The best of Youth.
Prologo
Prologo
1993
Buio.
Sentì l'umido gelo della pietra sotto il suo palmo.
Da quanto dormiva? Non riusciva a ricordare.
Si avvicinò verso un lato del rettangolo che lo teneva prigioniero da ormai dodici anni.
Dodici. Si sorprese di esser riuscito a contare così tanti giorni, settimane, mesi.
Si chiese perchè non fosse impazzito prima. Si rispose: e pensò che sarebbe stata meglio la pazzia, piuttosto che continuare a martellare il suo cervello col motivo per cui era lasciato a marcire nell'antiporta dell'inferno, per non cadere loro preda.
Tastò il pavimento lurido con entrambe le mani, e le sue dita si trovarono infilate nella minestra di ossa, ormai fredda: l'ora del pasto era passata da ore.
Si ritirò nell'angolo da cui si era risvegliato, appoggiando la testa sul muro.
Loro sarebbero tornati, di lì a poco. Concentrandosi, avrebbe già potuto sentire l'aria putrida del corridoio raggelare. Rabbrividì.
Si chiese perché, da un po' a questa parte, loro avessero smesso di fargli visita spesso come prima: forse stava davvero impazzendo. E se così fosse stato, lui non era più di loro gradimento.
Si chiese cosa fosse peggio: non riuscì a trovare una risposta, questa volta.
Luce.
Era fioca, quasi impercettibile: ma c'era.
Forse aveva dormito ancora. Loro non erano ancora arrivati: il freddo e lo sgomento lo avrebbero svegliato.
La luce era flebile, impalpabile. Aleggiava bluastra a mezz'aria, e prese forma nell'angolo opposto a quello in cui era coricato. Si allungò sul muro e assunse sembianze umane.
Nella cella era scivolata una figura femminile, tenue ed evanescente. Aveva un volto familiare: i lunghi capelli lisci le ricadevano sulle spalle, e i grandi occhi scuri gli sorridevano, nonostante le labbra sottili fossero serrate in un'espressione incolore.
Sirius Black non si chiese se fosse un'allucinazione, o un vero fantasma.
Semplicemente, nell'oscurità di quella cella, sorrise.
Si avvicinò verso un lato del rettangolo che lo teneva prigioniero da ormai dodici anni.
Dodici. Si sorprese di esser riuscito a contare così tanti giorni, settimane, mesi.
Si chiese perchè non fosse impazzito prima. Si rispose: e pensò che sarebbe stata meglio la pazzia, piuttosto che continuare a martellare il suo cervello col motivo per cui era lasciato a marcire nell'antiporta dell'inferno, per non cadere loro preda.
Tastò il pavimento lurido con entrambe le mani, e le sue dita si trovarono infilate nella minestra di ossa, ormai fredda: l'ora del pasto era passata da ore.
Si ritirò nell'angolo da cui si era risvegliato, appoggiando la testa sul muro.
Loro sarebbero tornati, di lì a poco. Concentrandosi, avrebbe già potuto sentire l'aria putrida del corridoio raggelare. Rabbrividì.
Si chiese perché, da un po' a questa parte, loro avessero smesso di fargli visita spesso come prima: forse stava davvero impazzendo. E se così fosse stato, lui non era più di loro gradimento.
Si chiese cosa fosse peggio: non riuscì a trovare una risposta, questa volta.
Luce.
Era fioca, quasi impercettibile: ma c'era.
Forse aveva dormito ancora. Loro non erano ancora arrivati: il freddo e lo sgomento lo avrebbero svegliato.
La luce era flebile, impalpabile. Aleggiava bluastra a mezz'aria, e prese forma nell'angolo opposto a quello in cui era coricato. Si allungò sul muro e assunse sembianze umane.
Nella cella era scivolata una figura femminile, tenue ed evanescente. Aveva un volto familiare: i lunghi capelli lisci le ricadevano sulle spalle, e i grandi occhi scuri gli sorridevano, nonostante le labbra sottili fossero serrate in un'espressione incolore.
Sirius Black non si chiese se fosse un'allucinazione, o un vero fantasma.
Semplicemente, nell'oscurità di quella cella, sorrise.
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