte. Non capisce cosa sia, solo perché non
lo ha ancora accettato. Lui non me ne parla, ma ogni notte sogno con lui le
stesse cose. Non se ne rende conto, rapito com’è dall’incubo, ma io gli sono
accanto tutto il tempo. Lo stringo e piango. Lui si agita e lo stringo ancora
più forte. Inizio a cantare. Intono quella canzone che ama, quella che canto
anche a nostra figlia per farla addormentare. A quel punto le visioni scemano,
ma solo per qualche ora, il tempo di riposare e poi non riesce più a dormire.
Spesso rimane a letto con me a guardarmi fino a che la notte volge in giorno;
oppure, se sono sveglia, facciamo l’amore. In quei momenti, la mia ansia
conosce requie, vedendolo così sereno e conscia che Jenova lo sta lasciando in
pace. Ma poi ci sono nottate come queste, dove nemmeno una tempesta è in grado
di richiamarlo al mio fianco. Così vicino, eppure così lontano. Jenova lo tiene
in pugno. Devo stare attenta. Lei è una suocera molto possessiva.
Mi
avvicino con discrezione e lui chiude il diario di colpo, appena avverte i miei
passi. Mi fermo. Meglio non andare oltre. Mi accomodo sul posto in cui sono, a
qualche passo da lui. Avverto il suo sguardo studiarmi. Io aspetto. E’ una
sorta di Guerra Fredda, bisogna essere cauti.
- Fa
freddo qui. Meglio che rientri. –, asserisce lui.
“Come
te.”, penso, ma lo tengo per me. E’ irritato. Si irrita sempre quando
interrompo il filo dei suoi pensieri.
- Non
riesco a dormire nemmeno io. Vuoi bere qualcosa con me? –, domando con
deferenza.
Sfodero
l’espressione più innocente che posso, ignorando il suo sguardo di ghiaccio. E’
palesemente sull’attenti e ciò mi fa infuriare. Perché mi allontani nel momento del bisogno?
- Ho
comprato il saké. –, aggiungo.
Un
bagliore malizioso spazza via il gelo nel suo sguardo. Colpisco nel segno.
Sebbene non sia un gran bevitore, so che l’alcol è l’unico antidoto contro la
sua troppo fervida mente. Lo aiuta a rallentarla.
Rientriamo.
L’atmosfera è ancora un po’ tesa, ma almeno siamo all’asciutto. Mi dirigo verso
la cucina, mentre lui si spoglia dei suoi vestiti inzuppati. Quando ritorno, è
di nuovo immerso nelle sue elucubrazioni, vestito soltanto di una coperta e un
pantalone bagnato. Non che se ne renda conto. Lo raggiungo, e, interponendo il
vassoio tra noi, riempio un bicchiere per ciascuno per poi porgli il suo.
Senza dire
una parola, ingolla il suo sorso con un movimento fluido.
- Kampai, comunque. -, rimbecco un po’
piccata.
Lui m’ignora
e mi porge il bicchiere, con un gesto automatico. Ancora. La scena si ripete
per qualche altro silenzioso giro. Non è un sakè particolarmente forte, ma
comunque fa il suo dovere.
- Scusa
per prima. E’ che… è un periodaccio. –, esordisce, passandosi la mano tra i
capelli, senza, tuttavia, rivolgermi lo sguardo.
- Sono tua
moglie. I “periodacci” di mio marito sono anche i miei. –, spiego io paziente,
cercando un contatto visivo, invano.
Si è
aperto un piccolo spiraglio, per cui decido per un approccio più diretto: mi
posiziono alle sue spalle e poso le mie mani sui suoi trapezi. Dolcemente,
inizio a massaggiarglieli, senza dimenticare la base del collo e la cervicale.
Avverto i suoi muscoli tesissimi sciogliersi sotto il calore delle mie dita e
capisco che posso osare ancora di più. Dal collo, scendo lungo i pettorali,
accarezzando la pelle gelida e ancora umida. Lo abbraccio, facendo aderire il
mio corpo alla sua schiena, mentre la mia testa affonda nell’incavo della sua
spalla. Baci delicati accarezzano il lato del collo e la linea della mascella.
Nonostante le premure, sembra che nessuna reazione sia in procinto di
scatenarsi, poiché continua ad osservare il nulla con espressione totalmente
assente. Bisogna avere pazienza.
- Angeal e
Genesis sono… morti… -
Quella
frase inaspettata, portatrice di una terribile notizia, proferita con una
neutralità agghiacciante, stronca ogni mia effusione. Con gli occhi grandi
dallo stupore alzo lo sguardo verso di lui. Ancora mi ignora.
- Mi
dispiace… -, enuncio con un filo di voce, cercando di mascherare la profonda
pena e dispiacere nati nel mio cuore.
Lui
annuisce automaticamente, senza forze. Lo stringo con più enfasi, strofinando
la mia fronte contro la sua guancia, in una sorta di carezza.
- Mi
dispiace veramente tanto, amore mio. –
Gli inizio
a dare piccoli baci sul lato del collo, sulla guancia, sulla tempia, mentre gli
accarezzo i capelli, il viso. Continua combattere caparbiamente contro le mie
effusioni, ignorandole con tutte le sue forze, ma poi mi accorgo del respiro
pesante ed affannato, dell’espressione corrucciata, delle palpebre chiuse
saldamente… Non vuole piangere. Sta usando la freddezza per celare il dolore. No, amore mio, non devi. Non con me.
- Va tutto
bene, amore mio. Ci sono io qui con te. –
Quelle
parole sussurrate all’orecchio danno l’effetto sperato. Finalmente, riesce a guardarmi.
E appena posa il suo sguardo sul mio viso, lacrime amare iniziano a scorrere
lungo le sue guance. Appena ciò accade, lui subito si volta verso di me,
stringendomi con una disperazione tale da togliermi quasi il respiro; per poi
affondare il suo viso nel suo rifugio sicuro. Prorompe in un pianto pieno di
amarezza e rimpianto, mentre le sue dita stringono la stoffa del mio kimono
fino allo stremo. Gli accarezzo la nuca con gesti dolci e gentili, baciandogli il
collo di tanto in tanto. La stretta delle sue falangi si fa sempre più
disperata e vigorosa, come se avesse paura che, da un momento all’altro, potrei
sfumare nell’aria senza lasciare più alcuna traccia. Le sue labbra sfiorano il
mio collo, il suo naso accarezza la mia guancia, le sue mani mi spingono contro
il suo corpo: ogni azione è dotata di una esasperazione tale tanto da farmi
pensare che sia l’ultima possibilità che ha di poter godere della mia presenza.
Come se mi stesse per perdere.
- Cosa
c’è, Sephiroth? –
Per un
lungo istante, lui sembra ignorare la domanda, continuando con le sue dolci
effusioni; ma poi, esce dal suo rifugio, senza, tuttavia, sciogliere il suo
stretto abbraccio. Mi fissa per un lungo istante con uno sguardo capace di
pugnalarmi direttamente al cuore, tanto esso è afflitto. Le lacrime continuano
a scendere copiose da quei laghi di giada.
Apre la
bocca due, tre volte, ma non riesce a proferire alcun suono, tanto la sua
disperazione gli offusca la mente e gli stringe il cuore. Per incoraggiarlo,
gli poso la mano sulla guancia e gli regalo un dolce sorriso. Le sue iridi
s’illuminano di una luce spaventata e un gemito sfugge dalle sue labbra. Si
allontana come se fosse stato scottato e fa per andarsene. Rimango interdetta,
stupita e affranta da quanto in fretta egli mi sia sfuggito dalle mani.
- Ti
prego, no… non tagliarmi fuori… -, imploro, scattando in piedi, appena lo vedo
inforcare l’uscio.
La voce è
uscita rotta e stridula, segno di una profonda ferita inferta dritta al cuore. Ti prego, Sephiroth, apri il tuo cuore…
Lui scuote
la testa, greve, poi la volge appena al di sopra della sua spalla, tuttavia
senza avere l’ardire di alzarla abbastanza da permettere ai suoi occhi
d’incrociare i miei. Non osa farlo.
- Non
posso… -
Muovo un
passo.
-
Sephiroth…-, un altro, - io sono qui…-, un altro ancora, - proprio qui. – e un
terzo passo.
I suoi
pugni si serrano e avverto le ossa scrocchiare dallo sforzo. Ogni suo muscolo
teso, intento a sovrastare quello che credo essere un ennesimo attacco d’ira.
Ignoro i segnali dall’allarme e muovo l’ultimo passo, il quale mi permette di
allungare il braccio e finalmente toccarlo. Tuttavia, prima che ciò avvenga,
egli si volta di scatto. La sua espressione, contrariamente alle aspettative, è
rotta dal dolore. Un dolore sconfinato, struggente, disumano.
- Per
quanto ancora? –
Quella
disperazione prorompe in tutta la sua pienezza attraverso quell’unica,
angosciante, domanda. Sento il mio cuore subire un singulto e, istintivamente,
ritraggo la mano per poggiarla sul petto. Lui mi guarda, il viso d’angelo
rigate da lacrime amare, ebbro di terrore, perduto e totalmente spogliato di
qualunque corazza.
- Se perdo
anche te… tanto vale scomparire nel Lifestream. –
Un’altra
stilettata al cuore mi spezza il respiro, alla sola menzione alla sua
dipartita. Non lo merita, Eveth, non lo
merita tutto questo. Perché? Che colpa ne ha lui?
- Ogni
cosa che creo è destinata a venire distrutta. Ogni cosa. –, la sua voce è
ridotta a un soffio sottile.
Come a
sottolineare il concetto, il suo sguardo va appuntarsi su un punto preciso alle
mie spalle. La nostra camera da letto. Dove, in questo momento, Takara sta
riposando.
Una scossa
di terrore, ribrezzo e furia mi attraversa il corpo, rinvigorendomi di una
terribile determinazione, la quale mi dona lo slancio per coprire l’ultima
distanza tra noi.
- No! Non
lo permetterò. -, esclamo, afferrando con forza il viso di Sephiroth,
costringendolo a guardarmi dritto negli occhi, - Non permetterò a nessuno di
fare del male né a te, né a Takara. Dovesse essere anche il Pianeta stesso. –
Affondo le
mia dita nel suo viso, avvicinandolo con più foga al mio. I suoi occhi sono
spalancati dallo stupore e dalla meraviglia. Non credo si aspettasse una tale
reazione da parte mia.
- Non si
può combattere un intero Pianeta, Eve… -, puntualizza, sebbene ci sia una punta
d’incertezza nella sua voce.
Io sorrido
malevola e lo guardo con tenerezza, quasi a sottolineare la sua adorabile
ingenuità.
- Insieme,
mio dolce Generale… possiamo. –, sussurro con dolcezza.
Le sue
iridi risplendono di fierezza e ammirazione, oltre aver ritrovato la speranza.
Non resisto e lo bacio con foga, costringendo le sue labbra sulle mie. Avverto
i lati della sua bocca alzarsi verso l’alto e ciò non fa altro che eccitarmi
ancora di più.
Tuttavia…
Mi stacco da Sephiroth e mi giro verso di te…
Maliziosa e malevola ti osservo.
-Piaciuto lo spettacolo… Cloud? –
Mi sveglio
di soprassalto, scattando seduto. Il sogno si perde in un tunnel di oblio,
mentre la sensazione di essere spinto via dalla mia stessa mente mi riporta
alla realtà. L’unica cosa rimasta impressa sono gli occhi di fuoco di quella
donna, capaci di insinuarmi il disagio direttamente nelle ossa e molto più in
profondità di quanto possa mai fare suo marito in mille vite.
Tutto
preso dalle immagini della visione non mi rendo conto di una presenza accanto
al mio letto, se non troppo tardi; cioè quando una mano guantata mi si appone sulla
bocca e il naso, impedendomi respirare. Vengo di nuovo spinto supino e la
pressione della mano sulle mie vie respiratorie si fa più forte. Totalmente nel
panico, cerco di lottare, dimenandomi, ma le mie esigue forze non sono in grado
di vincere quella forza sovrumana. A causa di ciò, la mia riserva di ossigeno
finisce ben presto, così come i miei tentativi di liberarmi. Mentre
l’incoscienza inizia a prendere il sopravvento, uso gli ultimi brandelli di
razionalità per carpire l’identità del mio assassino.
Occhi blu… bagliore mako… capelli
rossi…
- Even if the morrow
is barren of promises, nothing shall forestall my return. [Anche se
il domani è arido di promesse, niente impedirà il mio ritorno. LOVELESS, Act V]
–
Gen…e…sis?
Salve a tutti popolo di EFP! Dopo quasi un
anno di assenza finalmente ritorno con un succulente capitolo tutto nuovo.
Chiedo umilmente scusa per questa infinita attesa, ma dopo l’esperienza non
esattamente andata a buon fine ho attraversato un periodo di crisi nera in cui
non avevo la più pallida di che fare nella mia vita. Ora le cose sembrano
andare meglio e, infatti, sono in Australia! Il sogno di una vita si è
realizzato, permettendomi di raggiungere una sorta di pace interiore.
Riguardo la storia, come avevo già
preventivato nel capitolo scorso ormai manca poco alla fine di questa fic,
quindi preparatevi che i prossimi capitoli saranno caldissimi. Già il finale di
questo è particolarmente d’impatto e l’entrata in scena così repentina del
nostro gingerino preferito non preannuncia niente di buono. O forse sì? Spero
di pubblicare il prossimo capitolo con una tempistica più umana, ma in teoria
ora come ora non dovrebbe essere difficile, dal momento che sono finalmente
arrivata dove non vedevo l’ora di arrivare!
Bene, concludo augurando a tutti un buon 2018
e ci si sente alla prossima!
Besos