Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: FRAMAR    06/01/2018    29 recensioni
La caposala Sebastiana e l'infermiera accompagnarono Annina fino all'uscita dell'ospedale dove c'era Matteo che l'aspettava. La sostennero perché sveniva
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Miracolo di Natale



 
Laggiù c’è una grande città. Un largo fiume l’attraversa tagliato da giganteschi ponti. Alti palazzi moderni e piccole case di cento anni fa si addossavano gli uni alle altre. Più alta di tutte la torre in alluminio, più bianchi e geometrici i padiglioni dell’ospedale nuovo. Da quell’ospedale  durante una giornata di dicembre come le altre, uscì una donna. Uscì dal reparto femminile neurodeliri, il padiglione dove vengono ricoverate le abitante della città, della grande città, che hanno tentato di uccidersi.

Annina, mi chiamavo, e non avrei dovuto uscire quel giorno, ma l’indomani. Benché fossi completamente rimessa, ero vegliata notte e giorno da un’infermiera che non mi lasciava mai sola. Avevo tentato di uccidermi perché aspettavo un bambino.

Avevo tentato di uccidermi ancora, lì nell’ospedale, buttandomi dalla finestra, ma mi avevano presa in tempo. Anche la prima volta mi ero buttata, ma dal più alto dei quindici ponti, nel fiume che attraversava la grande città. Io allora avrei dovuto morire, ma la scienza moderna riuscì a salvarmi.

Non potei salvare però il bambino. Io dissi alla caposala Sebastiana che il mio ex fidanzato Matteo era bello, era ricco, era buono e mi voleva bene, ma io ero pazza e dovevano lasciarmi morire, pazza perché  mi ero stancata di tutte le cose buone e  che avevo tradito Matteo con un  cugino Pierino, che mi aveva  sempre fatto la corte da quando ero ragazzina, e il bambino che aspettavo era di Pierino, ma lui aveva soltanto giocato con me, un gioco come quando eravamo bambini, e mi aveva detto che non sapeva cosa farsene di me e di tornare dal mio perfetto e ricco fidanzato di prima. Invece io avevo voluto morire perché adesso amavo davvero Matteo.

Salvata e tornata alla vita, avevo subito un momento di speranza,  quando Matteo era venuto a trovarmi lì all’ospedale e io gli avevo confessato tutto.

Matteo si era coperto il viso con le mani poi se ne era andato senza dirmi nulla. Allora lì, nella stessa stanzetta d’ospedale, avevo tentato di uccidermi un’altra volta ma la caposala Sebastiana arrivò in tempo a trattenermi mentre stavo per buttarmi dalla finestra.

«Non potrete tenermi sempre qui», avevo detto alla caposala, l’espressione da esaltata ma la voce calma. «Appena esco da qui vado a buttarmi sotto il treno. Questa volta non mi potrete più salvare.»

Due infermiere si davano il turno per sorvegliarmi, mi avevano tolto ogni oggetto  tagliente, perfino le mollette per i capelli.

Sorridevo: «Siete molto buffi» dicevo a Sebastiana: «Magari in questa stessa città c’è qualcuno che muore di fame e non trova nessuno che lo aiuti e io che voglio morire state qui a imbottirmi di risotto e dolci». La caposala Sebastiana si rattristava molto a vedermi sorridere in quel modo.

Il medico mi aveva già dimessa da una settimana, ma la caposala lo aveva implorato «Non si può mandarla via, dottore. Quella appena fuori di qui si butta».

Il medico seccato aveva concesso una settimana di proroga e scadeva quel giorno.

Dovevo uscire domani, non mi potevano tenermi più lì. Il medico aveva detto che quando uno ha proprio tanta voglia di ammazzarsi faccia pure, che al mondo siamo già troppi.
Sebastiana mi parlò quasi con le lacrime agli occhi, lei non piangeva mai. Mi dette l’indirizzo della sua famiglia, mi avrebbero tenuta con loro.


Fredda, insensibile, chiusa nella mia torbida amarezza, le avevo detto: «Senta caposala, se proprio non vuole che mi ammazzi mi ridia  tutto quello che avevo prima: il fidanzato ricco e quello che mi aveva dato, la mia automobile, il mio appartamento…». Esitai un momento, ero pallida, parlai con gli occhi bassi e la voce scura: «E mi ridia il mio bambino, perché non posso vivere al pensiero che l’ho ammazzato. Le altre sono uscite serene ma avevano il bambino, che scopo ho di vivere adesso, sono sola e sono tornata povera.

La mattina dopo dovevo uscire. Quasi ogni ora passava un treno e l’infermiera che mi sorvegliava mi vedeva tendere l’orecchio e fissare oltre la finestra.

L’infermiera disse alla caposala: «Ho proprio paura che domani ce la riportano  a pezzi dopo averla levata dalle ruote del treno. Che stupida, è anche così bella, deve essere matta».

Poco dopo le sette Sebastiana entrò nella cameretta, «Hai una visita, ti aspettano in sala».

«Chi è?», chiesi brusca. Non avevo nessuno io.

«Non lo so» disse la caposala, «hanno telefonato dalla portineria».

Mi misi la vestaglia e scesi al pianterreno: la saletta delle visite era deserta: su una lunghissima lucida panca c’era solo Matteo che mi venne incontro appena mi vide entrare.

Poi si fermò timido e irresoluto come era sempre. «Stai meglio?», mi chiese dopo un penoso silenzio.


«Si, sto bene», risposi freddamente. Davanti a lui mi vergognavo troppo. Lo avevo disprezzato, lo avevo tradito e poi mi ero accorta di volergli bene. Avrei preferito non vederlo mai più.

«Annina» egli mormorò, «ho passato dei giorni terribili. E’ venuta la caposala a trovarmi: mi ha detto che tu appena esci da qui…»

Mi avvicinai alla panca, gli occhi improvvisamente pieni di lacrime. «No, non è vero», balbettai fra i singhiozzi, «non devi pensarci… non lo farò».

«Sono venuto a prenderti, Annina, vuoi tornare con me? Fra poco è Natale fammi questo regalo, passiamolo insieme».

Con tutto quello che gli avevo fatto, lui si preoccupava di me.

«Non ti preoccupare Matteo… sono cose che si dicono…»

Sorrisi asciugandomi gli occhi con la manica della vestaglia.

«Non è solo questo, Annina», disse faticosamente. «Io ti voglio anche bene».

Qualcuno mi voleva ancora bene, anche gente che non avevo mai conosciuto prima come la caposala Sebastiana. Non si può voler morire quando qualcuno ci vuole bene.

 
Alle otto di sera la caposala Sebastiana cancellò dal suo registro il nome mio. Il numero quattro avrebbe dovuto uscire il giorno dopo, ma invece me ne andai  la sera prima, la vigilia di Natale, avrei passato il Natale a casa insieme a Matteo. La caposala Sebastiana  e l’infermiera mi accompagnarono fino all’uscita dell’ospedale dove c’era Matteo che m’aspettava in auto. Mi sostennero perché singhiozzavo senza lacrime.

«Annina, non farti vedere così da lui», disse la caposala Sebastiana, «hai una nuova vita».

«Non la merito», dissi.

«Te la saprai guadagnare».

«E’ stato un miracolo», disse l’infermiera guardando con invidia Matteo che mi faceva salire nella sua macchina. Sebastiana non credeva che il signore si scomodasse a fare  miracoli per così poco: soltanto era sicura che la vita era sempre migliore di quello che le gente pensa.

 
 

   
 
Leggi le 29 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: FRAMAR