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Autore: fortiX    05/01/2018    1 recensioni
Bassai dai é il nome di un kata del karate shotokan. Il termine vuol dire entrare nella fortezza. E cosa sono Sephiroth e Cloud se non due fortezze mai violate? Cloud sta aprendo la sua verso una nuova vita e si accorgerà presto che, nonstante le numerose sconfitte, il suo nemico mortale non é mai stato veramente conquistato. I segreti e le paure verranno mai svelati? Cloud avrà questo coraggio?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cloud Strife, Nuovo personaggio, Sephiroth, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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25. Assalto

Un figura estranea si staglia sulla porta del rifugio. Il luogo dove avevate deciso di crescere i vostri figli.

Il tuo primo istinto è proteggerli a qualunque costo. Il secondo è una realizzazione che ti aveva spesso accarezzato, ma hai sempre sperato di sbagliarti: il vostro riparo non è più tale. Ogni madre ritiene che i propri figli siano speciali, ma loro non lo sono solo per te. Quella società malata vuole la tua primogenita, il tuo prezioso tesoro. La creatura per cui tu hai tanto lottato, la quale ti ha dato così tante gioie e soddisfazioni; colei che ti ha reso completa. Lei è un miracolo, in tutti i sensi. E’ una splendida fusione nata dall’amore di due specie in pieno conflitto.

La pace è possibile, lei ne è la prova. Ma gli umani sono accecati dalla visione del potere e sordi alle leggi della Natura. Lo sono sempre stati…

Sono la rovina di questo Pianeta.

Il nemico comune.

 

 

Un dolore tagliente si dipana dall’addome a tutto il corpo, mozzandomi il fiato. Avverto il sapore dei succhi gastrici risalirmi dallo stomaco, incapace di trattenerli. Vomito un liquido vischioso e nauseabondo che mi brucia e raschia la gola, rinsecchita dal caldo asfissiante delle lande di Corel; il quale è in netto contrasto con la condizione del mio corpo. Ho i brividi, tremolii incontrollati scuotono tutte le mie membra, impendendo perfino di mantenere la postura eretta. Mi accascio contro il muro e pian piano raggiungo il pavimento, addossandomi contro la parete con tutta la schiena. Fissando il nulla, mi concentro a riprendere fiato, prendendo grandi boccate d’aria, ma è un’operazione che risulta dannatamente difficile a causa del pesante peso che grava sul petto. Tossisco con forza, perdendo ancora più energie. Nemmeno i muscoli della schiena riescono più a mantenermi eretto e per poco non mi sdraio definitivamente a terra. A impedire ciò, c’è Vincent, il quale risolleva il busto e mi sostiene per tutto il tempo della crisi. Da quando siamo sbarcati sulla costa nord-occidentale del continente e ci siamo messi in viaggio verso Rocket Town, le mie condizioni sono peggiorate a vista d’occhio.

- Ancora quel sogno? –

Quel briciolo di coscienza che mi rimane lo focalizzo tutto sul viso del mio compagno di viaggio e annuisco. L’espressione del pistolero si adombra per un attimo solo, per poi ritornare alla sua condizione originale d’impassibilità.

- Si sta facendo più forte. –

La costatazione di Vincent non mi lascia stupito. Il risentimento e l’ira di quella donna crescono di pari passo con l’angoscia del Generale. E dalla vicinanza con Takara. Se la visione è esatta, ormai manca poco al fatidico incontro. E al suo destino. Certo che, per come mi stanno riducendo i suoi genitori, non vedo come io possa rappresentare una minaccia alla sua vita, sebbene sia solo una ragazzina. Un’altra scossa di dolore mi percuote le membra appena formulo questo pensiero. Inveisco a denti stretti.

Quella donna è una scheggia impazzita, capisco perché il Pianeta ha fatto di tutto per relegarla nell’Oblio. Tuttavia, lei è stata più furba. Approfittando dei suoi poteri di Sephera ha permesso a una buona metà della sua anima di legarsi al diario dell’uomo che ha amato. Il problema è che quella che si trova qui dentro è la parte più pericolosa, la parte che brama vendetta contro coloro che hanno attentato alla sua vita e a quella dei suoi figli, la parte che desidera il sangue di coloro che hanno condotto il suo uomo alla follia. La parte jenoviana di Evelyn. E ora lei mi tormenta con le immagini della sua morte, facendomi sentire TUTTO. Il senso di smarrimento di fronte a morte certa; la paura raggelante per il pericolo corso dai suoi figli; il senso istintivo di protezione delle loro piccole vite; l’atto disperato di una madre; la sensazione gelida di una spada che trapassa la carne da parte a parte e, forse, la peggiore di tutte, la realizzazione di aver fallito. Uno dei figli è morto senza mai nemmeno aver assaporato la vita, mentre l’altra… è rimasta sola, su un Pianeta che la disprezza per le sue origini nefaste in compagnia di un popolo che la vuole sfruttare per il suo gigantesco potere.

Forse LUI aveva ragione… Non avrei mai dovuto… essere così egoista.

Chiudo gli occhi e sospiro, mentre quelle parole mi colpiscono con la forza di un maglio. Questa constatazione lapidaria ferisce. Avverto il dolore derivato da questa terribile realizzazione.

- Non dire così… –

- Non dire cosa? –

- Come? –

- Hai detto ‘non dire così’. A cosa ti riferivi? –

Lascio scappare uno sbuffo divertito e scuoto la testa.

- Non parlavo con te, Vincent. –

Il pistolero grugnisce, nel frattempo egli si posiziona al mio fianco e mi afferra un braccio e se lo lega attorno al collo, mentre l’altro circonda la mia vita.

- Comincio a stancarmi di essere il terzo incomodo. Soprattutto se contiamo che siamo soltanto in due. –

Mentre pronuncia questa frase, un sorriso sincero appare sul mio volto stanco, mentre egli mi solleva in piedi e inizia ad incamminarsi giù per la via, alla ricerca di un posto dove io possa recuperare le energie.

 

North Corel è molto cambiata dall’ultima volta che la visitai. Ricordo chiaramente l’odore: sapeva di disperazione e tradimento. Questa gente aveva creduto alla falsa promessa di prosperità e di una vita agiata sulla luce di una nuova era per l’energia, sciorinata migliaia di volte da quella Compagnia succhia-anime. La gente aveva creduto a questa prospettiva. Esper, perfino Barret era stato abbagliato dalle infinite possibilità dei reattori mako. Così evidente che la ShinRa pensò bene d’insabbiare le proprie scoperte e riportarle in patria. L’idea di condividere quelle potenzialità non abbandonò mai la Compagnia, ma forse ‘condivisione’ non è proprio il termine più adatto. Con la presunzione di aver imbrigliato la potenza stessa del Pianeta in macchine e uomini –come se non fossero la stessa cosa-, la famiglia Shinra costrinse-un termine ben più adatto- il mondo ad inginocchiarsi a loro ed accettare la loro netta supremazia. Corel fu il primo continente a finire sotto il maglio dei SOLDIER. La terra su cui un giovane dai capelli argentei impresse la tua prima insanguinata impronta.

Lo ricordi, vero?

 

Questo continente ha tirato fuori il peggio di me.

 

Ingoio l’insinuazione, cercando di arginare l’ira nascente dalle viscere, e alzo lo sguardo verso le montagne a sud-ovest, al di là delle quali si trova Nibelheim.

 

Fair da Gongaga, te ed io da Nibelheim. Questa terra sembra sfornare valenti eroi.

 

Tu non sei un eroe…

 

Curioso, ho sempre creduto che tu mi ritenessi tale fino a qualche anno fa. Non che m’interessi, comunque. Ho vissuto troppo a lungo per continuare ad essere un eroe.

 

Avevi solo ventisette anni quando sei morto la prima volta. Ti sembrano troppi?

 

Per la vita che ho vissuto? Un’eternità.

 

E la tua famiglia? Anche quella è stata un patimento?

 

E’ stata una parentesi. Una bellissima parentesi, troppo breve per lavare via tutto il marcio di una vita da “eroe”.

 

Anch’io l’ho vissuta, eppure sono ancora da questa parte.

Non ti illudere, Cloud. Quanti anni hai ora?

 

Posso immaginare il suo ghigno mefistofelico brillare nell’oscurità della mia mente, mentre la sua tagliente domanda mi annoda lo stomaco. Improvvisamente, un suono incrinato seguito da uno tintinnante attrae la mia attenzione. Rimango a lungo a fissare il sangue sgorgare dalle fenditure del mio pugno. Percepisco ogni singolo, minuscolo frammento di vetro penetrare nella carne e, più stringo, più loro entrano in profondità. Il dolore, tuttavia, sembra alimentare una terrificante frenesia sanguinaria, impedendomi di lasciare la presa. La mia fantasia soppianta quel vetro con schegge di osso e il latte con la vischiosità del tessuto cerebrale e del sangue. Vedo la testa di Sephiroth, squagliarsi, priva d’integrità, implosa su se stessa a causa della pressione impressa dal fervente desiderio di eliminare quel ghigno dalla faccia del Pianeta. Eppure, quel sorriso mellifluo è ancora lì, sempre più largo, sempre più divertito. Per quanto possa stringere, ormai non c’è più nulla da maciullare. Avverto un fuoco d’iraconda frustrazione esplodere in ogni parte di me, mentre una risata sommessa e vuota, priva di qualsivoglia felicità, riecheggia nella mia mente.

 

Sei sulla buona strada, Cloud.

 

Un ringhio di disperazione irrompe dalle mie labbra e sciolgo il pugno, portando le mani ai capelli. Le dita insanguinate s’infilano tra le ciocche che l’abbattimento mi suggerisce di strappare, ma non ne ho la forza. Cado in avanti e i gomiti vengono intercettati dalle mie gambe, impedendomi di crollare a terra. Vorrei piangere. Piangere fino a perdere il fiato, ma tutto quello che riesco a fare è concentrarmi sul mio respiro, al fine di provare ad ignorare la martellante pulsazione della mia testa. Improvvisamente, l’idea di morire così giovane non è poi così male.

- Odio essere te. –

La confusione scompare, svanendo lentamente come nebbia spazzata da una brezza dolce e leggera, lasciando spazio ad una mesta quiete, alleviando per un attimo le sofferenze. Per quanto la mia mente lo rifiuti, non posso fare a meno di rendermi conto della terribile realtà: io e lui SIAMO simili. Molti altri hanno letto quel diario, ma l’unico ad aver scatenato un tale putiferio sono stato io.

Alzo lo sguardo e vedo la figura diafana del Generale alta di fronte a me. La sua espressione è neutra, ma i suoi occhi, come sempre, parlano per lui. V’è pena, ma non verso di me, ma verso se stesso. Capisce cosa sto passando, perché lo ha provato lui molto tempo prima. Vedo senso di colpa, non ha mai voluto che quel fardello passasse ad altri. Sperava che, consegnandosi, al Pianeta sarebbe bastato.

 

Perdonami.

 

L’espressione neutra si distorce, rivelando il viso affranto e pieno di vergogna nascosto dietro quella maschera. Sgrano gli occhi, incredulo. Lui, l’infallibile Sephiroth, chiede il perdono.

 

On your knees. I want you to beg for forgiveness.

[In ginocchio. Implorami di perdonarti. Sephiroth, FFVII:ACC]

 

 

Vincent sbuffa, infastidito, mentre toglie le schegge di vetro dal palmo. Impresa ardua, dal momento che alcune si sono conficcate così in profondità da risultare difficilmente raggiungibili perfino dai sottili bracci della pinzetta del pronto soccorso.

- Sembri contrariato, Vince. –

Egli mi scocca un’occhiata di fuoco delle sue, per poi rivolgere l’attenzione sul lavoro certosino che sta eseguendo. Come risposta, mi pinza la carne viva della ferita, strappandomi un verso sofferente.

- Non storpiarmi il nome, Cloud Strife, o te le toglierai da solo queste dannate schegge. –

In questi giorni, Vincent è diventato duro e distaccato, sempre sul chi va là, come una bestia in trappola. Non apprezza l’idea di fermarci troppo a lungo in un posto; perfino sostare in questa bettola da quattro soldi nella periferia più affollata di North Corel, o, di come la chiamano adesso, New Old Corel, è costato un enorme sacrificio all’ex-Turk. Se non fosse per le condizioni pessime in cui sono crollato appena messo piede su questo continente, probabilmente ora saremmo già in viaggio verso la nostra meta. Non saprei dire se questa fretta sia dettata dal desiderio d’incontrare sua nipote il prima possibile o sia dovuta alla possibilità di avere qualche minaccia alle calcagna. Qualunque sia la ragione, Vincent soffre sempre meno la mia estraniazione dal mondo reale; il quale mi rende imprevedibile e instabile, oltre che un pericolo per me stesso e gli altri, come fin troppe volte è accaduto. Questa riflessione mi fa aggiungere un’altra possibile spiegazione allo strano comportamento di Vincent: è preoccupato delle conseguenze di ciò che mi sta succedendo.

- Andrà tutto bene, Vincent. –

Il pistolero interrompe il suo lavoro da chirurgo improvvisato e pianta i suoi occhi sanguigni nei miei. Impercettibili rughe si formano attorno ai lati della bocca, mentre la mandibola si serra. Il sangue di quell’iride s’illumina per un pericoloso secondo.

- Mi prendi in giro?!-

Il tono di Vincent rivela che è fuori di sé. Temo di aver toccato un pericoloso tasto nell’ autocontrollo del moro. Perché? In fondo, volevo solo rassicurarlo. Egli si alza di scatto, scagliando le pinzette dall’altro lato della stanza, per poi voltarsi verso di me. Il suo sguardo è incandescente, le narici allargate e i denti svelati. Per un attimo, temo che Chaos possa avere la meglio sullo stanco Vincent, mettendo fine alla mia vita. Noto con orrore che questa prospettiva non mi spaventa più di tanto. Qualunque cosa per finire con questa sofferenza.

- No. Io… -

- Come può andare tutto bene se ogni volta che leggi quel dannato libro sei ridotto peggio di prima? Che succederà quando non sarai in grado nemmeno di stare in piedi, eh, Cloud? Dimmi anche come ti difenderai quando quelli che ci braccano ci avranno raggiunto. Avanti, illuminami! –

L’artiglio dorato della sua mano sinistra viene puntato verso di me, in un atto accusatorio. Anche se io rassomiglio l’azione più che un avvertimento del predatore alla sua preda.

- Braccano? -

- Oppure, come pensi di fare quando la bomba dentro la tua testa malata esploderà? Cosa mi dovrei aspettare? Mi devo aspettare che tiri le cuoia o che… o che… -

- O che impazzisca come tuo figlio? –

A quelle parole, lo sfogo di Vincent subisce un repentino arresto, come se una cascata gelata avesse spento l’incendio che lo dominava. In un primo momento, infatti, nei suoi modi e nel suo sguardo vedo smarrimento e senso di colpa; ma l’attimo successivo, si erge in tutta la sua altezza, i pugni si stringono così forte da avvertire lo scricchiolio delle ossa, gli occhi sanguigni riversano uno sguardo così rabbioso e addolorato che potrebbe incenerirmi sul posto seduta stante. E per un attimo… lo credo. Il silenzio s’interpone tra noi per terribili, interminabili secondi di tensione. Secondi in cui io prego il Pianeta di venire fagocitato per la mia boccaccia insolente. Vincent si sta facendo in quattro per me e io lo ripago sputandogli in faccia le sue colpe.

Che razza di amico sono?

A quel punto, distolgo gli occhi dai suoi e abbasso la testa.

- Scusa. Non volevo. -

Avverto il respiro affannoso del pistolero, scemare d’intensità, fino a regolarizzarsi. Gli rivolgo uno sguardo in tralice e lo vedo prendere un profondo respiro, ad occhi chiusi, e, quando questi vengono riaperti, la calma alberga di nuovo in lui. Il suo portamento, tuttavia, rimane fermo nelle sue posizioni, ma comunque con un’inflessione più rassicurante e aperta. Senza dire una parola, ritorna alla sedia, scoprendo che si era rovesciata nel momento in cui la sua iraconda ascesa era iniziata. Si siede comodamente, appoggiando la schiena alla parte alta dello schienale, le gambe distese, le braccia adagiate sui braccioli, le mani lasciate a penzolare nel nulla. Svuotato. Lo osservo dalla mia posizione leggermente dismessa. Studio il suo sguardo perso nel vuoto, le occhiaie attorno alle orbite, la pelle pallidissima con nuove impercettibili rughe attorno al naso e ai lati della bocca. Sembra improvvisamente invecchiato, come se ciò che sta affrontando adesso gli stia risucchiando la vita dal corpo.

 

Le vite hanno un caro prezzo. Sia che le abbandoniamo, sia che le salviamo, prima o poi il Pianeta richiederà il conto. E più vite avrai toccato, nel bene o nel male, più esso sarà salato.

Questo è essere eroi.

 

Annuisco automaticamente alle parole sussurrate da Sephiroth. Sono talmente assorto che non mi rendo conto che Vincent ha ricominciato a puntarmi. Il suo sbuffo divertito, infatti, mi coglie impreparato.

- Sembriamo due vecchi pazzi. Stanchi e imbruttiti da una vita di cui desideriamo solo vederne la fine il prima possibile. –

Un lato della bocca si alza e faccio spallucce, adagiandomi anch’io sullo schienale.

- Il vecchio sarai poi tu. Io sono solo pazzo. Non so cosa sia peggio, comunque. –

Vincent rimane in silenzio per un lungo momento, osservando un punto imprecisato nella stanza. In effetti, a dei pazzi ci assomigliamo, constato alla fine.

- Suppongo di aver vinto, allora. –

Gli rivolgo uno sguardo interrogativo.

- Che intendi? –

- Oggi sono sessantatré anni di vita da eroe. Parecchi, no? –

Corrugo le sopracciglia in un primo momento di confusione, poi realizzo e i miei occhi si spalancano, quasi come ad uscirmi dalle orbite. Boccheggio, cecando di uscire dalla mia interdizione, ma due motivi me lo impediscono. Uno: Vincent Valentine ha seriamente, spontaneamente rivelato qualcosa su di lui per la seconda volta da quando lo conosco? Due: come fa a sapere di quel discorso tra me e Sephiroth? Non era tutto nella mia testa?

Di fronte al mio sbalordimento e alla mia faccia da ebete, l’ex-Turk si apre in un sorriso furbo.

- Uno: sì, è accaduto davvero. Sono tanti anni che nessuno mi fa gli auguri e, siccome questo potrebbe essere l’ultimo compleanno che vedrò, perché non rivelarlo? –

Egli raddrizza la schiena e si sistema meglio sulla sedia, incrociando le dita e voltando il busto nella mia direzione, gomito destro appoggiato sul bracciolo. Mi fissa e mi accorgo- senza tralasciare il brivido che mi attraversa la schiena da sotto a sopra- che con quell’espressione divertita stampata in faccia assomiglia terribilmente a Sephiroth.

- Io vi sento, Cloud. Credi davvero che Sephiroth non abbia tentato un contatto con me, appena scoperto chi sono? –

 

Cloud non è mai stato un ragazzo molto sveglio, padre.

 

- Ha semplicemente bisogno dei suoi tempi. Non tutti hanno la mente arguta come la nostra. Cerca di essere più indulgente. –

Ogni scontro verbale avuto con Sephiroth l’ho sempre e inevitabilmente perso. Lui orchestra magistralmente la conversazione, esponendo argomentazioni inattaccabili, rivoltando l’interlocutore come un calzino bucato. Come conversa, egli così combatte. Fortunatamente, non sono così lento anche con la spada; anche se, in ogni caso, la soddisfazione di una vittoria piena quel bastardo figlio di Jenova non me l’hai mai data, proprio a causa della sua dannata boccaccia.

Ma Vincent… Vincent con una frase l’ha zittito. Non ha urlato, non ha fatto la voce grossa, non l’ha minacciato. L’ha… rimproverato, semplicemente, come una padre farebbe con il figlio, con pacatezza e fermezza.

Dopo qualche secondo di silenzio, durante i quali la mia analisi prende piede, Vincent disimpegna la mano artigliata dall’altra e dirige gli artigli metallici verso il mio mento. Con un buffetto alla mascella, ormai finita a terra, m’induce a chiudere la bocca.

- E tu chiudi quella bocca, Cloud. Sei ridicolo. –

Dopodiché, il moro, ruota la sedia, avvicinandosi, mi afferra la mano ancora ferita e ricomincia il lavoro lasciato a metà, recuperando una pinza sterilizzata dalla cassetta del pronto soccorso. Il tutto sotto il mio sguardo sbigottito.

Dopo qualche minuto di silenzio, durante i quali l’unico rumore era il tintinnio dei frammenti di vetro che cado l’uno sull’altro all’interno di un altro bicchiere, intervallato da qualche mio grugnito; chiedo:

- Da quanto tempo è che lo senti? –

Vincent non distoglie lo sguardo da ciò che sta facendo, ma un guizzo dispiaciuto deforma per un considerevole momento il suo viso.

- Da qualche tempo. Non so bene quando, ma ho iniziato a sentire delle voci nella testa. Subito erano bisbigliate e incomprensibili, ma dopo poco, divennero più chiare e distinte. A quel punto, capii che eravate voi. -

Si ferma un attimo e si stropiccia l’occhio destro con il dorso della mano, sospirando pesantemente.

- Spesso noto che voi state parlando, la tua faccia assente lo testimonia. Tendo l’orecchio, ma non sento nulla. Perché? C’è qualcosa che volete nascondermi? –

Sgrano gli occhi e le labbra si dischiudono, sorpreso da quelle domande, le quali spiegano il suo nervosismo e il comportamento guardingo di questo periodo. Boccheggio, arrancando una risposta plausibile e mi ritrovo desiderare una mente svelta come quella del mio nemico.

-Ecco… insomma, n-no. Che dovremmo nasconderti? Che vai a pensare, Vincent? –

Di tutta risposta, il pistolero alza il sopracciglio. Una sola azione per vanificare le mie scuse. Vorrei scomparire.

 

Vi prego, perdonate l’idiozia di Cloud, padre. Tuttavia, sì, devo confermare i vostri sospetti. L’atto finale di una guerra va combattuta e, sebbene non ve ne abbia mai dato ragione, v’imploro: fidatemi di me.

 

Per la prima volta nella mia vita, sono grato di aver sentito la voce del Generale. L’ex-Turk ascolta assorto le parole reverenziali del figlio e noto come la supplica finale smuova qualcosa nell’espressione del pistolero, come una fatale scoccata dritta al cuore. Mentre il moro pondera quelle parole, la mia parte meschina e diffidente non può fare a meno di giudicare quelle accorate frasi come una magistrale manipolazione di un abile burattinaio. Può anche essere figlio naturale di Vincent, ma è Hojo che l’ha cresciuto e forgiato. Lo scienziato può non aver intaccato la parte più fragile del Generale, il quale è riuscito a mantenere i suoi ideali intatti fino al giorno in cui la follia non distrusse ogni singola parte di lui; ma la fortezza di fili dentro cui l’ha nascosta è stata creata ad immagine e somiglianza del vecchio. Anche se, a detta dello stesso SOLDIER, lo scienziato aveva un talento particolare a distruggerla in minuscoli pezzettini ad ogni loro incontro. Contro di lui, Sephiroth non aveva alcuno scampo. Esattamente come l’ex-Turk. Forse ho sopravvalutato Vincent. E’ un avversario più manipolabile di quanto credessi. Abbagliato da quella che ho ritenuto una resa senza condizioni, non ho notato che quel silenzio sarebbe potuto essere una semplice ritirata strategica, come preludio all’attacco definitivo. Vincent è come il figlio, in fondo. La corazza è apparentemente impenetrabile, ma basta usare le leve giuste per scardinare le porte principali. Queste leve sono i sentimenti. Loro ne sono fatalmente succubi. Sensazioni come pietà, sensi di colpa, speranza e, la più pericolosa, l’amore, hanno portato alla rovina questa famiglia. E’ questo che ha permesso a Hojo di trionfare.

Come volevasi dimostrare, l’espressione di Vincent si distende e, dopo poco, annuisce, deformando il suo viso con un leggero sorriso.

- D’accordo, hai la mia fiducia. Ma non darmi del ‘voi’, per favore. Non voglio che tra noi ci siano distanze. E chiamami pure Vincent, le formalità non sono il mio forte. –

 

Come vuoi, Vincent.

 

Ma Sephiroth è diventato l’uomo che è, perché impara dannatamente in fretta…

 

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26 Marzo XXXX

 

Non è la prima volta che imprimo su carta questo mio pensiero, ma credo che a sto punto la si possa definire un’assoluta certezza: il tempo possiede un curioso tempismo nel mutare in linea con i miei sentimenti. Il temporale è iniziato da poco, accompagnando con il suo cupo rombare la tempesta dentro di me. La pioggia scroscia copiosa dal cielo livido, scuotendo la superficie del lago Hourei, inquieto come il mio spirito. Di tanto in tanto, lampi di luce illuminano a giorno il bosco reso spettrale dal furioso soffiare del vento in discesa dalle montagne. Gocce di pioggia, rapite dalle folate imperiose, m’infradiciano in parte a secchiate irregolari, cucendomi addosso una gelida coperta a cui il mio corpo cerca strenuamente di ribellarsi, lanciando tremori e brividi di freddo. Non me ne curo. Il mio sonno, in ogni caso, è ben più doloroso. A nulla, infatti, è valso rimanere in quella stanza accanto al calore di mia moglie e al respiro tranquillo di mia figlia; poiché non fanno altro che agitare le trame armoniose di Morfeo, trasformandole in una cacofonia di incubi e rimpianti. Ho bisogno di assistere a qualcosa di più folle dei miei stessi incubi. Odo il frinire impazzito delle fronde degli alberi languire sotto il maglio spietato del vento. Alcuni rami non resistono a quella furia e si abbandonano ad essa, mutilando così le loro madri. Lo scrosciare ritmico delle onde lacustri è un’ipnotica melodia che ne accompagna la frenetica corsa verso riva, dove la risacca discendente accarezza la terra bianca di spuma come un tenero amante. E’ lo scenario perfetto in cui affogare i ricordi di questi ultimi anni, in cui la mia vita pareva aver finalmente deviato su un sentiero da me sempre agognato. Lasciare che la pioggia lavi via il ricordo dolce dei due uomini più straordinari che abbia mai avuto l’onore di conoscere, i miei più fidati compagni di battaglia, i miei più intimi confidenti… Permettere a questa pioggia di lavare via il vuoto lasciato dalla loro ingloriosa, immeritata, disonorevole morte. Una morte a cui, mio malgrado, ho contribuito a far sì che prendesse luogo, sebbene abbia fatto di tutto per non prenderne assolutamente parte. E di questo mi pento. Tutto ciò che volevano era che mi unissi a loro o che li fermassi, in alternativa. Non ho colto il loro disperato grido d’aiuto, volgendomi dall’altra parte, sordo ad ogni tipo di supplica o richiesta. Mi sono lasciato trasportare dai dubbi, dall’indecisione, da quell’odioso e indolente non-agire che ho sempre disprezzato in ogni uomo. Io… quello stesso mostro che ha annegato nel sangue qualunque tipo di ribellione contro quella Compagnia-succhia anime; quello stesso Generale invincibile idolo delle folle; quella stessa marionetta mossa dagli artigli avidi di Shinra. Mostro, Generale, marionetta… ma non uomo. Non merito questo appellativo, perché le mie azioni non mi hanno mai reso tale. Angeal aveva ragione: non ho una dignità, né sogni, tanto meno quell’onore che rendeva il nostro essere SOLDIER qualcosa di più di una semplice macchina da guerra. Quello che ci rendeva uomini. Quello di cui ho sempre dubitato, rimbeccando al moro di quanto egli fosse ingenuo, ma di cui, segretamente, tentavo d’intravedere quella fatua realtà. Lui vedeva Eroi, vessilli di una promessa di una vita migliore per i più deboli, uno scudo contro il male e l’ingiustizia, la fiera risposta alla vessazione dei potenti. Uno specchio per allodole, ma pur sempre una splendida speranza, capace di alleviare almeno un poco quell’opprimente incudine di peccati pendente sul cuore. Quanto avrei voluto avere il suo talento… quell’innata capacità di non vedere. Non vedere ciò che SOLDIER veramente è: un rifugio di mostri guidati da una mente affogata in un sanguinoso abisso e da una fiera incontrollabile e crudele. Quanto spesso mi è capitato d’incrociarne le spalle incurvate dall’ignavia, quando la folle sete della Bestia guidava vigliaccamente la Masamune verso le schiene di civili innocenti in fuga dalla battaglia; oppure, quando Genesis, in preda ai fumi dell’alcool, trascinava fino nella sua stanza una donna dal viso talmente tumefatto tanto da risultare irriconoscibile, per poi abusare di lei più e più volte? Atti osceni a cui egli ha sempre rivolto una cieca indifferenza, mascherata da un forte senso del dovere o da una rassegnata indulgenza.

“Tra di loro poteva nascondersi qualche dissidente. Hai agito secondo gli ordini.”

“Lo sai che Genesis ha i suoi bisogni. E’ fatto così.”

Parole di circostanza, costruite solo per camuffare l’orrore provato in quel momento e salvare le apparenze, seguite poi da vuote ramanzine su sogni, onore e disciplina, atte solo ad annoiare, piuttosto che ottenere l’effetto contrario. Mi sono spesso domandato perché fingesse in quel modo, perché cercasse di prendere le nostre difese in modo così caparbio, invece di opporsi a quegli istinti bestiali e aiutarci a sopprimerli. Tra tutti noi, Angeal era il più stoico e irremovibile, così attaccato ai suoi valori e al suo onore da risultare il caposaldo del nostro trio di svitati senza speranza. Alla luce dei nuovi fatti, tuttavia, quel caposaldo d’inscindibile fermezza era più fragile di quanto immaginassi. Il ruolo di fratello maggiore gli si era cucito addosso a doppio filo. Sentiva il dovere di proteggerci. Era il più forte e, in più, conosceva le sensazioni che si agitavano in noi e sapeva che erano irreprimibili, soprattutto per menti malate e deboli come le nostre. In tutto questo, tuttavia, lo abbiamo aiutato a non cedere alla parte oscura di sé, costringendolo a reprimere quegli istinti che, sono sicuro, si agitavano perfino in cuore puro come il suo. Inoltre, troppi avrebbero pagato le conseguenze dei suoi errori, perché se non ci fosse stato lui, il mondo sarebbe collassato sotto la nostra furia.

Cosa che è avvenuta, ahimè…

La mia mente mi riporta automaticamente in quella stanza lussuosa e opulente posta sull’ultimo piano dello Shinra Building: l’ufficio del Presidente Shinra. Un luogo che lo assomiglio quanto più al nido gigantesco di una vorace e viscida idra, la cui unica ossessione è la continua ricerca di una nuova preda da accogliere nel suo letale abbraccio. Essa osserva dal suo scranno il mondo che ha inginocchiato ai suoi piedi, elucubrando riguardo le nuove possibili fonti di guadagno e potere ancora celati sotto la crosta del Pianeta; certa che nessuno sarà mai capace di fermarla, finché egli avrà le sue zanne avvelenate attaccate alle gengive. Io ero lì, uno dei denti del viscido serpente dondolava quietamente al mio fianco, mentre Lazard leggeva i minimi, terrificanti dettagli della missione che mi avrebbero affidato di lì a poco, con tono quanto più possibile neutro. Nonostante i suoi sforzi, il Direttore non riusciva a mantenersi distante, soprattutto nei passaggi più cruenti. Ho sempre apprezzato la sua innata capacità di entrare in empatia con ogni membro del Reparto. Conosce i suoi uomini e sapeva che io non ero l’agente giusto per quella missione. Avrebbe preferito farsi sciogliere dai liquidi nauseabondi di un Molboro piuttosto che sottopormi a quella tortura. Ma io sapevo perché ero lì: era un test. Le teste dell’idra volevano sapere da che parte mi sarei schierato. Il cagnolino avrebbe fatto il bravo e avrebbe obbedito senza discutere, come gli era stato inculcato fin dall’infanzia; o si sarebbe trasformato in un lupo, pronto a reclamare la sua stessa libertà ed unirsi al branco dei traditori? Per evitare rischi avevano perfino mobilitato qualche fante dell’esercito regolare a supporto dei Turks più esperti. Labile difesa. Mai come in quel momento, ho potuto fiutare la tensione, l’ansia, la paura albergare tra quegli ignominiosi rifiuti umani. L’intera stanza era invasa dal mefitico lezzo. Quanto ci godevo! In tutta risposta, feci sfilare il mio mordace biasimo lungo tutti i presenti e chiunque incrociasse i miei occhi rifuggiva o abbassava l’attenzione. L’unico che sostenne il mio sguardo fu Hojo. Da dietro la montatura spessa degli occhiali, potei cogliere il suo minaccioso ammonimento trafiggermi con durezza. Se avessi deluso le sue aspettative, lo avrei pagato amaramente. Con nonchalance, scrollai le spalle e abbozzai un sorriso strafottente, per poi ritornare a fissare diritto avanti a me. Con la coda dell’occhio, però, vidi l’emaciata espressione del vecchio virare da truce a oltraggiata. Sfortunatamente per lui, è parecchi mesi in ritardo: la mia decisione era stata presa nell’esatto momento in cui Genesis disertò.

Io non avrei combattuto.

Fatale errore.

Quando Lazard finì, il silenzio più pesante e tedioso che avessi mai avvertito piombò in quella stanza dorata, offuscando perfino la lucentezza di quella nauseante dimostrazione di ricchezza. Lasciai bollire quegli emeriti idioti nel loro brodo di tensione per lunghi minuti, per poi irrompere con un semplice e secco diniego. Avvertii i Turks attorno a me prepararsi al combattimento. Il suono di pistole private di sicura e lo sfilo di armi bianche tolte dai foderi solleticarono la Bestia, la quale tese i miei muscoli e aguzzò i miei sensi. Avrei potuto farne poltiglia e loro lo sapevano. Avvertii la mia vecchia e rabbiosa compagna scuotere il mio torace con un solo, basso ringhio. Cibarsi delle paure dei suoi nemici è ciò che più brama nell’intero Pianeta. E quella stanza… Oh, quella stanza ne era piena! Per un minuscolo momento, ho accarezzato l’idea di accontentarla. Se avessi agito, ogni mia sofferenza sarebbe finalmente cessata e, forse, i miei amici sarebbero tornati in sé, liberi di vivere in un mondo che li avrebbe accettati. Avrei potuto tornare dalla mia famiglia. Avrei potuto essere l’eroe che tanto LOVELESS decanta: colui che rimane.

La tentazione era forte: infatti, il palmo della mano fremeva, il corpo si preparava al contrattacco, la gola secca bramosa di sangue… l’ammaliante frenesia mi estraniava dal tempo. Ero pronto ad abbandonarmi a Lei, di nuovo, ma Evelyn me lo impedì per l’ennesima volta. Il suo viso mi attraversò la mente richiamando la lucidità all’ordine.

Non potevo.

Quei soldati, quegli agenti… erano ancora fedeli a quell’insegna insanguinata. Erano pronti a morire per quei maiali insolenti e io mi sarei macchiato le mani del loro sangue. Sangue innocente.

Basta.

Sono stanco di uccidere. Sono stanco di vedere visi agonizzanti. Sono stanco di ascoltare suppliche e gorgoglii di morte. Sono stanco di marchiarmi la pelle di sangue.

Stanco di vivere una vita non mia.

Fermo nella mia decisione, girai i tacchi e mi diressi verso l’uscita, lasciando i presenti sbigottiti dal mio semplice non agire. Una mossa che probabilmente nessuno si aspettava. Nonostante tutto, però, quella missione doveva essere compiuta, in un modo o nell’altro. Fu così che, prima che lasciassi quella stanza, mi chiesero chi mandare al posto mio.

Avevo elaborato la mia strategia mesi or sono, ma solo troppo tardi realizzai che, nell’approntarla, mi ero lasciato guidare dai rancori e dall’arroganza. Angeal ed io avevamo avuto un pesante diverbio quando venimmo a conoscenza della diserzione di Genesis. Erano settimane che non ci rivolgevamo la parola e, quando scomparve anche lui, non mi stupii. Immaginavo che il moro non avrebbe lasciato andare Genesis così alla leggera, tanto più sapevo che non mi avrebbe coinvolto nella ricerca. Angeal ha sempre avuto un occhio di riguardo per il suo vecchio amico d’infanzia. Nell’ira, sono arrivato a credere che lui mi vedesse come l’ennesima realizzazione di un capriccio di Genesis piuttosto che come un amico. Spinto da queste sensazioni irrazionali, figlie di elucubrazioni malate e senza alcun tipo di fondamento, realizzai la mia vendetta. La cosa peggiore è che convinsi me stesso che fosse la cosa più logica e razionale da fare. E così, commisi il secondo, crudele errore: indicare il giovane Fair come sostituto per la missione.

Una forte folata di vento ribalta il secchio per le pulizie provocando un frastuono tale da farmi sobbalzare. Osservo l’oggetto rotolare lungo la veranda e giù per le scale, fino al giardino. Lo seguo inerme, impotente. Eppure basterebbe che mi alzassi per fermare la sua corsa. Invece, rimango in disparte a guardarlo correre verso la propria disfatta. Un piccolo secchio bucherellato non ha scelte di sorta se non seguire il corso della tempesta…

Un dolore forte al petto mi strappa un gemito. E’ esattamente ciò che è accaduto a Fair. L’eco dei suoi singhiozzi nella Chiesa dei Bassifondi mi rimbomba ancora nella mente, strappandomi l’aria direttamente dai polmoni. Nemmeno la gentile stretta di Aerith è riuscita a quietarli, anzi li ha amplificati, rendendo il suo dolore ancora più penetrante e schiacciante. Un macigno mi è crollato sulla testa, il quale m’impedisce di dormire, di mangiare, di vivere… Quella croce su quella guancia liscia, giovane, innocente è un colpo al cuore ogni volta che la immagino. Fair era un ragazzino costretto a seguire una terribile serie di tempestosi eventi, dei quali lui non avrebbe mai dovuto esserne al corrente. Ciò che più mi affligge, tuttavia, è la speranza che un tempo animava i suoi occhi blu. Quegli occhi che riflettevano il mondo fittizio e perfetto di Angeal, quegli occhi che sognavano un eroico avvenire, quegli occhi che rilucevano di entusiasmo e buona volontà, quegli occhi che non mi stanco mai di osservare nelle giovani reclute. Occhi che so già che non sarebbero durati a lungo in quel mondo venefico, ma nutrivo forti speranze nel lavoro svolto da Angeal. Forse lui avrebbe creato una generazione di SOLDIER veramente volta al bene.

Nella mia furia cieca, l’ho rovinato, l’ho coinvolto in questo schifo… l’ho costretto ad uccidere il suo stesso mentore. Un crimine orribile, di cui io stesso ne porto ancora i segni sul corpo e nell’anima e a cui non ho mai voluto che nessun’altro ne venisse macchiato. Invece, ne sono stato sia l’artefice che il mandante.

Un duplice ruolo che mi fa sentire così sporco e marcio… un demone irrecuperabile. Un demone contro cui un angelo dall’ala bianca ha cercato di opporsi in ogni modo. Angeal ha sempre voluto fare la cosa giusta, quanto nel bene tanto nel male. E io… io non lo capii. Sordo ad ogni ragione, mi fermai alle apparenze, troppo codardo per scavare più a fondo e scoprire la verità. Quella verità per cui ho messo a soqquadro l’intero archivio della Shinra, quella verità che tormenta il mio sonno, quella verità che mi rende schiavo della paura. Quella verità che, nel profondo nel mio cuore, non voglio accettare nemmeno se ce l’avessi davanti. Non voglio accettare di essermi bevuto quelle menzogne per così tanti anni, di essermi fatto abbindolare da esseri insulsi come Shinra o Hojo. Anche se, ad essere sincero, ciò che non voglio accettare è che Gast mi abbia mentito. L’uomo che più ho rispettato… no, che ho amato come un padre per tutta la mia vita, sia come loro. Non lo posso accettare che anche lui mi abbia preso in giro, sciorinandomi quelle pillole di menzogna solo per rendermi una cavia più malleabile e quieta. Non voglio accettare che anche quel rapporto fosse falso. Non lo sopporterei… Per questo DEVO convincermi di essere diverso dai due banoriani, eliminare dalla mia mente quell’antica illusione circa la nostra somiglianza e dimostrare che tra loro e me c’è un abisso. Poco importa se avessi potuto salvare Genesis donandogli il mio sangue, poco importa se avessi potuto schierarmi al loro fianco, poco importa se avessi potuto proteggerli da loro stessi, poco importa se con loro mi sentivo a casa…

Li ho abbandonati nelle mani di un Fato crudele, di un Pianeta spietato e di un’umanità senza cuore.

E’ una colpa troppo grande da sopportare, ma, se mai abbia avuto un minimo di rispetto per loro, è un fardello che devo portare da solo. DEVO farlo, per loro, per ricordare gli effetti dei miei errori.

Per questo motivo, feci tappa a Modeoheim durante il viaggio per Wutai. Avevo bisogno di vedere quegli effetti con i miei occhi. La città congelata era, contrariamente a quanto mi aspettassi, viva più che mai, a causa delle attività dei Turks e del Reparto scientifico volte a eliminare ogni minima prova della ribellione di SOLDIER, dichiarata da poco cessata, come era accaduto a Banora. Mentre le operazioni avanzavano febbrili nella città, m’infiltrai all’interno della Bath House, la quale era ancora in attesa di essere ispezionata. L’aria gelida delle montagne rendeva l’atmosfera ancora più lugubre di quanto non lo fosse già, complice il silenzio tombale, rotto solamente dall’ululato del vento che s’infilava nelle fessure arrugginite dell’edificio. Difficile immaginare che tra quelle mura si fosse consumato l’ultimo atto di una guerra. Percorsi in riverente silenzio il tragitto che mi portò alla grande stanza circolare in cima alla ciminiera principale. Secondo il rapporto di Fair, Angeal era morto proprio lì. Rimasi ad osservare quel luogo come se fosse sacro, impaurito dall’idea di entrare all’interno e inzozzare quell’intonsa tomba con la mia sudicia presenza. Un candido manto nevoso ricopriva il pavimento, come a nascondere con la sua purezza i segni feroci dello scontro in cui un uomo retto e giusto aveva perso la vita; o a voler nascondere la disperazione di un ragazzo, costretto ad affrontare la persona più vicina ad un padre che abbia mai avuto. Come a voler nascondere le conseguenze della mia codardia. Non ressi all’indulgenza che la natura mi concesse e crollai in ginocchio, disperato. Invocai perdono, mentre il senso di colpa mi schiacciava sempre di più verso la terra. Ricordo che mi dissi che avrei dovuto essere al suo posto. Angeal era un uomo onesto, buono, giusto. Non meritava di morire. Non in quel modo. Così anche Genesis, il quale, nonostante le sue centinaia di difetti, lui voleva fare del bene, così come aveva fatto a Banora. Voleva allargare quel desiderio al mondo e vedeva nella Compagnia il modo per farlo. Peccato che si siano fatti traviare dalla falsa promessa di gloria e onore imperituri sciorinata dalla campagna di reclutamento SOLDIER. E Hollander strappò loro le anime, nel momento stesso in cui entrarono in quel cilindro di contenimento, cancellando col mako la loro innocenza adolescenziale. E i loro propositi. Genesis si fece abbagliare dalla gloria, dal fervente desiderio di prendere il mio posto e Angeal storpiò i suoi preconcetti sull’onore adattandoli allo schifo che affrontava ogni giorno. Avrei dovuto capire che la loro mente provinciale e ingenua non avrebbe mai retto la cruda realtà dei fatti: SOLDIER è una tana di mostri e io ne sono il signore. Per quanto non ami questo appellativo, tuttavia, non posso che sentirmi responsabile per ogni singolo uomo marchiato come SOLDIER.

Con loro, ho fallito.

Non merito di portare quell’uniforme, quei gradi, quel titolo. Non sono nessuno, sono un uomo senza onore, senza identità, senza spina dorsale. Per certi versi non sono nemmeno un essere umano.

Come posso pretendere che la mia famiglia possa camminare a testa alta? Che razza di idea si farà di me mia figlia?

Proprio nel momento in cui la paranoia mi stava risucchiando nel suo nero abisso, un fruscio d’ali attirò la mia attenzione. Il mio sguardo venne accolto dalla figura irremovibile e solenne di una grossa fiera d’argento. Sulla sua spalla sinistra un’enorme, singola ala bianca si inerpicava verso il cielo bianco latte. Nonostante la luce opprimente, l’essere sembrava rilucere di aura splendente. Le neve accarezzava la sua corazza gentilmente, silente, quieta. Tutto di quell’essere suggeriva mitezza e pace, ma la mia proverbiale sfiducia nei confronti di tutto e tutti, mi portò ad ignorare ciò che la mia mente mi suggeriva e lasciare che l’istinto prendesse il sopravvento. La mano della spada corse verso l’elsa della Masamune, però tutto ciò che le mie dita afferrarono fu l’aria. Fu in quel momento che rimembrai gli intenti che mi avevano guidato lì, quel giorno: fare ammenda, o almeno provarci. La belva continuava a fissarmi nella sua statuaria e composta postura e fu solo quando riportai la mia attenzione su di lei che emise uno sbuffo, scuotendo la testa. Le protuberanze dorate che dondolavano alla base delle orecchie similmente a degli orecchini, emisero un lieve tintinnio, quasi impercettibile; eppure, per me, fu come un boato capace di scuotermi da capo a piedi. Mio malgrado, deglutii. Quel gesto così semplice, così… amichevole mi cadde sulle spalle come un macigno e, subito dopo, un lampo di riconoscimento sovrappose l’immagine dell’impassibile essere alato con l’ultima immagine di un vecchio amico.

Angeal…?

Il canale a due vie…

L’esperimento più riuscito di Hollander.

Una creatura capace di trasferire tratti genici su altri, così che possano acquisire caratteristiche totalmente nuove, ma tipiche del soggetto originale.

Project G.

Tutte le informazioni riguardo quest’ultimo esplosero dalla mia memoria, vorticando nella mia testa, incatenandosi l’un l’altra. Compresi il piano di Angeal, del suo voltafaccia finale a scapito di Genesis, della sua determinata intenzione di mettere fine alla sua vita. Ogni sua azione era volta a distruggere il suo corpo e trasformarsi in qualcosa di meno riconoscibile. Ma a che pro? Lo capii nell’istante dopo, quando infranse la sua immobilità e mosse i primi passi nella mia direzione. Con la lunga coda, egli iniziò a tracciare qualcosa sulla neve.

Scrisse una sola parola: ‘Proteggili’.

Quasi mi commosse il suo incrollabile senso del dovere. Nonostante i peccati commessi, la morte delle persone a lui care, gli esperimenti, la follia; lui pensava agli altri. E scelse me per portare avanti le sue intenzioni. Ero l’ultimo rimasto, quello che era riuscito a sfuggire ai velenosi tentacoli di Hollander, quello più forte di tutti.

Angeal lo diceva sempre: “I più forti devono proteggere i più deboli.”

Dopodiché, la fiera si librò nel cielo, seguito da una scia di piume bianche, di cui una la conservo al fine di rimembrarmi dell’obbligo preso.

Temo che tempi duri arriveranno… Questo era solo il preludio, la prova generale. Sento che Genesis non è morto. Almeno, il suo spirito credo aleggi ancora tra il confine tra la vita e la morte. Nel rapporto, infatti, Fair afferma che, prima di lanciarsi nel Lifestream, Genesis ha pronunciato questa frase:

 

If this world seeks my destruction… it goes with me.

[Se questo mondo desidera la mia distruzione… allora verrà con me. Genesis, FFVII:CC]

 

 

Una promessa contenente un minaccioso intento e un ancor più celato significato, a cui solo pochi possono dire di comprenderlo appieno. Se Angeal è stato in grado di ritornare sotto forma di fiera sebbene il suo corpo originale sia andato distrutto, non vedo perché Genesis non possa fare lo stesso. Nei vari rapporti concernenti le Cellule J, ho letto che questo tipo di cellule sono dotate di grandi doti rigenerative. Alcuni ritengono che un individuo dotato di queste particolari strutture, se messo a contatto con sufficiente energia, possa essere in grado di rigenerare totalmente il proprio corpo, a patto che ce ne sia una quantità sufficiente. Questo processo è chiamato ‘Riunione’. Genesis ha creato migliaia di copie di sé e ha totale accesso al Lifestream in quanto parte di esso. Potrebbe davvero essere in grado di ritornare dalla morte…

Ciò mi fa pensare al modo peculiare in cui solevo intendermi con i miei compagni, soprattutto durante le battaglie. I nostri movimenti erano fin troppo coordinati. Era qualcosa di più della semplice abitudine, perché ci è venuto sin da subito. Quasi come se… fossi in grado di leggere le loro menti. Come se tra noi ci fosse una sorta di legame mentale.

No… un legame… cellulare.

Eppure io non sono stato così coinvolto nella crisi come loro. Forse perché provengo da un diverso programma? Ma non ho trovato mai traccia di un progetto parallelo a quello G… almeno non a Midgar. La Shinra ha centinaia di siti di ricerca segreti sparsi per il mondo, tuttavia un luogo papabile a questo fine può essere il luogo dove passai i primi anni della mia infanzia. Sfortunatamente non ricordo la localizzazione, a causa della mia troppo giovane età e per il fatto che girai parecchi laboratori in quegli anni, prima di stabilirmi definitivamente a Midgar. Ricordo, però, che si trattava di una grossa magione tra le montagne. La prossima volta che tornerò in servizio dovrò controllare l’ubicazione di quei siti scientifici, anche se temo che sarà una dura ricerca, dal momento che sono passati quasi trent’anni e potrebbe essere stata dismessa o distrutta. I risultati, comunque, devono essere stati conservati in un qualche modo, perché Hojo è troppo geloso del suo lavoro per gettarlo nei rifiuti, soprattutto la parte che mi concerne. No, quella magione con il suo esplosivo contenuto deve essere ancora nascosta lassù, tra la neve e il ghiaccio. E questa volta sono determinato ad andare fino in fondo. Devo capire per che cosa sono morti i miei amici e che cosa la Shinra cerca d’infangare a tutti i costi. Devo conoscere il mio nemico se voglio mantenere fede al mio giuramento. E quel nemico è il folle desiderio di dominio, tanto da trasformare uomini in mostri creati per un solo scopo: distruggere. Dentro di noi è stato impiantato qualcosa di più velenoso del mako stesso, qualcosa che ci rende uniti e che non ci permette di perderci definitivamente nel Flusso Vitale.

Mi sovviene il sogno che mi perseguita negli ultimi tempi. Che accade ad un corpo vivo se immerso nel Lifestream? Muore per davvero? O la sua coscienza continua a vivere in esso, trasformandosi in qualcos’altro? Che quel sogno non sia solo opera della mia paranoia, ma una vera e propria visione del futuro? Talvolta Aerith è in grado di conoscere l’esito di eventi che devono ancora succedersi, semplicemente ascoltando le voci dall’aldilà, ma è un evento abbastanza raro. Che anch’io abbia questa capacità? Ho sempre avuto la terribile sensazione che quegli incubi non siano semplici prodotti del mio inconscio, ma veri e propri messaggi dal futuro. Le sensazioni sono così reali, così tangibili da perpetrare anche nello stato cosciente. E non svaniscono nell’oblio, come se la mia mente effettivamente registrasse e ascoltasse quei messaggi. Ricordo, infatti, ogni benché minimo dettaglio, anche se ogni volta scopro particolari sempre diversi, poiché la loro nitidezza si fa sempre più chiara ogni qualvolta che mi si ripropongono. Che sia una sorta di comunicazione? Ma CHI sarebbe il mittente di questi messaggi? Il Lifestream?

O qualcun altro?

La chiave di questo enigma sono queste fantomatiche Cellule J. E’ chiaro che siano loro a rendere questa ‘Riunione’ possibile e a donare ai soggetti sottoposti ad esso abilità superiori a qualunque SOLDIER, ma da dove provengono? Come sono state create?

Non vi sono rapporti in letteratura riguardanti la loro scoperta o caratteristiche dettagliate, si sa soltanto che sono state usate, come se non fosse necessario spiegarlo.

Come se tutti lo sapessero…

Odio tutto questo mistero, il quale non fa altro che aumentare la mia angoscia riguardo le mie origini.

Cosa mi hanno fatto?

Cosa scorre nelle mie vene?

 

Cosa sono io?

 

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Scrive. Da ore, credo. Al freddo, sotto a questa terribile pioggia. E’ totalmente zuppo d’acqua, eppure continua a scrivere. A scrivere e pensare. Pensieri tristi, pensieri orribili. E domande, domande a non finire che lo intrappolano in un abisso di angoscia. Vuole sapere, ma non è ancora il suo momento. Prego non arrivi mai. Ma lui lo vede, il suo futuro. Il terribile fato a cui il Pianeta lo ha destinato, lui lo vede ogni notte. Non capisce cosa sia, solo perché non lo ha ancora accettato. Lui non me ne parla, ma ogni notte sogno con lui le stesse cose. Non se ne rende conto, rapito com’è dall’incubo, ma io gli sono accanto tutto il tempo. Lo stringo e piango. Lui si agita e lo stringo ancora più forte. Inizio a cantare. Intono quella canzone che ama, quella che canto anche a nostra figlia per farla addormentare. A quel punto le visioni scemano, ma solo per qualche ora, il tempo di riposare e poi non riesce più a dormire. Spesso rimane a letto con me a guardarmi fino a che la notte volge in giorno; oppure, se sono sveglia, facciamo l’amore. In quei momenti, la mia ansia conosce requie, vedendolo così sereno e conscia che Jenova lo sta lasciando in pace. Ma poi ci sono nottate come queste, dove nemmeno una tempesta è in grado di richiamarlo al mio fianco. Così vicino, eppure così lontano. Jenova lo tiene in pugno. Devo stare attenta. Lei è una suocera molto possessiva.

Mi avvicino con discrezione e lui chiude il diario di colpo, appena avverte i miei passi. Mi fermo. Meglio non andare oltre. Mi accomodo sul posto in cui sono, a qualche passo da lui. Avverto il suo sguardo studiarmi. Io aspetto. E’ una sorta di Guerra Fredda, bisogna essere cauti.

- Fa freddo qui. Meglio che rientri. –, asserisce lui.

“Come te.”, penso, ma lo tengo per me. E’ irritato. Si irrita sempre quando interrompo il filo dei suoi pensieri.

- Non riesco a dormire nemmeno io. Vuoi bere qualcosa con me? –, domando con deferenza.

Sfodero l’espressione più innocente che posso, ignorando il suo sguardo di ghiaccio. E’ palesemente sull’attenti e ciò mi fa infuriare. Perché mi allontani nel momento del bisogno?

- Ho comprato il saké. –, aggiungo.

Un bagliore malizioso spazza via il gelo nel suo sguardo. Colpisco nel segno. Sebbene non sia un gran bevitore, so che l’alcol è l’unico antidoto contro la sua troppo fervida mente. Lo aiuta a rallentarla.

Rientriamo. L’atmosfera è ancora un po’ tesa, ma almeno siamo all’asciutto. Mi dirigo verso la cucina, mentre lui si spoglia dei suoi vestiti inzuppati. Quando ritorno, è di nuovo immerso nelle sue elucubrazioni, vestito soltanto di una coperta e un pantalone bagnato. Non che se ne renda conto. Lo raggiungo, e, interponendo il vassoio tra noi, riempio un bicchiere per ciascuno per poi porgli il suo.

Senza dire una parola, ingolla il suo sorso con un movimento fluido.

- Kampai, comunque. -, rimbecco un po’ piccata.

Lui m’ignora e mi porge il bicchiere, con un gesto automatico. Ancora. La scena si ripete per qualche altro silenzioso giro. Non è un sakè particolarmente forte, ma comunque fa il suo dovere.

- Scusa per prima. E’ che… è un periodaccio. –, esordisce, passandosi la mano tra i capelli, senza, tuttavia, rivolgermi lo sguardo.

- Sono tua moglie. I “periodacci” di mio marito sono anche i miei. –, spiego io paziente, cercando un contatto visivo, invano.

Si è aperto un piccolo spiraglio, per cui decido per un approccio più diretto: mi posiziono alle sue spalle e poso le mie mani sui suoi trapezi. Dolcemente, inizio a massaggiarglieli, senza dimenticare la base del collo e la cervicale. Avverto i suoi muscoli tesissimi sciogliersi sotto il calore delle mie dita e capisco che posso osare ancora di più. Dal collo, scendo lungo i pettorali, accarezzando la pelle gelida e ancora umida. Lo abbraccio, facendo aderire il mio corpo alla sua schiena, mentre la mia testa affonda nell’incavo della sua spalla. Baci delicati accarezzano il lato del collo e la linea della mascella. Nonostante le premure, sembra che nessuna reazione sia in procinto di scatenarsi, poiché continua ad osservare il nulla con espressione totalmente assente. Bisogna avere pazienza.

- Angeal e Genesis sono… morti… -

Quella frase inaspettata, portatrice di una terribile notizia, proferita con una neutralità agghiacciante, stronca ogni mia effusione. Con gli occhi grandi dallo stupore alzo lo sguardo verso di lui. Ancora mi ignora.

- Mi dispiace… -, enuncio con un filo di voce, cercando di mascherare la profonda pena e dispiacere nati nel mio cuore.

Lui annuisce automaticamente, senza forze. Lo stringo con più enfasi, strofinando la mia fronte contro la sua guancia, in una sorta di carezza.

- Mi dispiace veramente tanto, amore mio. –

Gli inizio a dare piccoli baci sul lato del collo, sulla guancia, sulla tempia, mentre gli accarezzo i capelli, il viso. Continua combattere caparbiamente contro le mie effusioni, ignorandole con tutte le sue forze, ma poi mi accorgo del respiro pesante ed affannato, dell’espressione corrucciata, delle palpebre chiuse saldamente… Non vuole piangere. Sta usando la freddezza per celare il dolore. No, amore mio, non devi. Non con me.

- Va tutto bene, amore mio. Ci sono io qui con te. –

Quelle parole sussurrate all’orecchio danno l’effetto sperato. Finalmente, riesce a guardarmi. E appena posa il suo sguardo sul mio viso, lacrime amare iniziano a scorrere lungo le sue guance. Appena ciò accade, lui subito si volta verso di me, stringendomi con una disperazione tale da togliermi quasi il respiro; per poi affondare il suo viso nel suo rifugio sicuro. Prorompe in un pianto pieno di amarezza e rimpianto, mentre le sue dita stringono la stoffa del mio kimono fino allo stremo. Gli accarezzo la nuca con gesti dolci e gentili, baciandogli il collo di tanto in tanto. La stretta delle sue falangi si fa sempre più disperata e vigorosa, come se avesse paura che, da un momento all’altro, potrei sfumare nell’aria senza lasciare più alcuna traccia. Le sue labbra sfiorano il mio collo, il suo naso accarezza la mia guancia, le sue mani mi spingono contro il suo corpo: ogni azione è dotata di una esasperazione tale tanto da farmi pensare che sia l’ultima possibilità che ha di poter godere della mia presenza.

Come se mi stesse per perdere.

- Cosa c’è, Sephiroth? –

Per un lungo istante, lui sembra ignorare la domanda, continuando con le sue dolci effusioni; ma poi, esce dal suo rifugio, senza, tuttavia, sciogliere il suo stretto abbraccio. Mi fissa per un lungo istante con uno sguardo capace di pugnalarmi direttamente al cuore, tanto esso è afflitto. Le lacrime continuano a scendere copiose da quei laghi di giada.

Apre la bocca due, tre volte, ma non riesce a proferire alcun suono, tanto la sua disperazione gli offusca la mente e gli stringe il cuore. Per incoraggiarlo, gli poso la mano sulla guancia e gli regalo un dolce sorriso. Le sue iridi s’illuminano di una luce spaventata e un gemito sfugge dalle sue labbra. Si allontana come se fosse stato scottato e fa per andarsene. Rimango interdetta, stupita e affranta da quanto in fretta egli mi sia sfuggito dalle mani.

- Ti prego, no… non tagliarmi fuori… -, imploro, scattando in piedi, appena lo vedo inforcare l’uscio.

La voce è uscita rotta e stridula, segno di una profonda ferita inferta dritta al cuore. Ti prego, Sephiroth, apri il tuo cuore…

Lui scuote la testa, greve, poi la volge appena al di sopra della sua spalla, tuttavia senza avere l’ardire di alzarla abbastanza da permettere ai suoi occhi d’incrociare i miei. Non osa farlo.

- Non posso… -

Muovo un passo.

- Sephiroth…-, un altro, - io sono qui…-, un altro ancora, - proprio qui. – e un terzo passo.

I suoi pugni si serrano e avverto le ossa scrocchiare dallo sforzo. Ogni suo muscolo teso, intento a sovrastare quello che credo essere un ennesimo attacco d’ira. Ignoro i segnali dall’allarme e muovo l’ultimo passo, il quale mi permette di allungare il braccio e finalmente toccarlo. Tuttavia, prima che ciò avvenga, egli si volta di scatto. La sua espressione, contrariamente alle aspettative, è rotta dal dolore. Un dolore sconfinato, struggente, disumano.

- Per quanto ancora? –

Quella disperazione prorompe in tutta la sua pienezza attraverso quell’unica, angosciante, domanda. Sento il mio cuore subire un singulto e, istintivamente, ritraggo la mano per poggiarla sul petto. Lui mi guarda, il viso d’angelo rigate da lacrime amare, ebbro di terrore, perduto e totalmente spogliato di qualunque corazza.

- Se perdo anche te… tanto vale scomparire nel Lifestream. –

Un’altra stilettata al cuore mi spezza il respiro, alla sola menzione alla sua dipartita. Non lo merita, Eveth, non lo merita tutto questo. Perché? Che colpa ne ha lui?

- Ogni cosa che creo è destinata a venire distrutta. Ogni cosa. –, la sua voce è ridotta a un soffio sottile.

Come a sottolineare il concetto, il suo sguardo va appuntarsi su un punto preciso alle mie spalle. La nostra camera da letto. Dove, in questo momento, Takara sta riposando.

Una scossa di terrore, ribrezzo e furia mi attraversa il corpo, rinvigorendomi di una terribile determinazione, la quale mi dona lo slancio per coprire l’ultima distanza tra noi.

- No! Non lo permetterò. -, esclamo, afferrando con forza il viso di Sephiroth, costringendolo a guardarmi dritto negli occhi, - Non permetterò a nessuno di fare del male né a te, né a Takara. Dovesse essere anche il Pianeta stesso. –

Affondo le mia dita nel suo viso, avvicinandolo con più foga al mio. I suoi occhi sono spalancati dallo stupore e dalla meraviglia. Non credo si aspettasse una tale reazione da parte mia.

- Non si può combattere un intero Pianeta, Eve… -, puntualizza, sebbene ci sia una punta d’incertezza nella sua voce.

Io sorrido malevola e lo guardo con tenerezza, quasi a sottolineare la sua adorabile ingenuità.

- Insieme, mio dolce Generale… possiamo. –, sussurro con dolcezza.

Le sue iridi risplendono di fierezza e ammirazione, oltre aver ritrovato la speranza. Non resisto e lo bacio con foga, costringendo le sue labbra sulle mie. Avverto i lati della sua bocca alzarsi verso l’alto e ciò non fa altro che eccitarmi ancora di più.

Tuttavia…

Mi stacco da Sephiroth e mi giro verso di te…

Maliziosa e malevola ti osservo.

-Piaciuto lo spettacolo… Cloud?

 

 

Mi sveglio di soprassalto, scattando seduto. Il sogno si perde in un tunnel di oblio, mentre la sensazione di essere spinto via dalla mia stessa mente mi riporta alla realtà. L’unica cosa rimasta impressa sono gli occhi di fuoco di quella donna, capaci di insinuarmi il disagio direttamente nelle ossa e molto più in profondità di quanto possa mai fare suo marito in mille vite.

Tutto preso dalle immagini della visione non mi rendo conto di una presenza accanto al mio letto, se non troppo tardi; cioè quando una mano guantata mi si appone sulla bocca e il naso, impedendomi respirare. Vengo di nuovo spinto supino e la pressione della mano sulle mie vie respiratorie si fa più forte. Totalmente nel panico, cerco di lottare, dimenandomi, ma le mie esigue forze non sono in grado di vincere quella forza sovrumana. A causa di ciò, la mia riserva di ossigeno finisce ben presto, così come i miei tentativi di liberarmi. Mentre l’incoscienza inizia a prendere il sopravvento, uso gli ultimi brandelli di razionalità per carpire l’identità del mio assassino.

 

Occhi blu… bagliore mako… capelli rossi

 

- Even if the morrow is barren of promises, nothing shall forestall my return. [Anche se il domani è arido di promesse, niente impedirà il mio ritorno. LOVELESS, Act V] –

 

Gen…e…sis?

 

 

Salve a tutti popolo di EFP! Dopo quasi un anno di assenza finalmente ritorno con un succulente capitolo tutto nuovo. Chiedo umilmente scusa per questa infinita attesa, ma dopo l’esperienza non esattamente andata a buon fine ho attraversato un periodo di crisi nera in cui non avevo la più pallida di che fare nella mia vita. Ora le cose sembrano andare meglio e, infatti, sono in Australia! Il sogno di una vita si è realizzato, permettendomi di raggiungere una sorta di pace interiore.

Riguardo la storia, come avevo già preventivato nel capitolo scorso ormai manca poco alla fine di questa fic, quindi preparatevi che i prossimi capitoli saranno caldissimi. Già il finale di questo è particolarmente d’impatto e l’entrata in scena così repentina del nostro gingerino preferito non preannuncia niente di buono. O forse sì? Spero di pubblicare il prossimo capitolo con una tempistica più umana, ma in teoria ora come ora non dovrebbe essere difficile, dal momento che sono finalmente arrivata dove non vedevo l’ora di arrivare!

Bene, concludo augurando a tutti un buon 2018 e ci si sente alla prossima!

Besos

   
 
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