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Autore: Sacchan_    07/01/2018    5 recensioni
Una serie di oneshot collegate tra loro e basate unicamente sulla canzone ECHO di CrusherP feat Gumi.
1) Che diavolo sta succedendo? Puoi dirmelo, per favore? [Echo by MafuMafu&Nqrse] [Len/Yuuma]
Partecipante e terza classificata al contest "Oltre i nostri limiti" indetto da Akimi sul forum di EFP
2) Riflesso nello specchio, qualcuno che non sono io. [Echo by Mes] [Yuuma/Kiyoteru]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nickname partecipante: _Flowermoon_ / -Sacchan-
Titolo: Che diavolo sta succendendo? Puoi dirmelo, per favore?
Genere: Introspettivo, Psicologico
Fandom + Pairing:  Vocaloid / Len Kagamine + VY2 Yuuma (no pairing)
Note: Ispirata alla ECHO, canzone originariamente di Gumi, qui ripresa nella cover fatta dagli utaite MafuMafu e Nqrse. 
ATTENZIONE: la fan fiction tratta del problema della depressione al punto da avere pensieri suicidi, se sensibili a tale tematica maneggiare con cura. 

Introduzione: a causa del suo problema Len è costretto a frequentare il Centro di Psicoterapia Cognitiva del suo ospedale. Abituato ad essere sempre da solo nella sala d'attesa, un giorno non sarà così.

Scritta per il "Plus Contest - Oltre i nostri limiti" indetto da Akimi-chan sul forum di EFP.








SONO BIANCO? SONO NERO? NO, QUALCOSA NON VA...








Ci vogliono esattamente quaranta minuti per raggiungere il Centro di Psicoterapia Cognitiva dell'ospedale cittadino: dieci minuti a piedi per il tragitto casa - fermata dell'autobus; venti minuti in autobus, sulle corsie preferenziali del centro, e infine altri dieci minuti a piedi per percorrere il viale che, dalla fermata, accede all'ospedale della città. 
Si tratta di un percorso statico, che ormai Len pratica una volta a settimana. 
Quando ha iniziato non lo ricorda, sa solo che è passato un mese, o forse poco più. 
No, non ne è sicuro... Sarebbe meglio dire qualche settimana.
Inizialmente si trattava solamente di un senso di inadeguatezza verso le situazioni in generale come, ad esempio, non essere in grado di portare a termine un compito assegnatogli, anche il più facile.
Poi erano iniziati lievi attacchi di panico, soprattutto in ambienti troppo affollati.
Len aveva attribuito la colpa allo stress dovuto agli esami per entrare all'università, ma le crisi si susseguivano anche di notte, costringendo a svegliare persino sua sorella.
In tutto questo si era aggiunta la perdita dell'appetito e un calo del peso fulmineo ristabilito solo grazie al parere di un esperto nutrizionista.
Len non ci aveva dato troppo pensiero: sebbene era conscio di qualcosa che non andasse continuava a pensare che era solo un periodo no e che presto o tardi sarebbe passato da sé.
Trascurandosi capì di aver toccato il fondo quando i suoi amici gli fecero notare che c'era decisamente qualcosa di anormale in lui: era capace di passare intere giornate chiuso in camera, senza curarsi del suo aspetto o della propria igiene personale, a giorni dove era il primo a organizzare uscite, a fare cose, a proporre cosa fare per le settimane successive o addirittura per il mese dopo.
Il che, in un contesto normale, non avrebbe destato nemmeno preoccupazione se non fosse stato che Len proponeva, sì, ma irrimediabilmente non concludeva mai nulla.
E allora tornava a chiudersi a chiave in camera, davanti a un computer, isolato dal resto del mondo grazie a delle cuffie.
Allora sì che erano iniziati i perché.
Meno male che la smossa principale gliela diede proprio sua sorella con una semplice domanda:
"Come ti senti?"
Bene, avrebbe voluto risponderle Len; invece la risposta fece scappare Rin dalla sua stanza a gambe levate, gridando il nome della mamma.
Mi sento come il pezzo di una scacchiera: a volte sono nero e a volte sono bianco.
Sì, così era iniziato tutto: da sentirsi incapace di riuscire, ai problemi fisici, per poi vivere nell'ansia interiore e perenne.
Sprofondando a sedere in una delle seggioline della sala d'attesa Len si tappa le orecchie: è convinto che quegli echi siano tornati a farsi sentire, forandogli la mente peggio di un martello pneumatico. 
In più il senso di nausea, che lo accompagna ogni volta che esce di casa, diventa sempre più accentuato non appena mette piede dentro l'ospedale. Per sopprimerlo Len è persino costretto a tenersi la pancia con un braccio, nella speranza di cancellare i conati di vomito. 
Che diavolo sta succedendo? Qualcuno me lo può dire, per favore?
Lo schermo dello smartphone, che vibra all improvviso, lo riporta alla realtà: è un messaggio da parte di sua sorella, che gli chiede se è arrivato.
Len non può fare a meno di chiedersi quando mai lo avrebbe appoggiato sulla sedia accanto dato che non lo ricorda; allunga persino la mano per poter rispondere, ma qualcuno è più veloce di lui: lo afferra e lo sottrae alla sua vista, prendendolo così tanto alla sprovvista da fargli scappare un singulto spaventato. 
Ora, davanti a lui, c'è un completo estraneo e nemmeno se ne è accorto.
Il giovane, perché tanto vecchio non è, scruta lo smartphone assottigliando gli occhi color ambra. Solo dopo aver sbattuto le palpebre più volte sposta la sua attenzione verso Len, ancora interdetto.
"L'ultimo modello di IPhone? Devi avere un paparino davvero ricco tu."
Len non sa nemmeno cosa rispondere che lo sconosciuto si permette di accendere lo schermo del dispositivo schiacciandone il tasto laterale, come fosse di sua proprietà.
"Hey, Siri. Tell me how to get outta here, I'm sick."
Len, sempre più confuso, apre appena la bocca osservando il suo interlocutore: i capelli, tinti di un rosa pallido e tagliati a caschetto, sono nascosti da una cuffia nera, la quale nasconde a sua volta delle giganti cuffie - stereo sempre di color nero, il cui filo si perde sotto la felpa verde militare allacciata solo fino a metà petto. 
Dagli auricolari è persino udibile la provenienza di un leggero suono ovattato; probabilmente da qualche parte, nascosto in una tasca interna, vi è un IPod da cui proviene quella musica che è appena percettibile nell'aria, irriconoscibile per quanto il volume è basso. Il viso, più pronunciato e ossuto rispetto a quello di Len, lascia intendere che sia di qualche anno più grande di età.
"Avevi l'aria di chi se lo stesse chiedendo: fatemi uscire da qui, sono malato." Obbietta lo sconosciuto piegandosi sulle ginocchia e restituendo a Len il suo IPhone, che, mentre lo riprende in mano, lascia lampeggiare la scritta I don't understand your question sullo schermo.
"Non sono malato." Replica Len, mettendo al sicuro il cellulare dentro la tasca della felpa. 
"Non è quello che dicono tutti i malati?" Cita quel ragazzo davanti a lui, mostrando i denti bianchissimi.
Incurvando le spalle Len si lascia scappare un sospiro di disagio; spera che, in quel modo, lo sconosciuto decida di andarsene, lasciandolo solo con i suoi pensieri e il suo mal di pancia.
Diamine, quella sala d'attesa, a quell'ora, è sempre così vuota e desolata. Perché non dovrebbe esserlo anche quel giorno? Len riesce a sopportarla proprio per il fatto che nessun sguardo indiscreto si posa su di lui ricordandogli quanto è patetico al mondo intero. 
Tuttavia, a giudicare dal modo in cui lo vede allargare le braccia e indicare l'ambiente circostante, tutto lascia intendere il contrario: quel ragazzo di andarsene proprio non ne ha l'intenzione, anzi sembra disposto a rimanere e a chiacchierare. 
Len lo fissa stringendo i denti.
"Beh, come ti sembra? Questo corridoio, intendo. Come lo descriveresti? Con che colori?" 
Len lascia vagare i suoi occhi azzurri da destra a sinistra alla ricerca di un colore con cui potrebbe descrivere quello spazio. 
Bianco è la prima cosa che gli viene in mente: bianche sono le pareti, spoglie e vuote se non di qualche manifesto sanitario; bianco è il pavimento di marmo, le cui mattonelle si susseguono regolari, separate solo dalle righe nere e quadrate. Sopra di lui i led emettono una luce chiara e abbagliante, sempre bianca.
"Sterile... E accecante." Lentamente sposta una ciocca di capelli biondi, caduta vicino agli occhi, tirandola di lato. "Tutto questo bianco mi stordisce."
Lo sconosciuto si allontana di qualche passo e volge il viso di lato, verso la finestra in fondo al corridoio.
"Che strano... Io avrei notato anche il blu del cielo e il grigio delle nuvole, le porte gialle degli ambulatori e il verde delle piante." Conclude con un sorriso, inclinando il volto di lato.
Blu, grigio, giallo e verde... Len non li ha notati nemmeno per un momento e la cosa improvvisamente gli fa paura.
"Perché?" Deglutisce Len a occhi sbarrati.
"Uh?" Risponde sorpreso il ragazzo più grande inclinando le sopracciglia rosa verso l'alto.
"Perché non riesco a vedere tutti i colori che te distingui?"
Len lo vede restituirgli uno sguardo deciso e convinto prima che quello strambo ragazzo, vestito in modo così tecno, sprofondi a sedere accanto a lui allungando le gambe e stiracchiando le punte dei piedi.
"Perché sei malato, ovvio." Conclude secco e sempre col sorriso dipinto sulle labbra.
Questa cosa deve divertirlo parecchio, pensa Len, sennò non si spiega il perché quel ragazzo gli sta rivolgendo parola con fare tanto disinvolto. 
Forse lo fa solo per prenderlo in giro; sì, probabilmente la sua pietosa condizione è fonte del suo divertimento e la sta sfruttando per sconfiggere la noia che un posto come l'ospedale provoca.
La musica che arriva dalle cuffie-stereo si fa più vivida grazie alla vicinanza che c'è ora tra loro, ma l'audio è ancora troppo basso per riconoscere la canzone che sta rimbombando all'interno di quegli auricolari. 
Mordendosi l'interno guancia Len decide di usare la carta del cambiare discorso.
"Cosa stai ascoltando?" Chiede fingendo un vago interesse e lo vede scostare di poco una delle cuffie dal suo orecchio.
"Oh, questa?" Risponde. "Bacterial Contamination, la conosci? Una roba strana... parla di germi, batteri e contaminazioni, credo. Perfetta per il luogo in cui ci troviamo, non trovi?
Len si prende le ginocchia tra le braccia. 
"Non sono un malato virale..." Risponde a muso duro, cosa che porta il ragazzo seduto accanto a lui a corrucciarsi, sporgendo le labbra in avanti. 
"No, certo che no. Se lo fossi ti troveresti nel reparto esattamente sopra al nostro." Indica con il dito il soffitto. "E d'altronde nemmeno io sono qui perché ho una qualche malattia infettiva, mi piace solo la canzone tutto qua." 
Len inclina la testa di lato, socchiudendo gli occhi; tutto quel parlare gli ha fatto venire una leggera emicrania. Non è affatto dell'umore giusto per conversare dato che l'unica cosa che vuole è essere chiamato dentro dalla dottoressa, terminare la visita di quel giorno e rifugiarsi di nuovo a casa. 
Stranamente la psicoterapeuta è in ritardo sulla tabella di marcia, o forse è lui a essere arrivato troppo in anticipo.
Poiché non ha guardato l'orologio nemmeno quando è uscito di casa proprio non lo sa.
"Puoi andartene, per favore?" Bisbiglia abbracciandosi di più le gambe a sé. "Non sono in vena di parlare e non capisco perché sei qui a farlo con me." 
Gli occhi color ambrati si levano nuovamente al soffitto, mostrando quanto sono svogliati.
"Non c'è un motivo particolare: mi annoiavo. Nelle altre sale d'attesa c'è troppa gente e se mi mettevo a parlare con qualcuno le disturbavo. Qui ci sei solo tu." 
Len scuote la testa ritenendosi ancora più fortunato di prima.
"Allora, me lo dici di cosa sei malato?" Incalza ancora, indorando la pillola; forse ha capito che Len non ha le forze mentali e fisiche per rispondergli a tono e scacciarlo via, pertanto se ne sta approfittando alla grande. 
Solo un muto silenzio è la risposta ricevuta; il ragazzo, senza ancora un nome, si affloscia deluso contro lo schienale, il rumore della musica cessa così di colpo. 
"Ti sentiresti più a tuo agio con qualche tuo amico?" Aggiunge subito dopo aver spento l'IPod. "Ma dimmi: quanti tuoi amici conoscono veramente il tuo numero di scarpe, la tua taglia di vestiti o il tuo colore dei fiori preferito? E soprattutto: perché nessuno di loro è qui con te?" 
Alla parola amici Len avverte una fitta allo stomaco più forte delle precedenti... 
Non ricorda l'ultima volta che ha visto un volto amico e si chiede cosa è successo. L'hanno abbandonato? Oppure lui ha abbandonato loro? I suoi amici c'erano stati nel momento del bisogno? E lui li aveva abbandonati rifiutando di chiedere aiuto? I ricordi sono davvero confusi da quando ha iniziato a prendere le medicine...
Tutti quei pensieri lo fanno piegare in due, tenendosi stretta la pancia con entrambe le braccia e soffocando un senso di nausea sempre più crescente. 
Aveva preso le medicine quel giorno? Non lo ricorda proprio.
"Ehi stai bene?" Sente gridare accanto a sé e improvvisamente due mani gli stringono le spalle e lo riportano a sedere eretto sulla sedia. 
Ma Len bene non sta per niente: il respiro è accellerato, improvvisamente ha persino iniziato a sudare.  
"Penso di non aver preso le medicine oggi..." Tra un affanno e l'altro Len indica la tasca più esterna dello zainetto che si porta appresso. Subito lo sconosciuto si adopera aprendola, trovando una confezione di pastiglie persa tra le altre cose; alzandosi recupera un bicchiere, riempiendolo dal boiler d'acqua messo a disposizione nel corridoio, e lo spinge contro le labbra di Len inducendolo così a bere. 
Mandando giù le pastiglie Len sembra avere quasi l'apparenza di stare meglio. 
Ma è solo una sensazione effimera, lo sa. L'illusione che un prodotto sintetico può portare.
"Hai mai provato la sensazione di non essere mai abbastanza?" Gli chiede Len dopo essersi calmato, rigirando il bicchiere di carta tra le dita. "Di dover sempre rispondere alle aspettative degli altri? Genitori, amici, fidanzata... Tutti che ti buttano addosso le loro frustrazioni e mai una volta che si sono chiesti: stai bene oggi? Come ti senti? Vuoi parlare?"
Len solleva gli occhi azzurri e stanchi in attesa di una risposta che non arriva e nemmeno capisce se quel silenzio è dovuto a uno smarrimento per la domanda strana che gli ha appena rivolto o per una forma di rispetto nei suoi confronti. 
"Gli amici mi hai chiesto? Se ne sono andati tutti... Chi per un motivo o per l'altro. Alla fine sono rimasto solo e senza amici." 
Lo sconosciuto dai capelli rosa torna a sedersi permeando nel suo attento silenzio, la sensazione di avere un mal di testa sempre più pronunciato non si ferma, al punto che Len si trova costretto a prendersi tra le mani le tempie e a strizzare gli occhi. 
"Insomma, che diavolo sta succedendo? Perchè cambio così velocemente? Prima sono su e poi sono giù... Anche venendo qui nulla è ancora cambiato. Il mio nemico è invisibile e non so nemmeno come combatterlo." 
Dei passi riecheggiano lontani, accompagnate da gruppi di voci che si perdono nei meandri dei corridoi adiacenti. Len è rimasto senza voce e ancora non si spiega perché la dottoressa non l'ha chiamato dentro: perché non si sbriga? Vuole tornare a casa, chiudersi in camera e sentirsi nuovamente al sicuro. 
"Ora ho capito il tuo problema." Parla pacato lo sconosciuto: Len lo ha di nuovo davanti a sé, che lo guarda dritto in faccia, con le mani tenute al sicuro dentro le tasche della felpa. "E posso dirti per certo che non c'è nessun nemico da sconfiggere perché il nemico sei tu stesso." 
Len lo guarda spaventato, allontanando finalmente le mani dalla propria testa.
"Avevo un amico, aveva il tuo stesso problema: d'un tratto si allontanò da tutti e lasciò la sua ragazza senza alcuna spiegazione. Persino io, che ero il suo migliore amico, non riuscivo a capire quale problema avesse." 
Gli occhi ambrati osservano un imprecisato punto distante, come alla ricerca di qualcosa nei cassetti della memoria. 
"Alla fine ci siamo persi di vista: io avevo troppi casini miei per pensare anche ai suoi." 
"Mmmm... Che ne è stato?" Len appoggia le mani fino alle ginocchia. "Che ne è stato di lui?" 
Il ragazzo più grande strappa una foglia dalla pianta più vicina per poi rigirarla tra le dita, mostrando solo un debole sorriso. Alla fine la getta via esattamente come l'ha strappata.
"Che ne è stato? Ha dato fuoco al suo appartamento e poi si è buttato da un ponte. Infine è morto sul colpo, in completa solitudine, esattamente come era rimasto. Non aveva parenti vicini e persino i suoi amici si erano allontanati."  
Addossandosi contro il muro dietro di lui torna a guardare Len dritto negli occhi, al punto tale che Len non riesce a reggere la pressione e subito distoglie lo sguardo spostandolo ai piedi. 
"E tu? Sei già arrivato al punto di non ritorno?" 
Il cuore di Len perde un battito: realizza immediatamente cosa significava la frase 'punto di non ritorno' e subito nella sua mente gli balena il ricordo di lui davanti allo specchio. Lo specchio gli dice qualcosa, ma non riesce comunque a capire cosa. 
Si tratta, appunto, di quegli echi lontani che ogni giorno diventano sempre più incomprensibili da decifrare. 
Da piccolo volevo essere un eroe... Come ho fatto a diventare un completo zero?
Accorgendosi delle proprie mani che tremano Len le intreccia tra loro, sperando che in quel modo il fremito si possa fermare. 
"Questa paura che mi porto dentro è più di quanto io possa sopportare." Risponde afferrando l'estremita della manica sinistra e iniziando a raggomitolarla fino a metà braccio. Sulla pelle bianca e immacolata spicca un taglio lungo e profondo, che il tempo pare aver già fatto schiarire e cicatrizzare. 
"Ci vuole coraggio per prendere una decisione del genere, ma io sono un codardo e l'unica cosa che sono riuscita a farmi è stata questa." 
Lo sconosciuto si appoggia a una colonna con la schiena, pizzicandosi una guancia mentre assottiglia gli occhi, alla ricerca di un ricordo lontano. 
Len lo guarda stanco: quella conversazione gli sta costando una fatica immane, però ora che il ghiaccio iniziale sembra essersi sciolto la sta iniziando a trovare quasi gratificante perché è da tempo che non si confessa così con qualcuno. Inizia a provare la sensazione di essere capito, una sensazione completamente diversa da quella scientifica che sta provando a dargli la dottoressa.
"La paura è più di quanto tu possa sopportare?" Esala il ragazzo roteando gli occhi. "Che strano. Queste sono state le ultime parole che il mio amico ha detto l'ultima volta che ci siamo visti. Allora non avevo idea di cosa significavano, ma ora riesco a comprenderle meglio." 
L'attenzione di Len viene nuovamente richiamata quando la porta di un ambulatorio si apre e il viso della dottoressa si affaccia all'esterno chiamandolo per nome. 
Len avverte un senso di vuoto mentre si alza dalla sedia per entrare dentro. Davanti a sé il ragazzo ancora sconosciuto non fa una piega: rimane in silenzio e con le mani nelle tasche, probabilmente in attesa che lui entri prima di andarsene via. 
"Mmm.." Si schiarisce la gola Len. "Ti rivedrò?" 
Le sue labbra si distendono, pallide contro la pelle del viso chiara. 
"Mi rivedrai se ritornerai qui, Len." Esplicita lentamente, chiamandolo per nome, lasciando intendere molto più del necessario. 
Anche Len si lascia andare a un vago sorriso, decidendo che è ora di entrare e concludere la sua visita. Così, finalmente, potrà tornare a rifugiarsi a casa.
"Allora ci rivedremo tra una settimana." 
Quel ragazzo, che ancora non si è presentato, gli sorride affermativamente prima di dargli la schiena e incamminarsi al lato opposto del corridoio. 
Len fa uno o due respiri, giusto per prendere coraggio, per poi stringere la maniglia della porta tra le dita prima di spingerla: la prossima volta, sicuramente, gli chiederà il nome e il motivo per cui anche lui frequenta l'ospedale.
   
 
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